Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



Guerra fascista e crisi di regime: la provincia di Pistoia tra il 1940 e il 1943

Il presente lavoro, tratto dalla tesi di laurea magistrale dell’autore, cerca di indagare come la guerra fascista (1940-1943), anche a livello locale, abbia contribuito ad alimentare quella crisi che il regime fascista si trovava a vivere da qualche anno prima dell’inizio della guerra, avvenuta attraverso il fallimento e l’incapacità di gestire tutti i problemi sociali riguardanti il fronte interno. Come campo di analisi è stata scelta la provincia di Pistoia. Lo studio di come la società italiana abbia reagito all’entrata in guerra, voluta fortemente dall’ideologia imperialista e bellicista del regime fascista, il quale però stava trascinando in un conflitto devastante un paese che non aveva preparato né sul fronte esterno né nel fronte interno, ci permette di comprendere meglio gli anni della guerra fascista e di capire come quel regime, che per venti anni aveva controllato totalmente il paese e che nella guerra aveva posto il suo fondamento, sia potuto nel giro di soli tre anni cadere sotto il peso del proprio fallimento.  La ricerca archivistica si è svolta principalmente all’Archivio di Stato di Pistoia nel fondo Sottoprefettura poi Prefettura di Pistoia: archivio di Gabinetto 1861-1944 che conserva una numerosa documentazione del periodo richiesto, con notizie provenienti da tutta la provincia di Pistoia dato che tutte le amministrazioni comunali dovevano fare riferimento al capo della provincia, come viene denominato durante la RSI, il prefetto.

Per comprendere meglio quanto detto finora è opportuno partire da un’analisi di cosa è stato il regime fascista a Pistoia e soprattutto durante la guerra. Partiamo col riassumere brevemente che il fascismo pistoiese, a differenza del panorama toscano, non ha saputo esprimere figure forti che incarnassero l’ideologia fascista del capo forte al comando e in particolare, dopo la morte del primo federale di Pistoia Leopoldo Bozzi, la provincia e i suoi organi di comando (federazione provinciale del PNF e prefettura) sono diventati un semplice trampolino di lancio per dirigenti fascisti verso cariche e province più ambite. Detto questo, la federazione provinciale del PNF non mancò di portare avanti la causa bellica del regime attraverso una martellante propaganda grazie al giornale della federazione pistoiese del PNF «Il Ferruccio».  In esso si possono trovare tra il ’40-’43 miriadi di articoli che si incastrano perfettamente nelle direttive del regime sulla gestione della stampa e che cambiano con l’evolversi del conflitto: troviamo nell’estate del 1941 una rubrica che rispecchia la propaganda antisovietica del regime chiamata «Taccuino antibolscevico» uscito in supporto dell’invasione italiana dell’Urss. Non mancano gli articoli anche in supporto del fronte interno che si basano per la maggior parte su esempi di vita quotidiana o di chi dona qualcosa in supporto della guerra o dei soldati stessi le cui lettere vengono ripubblicate sul giornale. Interessanti sono anche gli articoli in cui al posto di consigli pratici su come aiutare i cittadini a superare la crisi alimentare in corso, si elogiano le donne italiane e la loro amministrazione parsimoniosa della casa.[1]

Una lettura completamente diversa da quella dei giornali fascisti ci arriva dalle relazioni delle autorità sullo “spirito pubblico”. Se in un primo momento vediamo la popolazione che cerca di sopperire alle difficoltà dovute al conflitto (carenza alimentare in primis), già nel 1941 vediamo come sia Carabinieri che Questura trovassero nella popolazione un senso di stanchezza dovuto al fatto che il paese fosse in uno stato di guerra continua dalla guerra in Etiopia e che lo stesso nuovo conflitto si sarebbe allungato una volta che gli Stati Uniti fossero entrati in guerra. Il principale problema della popolazione però, secondo i rapporti, è la grave difficoltà nel reperire generi alimentari, soprattutto per le classi più povere che non possono sopravvivere con quanto dato dalla tessera annonaria e che non possono ricorrere ai prezzi gonfiati sia del mercato nero sia dei commercianti. Una situazione di malessere e avversione verso il regime che aumenta poi nel 1942, in cui carabinieri e polizia rivelano un palese malcontento «che potrebbe un giorno, prossimo o lontano, esplodere e degenerare».[2]

