1

L’uccisione di Roberto Bartolozzi.

Sono le 15.30 del 29 giugno 1944. Ci sono sei uomini sul muretto del ponticello di via dei Fossi, davanti alla storica Porta San Gervasio, nel centro di Lucca. Appartengono alle squadre partigiane cittadine e stanno pianificando gli ultimi dettagli per un’azione contro i carabinieri che dovrà svolgersi quella stessa sera. Il loro capo è Roberto Bartolozzi, un operaio specializzato della compagnia telefonica Teti. Ha trent’anni, è di La Spezia, ma si è trasferito a Lucca da un anno, da quando la centrale spezzina è stata colpita da un bombardamento.

Bartolozzi è comunista. Il suo è stato un percorso ideologico maturato nel tempo: a diciannove anni è partito volontario per la Tripolitania e l’esperienza gli ha fatto capire tante cose sul regime fascista, tant’è che, quando nel 1937 è rientrato in Italia e iniziato a lavorare alla Teti, ha provato a sensibilizzare i colleghi sulle ingiustizie sociali cui sono sottoposti. Con scarso successo, però. Nel frattempo si è sposato con Linda Bessolo e la coppia ha avuto una figlia, Anna Maria. Trasferitosi a Lucca ha finalmente conosciute persone che la pensano come lui e dopo l’armistizio la prospettiva di fare qualcosa contro i tedeschi che hanno occupato la città e contro la neonata Repubblica Sociale Italiana lo ha spinto a un iperattivismo antifascista.

C’è da trafugare armi e nasconderle? Nessun problema, Bartolozzi le sottrae al picchetto armato della Teti e le nasconde nella sede di via Santa Croce.

C’è da aiutare ebrei a fuggire dalla città o ufficiali inglesi evasi dai campi di prigionia? Bartolozzi li traveste da operai della Teti, li carica sul furgone e li porta fuori città.

C’è da andare a prendere una macchina tipografica dalle parti di Firenze? Bartolozzi, ancora una volta sfruttando il suo impiego, va e procura.

C’è da organizzare squadre armate? Ecco, questo avviene a dicembre 1943, quando Bartolozzi – ormai acquisita tutta la fiducia dal CLN comunale – viene incaricato di tale missione. La prima squadra è quella di via dei Borghi, poi nei primi mesi del 1944 se ne costituiscono altre, in centro storico e in alcuni quartieri di periferia. Il riferimento è sempre lui, che cerca anche di stabilire contatti con formazioni operanti nel resto della provincia, in particolare con il Gruppo Valanga stanziato sulle Apuane.

E arriviamo così agli eventi del 29 giugno. Due settimane prima è venuto a Lucca Alessandro Pavolini e ha preannunciato la trasformazione del PFR in partito armato con la nascita delle Brigate nere. La prima di queste formazioni si costituirà proprio a Lucca e prima ancora che venga pubblicato il decreto istitutivo. Proprio quel 29 giugno il giornale del fascismo lucchese, “L’Artiglio”, chiama a raccolta i fascisti affinché ritirino l’equipaggiamento base per iniziare la loro attività nella Brigata nera. Insomma, c’è movimento in città. Ma i partigiani lucchesi, come accennato, non se ne curano: in base ad alcune informazioni fornite da un tenente dei carabinieri sembra che sia possibile disarmare due caserme, quella di Borgo Giannotti e quella di San Concordio. Viene deciso per la prima perché vi sono nascoste più armi automatiche. Il piano prevede che un gruppo si presenti all’ingresso principale e un altro entri da un piccolo portone che dà su una strada laterale: sarà un attacco simultaneo sfruttando il fatto che a quell’ora dovrebbero essere presenti soltanto un piantone e un carabiniere. Per la fuga verranno utilizzati due carretti dei netturbini. Uno dei patrioti, Vannuccio Vanni, non è convinto della segnalazione e va a Borgo Giannotti per capire meglio la situazione: vede una camionetta tedesca ferma sulla strada e riesce ad avvertire i compagni per sospendere l’azione.

Bartolozzi e gli altri sono perciò costretti a tornare alla palazzina Teti per riporre le armi nel nascondiglio. Stanno per uscire quando sentono bussare alla porta. Sono tre militi dell’Ufficio Politico Investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana. Il giorno prima hanno arrestato un antifascista, Roberto Diena, e gli hanno trovato un biglietto firmato “Roberto”. Diena non fa nomi, ma è pure lui spezzino trapiantato a Lucca e le autorità fasciste sono risalite a Bartolozzi di cui fino a questo momento hanno ignorato l’attività clandestina. Così vanno alla Teti e quando si vedono di fronte i partigiani chiedono chi di loro è Roberto: la risposta arriva immediata con un paio di gomitate allo stomaco sferrate proprio dal comandante che poi, ancora in tuta da lavoro, scappa in direzione di piazza Bernardini, mentre gli altri che sono con lui fuggono dalla parte opposta, mettendosi in salvo. Infatti, i tre militi decidono di inseguire Bartolozzi e lo raggiungono in una piazzetta poco distante, di fianco al cinema “Littorio”. Inseguitori e fuggitivo combattono, richiamando alcuni avventori di un ristorante che si affaccia proprio sulla piazzetta. Tra di loro c’è un avvocato, Giulio Carignani, che, non sapendo e non capendo il motivo della colluttazione, interviene per placare gli animi:

Giunto all’altezza del ristorante “Passeggiero” vidi in distanza sull’angolo della piazza San Quirico un gruppo di persone che si accapigliava (…) avvicinatomi rapidamente al gruppo per vedere di intervenire e cercare di pacificare gli animi se fosse stato necessario, ebbi subito le spiegazioni di quello strano pugilato, in quanto vidi cadere in terra un oggetto nero, che non era altro che una rivoltella, la quale percuotendo sul selciato lasciò partire un colpo. Io mi precipitai subito sulla rivoltella e l’afferrai prima che quello dei contendenti a cui era sfuggita riuscisse a riprenderla.

C’è un altro avvocato nelle vicinanze che assiste alla scena ed è Mario Frezza, del CLN cittadino:

la colluttazione tra l’avvocato Carignani e lo sconosciuto terminò quasi subito e l’arma rimase in possesso di quest’ultimo il quale avvicinatosi rapidamente al gruppo dei tre sparava quasi a bruciapelo 3 colpi di pistola all’uomo in tuta che veniva mantenuto col viso contro il muro dagli altri due.

I tre aggressori fascisti fuggono, mentre Bartolozzi, pur gravemente ferito, in qualche modo si rialza ed entra nel cinema per rifugiarsi nella cabina di proiezione. Nel frattempo, un ufficiale della GNR, Giuseppe Natale Scacchiotti, che si trova a cena al ristorante “Il Passeggero”, sente i colpi di pistola: esce dal locale e si imbatte in due dei tre militi che gli spiegano quanto è successo. Insieme a loro torna in piazzetta, ma Bartolozzi non c’è più:

voltandomi indietro e non avendo più visto i due militi, per richiamarli e per richiamare l’attenzione eventualmente di altre persone ho sparato mentre mi trovavo proprio all’angolo in prossimità della “Tazza d’oro” tra via dell’Arancio e piazzetta S. Quirico una raffica di sten in aria di circa 7 od 8 colpi e forse anche più.

Gli spari di Scacchiotti inducono diverse persone a uscire dal cinema e qualcuno lo avverte che Bartolozzi si è rifugiato dentro. Prosegue il racconto dell’ufficiale:

Recatomi colà e senza salire nella cabina ho visto il ferito che aveva il volto imbrattato di sangue e ferite nel viso e che versava in gravissime condizioni, tanto che alle mie domande rivoltegli per apprendere l’accaduto rispose: “è finita, è finita!”.

Bartolozzi viene poi portato all’ospedale da un automezzo della Misericordia e lì muore alle 2.45 per «ferita d’arma da fuoco alla regione sacrale sinistra con foro di uscita alla coscia anteriore destra ed una ferita transfossa al terzo inferiore della stessa coscia con foro d’entrata lateralmente e foro d’uscita medialmente in basso». Prima di spirare, interrogato dal vicebrigadiere Ragonese, il capo partigiano dichiara di essere stato aggredito a scopo di rapina e derubato di mille lire.

L’episodio del 29 giugno è un punto di svolta per la resistenza armata a Lucca. Scriverà anni dopo Vannuccio Vanni:

Quel 29 giugno fu un giorno tragico per l’intera nostra organizzazione, anche perché il riconoscimento del Bartolozzi come partigiano da parte delle camicie nere poteva essere frutto solo di un tradimento. E questa consapevolezza impose serie riflessioni a tutti i livelli, dalla compagine direttiva del CLN al Comando militare, al movimento. Furono intensificate le verifiche per accertare che le norme della clandestinità fossero severamente applicate da tutti, per evitare infiltrazioni e provocazioni. Anche tutto l’apparato politico fu richiamato ad essere più preciso nel lavoro, sia durante i contatti con gruppi già organizzati, sia durante il reclutamento. Fu anche controllato che le decisioni prese dal Comando in merito alle armi venissero eseguite solo da uomini fidati.

Il Comitato militare affiderà a Mario Bonacchi l’obiettivo di riorganizzare i vari gruppi in uno solo comandato da lui.




La storia ignota degli italo-greci a Firenze

Per i fiorentini non più giovani quell’area di fabbricati situata nella zona di Novoli, fra via Magellano e via di Caciolle, era considerata il quartiere dei greci, dove fra l’altro si potevano comprare sigarette di contrabbando sino agli inizi degli anni Ottanta. Per coloro che ci abitavano era invece Laspeica, in greco melma, un rione per decenni privo di strade e marciapiedi che nelle giornate di pioggia diventava un vero e proprio pantano, da cui il nome che gli era stato dato. Gli abitanti di questi appartamenti, costruiti nella prima metà degli anni Cinquanta, non erano propriamente greci ma italiani, la maggior parte di origine pugliese, che furono rimpatriati nel secondo dopoguerra. Erano quegli italiani che sul finire del XIX secolo, emigrati dalle coste pugliesi, raggiunsero la Grecia in cerca di una sistemazione economica migliore di quella che poteva offrire loro il nuovo Regno d’Italia. Molti si concentrarono nella città di Patrasso dove formarono una comunità di circa 3000 persone integrate perfettamente nel tessuto sociale greco [1]. Poi venne il 28 ottobre 1940 quando alle prime luci dell’alba le truppe italiane ricevettero l’ordine di attaccare la Grecia [2]. Con l’inizio della guerra lo sdegno e il rancore dei greci esplosero con il fragore della prima bomba che cadde proprio sulla scuola italiana di Patrasso “Santorre di Santarosa” facendo crollare la cappella adiacente al cortile dell’edificio: l’aereo volando ad altissima quota non poté certo distinguere la bandiera italiana che sventolava in quel mattino livido di pioggia [3]. Per fortuna era un giorno festivo (anniversario della marcia su Roma), vacanza per la scuola italiana, per cui non vi furono vittime innocenti.

Da quel momento l’armonia di un’integrazione naturale che nel corso del tempo si era creata fra la comunità italiana e i greci si sgretolò improvvisamente producendo ritorsioni su quei poveri italiani increduli di quanto stava accadendo, ma soprattutto innocenti per l’attacco militare che Mussolini aveva deciso contro quella terra in cui loro vivevano da generazioni in pace con sé stessi e con gli altri. Ma per i greci erano considerati corresponsabili dell’aggressione fascista e tutti i cittadini italiani, di sesso maschile, di oltre sedici anni, furono rinchiusi nei campi di concentramento di Goudì, Argos, Neakokkinià [4]. 

Con l’8 settembre del 1943 finì l’occupazione italiana della Grecia che passò direttamente sotto il controllo della Germania nazista e per la comunità italiana iniziò un nuovo calvario, oltre all’intransigenza ed alle mortificazioni messe in atto dagli ex fratelli greci, gli italiani dovevano ora subire anche la rabbia e le ritorsioni degli ex alleati tedeschi. Presi tra due fuochi la vita per gli italiani residenti in Grecia risultò sempre più problematica. Da una parte aumentarono le angherie ad opera dei greci perché li ritenevano i primi responsabili dell’occupazione, dall’altra iniziarono le deportazioni e le uccisioni ad opera dei nazisti, che manifestavano nei loro comportamenti maggiore ferocia verso gli italiani piuttosto che contro i greci. Finita la guerra il destino di queste persone di origine italiana pareva segnato; infatti, il governo ellenico aveva espresso al comando delle Forze Alleate l’intenzione di deportare in un ragionevole limite di tempo ai loro paesi di origine tutti i cittadini di Stati nemici ed ex nemici che si trovavano in Grecia, e di conseguenza il provvedimento riguardava anche gli italiani. A niente servì l’appello di Alcide De Gasperi alla Commissione Alleata per poter bloccare il rimpatrio degli italiani residenti in Grecia, e nell’autunno del 1945 iniziò l’esodo dei nostri connazionali…

La signora Angela aprì la porta di casa ritrovandosi dinnanzi un funzionario di polizia che gli intimava: mercoledì prossimo alle otto si faccia trovare al porto con tutta la sua famiglia per essere imbarcati sulla nave che vi porterà in Italia [5]. 

Più o meno le stesse parole furono proferite in quel novembre del 1945 a tutti gli abitanti di origine italiana che risiedevano a Patrasso da due o tre generazioni. Solo pochi giorni quindi per abbandonare la propria casa e i propri averi (fu consentito loro di portare solo poche e piccole cose). Si sta parlando di più di tremila persone integrate perfettamente nella società greca che, con lo scoppio della guerra, non solo subirono angherie, sopraffazioni ed insulti dai loro concittadini greci, ma alla fine del periodo bellico furono deprivati delle loro proprietà e cacciati malamente dal territorio ellenico. Sarebbe come se in un ipotetico scontro tra occidente e mondo arabo (e di questi periodi non è fantascienza…) si imbarcassero sulle navi tutti gli arabi residenti in Italia (molti dei quali con cittadinanza italiana) per riportarli in Africa.

Ecco di tutta questa storia degli italo-greci, della loro sofferenza nel lasciare una terra che ormai consideravano propria, delle loro difficoltà nel riadattarsi e nel reinserirsi nella società italiana che aveva lasciato alle spalle il Ventennio – di cui questi profughi conservavano un ricordo condizionato dalla propaganda fascista di assistenza agli italiani residenti all’estero – ecco che di questa vicenda la storiografia ufficiale sembra essersene dimenticata o forse neanche di conoscerla. È vero che si trattava della storia di poche migliaia di individui, storia che si configura come una goccia d’acqua nel mare delle profuganze che nel dopoguerra si muovevano per tutta l’Europa e nel mondo, ma si trattava pur sempre della vita di essere umani vittime di un destino scritto da altri di cui loro incolpevoli subivano le sorti.

 

Nave Patrai.

Per tutto il mese di novembre le corvette Patrai e Terrmoscopilichi fecero la spola tra Patrasso e Bari, portando a termine l’esodo dei nostri connazionali; dal capoluogo pugliese – dove molti decisero di rimanervi – risalirono la penisola con treni, spesso trovando posto su vagoni merci, con un interminabile viaggio su una linea ferroviaria rattoppata, giungendo finalmente a Bologna dove esisteva un centro di smistamento. Da qui i profughi presero principalmente due direzioni, verso il Piemonte, regione nella quale erano in funzione tre grandi complessi, la Caserma Passalacqua a Tortona, in provincia di Alessandria, la Caserma Perrone a Novara e le Casermette di Borgo San Paolo a Torino, o verso Firenze alla Caserma ex Genio dia via della Scala, dove trovarono alloggio circa 2000 italo-greci.

 

Veduta esterna della Caserma di via della Scala adibita a Centro profughi dal 1944 al 1956.

Questa grande struttura, originariamente un convento costruito alla fine del Duecento, nel corso dei secoli ha cambiato più volte uso di destinazione: ha accolto la prima stamperia a caratteri mobili nel 1472, successivamente dopo una restaurazione nel periodo rinascimentale è divenuta un educandato, dopo un conservatorio, per poi essere preso in consegna dall’esercito e dai carabinieri fino all’8 settembre del 1943 quando fu occupato dalle truppe tedesche. Dopo la Liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 venne trasformato in Centro di raccolta per sfollati e profughi [6]. Artefice ed organizzatore del Centro fu il Capitano inglese Limbert che rimase al comando della struttura per circa un anno. Quando nel novembre del ‘45 giunsero ad ondate quei profughi provenienti dalla Grecia, molti locali della Caserma erano ancora occupati, nonostante i continui appelli ad abbandonare la struttura, dagli sfollati e dai fiorentini sinistrati, e gli italo-greci trovarono posto solo ammassandosi nelle camerate ancora libere e dentro un teatro e una chiesa sconsacrata all’interno dello stesso edificio.

Vivevano in grandi stanze, alcune senza finestre, dormendo per terra sopra pagliericci o ammassi di cenci che fungevano da materassi, una ventina di persone per camerata, dove ogni nucleo familiare trovava un proprio spazio innalzando coperte come divisori. Per queste persone ogni giorno si presentava come il precedente, sradicati dalla propria terra per colpe altrui, chiedevano soltanto che fosse concessa loro la possibilità di ricominciare, sia pure con fatica, a vivere. E in questo contesto di profondo degrado al Centro profughi all’inizio vi era solo il dolore, l’indecenza, l’abbattimento, vi era la totale sfiducia nelle istituzioni; nel cuore di questa gente sfortunata, piano piano, si faceva strada l’odio… ed era comprensibile. Gli avevano promesso un’accoglienza diversa in alloggi confortevoli e invece niente di tutto questo: “Venga a vederci signor Ministro” [7] scrivevano a Emilio Lussu allora in carica al Ministero dell’Assistenza postbellica. Queste persone avevano lasciato alle spalle le brutture, le persecuzioni, i morti sulle piazze di un’assurda guerra, avevano abbandonato piangendo la loro terra, le loro case, il loro mare, i loro animali come quella gattina di nome Xenià dagli occhi verdi che seguì fino al porto la sua padroncina, ma nella ressa e nella confusione venne scacciata e di lontano sulla banchina sembrava salutare quella bambina con le lacrime agli occhi che si allontanava dal porto di Patrasso imbarcata sulla nave che la portava in Italia [8].

Dai primi tempi del loro insediamento nella caserma di via della Scala gradatamente siamo passati tramite provvedimenti comunali e della Prefettura, con decreti legislativi, e soprattutto con le continue rivendicazioni sfociate spesso in rivolte di queste persone che niente avevano da perdere, ad una situazione di vita un po’ più decorosa di quella iniziale ma sempre al di sotto della normalità. Anche una certa propensione nel sapersi arrangiare, caratteristica dei patrassini e più in generale di tutti gli abitanti del bacino del Mediterraneo, giungendo perfino a contravvenire alla legge con la pratica del contrabbando, va inserita nel computo di tutti quegli elementi che contribuirono ad un qualche miglioramento delle condizioni di vita di questi profughi.

 

Giovani residenti al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Stella.

Famiglia italo-greca al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Croce.

E infatti solo dopo pochi mesi di vita al Centro, i profughi organizzarono in modo autonomo un mercato montando le bancherelle in via della Scala, una tra le strade meno movimentate di Firenze era diventata una delle più animate. Il Centro Profughi aveva creato un ambiente cosmopolita, in perpetuo movimento, «tanto che bastava affacciarsi ai cancelli per avere l’impressione di un grande alveare. E piano piano, lungo i marciapiedi della via erano cominciate le bancarelle. Naturalmente avevano attecchito quelle dei commestibili e delle cianfrusaglie, tanto che chi passava si godeva uno spettacolo vivo di colori,  poponi, cocomeri e altra frutta di ogni sorta esposti in pieno sole per un lungo tratto» [9]. Non era difficile scovare in mezzo ai banchi del mercato anche chi ti offriva di nascosto sigarette di contrabbando, naturalmente ad un prezzo inferiore rispetto a quello imposto dal monopolio di Stato. Questa attività illegale era nata quasi per caso perché venivano rivendute le sigarette che i soldati americani generalmente donavano alla popolazione: «avevo dieci anni e nascondevo i pacchetti di sigarette regalate dagli americani sotto il maglione per venderle sotto i portici di fronte a Piazza della Repubblica» [10].

Il contrabbando di sigarette, inizialmente tollerato dalla Guardia di Finanza, coinvolse sempre più i profughi facendo diventare il Centro di via della Scala il più grande punto cittadino di smistamento e smercio di sigarette [11]. La cronaca della stampa locale di quegli anni fa riferimento a continue ispezioni della polizia e soprattutto della Guardia di Finanza nei locali del Centro alla ricerca di sigarette che puntualmente scovavano nei posti più impensati.

Il contrabbando assunse dimensioni sempre più grandi sino a divenire una nota distintiva per i profughi “greci”, anche quando lasciarono il Centro di via della Scala per andare ad abitare nelle case popolari in via di Caciolle. Qui all’interno del rione, fra le stradine che collegavano le abitazioni con quelle tipiche scale esterne, è proseguito per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il rione dei greci – molti clienti ignoravano la loro origine italiana – è stato sempre conosciuto dalla cittadinanza fiorentina come il luogo di approvvigionamento per quei fumatori che volevano risparmiare sul costo del pacchetto di sigarette. E se la Guardia di Finanza inizialmente aveva ricevuto precise disposizioni di tollerarlo, perché i profughi dovevano cercare pur di rifarsi una vita, poi intervenne duramente perché appunto questo fenomeno aveva assunto proporzioni molto più vaste – tutti passavano “dai greci” per le sigarette – con conseguenti danni al monopolio di Stato. Non tutti i profughi però continuarono questa pratica illegale, per molti fu solo all’inizio della loro avventura italiana, per poi cercare altre occupazioni: un lavoro che avrebbe dato loro la possibilità di un sostentamento economico per sperare in un futuro migliore. E non essendoci nella Firenze postbellica un’abbondanza tale di richieste per accontentare tutti, si specializzarono in attività di artigianato quali l’elettricista, il sarto, il falegname… Vi erano poi coloro che avevano trovato lavoro proprio all’interno del Centro nei laboratori di biancheria e calzoleria, locali annessi al Centro stesso, per la confezione di materiale assistenziale. Solo più tardi con l’inizio degli anni Cinquanta cominciarono le assunzioni in alcune fabbriche fiorentine che avevano ripreso la produzione industriale dopo la guerra: alcuni entrarono nella Pignone altri nella Gover. Ma ci furono anche coloro che decisero di raggiungere il nord Italia, soprattutto Torino, dove la Fiat aveva iniziato a richiamare emigranti da tutta la penisola. Queste persone che avevano lasciato Firenze si riunirono agli altri profughi che nel viaggio dalla Grecia a Bologna decisero di continuare per il nord.

Con il passare degli anni, oltre al lavoro, il problema più impellente per i profughi era riuscire a trovare una sistemazione in alloggi esterni dal Centro. A livello nazionale vi era l’esigenza da parte delle autorità statali di smantellare i centri di raccolta, o perlomeno di liberarli dalla presenza di quei profughi che soggiornavano ormai da anni in queste strutture a carico dello Stato. I vari Ministeri che si occupavano dei profughi avevano anche la necessità di reperire nuovi spazi per poter contenere le ondate dei rimpatriati dalle regioni giuliano-dalmate che continuavano a giungere in Italia sino alla fine degli anni Cinquanta. I tentativi messi in atto dai funzionari dello Stato non dettero però buoni risultati in merito: venivano elargite somme di denaro abbastanza consistenti per liberare i posti all’interno dei centri di raccolta, ma i profughi una volta acquisita la liquidazione continuavano a rimanervi perché non trovavano nessuna sistemazione all’esterno. Il Decreto-legge del 19 aprile 1948 n. 556, che imponeva la cessazione dell’assistenza ai profughi entro il 30 giugno 1949 tramite una liquidazione di 50.000 lire a persona, non dette assolutamente i risultati ipotizzati [12]. Il 30 giugno ‘49 almeno a Firenze nel Centro Profughi di via della Scala non si liberò nessun posto, anzi a leggere l’articolo del Nuovo Corriere del 7 ottobre 1949 sembra che la situazione abbia assunto toni da farsa pirandelliana perché quei soldi ricevuti allo scopo di trovare una sistemazione al di fuori delle mura del Centro – a sentire i profughi – furono subito spesi per acquistare tutti quegli oggetti, brande, coperte, pagliericci e il corredo per il vettovagliamento che furono loro ritirati al momento della liquidazione [13].

Per avviare realmente lo sfollamento del Centro di via della Scala si dovrà attendere la metà degli anni Cinquanta con le assegnazioni degli alloggi popolari: a parte qualche nucleo familiare che si staccò dalla comunità italogreca trovando sistemazioni nei nuovi quartieri dell’Isolotto e di Sorgane, gli altri furono dislocati sia nel già citato quartiere “dei greci” di via di Caciolle, sia alle Gore sopra Careggi, che – in un numero minore – a Coverciano in via Gelli. Nel novembre del 1956 con l’ultima famiglia traslocata nella casa popolare assegnata, il Centro profughi cesserà la sua attività e riprenderà la funzione di caserma militare. In via della Scala non vi sarà più il mercato multicolore che aveva reso piena di vitalità una strada meno frequentata e dai cancelli della caserma non si avrà più l’impressione di una grande alveare. E iniziava così per i profughi usciti dal Centro un nuovo – inverso – percorso di acculturazione: l’inserimento nella società italiana, fiorentina in specie.

 

Città di Firenze – Case per i profughi. Legge 4 marzo 1952 n. 137.

 

A distanza di quasi ottant’anni molti protagonisti dell’esodo dalla Grecia sono scomparsi, altri sono ormai anziani, quasi tutti hanno lasciato le case dei rioni di via di Caciolle e via delle Gore, e negli anni gli appartenenti alla comunità si sono sposati con donne e uomini italiani perdendo progressivamente le caratteristiche della loro grecità, soprattutto la lingua che era rimasta nei primi tempi come elemento di forte distinzione. A Laspeica – nessuno ormai chiama più così il rione di via Caciolle – per le strade non si sente più parlare greco e neanche sentiamo più gli odori tipici della cucina greca, i venditori di sigarette erano già scomparsi da tempo e in questo quartiere ormai i segnali del passaggio della comunità patrassina stanno sfumando, inghiottiti da quel processo di integrazione che sembra abbia lasciato molto poco della loro storia e tradizione. La storiografia italiana che ha iniziato ad interessarsi delle profuganze del secondo dopoguerra contribuirà a non disperdere questa storia e concedere alle loro vicende un posto, seppur piccolo dato l’esiguo numero dei protagonisti, nel panorama della storia italiana del XX secolo. Altrimenti si correrebbe il rischio di appiattire, non conoscendolo, il loro viaggio “andata e ritorno”, come se non fosse mai avvenuto, come se dalla Puglia non fossero migrate volontariamente alla ricerca di un futuro migliore migliaia di persone alla fine dell’Ottocento verso la penisola greca, e da lì ritornare in Italia, cacciate malamente per colpe non loro e costrette a lasciare ogni loro avere costruito faticosamente su quella terra in circa settant’anni. Senza il soccorso della storiografia la loro speranza emigrando dalla Puglia, l’integrazione, la sofferenza, il dolore, l’emarginazione, e di nuovo la speranza e nuovamente la reintegrazione nella società italiana, che costituiscono la storia di questi uomini e donne, svanirebbero negli anni rimanendo semmai nei racconti orali tramandati di generazione in generazione che probabilmente con il tempo andrebbero persi. È un dovere quindi portare alla luce pagine di vicende umane del tutto o quasi ignorate o di storie già dimenticate al fine di rendere cosciente l’intera comunità che anche le vicende di pochi individui, come quella degli italo-greci, reclamano un posto nella storia ufficiale.