Dobbiamo inoltre considerare che la maggior parte della gestione amministrativa del fronte interno (rifugi antiaerei, alimentazione, profughi, mobilitazione civile eccetera) era stata delegata ai comuni, i quali però dovevano riferire, tramite un complesso e macchinoso apparato burocratico, a varie sezioni provinciali o comunali le quali a loro volta facevano capo o al prefetto o ad altri funzionari, rendendo di conseguenza complessa qualsiasi operazione. Inoltre specialmente ai podestà pistoiesi, il prefetto aveva ordinato di astenersi da erogare fondi non previsti nel bilancio anche per opere straordinarie. In sostanza le spese andavano contenute nei limiti del possibile; ciò ovviamente comportò una difficoltà immane nella gestione del fronte interno. Prendiamo ad esempio la creazione di rifugi antiaerei: un piano di prevenzione esisteva fin dal 1932 e nel 1935 la città poteva contare una copertura per circa il 37% della popolazione (i rifugi erano tutti ricavati da scantinati, niente costruito ex novo). Questo è dovuto al fatto che la città era stata considerata come zona non militarmente interessante e quindi pochi fondi furono stanziati nella protezione antiaerea, situazione che nel 1943, con la vittoria alleata nella campagna d’Africa cambiò radicalmente. Pistoia diventò lo snodo fondamentale per l’attraversamento degli Appennini attraverso la Porrettana e per la presenza delle Officine San Giorgio, convertite alla produzione bellica. Ad inizio 1943 i rifugi presenti e in fase di ristrutturazione potevano proteggere solo il 37% della popolazione, che era aumentata anche per la presenza di profughi, la quale non si fidava della sicurezza dei rifugi.[3] La situazione alimentare crollò lasciando la popolazione alla fame e allo strozzinaggio del mercato nero, con una vigilanza annonaria che non riusciva ad impedire che queste irregolarità cessassero. Ciò aumentò notevolmente il divario tra ricchi e poveri, i quali dovevano accontentarsi dei generi razionati; un divario aumentato anche dalle province vicine a Pistoia, la cui popolazione che aveva possibilità economiche maggiori acquistava generi alimentari a prezzi stratosferici, ma sottraendoli poi alla provincia pistoiese. Una carenza alimentare che peggiorò anche nell’inverno ’42-’43 in cui si registrò una notevole mancanza di patate e legumi, il cui enorme valore nutritivo rappresentava la principale fonte di sostentamento.[4] Un importante ruolo, che ha in parte contribuito alla crisi del regime, fu quello svolto dalla Chiesa cattolica che durante la guerra fascista cercava di prendere il più possibile le distanze da quel regime che aveva scagliato di nuovo il paese in guerra, lasciando il regime orfano di quella istituzione fondamentale per il consenso di una buona parte degli italiani che all’epoca si riconoscevano cattolici. Nelle pagine del periodico dell’Azione cattolica pistoiese, «L’Alfiere», possiamo trovare l’esempio perfetto di quel «patriottismo tiepido»[5] che contraddistinse la chiesa cattolica italiana nel sostegno propagandistico al conflitto: articoli su articoli che non elogiano la guerra, ma che invitano semplicemente al rispetto dell’ordine e al supporto morale dei soldati.[6] Una visione d’insieme di come la guerra fascista e la crisi di regime siano state vissute dalla popolazione civile, la possiamo trovare attraverso le fonti orali. Nelle testimonianze presenti nel fondo audiovisivo dell’Archivio storico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, possiamo trovare alcuni tratti comuni nelle esperienze vissute dagli intervistati: prima di tutto troviamo il trauma dello scoppio della guerra, insieme  alla fame patita. A differenza delle relazioni delle autorità qui si nota un altro divario tra chi viveva in città e chi viveva in campagna: i secondi potevano contare sui frutti del proprio lavoro, mentre i cittadini si ritrovarono a patire una fame nera. Le fonti orali ci aiutano anche a leggere e capire come e anche dove si sia sviluppato il fenomeno della Resistenza. Come poli della nascita di queste cellule antifasciste troviamo (oltre alla famiglia che rappresenta il primo contatto con l’antifascismo) la scuola e il luogo di lavoro: le Officine San Giorgio per esempio ritornano spesso nelle testimonianze dove i nuovi operai venivano avvicinati dagli operai più anziani che li “formavano” all’antifascismo.[7] Le storie e le memorie di queste persone possono però essere un interessante punto di partenza per delineare da dove e come la Resistenza pistoiese nacque grazie alle loro esperienze comuni. Ed è importante delineare una storia della lunga resistenza perché ciò ci permette di comprendere meglio le cause e le modalità con cui la crisi che ha portato al crollo del regime si è manifestata. Dietro ogni insuccesso del regime fascista, dei “vecchi” antifascisti (cioè antifascisti che avevano vissuto le violenze politiche pre-marcia) tramite discussioni mirate, quasi chirurgiche per non farsi scoprire, contribuirono a formare le menti di quei ragazzi e ragazze nati nei primi anni ‘20 che poi diventeranno protagonisti e protagoniste del movimento resistenziale.