 

NOTE

[1] Insieme a Patrasso erano Atene, Corfù e Salonicco, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, costituite per lo più da migranti meridionali soprattutto pugliesi. Anche a Zante vi era una piccola comunità di italiani di origine meridionale, che poco prima della Grande guerra non superava le 100 unità; meno numerosa era la presenza italiana a Cefalonia, dove agli inizi del Novecento si contavano nell’isola 19 famiglie, in prevalenza pugliesi, Cfr. Giulio Esposito, Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in Giulio Esposito e Vito Antonio Leuzzi (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari 2015, p. 223.

[2] Sui recenti studi storici dell’occupazione italiana della Grecia cfr. i saggi di Paolo Fonzi: Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943), Le Monnier, Firenze 2020; Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), Carocci, Roma 2022.

[3] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso durante il periodo fascista (1930-1945), Ibiskos, Empoli 1988, p. 19.

[4] Cfr. Santarelli Lidia, La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Paolo Pezzino e Luca Baldissara (a cura di), Crimini e memorie di guerra: violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, 2004. Nei documenti consultati presso l’Archivio di Stato di Firenze sulle richieste dei certificati di qualifica di profugo emerge come la maggior parte degli italo-greci giunti a Firenze furono, durante la guerra, internati civili in quei campi per circa 6/7 mesi, in Archivio di Stato di Firenze (ASFI), fondo prefettura, serie certificati qualifica di profugo, Fascicoli da n. 1 a n. 80, classifica 3A/2/14.

[5] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[6] Sulla storia della Caserma di via della Scala, convertita in Centro profughi dall’agosto del 1944 al novembre del 1956, cfr. il fondo dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) presente all’Archivio Storico del Comune di Firenze, dove sono raccolti in perfetto stato molti materiali sull’Ente dalla sua istituzione alla sua chiusura.

[7] Come si vive al centro profughi? Centinaia di ricoverati scrivono una lettera aperta al ministro Lussu – Il testo del documento – Dichiarazioni dei dirigenti, «La Patria», 22 novembre 1945.

[8] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso, cit., p. 48.

[9] Mercanti bianchi e neri in via della Scala, «La Nazione», 31 agosto 1947, p. 2.

[10] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[11] Sul contrabbando di sigarette degli italo-greci a Firenze, oltre all’analisi della stampa locale del periodo, sono interessanti le relazioni degli assistenti sociali sui minori italo-greci che svolgevano tale attività, in ASFI, Direzione dei centri per la giustizia minorile, servizio sociale per i minori, anni 1951-1955.

[12] Giulio Montelatici, Lo sgombero… dei profughi, «Il Nuovo Corriere», 3 giugno 1949, p. 2.

[13] Ibid.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.




La Resistenza nel Volterrano

Nelle ricostruzioni canoniche della Resistenza volterrana, è stato dato molto risalto alla vicenda della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”. I lavori dedicati alla storia partigiana della zona sono intitolati alla Brigata e l’interesse è ruotato intorno alla sua costituzione: nella storia ufficiale della Resistenza nella zona, La tavola del pane di Pier Giuseppe Martufi[1], gli eventi precedenti alla nascita, avvenuta nei primi giorni di maggio del 1944, sono stati raccolti nel capitolo dedicato alla «preistoria della Brigata», mentre le formazioni armate dalla cui unione prese vita sono definite senza alcun dubbio come suoi «distaccamenti», anche se la loro esistenza operativa era molto precedente l’avvio stesso della Brigata. Si tratta a ben vedere di una distorsione del corso degli eventi, causata da una prospettiva “dalla coda alla testa”, tipica del canone resistenziale: per questo approccio, la storia – degna di essere raccontata – inizia solo con la costituzione della Brigata, ovvero con il raggiungimento di una ampia dimensione militare operativa, mentre ogni altro gruppo partigiano nella zona va considerato come una sua filiazione anche se più anziano. Il senso più autentico della vicenda resistenziale, secondo tale visione, si avrebbe quindi solo con la realizzazione di una formazione armata stabile e ben organizzata, inquadrata a sua volta in un disegno più ampio, quello delle Brigate Garibaldi di concezione comunista. La numerazione della Brigata, a cui generalmente si dà poco rilievo, la 23ª (ma sarebbe più corretto chiamarla 23ª bis: la 23ª fu in realtà la “Pio Borri” operante nell’Aretino[2]), è a questo proposito un elemento fondamentale: contribuisce a inserire l’evento locale in una trama nazionale, a collocare l’impegno armato di qualche centinaio di partigiani operanti nel Volterrano in un coordinato e consapevole progetto militare e politico di guerra contro il nazismo e il fascismo.

Le conseguenze di quest’impostazione sono evidenti: non solo si riconosce una centralità esclusiva alla Resistenza armata, lasciando altre forme resistenziali ai margini, ma se ne sancisce la dignità e il rilievo storico solo una volta raggiunta una dimensione tale da potersi fregiare del titolo di “Brigata”, quindi con un inquadramento marziale e un numero di effettivi tale da poter rappresentare un’unità militare comparabile a quelle degli eserciti regolari. Tali considerazioni possono essere condivisibili se ci caliamo idealmente nel contesto bellico, in una situazione di guerra in cui l’obiettivo di dimostrare la massima forza sul campo delle forze partigiane poteva essere decisivo anche a fini politici. Tuttavia, in sede di ricostruzione storica non è consentito insistere in una prospettiva teleologica. Non si può leggere il corso degli eventi prendendo come pietra di giudizio una parte dei suoi esiti[3].

Per tracciare una storia del partigianato volterrano sin dalle sue origini bisogna partire dalla banda del Massetano, o della Marsiliana, dal nome del bosco in cui aveva la base, una delle pochissime formazioni in Toscana costituita sin dalla metà del settembre 1944. Nacque su iniziativa di alcuni antifascisti di Massa Marittima, tra cui Otello Gattoli ed Elvezio Cerboni[4]. Ai primi di novembre il gruppo, che contava allora circa tra 70 elementi, si spostò dalla Marsiliana, tra Massa e Montioni, verso le località dell’Uccelliera e di Poggio all’Ulivo, pochi chilometri a nord, in un’area più interna. Qui tra il 6 e il 7 novembre, avvenne l’ingresso in formazione in qualità di comandante di Mario Chirici, figura storica dell’antifascismo locale, repubblicano con una solida esperienza militare e recente collaboratore dei partigiani jugoslavi, già attivi e ben organizzati contro i nazifascisti da molto tempo. La banda aveva già contatti con Colle Val d’Elsa, Livorno, Volterra e Firenze, iniziava ad essere un nodo importante della rete dell’organizzazione clandestina toscana. Così, quando dopo una retata fascista a fine novembre la formazione si sciolse, non appena riuscì a ricostituirsi, all’inizio del 1944, venne comunicata a Chirici la nomina da parte delle strutture organizzative delle Brigate Garibaldi a comandante della 3ª Brigata, «con promessa […] di aiuti di materiali, armi, munizioni, uomini che sarebbero dovuti venire in breve tempo»[5]. A quanto risulta furono compiute missioni fino a Livorno, Pisa, Viareggio e Firenze, per estendere la rete di contatti, reperire fornitori e nuovi volontari. Purtroppo, il 16 febbraio 1944, la formazione subì un rastrellamento da parte dei fascisti che colse di sorpresa i partigiani, provocando un vero e proprio disastro militare, con cinque morti e diciotto arrestati.

Dall’eccidio del Frassine Mario Chirici non godette più di una buona nomea. I suoi antichi collaboratori però svilupparono la lotta partigiana spostandosi in altri territori. Elvezio Cerboni si era già trasferito dopo lo scioglimento di fine novembre dalla zona di Massa Marittima a quella di Pomarance, in particolare nell’area di San Dalmazio. Entrato in contatto con il Cln di Pomarance, iniziò dal gennaio 1944 a organizzare uomini e costruire basi, in particolare presso il podere di Casinieri nel bosco di Berignone. Intorno a sé riuscì a costruire una vera rete organizzativa, che si curava di rifornimenti e reclutamenti, mantenendo contatti costanti con Pisa, Massa Marittima e soprattutto Volterra. Tra febbraio e marzo 1944, gli antifascisti volterrani – che alla fine del 1943 si erano costituiti in Cln – passarono all’azione anche all’interno della città.

Il bosco di Berignone, i luoghi della Resistenza. Mappa originale elaborazione di Stefano Gallo.

Nella zona di Montieri, invece, si era spostata una squadra reduce dall’eccidio del Frassine, composta da Vinicio Modesti, Vittorio Ceccherini, Giorgio Vecchioni e Giorgio Stoppa. Insieme a loro c’erano quattro jugoslavi prigionieri fuggiti l’8 settembre dalle prigioni di Pisa («gli unici, tra noi – avrebbe ricordato Stoppa -, ad avere esperienza di guerra partigiana»[6]), quattro russi e un gruppo di giovani renitenti alla leva. «Commissario politico fu nominato “Gino” Desiderio Cugini che aveva ricoperto tale carica nella formazione del “Frassine” e che si era distinto per lo zelo con il quale aveva contribuito alla costituzione di detta formazione»[7]. Questo gruppo, conosciuto in quel periodo come la “formazione del dottore”, dalla professione di Stoppa, avrebbe costituito il nucleo originario della futura 23ª Brigata Garibaldi. Il contatto con il Cln di Radicondoli e con la rete organizzativa della zona furono decisivi.
Per il 21 marzo 1944 venne organizzata la più imponente azione militare mai realizzata nella zona dagli antifascisti, frutto del coordinamento di quattro diversi gruppi partigiani: quello di Stoppa, allora posizionato alla Cornocchia, quello di Cerboni, che si muoveva dalla zona meridionale di Berignone (verso Pomarance e San Dalmazio), una Squadra volante di partigiani di Colle Val d’Elsa, basata nella parte settentrionale del bosco di Berignone, e un quarto gruppo di senesi da poco arrivato alle Carline. L’azione fu condotta contro i fascisti del paese di Montieri e riuscì perfettamente. I problemi emersero in seguito: forse proprio a causa dei rischi di esposizione corsi nell’organizzazione di un’azione così complessa, molte posizioni vennero scoperte. Cerboni venne tradito e arrestato, la squadra dei colligiani cadde in un’imboscata e fu decimata.

Mentre la zona tra Pomarance, Volterra e Siena veniva così investita dalla repressione fascista, la formazione di Giorgio Stoppa, che nel frattempo si era spostata nel bosco delle Carline, riusciva invece a mantenere solidità e un discreto grado di efficienza e organizzazione. «Dopo l’azione di Montieri – si legge nella relazione ufficiale della Brigata – fu necessario un lungo periodo di prudenza perché furono effettuati numerosi rastrellamenti che colpirono gli altri Distaccamenti che operavano nella zona, mentre il “Guido Boscaglia”, dato il sistema accurato di vigilanza e le precauzioni osservate nello svolgersi della vita dell’accampamento, non fu individuato e non subì attacchi»[8]. La banda anzi continuò ad ingrandirsi, ospitando anche membri della Brigata Spartaco Lavagnini del senese, oltre che nuove reclute. Dalla tempesta abbattutasi dopo Montieri sul movimento clandestino antifascista, la “formazione del dottore”, come era chiamata allora dalla professione di Stoppa, emerse come la più solida e affidabile tra le tre esistenti.
Alla fine di aprile si realizzava un ulteriore salto di qualità nella vita della formazione: iniziavano ad arrivare casse cariche di armi e materiali attraverso i lanci aerei da parte degli anglo-americani. Grazie alle missioni militari provenienti dal Sud Italia, avvennero dei contatti logistici che con l’ausilio di telegrafisti consentirono l’organizzazione dell’invio di materiali via aerea. I primi aviolanci erano stati concordati per la zona di Berignone, dove effettivamente avvennero; fu poi convenuto di spostare la località dell’operazione alle Carline. Furono molti i lanci, circa una decina, che fornirono armi automatiche nuove e munizioni.

Nel frattempo, era stato deciso di stabilire alle Carline il comando unificato di tutte le forze partigiane, prima divise. La riunione avvenne nel bosco di Berignone, alla presenza di Alberto Bargagna, detto “Giorgio”, responsabile militare del Cln di Pisa, «il quale, dopo aver predisposto gli aviolanci di armi e materiale […] era dovuto rimanere in Berignone perché avvertito da Pisa di essere stato individuato dai fascisti»[9]. Fu lui a essere nominato comandante della nuova Brigata, la 23ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi, poi intitolata “Guido Boscaglia”, dal nome di Guido Radi, detto “Boscaglia”, partigiano ucciso l’8 maggio 1944, in uno scontro con i fascisti.

NOTE

[1] Pier Giuseppe Martufi, La tavola del pane. Storia della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia” con documenti e testimonianze sulla Resistenza nella provincia di Grosseto, Livorno, Pisa e Siena, Anpi-Siena, Siena 1980. In maniera analoga la più recente Storia della XXIII Brigata d’Assalto Garibaldi. Tesi di laurea di Francesco Gronchi, a cura dell’ANPI-Sezione di Volterra, Volterra 2014.

[2] Ivan Tognarini, Guerra di sterminio e Resistenza. La provincia di Arezzo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990.

[3] Santo Peli, La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana, BFS, Pisa 2022.

[4] Katia Taddei, Ribelli. Formazione delle brigate Garibaldi nel territorio delle Colline Metallifere ed episodi di guerra civile alla luce di nuove fonti giudiziarie, Betti Editrice, Monteriggioni (SI) 2024.

[5] Da Chirici all’Anpi di S. Vincenzo, 8 novembre 1945, in Carte Pier Nello Martelli, f. 1, carte sciolte.

[6] Testimonianza di Giorgio Stoppa, settembre 1977, in Martufi, La tavola del pane, p. 112.

[7] Relazione ufficiale 23ª BG.

[8] Relazione ufficiale 23ª BG, p. 9.

[9] Martufi, La tavola del pane, p. 33.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Introduzione
Giovanni Martelli è stato un antifascista, militante comunista e sindacalista livornese. Ha dedicato la sua vita ai lavoratori e agli ideali di libertà, in cui credeva fervidamente. È stato vittima delle violenze fasciste, di incomprensioni da parte dei suoi stessi compagni di Partito e dei dirigenti dei sindacati, di un sistema politico che cambiava costantemente e in cui si identificava sempre meno.
Questo articolo vuole ripercorrere una parte della vita di Martelli, dalla sua precoce militanza nel Partito Comunista d’Italia fino alla detenzione nelle carceri [1]. Verranno esaminate anche tutte quelle persone che hanno assistito Martelli nel proprio percorso politico, come alcuni antifascisti e militanti livornesi, partigiani attivi nella Resistenza all’occupazione nazifascista, politici e sindacalisti della Prima Repubblica. Tale ricerca non può esser scissa da un’analisi complessiva sul contesto nazionale che ha fatto da sfondo alla sua vita, un contesto segnato dal fascismo prima e dalle tematiche del secondo dopoguerra.
Il progetto è nato sulla base della consultazione dell’Autobiografia e delle note autobiografiche redatte da Giovanni Martelli stesso, e successivamente è stato esteso grazie a degli approfondimenti attuati su altri documenti conservati dal militante. Fino ad oggi la biografia e le esperienze di vita di Martelli sono state poco note alla comunità livornese odierna ma, grazie ad un lavoro di ricerca attuata personalmente presso l’Istituto Storico della Resistenza e delle Società Contemporanee della provincia di Livorno (in sigla, ISTORECO), adesso sarà possibile ricostruirle passo dopo passo. Martelli non era di origini livornesi, eppure il suo impegno politico è sempre stato rivolto alla città labronica fin da quando aveva diciassette anni, fin dal 1930.
L’articolo illustra non solo la sua figura, il suo impegno politico e sociale, ma anche i valori che ha condiviso e che lo hanno contraddistinto in tutti i suoi anni di militanza. Perché al di là della figura, c’è stato un uomo che ha creduto negli ideali di libertà, solidarietà, verità, lavoro. Martelli è stato proprio questo: un militante che ha corso dei rischi per i valori in cui credeva, ed è proprio partendo da questi valori che sarà possibile definire con maggior chiarezza la sua figura.
Per la realizzazione dell’elaborato sono stati consultati i documenti redatti e conservati da Martelli stesso, come ad esempio: le note autobiografiche, la propria biografia, lettere e opuscoli, articoli di giornali, comunicati. Le fonti sono state dapprima analizzate analiticamente, approfondendo i contenuti e gli eventi riportati, e successivamente sono state esaminate complessivamente col fine di tracciare un filo rosso che le ponesse in correlazione. Le persone non decidono casualmente di conservare determinati documenti, il tutto dipende dal grado di importanza che per essi rivestono; oppure, ogni individuo conserva un determinato oggetto perché lo rappresenta intrinsecamente. I documenti accumulati da un essere umano non sono mai agenti neutrali della storiografia, ma vanno osservati con attenzione e cautela.
Per esaminare questa storia particolare ed affascinante, l’elaborato è stato suddiviso in tre brevi paragrafi (pubblicati in tre articoli distinti).
Il primo paragrafo (pubblicato qui di seguito) illustra i primi anni di militanza di Giovanni Martelli nel Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista e il suo incontro precoce con la classe operaia. Come afferma nella sua autobiografia, Martelli incontra la politica in età giovanile e quasi per caso, senza rendersi conto di cosa significasse aderire a un partito costretto alla clandestinità durante un regime totalitario. Si accorge delle responsabilità che ricopre solo quando vivrà sulla propria pelle la perquisizione e l’arresto.
Il secondo evidenzia i suoi due periodi di detenzione nelle carceri fasciste e le difficili condizioni psico-fisiche in cui ha vissuto. Nonostante gli arresti, Martelli apporterà un contributo significativo alla causa dell’antifascismo livornese e della Resistenza.
Il terzo ripercorre l’ultimo periodo di detenzione avvenuto prima presso il carcere di Don Bosco a Pisa e poi presso il carcere di Sant’Eufemia a Modena. L’ultimo arresto segnerà in maniera indelebile la vita del giovane antifascista di adozione livornese, soprattutto perché temeva di non poter più far ritorno a casa.

La presa di consapevolezza (novembre 1913-giugno 1932).
Giovanni Martelli nasce il 17 novembre 1913 a Castelfiorentino in una famiglia di umili origini: suo padre è operaio presso la Metallurgica Italiana e sua madre è casalinga. Per questioni lavorative il padre si trasferisce col resto della famiglia a Livorno, quando Martelli era molto piccolo. Lo stesso padre era nato e domiciliato a Livorno.
Vista la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia, Martelli è costretto a lavorare non appena ha terminato le scuole elementari. Il suo primo impiego è presso l’ufficio telegrafico, dove vende a domicilio i telegrammi in arrivo, e a quindici anni lavora alla Cristalleria Torretta. Conosce il mondo del lavoro molto presto, quando è poco più che un bambino. Il contatto precoce con questa realtà lo segna così tanto nel profondo che le battaglie proletarie rimarranno al centro dei suoi interessi e delle sue discussioni.
Fino ai diciotto anni svolge più impieghi: diventa manovale edile, costruisce i blocchi di Shangai, svolge degli incarichi presso l’impresa Feltrinelli[2]. Successivamente, inizia a lavorare presso la ditta francese Mathon in uno stabilimento di materiali refrattari[3]. L’autore descrive la difficile condizione lavorativa in cui viveva, il difficile rapporto col sistema di produzione industriale fordista e la scarsa remunerazione che riceveva. Martelli racconta quella realtà con le seguenti parole:

«[…] Lavorai in quella fabbrica per circa due anni e fu in essa che conobbi veramente la durezza del lavoro e delle condizioni imposte all’operaio. In questo stabilimento, costruito secondo i moderni criteri dell’epoca, nonostante il paternalismo di quella direzione, le condizioni del lavoratore erano subordinate alla “salute” dei materiali […]. La condizione [in] cui si trovava l’operaio addetto alla macinazione del materiale refrattario, immerso per ore e ore permanentemente [nel] nuvolo di polvere e così via. Una forte percentuale di quegli operai, che per anni avevano dovuto lavorare a quelle condizioni, veniva colpita da malattie tubercolari o da gravi forme di silicosi […]»[4].

Quelle difficili condizioni lavorative gli fecero capire l’importanza della formazione, dell’istruzione e della scuola, di quei percorsi che aveva dovuto abbandonare a causa della povertà. Martelli comunque tra i diciotto e i ventuno anni riesce a frequentare delle scuole serali di avviamento professionale, dove si specializza in motori e in aviazione.
Sempre all’età di diciotto anni, Martelli si avvicina alla politica e al PCd’I quasi per caso. Nella sua Autobiografia racconta che non si è mai spiegato il perché a quell’età nutrisse una «profonda avversione verso il sistema fascista» e una «certa simpatia per il Partito comunista»[5]. In realtà, esisteva una motivazione di fondo che spiegava i suoi sentimenti contrastanti: come altri giovani cresciuti durante il Ventennio, era costretto a frequentare dei corsi premilitari che detestava nel profondo.
L’attività politica di Martelli si inserisce proprio in un periodo storico molto complesso. Nel 1931 si iscrive alle organizzazioni giovanili della Federazione comunista livornese a Iedo Tampucci e Leonardo Leonardi ma, a causa della sua giovane età, inizialmente non ricopre dei ruoli di rilievo politico all’interno della federazione e svolge altre attività, come: azioni di propaganda, organizzazione delle cellule, distribuzione e lanci dei manifesti di propaganda, preparazione dei materiali da discutere nelle riunioni. Aderire a un movimento considerato come eversivo in un regime autoritario, significava prender parte consapevolmente alla vita clandestina.
Un anno dopo entra a far parte del Comitato federale dei giovani e conosce molti giovani comunisti livornesi, tra cui Otello Frangioni e Garibaldo Benifei[6]. È necessario precisare che questi giovani non solo svolgeranno dei ruoli di rilevanza all’interno della lotta al regime nazifascista, ma continueranno anche a ricoprire degli incarichi di spicco all’interno del Partito dopo la guerra. Inizialmente prendono parte a riunioni su argomenti concernenti i presagi di una guerra imminente e la possibile partecipazione del fascismo ad essa, e successivamente svolgono il ruolo di trasmissione all’interno dell’organizzazione delle inaudite difficoltà che stava vivendo il Partito a livello nazionale. Inoltre, svolgeranno azioni di proselitismo clandestine nelle fabbriche e nelle giornate di festività dei lavoratori, come il primo maggio abolita dal regime e realizzeranno dei volantini inneggianti lavoro, pace e libertà.
Il 1932 è un anno che segnerà in maniera irreversibile la vita di Martelli in quanto viene arrestato l’11 giugno dall’OVRA, la polizia politica e segreta del regime che aveva il compito di reprimere l’antifascismo. Fino al 1944, Martelli verrà arrestato complessivamente tre volte e verrà denunciato al Tribunale speciale, come compare anche nella scheda biografica del Casellario Politico Centrale[7].
Le torture subite, gli arresti, le condanne e i trasferimenti, cambieranno le scelte di vita di Martelli che da militante per caso, divenne sinceramente convinto delle proprie scelte e continuerà ad opporsi al regime con un coraggio senza precedenti. È proprio con queste esperienze difficili che Martelli acquisirà una maggior consapevolezza e coscienza su cosa vuol dire esser militanti in un partito di opposizione durante un regime totalitario.

Note

  1. D’ora in avanti il Partito Comunista d’Italia verrà indicato con la sigla PCd’I.
  2. Presso l’impresa Feltrinelli, Martelli lavora allo scarico e carico del legname. Per un’impostazione generale sul tema, vedi: Martelli G., Nota autobiografica, Livorno, gennaio 1985, p. 1.
  3. Lo stabilimento qui menzionato è la “Società toscana per lo sfruttamento di cave e miniere C. Mathon”, attiva in tutto il territorio toscano e collocata a Livorno all’epoca in Piazza San Marco. Per un approfondimento sul tema, vedi: Camera di commercio della Maremma e del Tirreno, Fascicolo delle Società cessate, b. 838.
  4. Martelli G., Nota autobiografica, cit., p. 3.
  5. Martelli G., Autobiografia, Direzione del Partito Comunista Italiano (Sezione Quadri), 20 marzo 1945, p. 1.
  6. Otello Frangioni (1913-1952): è coetaneo di Martelli, con cui stringe un solido rapporto di amicizia. Anche lui si iscrive al Partito Comunista quando è giovanissimo e nutre un interesse profondo per le questioni proletarie. Sposerà una delle sorelle di Martelli e diventerà suo cognato. Muore in un incidente stradale a Scandicci insieme a altri militanti livornesi, come Leonardo Leonardi e Ilio Barontini.
    Garibaldo Benifei (1912-2015): Nasce in una famiglia antifascista, composta dal fratello anarchico Rito e dal fratello socialista Antonio. Nel 1933 viene arrestato con Martelli e condannato a un anno di reclusione presso il Palazzo dei Domenicani a Livorno, dove conobbe Sandro Pertini. Dopo l’arresto nel 1939 viene condannato a sette anni di carcere, ma viene liberato con l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tornato a Livorno aderisce al CLN e prende parte attivamente alla guerra di liberazione. Nel dopoguerra ha continuato a lavorare come operaio ed è stato esponente di spicco del Partito Comunista livornese.
  7. Casellario Politico Centrale, Giovanni Martelli, b. 3092, < http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/ >, data di consultazione: 18 marzo 2024.