In conclusione possiamo dire che lo studio del periodo 1940-1943 non debba essere così trascurato e che meriti un’attenzione un po’ più particolare da chi fa divulgazione storica e che si trova a trattare il tema della Seconda guerra mondiale in Italia, come credo sia anche imprescindibile uno studio del primo triennio di guerra per avere una maggiore comprensione del fenomeno della Resistenza. Come non se ne deve esimere chi si occupa di storia del fascismo. Il triennio ‘40-’43 rappresenta la prova della verità, in cui tutta la propaganda guerriera e trionfale del fascismo, fa i conti con la dura realtà dei fatti, cioè l’impreparazione non solo militare, ma anche civile, burocratica, finanziaria e amministrativa nel saper gestire una guerra totale, moderna e brutale sia sul fronte esterno che su quello interno.  Questo non significa svalutare il regime fascista o tentare di renderlo meno amaro; significa prendere consapevolezza e far capire con quale incoscienza il regime ha scelto di sacrificare i suoi soldati e la sua popolazione. Il regime è in crisi agli inizi degli anni ‘40 e la guerra fascista non fa che peggiorare questa crisi; provando a identificare un periodo in cui ciò accade, azzarderei l’ipotesi che se, come già sostengono altri valenti storici e storiche, il fascismo era in crisi alla fine degli anni ‘30, il 1940 segna l’inizio della fine, cioè il periodo in cui buona parte della popolazione decise di smettere di credere in esso, arrivando poi alla disillusione più completa tra il 1941 e il 1942, con il culmine raggiunto nel luglio del 1943 a seguito dell’invasione anglo-americana della penisola che ha poi portato al 25 luglio 1943. Le vicende tra il 1940 e il 1943 sono fondamentali per la lettura storica dei venti anni di regime fascista, «rappresentandone se vogliamo la “rivelazione”».[8]

[1] Vedi in «Il Ferruccio»: Paradiso sovietico, 14/7/1941; Mistica bolscevica, 8/12/1941; Disciplina di popolo nella certezza della vittoria, 3/1/1942; Attestati di solidarietà con i camerati alle armi, 3/1/1942; Lettera di una madre, 26/1/1942; Lettere dalla Russia. Vincenzo, bersagliere scrive alla moglie, 16/3/1942; Per la disciplina delle presenti circostanze, 12/7/1940.

[2] Archivio di Stato di Pistoia, fondo Sottoprefettura poi prefettura di Pistoia Archivio di Gabinetto 1861-1944, busta 266, fascicolo 1939 Rapporto al duce del l0 ottobre 1942 sulla situazione alimentare e sulle condizioni dello spirito pubblico. Relazione, carteggio ed atti, cc. 58. 1942.