«Verso le 1,30 di stanotte ho udito…»

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti nel suo ultimo intervento alla Camera dei deputati denuncia le violenze e i brogli elettorali effettuati dai fascisti durante le ultime elezioni politiche, quelle che si erano svolte il 6 aprile, chiedendo «l’annullamento in blocco delle elezioni della maggioranza» e mettendo di fatto in crisi il risultato politico che più sta a cuore a Mussolini e ai fascisti: la parvenza di legalità, che con la realizzazione della legge Acerbo volevano perseguire.
La riforma elettorale approvata prima dalla Camera, il 23 luglio, e poi dal Senato il 3 novembre 1923, istituiva il collegio unico nazionale e la scheda di Stato, abolendo il sistema proporzionale e stabilendo la regola dell’attribuzione di due terzi dei seggi alla lista che avesse raccolto la maggioranza dei voti validi, senza fissare in origine alcun tipo di quorum. I votanti sono il 63% del corpo elettorale e il «listone» ottiene 4.305.936 voti[1], ai quali si aggiungono i 347.552 voti delle «liste bis» raggiungendo così il 56,54% dei voti su un totale di quelli validi di 7.021.551. Al Nord Italia, a dispetto delle pressioni e delle violenze, le forze dell’opposizione raccolgono più voti di quelle fasciste, ma nonostante questo il plebiscito ottiene un notevole successo. Nella provincia pisana al «listone» vanno 72.163 voti a fronte dei 14.792 raccolti dall’opposizione[2].
Matteotti denuncia con audacia le violenze e le manipolazioni del voto effettuate dalle squadre fasciste con la collaborazione di numerose prefetture e apparati dello Stato, ma questa coraggiosa presa di posizione gli vale solo la condanna a morte. Il 10 giugno è rapito e ucciso dalla banda fascista dei sicari di Dùmini[3].
Le violenze degli squadristi perpetuate nei mesi e nelle settimane precedenti il voto elettorale spesso si tramutano in veri e propri attacchi criminali: ad esempio, il 28 febbraio 1924, i fascisti uccidono a Reggio Emilia a colpi di pistola il candidato socialista Antonio Piccinini, tipografo e sindacalista, mentre in altre località feriscono altri esponenti dell’opposizione come i riformisti Enrico Gonzales, Giovanni Battista Canepa e Bruno Buozzi.
L’uccisione di Antonio Piccinini avviene con una dinamica ben precisa, la stessa che i fascisti utilizzano in altri casi. L’esponente socialista è prelevato al suo domicilio da alcuni fascisti, che si sono fatti aprire la porta con uno stratagemma: gli squadristi si presentano come socialisti esibendo una tessera sottratta a veri iscritti, aggrediti in precedenza. Piccinini è poi trucidato da lì a poco nella casa di due dei sequestratori, che dopo averlo stordito di bastonate lo appendono a dei ganci in un locale per la lavorazione dei maiali e lo finiscono con quattro colpi di rivoltella sparati a bruciapelo. Il corpo straziato è fatto trovare all’alba sotto un albero lungo la ferrovia Reggio-Ciano d’Enza, non lontano dalla sua abitazione, affinché i lavoratori che arrivano in città col treno locale per recarsi al lavoro possano constatare la fine che i fascisti fanno fare ai dirigenti operai.

Ugo Rindi

Anche la provincia pisana è attraversata da numerosi episodi di violenza e intimazioni: il 20 marzo una squadra di fascisti a Pontedera devasta la casa del comunista Antonio Romboli bastonando l’intera famiglia e ferendo il figlio con un colpo di pistola; nello stesso giorno è aggredito e ferito l’ex sindaco di Bientina, Annibale Iacopetti; il 24 marzo a Nodica i fascisti feriscono un socialista; il 29 marzo a Latignano gli squadristi picchiano un invalido di guerra iscritto al Partito popolare; il 4 aprile viene bastonato un ex consigliere del Partito popolare e a Ponsacco un gruppo di iscritti al Partito di Don Sturzo sono percossi selvaggiamente.
L’episodio più grave, sempre legato alle tensioni nate intorno alla data delle elezioni, è quello dell’uccisione di Ugo Rindi, tipografo, segretario della locale Federazione italiana del libro (il sindacato dei tipografi)[4], che avviene a Pisa nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1924[5].
Recentemente l’Archivio di Stato di Pisa ha ricevuto un consistente fondo di documenti provenienti dall’archivio del Tribunale di Pisa che sono stati oggetto di un primo ordinamento e che contribuiscono a chiarire ancora meglio la dinamica dell’assassinio[6].

L’8 aprile, intorno alle 20, Emilio Gnesi, ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, si reca insieme al console Francesco Adami dal questore Pace e dal prefetto Renato Malinverno per denunciare il grave ferimento di un fascista. Il presunto responsabile è Ulico Caponi, colono abitante in località Villa Filippi a circa un chilometro e mezzo da Porta a Lucca sulla via per San Giuliano Terme. Nel frattempo, la notizia viene fatta girare ad arte in città[7].
Il racconto degli squadristi afferma che un’auto guidata dallo squadrista Dino Poli, con a bordo Gualtiero Bacci e Ruffo Lester e i militi della MVSN Emilio Gnesi, Giulio Susini, Ruffo Monnosi e Guido Marradi, aveva raggiunto «Villa Filippi», la casa colonica abitata della famiglia Caponi per dare una lezione a Ulico, che il giorno delle elezioni ha dichiarato, all’uscita del seggio, la propria fede antifascista di fronte agli squadristi presenti. Evitato il linciaggio grazie all’intervento di un ufficiale dei carabinieri il Caponi si è rifugiato a casa sua. Secondo i fascisti quando Caponi li vede entrare nel proprio cortile si dà alla fuga nei campi sparando e ferendo gravemente lo squadrista Poli[8]. Il ferito è immediatamente trasportato in ospedale ma le sue condizioni, nonostante l’intervento dei sanitari, peggiorano rapidamente nella notte e intorno alle 14 del 9 aprile spira tra le braccia della moglie[9].
Il Prefetto e il Questore di Pisa credono ai fascisti e si prodigano immediatamente per dare ordini affinché il presunto assassino venga assicurato alla giustizia e chiedendo agli stessi squadristi di collaborare alle ricerche. Questi ultimi non si fanno ripetere la richiesta una seconda volta e immediatamente si mobilitano attivando quattro squadre che perlustrano Pisa e dintorni, colpendo tutti coloro che gli capitano a tiro, compreso, come ricorda il Procuratore generale della repubblica di Firenze, «persone indifferenti e innocue»[10].
Tra le due e trenta e le tre del 9 aprile due barrocciai, Riccardo Cioni di Empoli e Armando Matteucci di Firenze, sotto un’incessante pioggia escono da Porta a Lucca con i loro carri dirigendosi a sinistra verso Viareggio per la via del Marmigliaio quando i loro cavalli all’improvviso si bloccano perché qualcosa impedisce loro di procedere. Scesi dai loro carri i due barrocciai si accorgono che in mezzo alla strada giace insanguinato il corpo di un uomo. Subito si dirigono verso la vicina stazione daziaria avvisando gli impiegati presenti, due dei quali si recano sul posto e riconoscono immediatamente il corpo di Ugo Rindi, una persona molto nota nel quartiere e in città[11].
Avvertite le autorità, i carabinieri e il commissario di PS giunti sul posto confermano il riconoscimento di Rindi, ucciso da due pugnalate, una delle quali gli ha reciso l’aorta. Il corpo viene rimosso dal selciato intorno alle 9 di mattina[12].

Alessandro Carosi

In poco tempo la notizia della morte di Rindi fa il giro della città. Il sindacalista aveva seguito le orme paterne sia dal punto di vista professionale che ideale[13]: da giovane era stato affascinato delle idee libertarie ed era una persona molto amata e impegnata nel sociale, tanto che le stesse autorità durante l’inchiesta più volte sottolineano nei loro rapporti che Rindi era una persona «idealista» e «proba e innocua», ricordando come si fosse distinto nel settembre del 1920 negli aiuti ai terremotati della Garfagnana e Lunigiana. Come scrive il Procuratore generale di Firenze, anche il parroco di Porta a Lucca, don Angelo Petrini, ne «esalta le virtù e i meriti sebbene il Rindi non accettasse la religione cattolica»[14].
Le indagini vengono espletate velocemente e le autorità ben presto comprendono la reale dinamica dei fatti grazie anche alla collaborazione fondamentale e inaspettata del capitano Bruno Santini, leader di una delle fazioni del fascismo locale, che fin dalle prime ore del 9 aprile si prodiga, facendo visita anche alla famiglia Rindi, per comprendere la dinamica della brutale aggressione e individuare i responsabili. È grazie proprio alla denuncia di Santini e di altri suoi commilitoni alle autorità che vengono identificati gli assassini di Rindi[15].
L’11 aprile è arrestato il sindaco di Vecchiano, il già allora famigerato Alessandro Carosi[16], che come ricorda il Procuratore generale di Firenze amava presentarsi come «Tenente Carosi, sette volte omicida». Un personaggio che è animato al pari di altri sicari fascisti, sempre in base alle parole del Procuratore di Firenze, da «un istinto ferino» con assoluta mancanza di «moralità», che ha l’abitudine di ferire e uccidere per «brutalità, spavalderia e intimidazione»[17]. Carosi fa parte, dunque, di quella genia di «squadristi famigerati, accaniti e sanguinari, espressione di ceti e ruoli sociali ben definiti e tutt’altro che marginali e spostati»[18].

Filippo Morghen

Nei giorni e nelle settimane successive vengono arrestati anche i complici di Carosi: Antonio Sanguigni[19], segretario del fascio di Avane, Ranieri Cola[20], Giuseppe del Pellegrino[21] e Giulio Malmusi[22]. Sono arrestati anche il presunto mandante, Francesco Adami, console della MSVN[23] e il suo padrino, Filippo Morghen[24], segretario provinciale della Federazione e presidente del consiglio provinciale, oltre ai suoi più stretti collaboratori, gli squadristi Girolamo Grimaldi[25], segretario del fascio di San Giuliano Terme, Giuseppe Biscioni[26] e Ovidio Chelini, segretario del fascio di Nodica[27].
Vasta è l’eco dell’efferato assassinio sulla stampa locale e nazionale, Rindi è, come già ricordato, un personaggio assai conosciuto nella città, da tutti indicato come «uomo mite e onesto»[28]. Una grande sottoscrizione popolare nei confronti della famiglia del tipografo assassinato è lanciata dal periodico cattolico «Il Messaggero toscano»[29]. I funerali e le molte testimonianze dell’affetto della Pisa popolare e antifascista sono la prova di un’unanime condanna del delitto. La morte di Rindi ha lasciato nella disperazione la famiglia: la moglie Nella e i figli Emilio e Vera, la madre Rosa, la sorella Lavinia, che, subito dopo che Rindi è uscito di casa con i «fascisti», hanno cercato in città il proprio congiunto rivolgendosi invano anche alla Questura[30].
È molto probabile che Santini colga al volo l’occasione dell’assassinio di Rindi per cercare di liberarsi una volta per tutte

Giulio Malmusi, squadrista complice di Carosi nell’omicidio Rindi.

del gruppo legato a Filippo Morghen che, dall’autunno del 1922 ai primi mesi del 1924, si è distinto nell’occupazione di tutti i posti di potere chiave del territorio[31]. Questa occupazione di poltrone, una vera e propria ingordigia di potere, ha aperto delle fratture e «una furiosa e selvaggia lotta di gruppi» nelle file fasciste lasciando una parte degli squadristi della prima ora senza un corrispettivo adeguato di riconoscimenti e palesando un tradimento degli «ideali» del fascismo sansepolcrista[32].
Il 10 aprile giunge in città Luigi Freddi, responsabile dell’ufficio stampa del PNF, squadrista milanese della prima ora e «fedelissimo» di Mussolini, inviato a Pisa come commissario straordinario per rimettere ordine in una Federazione locale ormai profondamente dilaniata dai contrasti interni. Tutti i vertici della Federazione sono obbligati alle dimissioni e anche il prefetto Malinverno, troppo accondiscendente verso alcuni dei ras locali è sostituito da Giovanni Battista Rossi.
In giugno poi la notizia del rapimento dell’on. Giacomo Matteotti, con la sua eco emotiva, ha l’effetto, anche nel pisano, di un’ulteriore onda d’urto nelle file del fascismo e dell’opinione pubblica. Il clima politico è caratterizzato dall’incertezza, le autorità sono disorientate e gli stessi fascisti sembrano per un istante più indecisi e confusi sul da farsi.
Una lettera del capitano Santini alla redazione de «Il Messaggero toscano» della fine di agosto fotografa con chiarezza il clima politico di Pisa di quell’estate:

La situazione della città di Pisa è angosciosa, terribile, e non è soltanto una situazione del partito, ma l’imposizione di un sistema che offende la cittadinanza e gli onesti di tutte le tendenze, poiché mira all’apologia della delinquenza che ogni partito deve saper distruggere in se stesso se vuole vivere e prosperare. Pisa vive da tre mesi una tragica ora che non si vuol comprendere. Pisa ha visto l’8 aprile commettere nelle sue mura un assassinio obbrobrioso davanti al quale impallidisce un fatto come quello di Matteotti e i delinquenti furono consegnati alla giustizia dai fascisti stessi che non potevano ammettere nella loro buona fede che il fascismo si imbastardisse convivendo con l’inutile e deleteria delinquenza[33].

Nel frattempo nei primi giorni di luglio Freddi è sostituito nel suo incarico di commissario straordinario dall’on. Ezio Maria Gray che cerca di riportare alla «normalità» la vita della Federazione, ma in realtà alla fine chi paga maggiormente è il gruppo di Santini che l’anno successivo, non senza aver ricevuto minacce e pressioni di ogni tipo, decide di abbandonare Pisa e la militanza per trasferirsi a Milano.
La figura che si afferma in questo periodo di transizione è quella di Guido Buffarini Guidi, decorato di guerra, avvocato, massone e sindaco di Pisa, dal 1923 al giugno 1924, quando lascia l’incarico perché eletto in Parlamento. Noto per il motto «Ci penso io», ripetuto più volte a fronte di problemi e richieste di interventi, Buffarini non abbandona a se stessi gli esecutori dell’assassinio di Rindi, garantendo loro sussidi, assistenza e coperture.
La violenza del fascismo pisano ha un’altra occasione di mettersi in mostra il 2 gennaio 1925, il giorno prima del noto discorso di Mussolini al Parlamento sulle responsabilità del delitto Matteotti, quando sono assaltate le sedi delle organizzazioni dell’opposizione che ancora sopravvivevano e della massoneria. Viene tentato anche un assalto alle Carceri giudiziarie di S. Matteo al fine di liberare Carosi e Adami ma il tentativo fallisce per l’intervento massiccio di carabinieri e guardie di P.S. Sono devastate anche la redazione e la tipografia del «Messaggero toscano», che vengono distrutte da una forte esplosione, le abitazioni e gli studi di vari «notabili», rei di aver abbandonato il sostegno al fascismo, come Alfredo Pozzolini e Arnaldo Dello Sbarba, mentre gli squadristi non riescono ad entrare nello studio di Adolfo Zerboglio, noto giurista e senatore, perché sulla porta trovano un capitano degli alpini che impedisce armi alla mano alla squadra fascista di eseguire l’ordine di distruzione[34].
Il Procuratore generale di Firenze alla fine dell’anno conclude la sua istruttoria rinviando a giudizio Carosi, come esecutore dell’assassinio di Rindi, Malmussi e Grimaldi come complici, Adami e Biscioni come mandanti, mentre Morghen, Sanguigni, Cola e Del Pellegrino sono prosciolti dalle accuse per insufficienza di prove[35].
Il processo si svolge al Tribunale di Genova nel settembre del 1925, in un clima totalmente diverso rispetto a quello dell’anno precedente: nonostante le prove raccolte durante l’inchiesta, la sentenza finale è di assoluzione piena per tutti gli imputati. La corte di Genova ha subito forti pressioni politiche, proveniente anche da Roma, al fine di impedire una condanna che in quel contesto avrebbe significato una sconfessione piena di tutta l’organizzazione fascista locale. Il processo è anche l’occasione per la resa dei conti tra le due fazioni del fascismo a Pisa che nei mesi trascorsi hanno continuato a darsele di santa ragione, anche a colpi di revolver. In settembre un fascista seguace di Santini, Pilade Fiaschi, ingaggia a Marina di Pisa uno scontro a fuoco con un fascista «ufficiale», Gino Salvadori, entrambi rimangono feriti sul selciato ma ad avere la peggio è il secondo, che muore poco dopo[36].
Gli imputati assolti a Genova ricevono calorose accoglienze sia nella città ligure che a Pisa, dove i loro camerati li portano in «trionfo» per le vie delle città come dei «vincitori» di una gara sportiva[37].

Nel 1945, quando la guerra ancora non è terminata la Cassazione annulla la sentenza del 1925 e il caso viene riaperto ma nel frattempo uno dei principali esecutori dell’omicidio, Alessandro Carosi, si è dato alla macchia. Verrà condannato in contumacia a 21 anni di reclusione, come gli altri due imputati, ma non farà mai un giorno di carcere per il delitto Rindi, continuerà a vivere e lavorare a Roma, con la complicità di amici potenti, sotto il falso nome di Filippo Filippi[38]. Morirà nella capitale il 29 gennaio 1965 e la sua scomparsa avrà una vasta eco sui maggiori quotidiani italiani[39].
Carosi in carcere in precedenza ci era finito per un’altra tragica storia. Nel 1931 a Viareggio, dove risiedeva, uccide Assunta Beneforti (Tina), la sua amante e madre del figlio Sergio nato nel 1927. Per questo omicidio verrà condannato dalla Corte d’Assise di Firenze ad una lunga pena detentiva. Il 9 aprile 1943 inspiegabilmente Carosi è liberato con la condizionale e posto in regime di libertà vigilata. Decide di stabilire la propria residenza a Guardistallo dove viveva e lavorava la figlia Liliana avuta da una precedente relazione. Qui il 1° agosto 1943 sposa Cesarina Cesari la madre di Liliana. Il Prefetto preoccupato della presenza di Carosi e temendo le sue attività lo fa arrestate proponendolo per l’internamento in un campo di concentramento. Dopo l’8 settembre Carosi è liberato e nominato triumviro della Federazione pisana del nuovo Partito fascista repubblicano. Nei mesi seguenti collabora attivamente con la RSI e con gli occupanti nazisti.
Il 24 giugno 1944 si perdono le sue tracce, pare che si sia diretto al Nord insieme ai reparti e autorità fasciste della provincia. Secondo alcune testimonianze sembra che Carosi sia coinvolto nella denuncia alle autorità tedesche dell’antifascista e membro del CLN, Sisto Longa, che aveva retto il municipio di Guardistallo nei giorni seguenti la caduta di Mussolini. Longa il 29 giugno viene trucidato insieme ad altri 51 civili e 11 partigiani dalla Quarta compagnia della 19ª divisione da campo della Luftwaffe[40].

Il 14 maggio 1965, il senatore Umberto Terracini presenta un’interrogazione al Ministro dell’Interno, il senatore Paolo Emilio Taviani – democristiano ed ex membro del CLN ligure –, chiedendo come il ricercato Alessandro Carosi avesse potuto vivere e lavorare indisturbato a Roma nonostante la pesante condanna ricevuta. A Terracini rispose il sottosegretario all’interno, Crescenzo Mazza, con argomentazioni generiche e inconcludenti[41].
La vicenda Carosi mostra bene come l’eredità del fascismo abbia pesantemente condizionato la vita della giovane Repubblica italiana e come i suoi fantasmi si siano di volta in volta materializzati lasciando ferite profonde e aperte nella società civile del nostro Paese.
Il delitto Rindi è per Pisa quello che l’assassinio di Matteotti rappresenta per l’Italia: una svolta decisiva nell’evoluzione del fascismo, dove un partito politico da solo, il partito fascista, si autoproclama unico rappresentante di tutta la nazione. Un secondo effetto di questi episodi ricade soprattutto sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla gestione della giustizia. È evidente come in ambedue i casi lo Stato abdica a gruppi di potere locali e nazionali che si ergono in modo violento e spiccio, a volte in forme contraddittorie, a gestori della sicurezza nazionale.
Mussolini con il discorso del 3 gennaio 1925, assume la responsabilità storica di aver condotto il fascismo attraverso l’illegalità e la violenza al potere, mettendo al bando le residue forme democratiche del vecchio sistema monarchico/liberale, verso la costruzione di uno stato totalitario.
Pisa antifascista ricorderà Ugo Rindi nel secondo dopoguerra con varie manifestazioni e con l’intitolazione della strada che costeggia l’Arena e che partendo da via L. Bianchi arriva fino alla via del Marmigliaio.

NOTE:

1 La Lista nazionale nota comunemente come Listone oltre al Partito nazionale fascista (PNF), che l’anno prima aveva assorbito l’Associazione nazionalista italiana, comprendeva la maggioranza degli esponenti liberali come Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e, inizialmente, anche Enrico De Nicola (che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, oltre a numerose personalità della destra liberale e cattolica italiana.
2 Si v. gli art. La elezione politica è stata un plebiscito nazionale e La Votazione di Pisa, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
3 Cfr. G. Mayda, Il pugnale di Mussolini: storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M.L. Salvadori, L’antifascista: Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Roma, Donzelli, 2023.
4 All’anagrafe Ugo Gustavo Ruffo Rindi nasce a Pisa il 21 maggio 1882 da Emilio e Rosa Lorenzetti. Per un inquadramento generale sulla storia del lavoro e sindacale di Pisa nel periodo cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS edizioni, 2016.
5 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il funzionario di servizio della Questura di Pisa al Procuratore del Re, 9 aprile 1924. Il quotidiano dei socialisti il giorno dopo la notizia della morte di Rindi riporta il fatto con il titolo esemplificativo: L’esecuzione capitale di un tipografo a Pisa, «L’Avanti!», 10 aprile 1924. Nell’articolo si fa riferimento alla similitudine del caso Rindi con quella del socialista Piccinini assassinato a Reggio Emilia in febbraio. 6 6 Per la cronaca pisana si v. anche Misterioso assassinio a Pisa. Un tipografo ucciso a pugnalate, «La Nazione», 10 aprile 1924 e Il tipografo ucciso, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
7 Il progetto di riordino è stato realizzato grazie ad un contributo della Fondazione Pisa e della Biblioteca Franco Serantini e realizzato dalla dr.ssa Giulia Vierucci. Ringrazio la direttrice dell’Archivio di Stato di Pisa, dr.ssa Jaleh Bahrabadi, per la disponibilità e la collaborazione e per l’autorizzazione alla consultazione dei materiali.
8 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Rinvio a giudizio Carosi Alessandro … [et al.] per omicidio premeditato, 13 febbraio 1925 (d’ora in poi Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …)
Caponi si eclissa ma raggiunto dalle notizie delle minacce fatte alla famiglia decide il giorno dopo di costituirsi alle autorità rimanendo in carcere per circa due mesi. La «falsa» notizia dell’agguato nel quale sarebbe rimasto ferito Poli propagata dai vertici della Federazione pisana del fascio è immediatamente ripresa dalla stampa nazionale. Cfr. “Chauffer” ferito da uno sconosciuto mentre attende a una riparazione, «Il Corriere della sera», 9 aprile 1924.
9 La moglie accorsa in ospedale ebbe il tempo di ascoltare dalla voce del marito morente la nuda e tragica verità dei fatti. Poli nell’inseguire il Caponi attraversò un fosso e risalì la sponda opposta mentre i suoi iniziavano a sparare. Nella concitazione degli avvenimenti gli squadristi non si accorsero che sparavano nella sua direzione ed un colpo da fuoco «amico» lo prese in pieno. Alla moglie furono fatte molte pressioni da parte dei «camerati» di suo marito e gli venne garantito un vitalizio da parte della Federazione pisana del fascio e al processo Rindi dell’anno successivo confermò la versione «ufficiale» sulla dinamica dei fatti contribuendo all’assoluzione degli imputati. Solo dopo vent’anni, alla riapertura del procedimento contro i responsabili dell’omicidio di Ugo Rindi la vedova Poli racconterà la verità. Va qui ricordato che all’epoca la magistratura non aprì nessun fascicolo per perseguire i responsabili della morte dello squadrista, nonostante dopo pochi giorni fosse a conoscenza di tutti i nomi dei presenti al fatto. Poli venne sepolto con tutti gli onori del caso entrando nell’albo dei «martiri» del fascismo.
10 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
11 Ib.
12 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Verbale di visita di località e rimozione di cadavere, Pisa, 9 aprile 1924 e Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Stazione di Portanuova, Verbale di omicidio in persona di Rindi Ugo ad opera di 5 sconosciuti, Pisa, 9 aprile 1924. Carosi, accompagnato da Malmusi e da altri tre squadristi, si è presentato intorno all’1,30 a casa della famiglia Rindi, annunciandosi come commissario di P.S. si è fatto aprire la porta e ha chiesto a Rindi di seguirlo perché indiziato di omicidio.
13 Il padre Emilio, nato a Pisa il 30 giugno 1858, operaio tipografo è stato un attivo militante internazionalista nelle Pisa post-unitaria. Cfr. M. Bacchiet, Malfattori e birrri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Ghezzano, BFS edizioni, 2023, pp. 86-88.
14 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
15 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, a. 1922 e sgg., Carosi Alessandro … [et al.], Comando della Legione territoriale dei carabinieri di Livorno, Compagnia di Pisa, Verbale della denuncia di Bruno Santini … [et al.] in ordine all’omicidio volontario in persona Rindi Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
16 Alessandro Carosi nato a Roma il 9 febbraio 1899 da Emilio e Pia Antilli, commerciante, arrestato l’11 aprile 1924. Cfr. L’arresto d’un sindaco fascista per l’uccisione del tipografo pisano, «Il Corriere della sera», 12 aprile 1924.
17 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
18 M. Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 473.
Antonio Sanguigni nato a Pisa il 12 febbraio 1896 da Giuseppe e Assunta Del Rosso, residente a Vecchiano, possidente, detenuto dal 23 aprile 1924. Sanguigni verrà poi «giustiziato» dai partigiani nella notte tra il 4 e 5 agosto 1944 in località Faeta.
19 Ranieri Cola nato a Vecchiano il 18 maggio 1899 da Luigi e Teresa Pardi, terrazziere, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
20 Giuseppe Del Pellegrino nato a Vecchiano il 16 settembre 1900 da Amadio e Zoraide Bartelloni, orticultore, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
21 Giuseppe Malmusi nato a Modena il 21 maggio 1897 da Giuseppe e Margherita Malmusi, studente, arrestato il 21 luglio 1924.
22 Francesco Adami nato a San Paolo in Brasile il 7 settembre 1893 da Pio e Maddalena Stefani, residente a Pisa, studente, detenuto dal 19 aprile 1924. Adami durante gli anni del fascismo continuerà la propria militanza, dopo la caduta del fascismo sarà tra i fondatori del Fascio repubblicano. Nominato il 1° ottobre 1943 Prefetto di Pisa, carica che mantiene fino alla fine del mese, seguirà poi Buffarini Guidi al nord. La sua nomina a Prefetto è contraddistinta da continui arresti di molti antifascisti e una gestione dell’ordine pubblico violenta e arrogante.
23 Filippo Morghen nato a Castellina Marittima il 22 febbraio 1882 da Antonio e Margherita Werner-Debeauvert, residente a Pisa, avvocato, arrestato e detenuto dal 19 aprile al 24 ottobre 1924.
24 Girolamo Grimaldi nato a Livorno il 27 luglio 1888 da Ernesto e Argia Cappelli, capostazione ferroviario, residente a San Giuliano Terme, detenuto dal 19 aprile 1924.
25 Giuseppe Biscioni nato a Calci il 3 marzo 1900 da Gino e Marianna Malanima, studente, detenuto dal 21 aprile 1924. Biscioni la sera dell’8 aprile ha l’incarico di guidare una seconda squadra verso Porta Nuova alla ricerca della famiglia Bucchioni, ben noti esponenti antifascisti e libertari della zona. Trovati a casa il padre Ferruccio e i figli, Azelio e Libertaria, non passa a vie di fatto solo perché i membri della sua squadra si rifiutano di eseguire l’ordine di uccidere i malcapitati. ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
26 Ovidio Chelini verrà arrestato a fine aprile del 1924 anche per un altro tentativo di omicidio nei confronti di Alfredo Gemignani, antifascista, ferito a colpi di rivoltella la sera del 23 marzo. Cfr. Un altro delitto scoperto presso Pisa, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
27 Per la cronaca si v. i nn. del «Messaggero toscano» del 10 e 23 aprile e 3 maggio 1924. Inoltre gli art. Nuovi particolari sui fatti di Pisa, «L’Avanti!», 25 aprile 1924 e Rivelazioni sui misfatti di Pisa. Il Rindi ucciso con due pugnalate, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
28 La sottoscrizione raccolse nelle settimane successive una quota considerevole, circa undicimila lire, poi venne bloccata su pressione del commissario straordinario Freddi timoroso che questo gesto di solidarietà si tramutasse in un affronto al potere locale del fascio. Venne ripresa in autunno raggiungendo le dodicimila lire per poi essere immediatamente chiusa. 29 Si v. «Il Messaggero toscano», nn. del 30 aprile, 10 giugno e 29 ottobre 1924.
30 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Compagnia di Pisa, Dichiarazione resa da Rindi Lavinia in merito all’uccisione del proprio fratello Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
31 Il caso Rindi mette in luce una radice leggermente diversa sulla natura delle divisioni tra i fascisti in città, di genere più personale e legata strettamente al controllo del potere, rispetto alla narrazione fino ad ora accreditata sul piano storiografico e cioè di un dissidio politico nato tra la componente, più in linea con alcuni dei valori originari del primo squadrismo, radicale, ancorato agli ideali dell’interventismo e del mito della guerra nazionale, e quella di origine agraria, con una matrice nel conservatorismo antidemocratico delle classi medie della provincia e dichiaratamente più violento. Emerge dalle biografie personali dei protagonisti, in gran parte di estrazione piccolo borghese, un «ceto» e una «generazione», con un profilo psicologico e antropologico di uomini che aspirano ad un benessere e ad un prestigio che credono acquisito di diritto con la partecipazione alla guerra e bramano un potere rivendicato manu militari attraverso un breve periodo di stragi e baldoria. Va ricordato che il problema della violenza dello squadrismo pisano, spesso espressione di una rabbia sorda e furiosa, che si mantiene anche dopo gli anni caldi del 1921-’22, è un tema che viene dibattuto anche nel 5° congresso provinciale del PNF del dicembre 1923, che approva una risoluzione di condanna dei continui abusi, soprattutto nel capoluogo, esercitati da squadre provenienti anche da altre località. La risoluzione afferma: «Se gli atti commessi nella giurisdizione del fascio pisano da fascisti appartenenti a qualunque fascio, saranno considerati reato, il direttorio denuncerà all’autorità competente i fautori assumendone piena e completa responsabilità» («Il Messaggero toscano», 15 dicembre 1923).
32 E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), t. 1, Firenze, L.S. Olschki, 1971, p. 68.
33 «Il Messaggero toscano», 30 agosto 1924.
34 L’episodio è ricordato da Piero Zerboglio, figlio di Adolfo. Il capitano degli alpini, forse lo stesso Santini, si presenta agli astanti «camerati» affermando che non avrebbe permesso a nessuno di entrare nello studio di Zerboglio, padre di un eroe della Prima guerra mondiale. Infatti il figlio Enzo era caduto combattendo valorosamente alla fine dell’ottobre del 1918 e per questo era stato decorato con la medaglia d’oro al valore. Cfr. Biblioteca F. Serantini, sez. Archivio, P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto.
35 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
36 Cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924. Fiaschi verrà poi condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere, Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.
37 Cfr. La fine del processo per l’assassinio del tipografo Rindi. Tutti gli imputati assolti, «La Stampa», 27 settembre 1925.
38 Cfr. G. Ghislanzoni, La doppia vita dell’ex squadrista Carosi, «Corriere dell’informazione», 1-2 febbraio 1965.
Tra i numerosi articoli si v. ad esempio quelli pubblicati dal quotidiano «La Stampa» di Torino: Scoperto dopo la morte l’uccisore di due socialisti vissuto sotto falso nome a Roma, e 39 L’ex squadrista ricercato per due omicidi aveva anche ucciso e bruciato l’amante, «La Stampa», Torino, 31 gennaio e 2 febbraio 1965. Cfr. anche Chi ha aiutato il fascista pluriomicida?, «L’Unità», 1° febbraio 1965.
40 Cfr. P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il mulino, 1997, ad indicem.
41 Senato della Repubblica, IV Legislatura, 296a seduta pubblica, Resoconto stenografico, venerdì 14 maggio 1965, pp. 15594-15598.




Le Scuole Leopoldine, scenario di violenze e anticamera della deportazione nei lager nazisti.

Nei resoconti che parlano della secolare storia delle Scuole Leopoldine di piazza Santa Maria Novella a Firenze, dove oggi si trova il Museo Novecento, difficilmente si scopre ciò che vi accadde nel 1944, quando l’edificio fu requisito dalle truppe germaniche di occupazione. Pochi sanno che qui, come reazione furente allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944 indetto dal Comitato di Liberazione nazionale, furono concentrati, interrogati, registrati e quindi deportati nel lager nazista di Mauthausen le lavoratrici e i lavoratori scioperanti, arrestati dai militi della Repubblica Sociale Italiana insieme a persone rastrellate per strada in modo indiscriminato a Firenze e in provincia, in particolare nel pratese e nell’empolese[1].
Prima esplicita opposizione di massa al fascismo, questo sciopero è considerato dagli storici, per le sue dimensioni e ripercussioni, uno degli eventi più straordinari della resistenza civile europea. Alcune fonti stimano circa 500.000 aderenti. Gli organizzatori parlarono di un milione di partecipanti, le autorità nazifasciste di circa 200.000[2]. Le reazioni dei nazisti e dei fascisti repubblicani furono immediate. Nonostante la rinuncia ad eseguire l’ordine di Hitler di deportare il 20% degli scioperanti, derivante dalle condizioni in cui si trovavano le forze occupanti e dalla volontà di evitare azioni che avrebbero prodotto sollevazioni popolari ancora maggiori[3], i costi umani furono elevati, anche a causa della complicità e fattiva collaborazione della milizia fascista e di una parte dei dirigenti d’azienda.
Per i nazisti, ogni occasione di repressione e pretesto di rappresaglia era utile per deportare in massa uomini e donne in grado di lavorare a favore dell’industria bellica del Reich. Oltre a costituire un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile, le deportazioni avevano infatti anche l’obiettivo di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù.
In Toscana[4], come nel resto dell’Italia centro-settentrionale, la repressione fu dura: i rastrellamenti furono indiscriminati, si arrestarono gli operai che avevano scioperato ma anche quelli che non avevano scioperato, nonché impiegati, professionisti e perfino ignari passanti[5]. I fascisti effettuarono i rastrellamenti a Empoli, a Prato e nel centro di Firenze, soprattutto nel rione di San Frediano. Del rastrellamento e «invio in Germania di alcune centinaia» troviamo traccia nel rapporto della Militärkommandantur (Comando militare) di Firenze del 13 marzo 1944, in cui si parla dell’arresto di «elementi perturbatori pericolosi» e si sottolinea «l’energico intervento delle autorità italiane». Inquietante è inoltre il riferimento alla preparazione di «liste»[6], che furono in effetti messe a punto da molte aziende in cui erano avvenute astensioni dal lavoro[7].
Centinaia furono i fermati in provincia, arrestati per strada, prelevati da casa o direttamente dalle fabbriche e rinchiusi in luoghi di raccolta (spesso nelle caserme dei Carabinieri o nelle Case del Fascio, a Prato nella Fortezza medievale del Castello dell’Imperatore, sede della Guardia Nazionale Repubblicana), dove avvennero le prime selezioni. Gli arrestati in provincia furono poi portati a Firenze con i pullman o con degli autocarri, e «scaricati» davanti al grande edificio delle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, centro di raccolta regionale dove erano state già condotte le persone rastrellate in città. Molti sopravvissuti al loro ritorno dai lager hanno riferito del grande beffardo cartello che era affisso sul palazzo: «Operai volontari per la Germania».
Documenti originali che si trovano all’Archivio Storico del Comune di Firenze, emersi solo molto recentemente grazie alla collaborazione dell’Archivio stesso, attestano che le autorità tedesche di occupazione che avevano requisito l’edificio, lo avevano classificato come «Sammellager», cioè letteralmente ‘campo di raccolta’[8], facendo sì che anche questo edificio entrasse a far parte dell’articolato sistema concentrazionario nazista. Alle Scuole Leopoldine si svolsero nei giorni 7 e 8 marzo 1944 le prime schedature e i primi interrogatori da parte delle SS, aiutati da un interprete. Ebbe un ruolo importante anche il Reparto Servizi Speciali della RSI comandato dal criminale fascista Mario Carità, che molti testimoni dicono di aver visto in quei giorni nei corridoi e nelle aule dell’edificio. Alcuni fermati furono rilasciati grazie ad interventi vari, altri ancora riuscirono a fuggire. La mattina dell’8 marzo 1944 la piazza era gremita di persone alla ricerca di notizie dei propri familiari. Le donne, pur avendo partecipato in gran numero allo sciopero, vennero escluse dalla deportazione[9] e rilasciate, mentre 338 uomini furono portati nel pomeriggio alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella poco distante e, stipati nei vagoni piombati già predisposti, deportati nel lager di Mauthausen (dove arrivarono l’11 marzo) e nei suoi sottocampi, tra i più terribili dell’intero sistema concentrazionario nazista. Sopravvissero in 64, cioè il 19%.
Poco è pubblicato nei libri di storia locale sull’argomento delle Scuole Leopoldine come centro di raccolta degli arrestati nel marzo 1944, la cui vicenda è documentata al Museo della Deportazione e Resistenza di Prato[10]. Molto si trova però nella memorialistica, in particolare all’interno del corpus di interviste ad ex-deportati raccolte dal Prof. Andrea Devoto alla fine degli anni ’80 in collaborazione con l’ANED[11], l’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti, nelle sezioni di Firenze, Prato, Empoli e Pisa, che si adopera da decenni per conservare la memoria della deportazione politica.
Il 6 marzo 2017, la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, in collaborazione con l’ANED Toscana, l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, il Comune di Firenze/Museo Novecento e la Regione Toscana, ha realizzato per la prima volta negli spazi del Museo Novecento (Ex Scuole Leopoldine) un evento di approfondimento storico dal titolo La memoria di un luogo: marzo 1944, arresti e deportazione, cui è seguita la lettura teatrale, a cura del Teatro d’Almaviva, di brani di interviste a testimoni sopravvissuti ai lager. Tra queste si ricorda quella di Roberto Castellani, per molti anni presidente della sezione ANED di Prato:

Noi (di Prato) ci presero e ci portarono in Fortezza, lì dai repubblichini, poi ci prese un pullman e ci portarono in piazza Santa Maria Novella alle Scuole Leopoldine, la sera; s’arrivò lì e trovai altre persone che erano già state prese a Prato e tra questi ci trovai anche il Pitigliani, che lui era ebreo, pensi che situazione! Lo conoscevo. Disse «Oh Castellani, ci sei anche te?» E io ebbi un po’ di paura e dissi: «Icché ci fanno?» «Eh, non ci fanno nulla, stai tranquillo domani ci mandano via tutti, o forse, dice, ci manderanno a fare dei fossati a fare delle trincee». Viene la mattina presto un maresciallo delle SS e ci fanno un interrogatorio, persona per persona. Mi chiamano, e mi domandano «Te che hai fatto lo sciopero?» «Sì», I’avevo fatto, non avevo mica nulla da nascondere, dice «Che mestiere tu fai?» «Lavoro alle filande» «Va bene, lo sai, dice, che è proibito fare lo sciopero?» «Mah, io non lo so, mi dissero di fare festa e feci festa, ecco», e basta. Mi dissero «Vai via» e mi mandonno via; suppergiù le solite domande le fecero a tutti. La mattina dell’8 marzo arrivarono tanti altri, tanti tanti, più che la sera, furono presi nelle fabbriche…[12] .

Fiorello Consorti, altro testimone, ricorda:

E invece la mattina dissero: «Mettetevi lì!» Ci si mise lì, ce n’era degli altri: s’aspettò e poi ci portarono via. Fui uno degli ultimi ad essere preso, e ci portarono in fortezza … poi ci portarono a Firenze, in questa scuola qui, c’era scritto «Lavoratori volontari», un cartellone di propaganda … fanno come tutti, vede: loro fanno uguale: mettono i cartelli per far credere quello che vogliono ma invece non è in quella maniera. Ci scaricarono tutti lì, perché gli autobus li appoggiarono a quegli scalini, aprivano gli sportelli, un repubblichino fuori col mitra, e ci scaricarono tutti sul sagrato e ci misero dentro, e dentro c’era un cortile col loggiato[13].

Anche Alberto Ducci, per molti anni presidente della sezione ANED di Firenze, era stato portato alle Scuole Leopoldine. Questi i suoi ricordi:

E così la mattina ci han fermato in piazza Dalmazia a Firenze e ci hanno chiesto i documenti a tutti e tre: gli altri due li hanno rimandati, e me mi hanno detto che dovevo seguirli perché il prefetto mi doveva parlare. Questi documenti li han controllati in un elenco che avevano questi repubblichini, dopo di che mi han fatto salire su un camion militare, dove ho trovato altri repubblichini con tanto di mitra, e altri sventurati, una decina o 12, ci hanno portato giù alle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella. C’erano tantissime persone, mi ricordo questo: di un certo Ballerini, di Campi, che fin dall’inizio cercò di farci un po’ di coraggio. Ricordo ci trovai un repubblichino di Bagno a Ripoli, un certo Calosi, e mi permisi di dirgli, «Guardi, la mi conosce, io non ho fatto nulla» e lui mi gridò che ero un traditore, insomma, e roba del genere, e quindi non ci fu nulla da fare: anzi, poi dissero che ci avevano messo nel gruppo delle facce sospette, giù, mentre si scendeva dalle aule che eravamo ai piani superiori, ci sistemarono a gruppi giù in questa specie di giardino al piano terra, e di lì dissero che eravamo delle facce sospette, ci fecero partire a gruppi, non mi ricordo, di 15, di 20, per farci salire sui camion, e quando passavamo davanti ci sputavano addosso, insomma, ce ne facevano di tutte[14].

Questo invece il racconto di un altro presidente della sezione ANED di Firenze, Mario Piccioli:

Fui preso, perché il giorno avanti presero mia madre che lavorava alla cartiera Cini in via Arnolfo. Lì c’era una grande fabbrica di cartotecnica e grafica, e appunto per gli scioperi che fecero furono prese diverse, che erano quasi tutte donne. E difatti la sera noi s’era a casa, e questa donna la ‘un tornava. E allora, che si fa, che non si fa? Dopo la mia zia ci avvisò che queste donne erano state portate alle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. […] Quando siamo dentro alle scuole (un repubblichino) mi porta su; queste donne l’erano tutte in un’aula, no? e quelle altre erano piene di uomini che avevano preso da Prato, da Empoli, dalle fabbriche. Mi buttarono dentro un’aula con loro. Dopo un poco, gli fo a un carabiniere. «Per piacere, sento piangere, c’è una stanza dove ci sono delle donne, ci deve essere anche la mi’ mamma, sicché già che sono qui …». M’accompagnò. Difatti c’erano tutte le donne della fabbrica e c’era anche mia madre ma passarono solo due minuti perché mi sentii riacchiappare per il colletto e portare via. Poi mi portarono da una signorina a una macchina da scrivere, era tedesca, ma parlava un poco d’italiano, e ci chiedeva i connotati e scriveva. Verso mezzogiorno ci dettero, a quell’epoca c’era i filoncini lustri di 300 grammi, un filoncino per uno e un pochino di formaggio. Allora si cominciò a dire, non ci lasciano andare, perché ci danno da mangiare! E difatti dopo un po’ venne uno della milizia: «Voi traditori della patria pagherete caro!». Chiamarono 20 di noi, io non c’entrai fra questi, loro andarono via e noi si aspettò. Dopo quello della milizia ritorna, la solita musica: altri 20 e io entrai in questa mandata. La piazza era piena e c’era preparato un camion con quattro Tedeschi, uno per lato, e noi 20 ci buttarono sopra; imboccarono da piazza Santa Maria Novella, quella stradina lì, Via degli Avelli, poi al bagagliaio della stazione dalla parte di dietro, di via Alamanni. Salirono su con questo camion e s’andette proprio dentro alla stazione. E lì c’era un mare di Tedeschi, una tradotta bell’e preparata, tutto il convoglio, e ci buttarono dentro un vagone bestiame[15].

Tra gli arrestati c’era inoltre Piero Scaffei, che a proposito delle vicende del marzo 1944 ricorda:

Ecco, una volta entrato nelle Scuole Leopoldine, dove c’è gli archi, dove ora c’è la nostra lapide, non si riuscì più. Mi presentai lì, c’era una signorina a un tavolo, tedesca, non so, o italiana che parlava il tedesco, questo non lo so. Dalle Scuole Leopoldine montai sul camion anch’io e mi portarono alla stazione di Santa Maria Novella […]. C’era i carri bestiame già tutti pronti, brum. Carri bestiame, niente, nudi e crudi. Tutti s’aspettava, tutti pensavano, «Ci manderanno a Cassino a fare trincee” perché il fronte era a Cassino in quel momento. Poi quando vidi che si andava verso Prato dissi “ma qui si va in su, si va al nord»[16].

È importante che cittadini, turisti e studenti conoscano questo luogo della memoria, poco noto come tale. Nonostante una piccola targa, posta sulla parete interna del loggiato, renda il giusto omaggio alle vittime, occorre spiegare cosa avvenne al suo interno. La memoria passa infatti anche attraverso la conoscenza di edifici che, come questo, furono scenario di persecuzione e anticamera dell’estrema violenza e della morte nei lager.

 

Note

1. Si veda sul tema il saggio da cui sono tratte parti del presente contributo: C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati. Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, a cura di B. Mantelli, Mursia, Milano 2010, pp. 620-658.
2. L’importanza dello sciopero fu compresa già allora dalla stampa statunitense. Il 9 marzo 1944 il “New York Times” (che parlò di svariati milioni di scioperanti) scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche il giudizio degli storici dei nostri tempi non differisce molto da questa analisi: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. Fu il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti». Si veda L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 225.
3. Ivi, pp.221-222. Si veda anche, a questo proposito E. Collotti, L’occupazione tedesca in Toscana, in Storia della Resistenza in Toscana, vol. I., a cura di M. Palla, Carocci, Roma 2006, pp. 85-146.
4. Per maggiori informazioni sugli scioperi in Toscana si rinvia a: F. Taddei, Il Pignone di Firenze 1944/1954, La Nuova Italia Editrice (Toscana Sindacato), Firenze 1980; in particolare L. Malgalaviti, Il Pignone tra Resistenza e ricostruzione, pp.119-144, che a p.128 testimonia come alle famiglie dei deportati il Pignone avesse inviato il 27 marzo 1944 lettere di licenziamento per «assenza arbitraria dal lavoro». Si vedano inoltre: L. Mancini, Le sigaraie: lavoro e organizzazione produttiva nella Manifattura tabacchi di Firenze fra Resistenza e dopoguerra, in Ricerche storiche, Edizioni Polistampa, Firenze gennaio-aprile 2004; Era la Resistenza. Il contributo di Empoli alla lotta contro il fascismo e per la liberazione, a cura di P. L. Niccolai e S. Terreni, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1995; M. Carrai, Lotte sindacali e democrazia: 1919-1948, p. 122, in La tradizione antifascista ad Empoli 1919-1948, atti del convegno (Empoli, 23 aprile 2004), a cura di P. Pezzino, Pacini Editore, Pisa 2005; M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Livorno 1987.
5. Gli stessi occupanti, nel rapporto della Militärkommandantur di Firenze del 13 aprile 1944 a poco più di un mese dal giorno della deportazione, ammisero che «un notevole numero (…) di italiani, del tutto innocenti, è stato deportato in Germania senza ragione». Toscana Occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, introduzione di M. Palla, Leo S. Olschki, Firenze 1997, p.143.
6. «Incitati dalla propaganda nemica e inaspriti dalla penuria di generi alimentari i lavoratori hanno tentato di scioperare anche nella provincia di Firenze, particolarmente a Prato, ad Empoli e nella stessa Firenze in diverse fabbriche. L’energico intervento delle autorità italiane, sollecitate dal Comando militare, e in particolar modo l’invio in Germania di alcune centinaia tra gli elementi perturbatori più pericolosi hanno fatto sì che l’agitazione ben presto rientrasse e il lavoro venisse ripreso. Attualmente nelle aziende nelle quali si è scioperato si preparano liste di nominativi degli scioperanti e tra questi si segnalano in particolar modo i sobillatori, allo scopo di poter disporre di materiale per arresti per future occasioni». Ivi, p. 116.
7. Esempi di liste con nomi di operai scioperanti sono conservate in copia al Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Figline di Prato.
8. Si veda presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Fondo Scuole Leopoldine, Affari spediti 1944, coll. SL 91, in particolare il documento a firma del tenente colonnello della Wehrmacht Gieseke del Comando germanico di Piazza di Firenze riguardante la «Requisizione di edifici per scopi di impiego nel lavoro» (Arbeitseinsatzzwecke). Di seguito la traduzione testuale della lettera datata 2 marzo 1944: «Le Scuole Leopoldine a Firenze Piazza Santa Maria Novella n. 10 sono da subito requisite per la Wehrmacht tedesca. La scuola è a disposizione della sezione amministrativa militare del lavoro come campo di raccolta (Sammellager) per manodopera italiana destinata al trasferimento in Germania».
9. Si veda il racconto di Mario Piccioli, contenuto in M. Piccioli, Da San Frediano a Mauthausen, a cura di B. Confortini, comune network, Firenze 2007.
10. Il museo, voluto fortemente dai sopravvissuti pratesi ai lager di Mauthausen ed Ebensee e inaugurato il 10 aprile 2002, è una delle poche strutture in Italia ad essere dedicata in modo specifico alla memoria della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
11. cfr. La Speranza Tradita. Antologia della deportazione politica toscana, a cura di I. Verri Melo, Pacini Editore, Giunta regionale Toscana, Firenze 1992, con un’appendice inserita nella seconda edizione del febbraio 2014, a cura della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato con le biografie dei testimoni intervistati, tra cui quelle che seguono nelle note.
12. Operaio al lanificio San Martino di Prato, fu arrestato in piazza San Francesco a Prato il 7 marzo 1944 nell’ambito di una retata effettuata in seguito agli scioperi. Come molti altri pratesi, Castellani si era recato nel centro cittadino per verificare gli effetti di un bombardamento alleato che si era abbattuto sulla città. Detenuto nella Fortezza di Prato (sede della Guardia Nazionale Repubblicana) e alle Scuole Leopoldine di Firenze, a Mauthausen fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.027. Il 25 marzo 1944 venne trasferito al sottocampo di Ebensee dove fu assegnato ad una squadra che curava i giardini delle SS. Successivamente, dopo aver disertato il lavoro per restare accanto ad un amico malato, fu inviato per punizione a lavorare nelle gallerie. Liberato ad Ebensee il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, è stato un testimone instancabile, prodigandosi per l’istituzione del gemellaggio della pace tra Prato ed Ebensee e per la creazione del Museo della Deportazione di Prato. R. Castellani, Intervista del 20 aprile 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20. 28.
13. Rivedibile alla visita di leva, Fiorello Consorti lavorava come operaio in una ditta tessile a Prato. Arrestato da un carabiniere e dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana l’8 marzo 1944 in via Mazzoni, fu detenuto nella Fortezza di Prato (sede GNR) e alle Scuole Leopoldine di Firenze. Arrivato a Mauthausen, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.076. Trasferito al sottocampo di Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice, fu liberato il 6 maggio 1945 dagli americani. F. Consorti, Intervista del 24 giugno 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20.
14. Ducci, che al momento dell’arresto lavorava come operaio, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft) a Mauthausen, dove ricevette il numero di matricola 57.101. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò dapprima all’ampliamento del campo e successivamente nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. A. Ducci, Intervista del 22 marzo 1988, in Fonti 4. 9. 16. 19. 20.
15. Commesso in una pizzicheria, Piccioli fu arrestato la mattina dell’8 marzo 1944 da un agente in borghese della Guardia Nazionale Repubblicana in piazza Santa Maria Novella, dove si era recato per cercare la madre, arrestata la sera prima per aver partecipato allo sciopero e reclusa nel centro di raccolta alle Scuole Leopoldine. La madre fu rilasciata insieme alle altre donne. Mario invece fu deportato lo stesso giorno nel campo di concentramento di Mauthausen. Numero di matricola 57.344, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft). Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice. Il 10 settembre 1944 venne trasferito nel sottocampo di Linz III e impiegato in lavori esterni, soprattutto nel trasporto merci. Durante un bombardamento alleato alla fine del 1944 il rifugio della sua squadra di lavoro venne colpito. Di trentadue uomini se ne salvarono solo quattro, tra cui Mario, che, ferito ad una gamba, fu trasferito in infermeria. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. M. Piccioli, Intervista del 28 gennaio 1988, in Fonti 4. 8 n.3-5/2010. 9. 16. 20. 23. 28.
16. Arrestato l’8 marzo 1944 in piazza Santa Maria Novella, Scaffei fu deportato lo stesso giorno. Classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevette il numero di matricola 57.399. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò come manovale all’esterno delle gallerie. Il 16 maggio 1944 fu ricoverato in infermeria in seguito ad un’infezione alla mano e successivamente trasferito nel Sanitätslager (infermeria) di Mauthausen. Probabilmente a metà agosto 1944 venne nuovamente trasferito a Linz III. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. P. Scaffei, Intervista del 21 gennaio 1988, in Fonti 4. 9. 16. 20.