[3] ASPt, f. Sottopref., b.132, f. 1154 23.3.”Difesa antiaerea. Esercitazioni ed esperimenti. Pratica generale”, cc. 44. 1932-1936; f. 1155 23.3. Difesa antiaerea. Esperimenti e ricoveri nella provincia di Pistoia, cc. 356. 1933-1934; fascicolo 1156 23.3. “Difesa antiaerea. Progetti protezione antiaerea’, cc. 58. 1934-1936; b.241, f. 1802 12.A.3. “Pistoia. Comitato provinciale protezione antiaerea, ‘Ricoveri, norme sull’oscuramento ed affari diversi, cc. 96. 1942-1945;

[4] ASPt, f. Sottopref., b. 243, f. 1806 12.A. 6. “Disciplina annonaria’ ‘. Disposizioni di massima, uffici addetti, infrazioni annonarie, cc. 1588. 1941-1944.

[5] L. Ceci, I cattolici tra «non belligeranza» e intervento italiano, in 1940: il fascismo sceglie la guerra, a cura di P. Corner, Roma, Viella, 2022, pp. 61-82.

[6] Si veda in «L’Alfiere»: B., T., Fede nella Provvidenza, 1/8/1943; C., G., La persona umana di fronte allo Stato, 12/9/1943; De Mori, G., Gli eroi del dolore, 18/4/1943; Debernardi, G., Appello di Mons. Vescovo ai parroci della Diocesi, 25/7/1943 e Esortazione del Pastore della Diocesi, 15/8/1943; M., R., Servire la patria 16/6/1940 e Sguardo al futuro, 25/10/1942.

[7] Molte delle testimonianze conservate presso l’ASISRPT e a cui si fa qui riferimento sono state trascritte in La guerra che ho vissuto. «I sentieri della memoria», a cura di M. Francini, Firenze, Unicoop, 1997.

[8] G. Fiocco, Guerra fascista e guerra italiana (1940-1943), in «Studi storici», 55/1 (2014), pp. 271-285, p.271.

 

Emanuele Vannucci è laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Firenze. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia, di cui è membro del Consiglio direttivo, in progetti inerenti la didattica, la ricerca e la divulgazione storica e l’archivio audiovisivo. I suoi interessi di studio sono legati alla Resistenza, all’Antifascismo, alla Seconda Guerra Mondiale e alla Public History.




“Non solo staffette…”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane toscane: una (parziale) ricognizione.

Avvertenza: il testo che segue è una versione ridotta e riveduta di un intervento presentato dall’autore al convegno Si fa presto a dire “staffette”. Le donne nelle carte delle formazioni partigiane svoltosi il 25-26 novembre 2024 presso la Casa della Memoria di Milano. Il convegno intendeva promuovere una proposta di ricerca dedicata al tema della presenza delle donne nelle carte delle formazioni partigiane. Attualmente il progetto, sotto il titolo Censimento di fonti sul ruolo delle donne nelle formazioni partigiane, è in fase di inizializzazione ed è promosso da Istituto Nazionale Ferruccio Parri e Consiglio Nazionale delle Ricerche – Dipartimento di Scienze umane e sociali, patrimonio culturale (CNR-DSU), in collaborazione con la rete degli istituti associati alla Rete Parri.


Che senza la partecipazione delle donne la Resistenza al nazifascismo, anche quella in armi, non sarebbe stata possibile – in Italia, così come in tutta Europa – è un’affermazione perentoria quanto cristallina che nessuno oggi, informato sui fatti e privo di qualsiasi pregiudizio, si sentirebbe certo di smentire. Per lungo tempo, però, l’immagine e il giudizio prevalenti sul conto del ruolo giocato dalle donne all’interno della Resistenza italiana furono di tutt’altro segno. Poiché della già di per sé esigua minoranza che riuscì ad aggregarsi alle formazioni partigiane, solo una minima parte poté farlo a tutti gli effetti in qualità di combattenti in armi – vuoi per scelta personale vuoi a causa di radicati pregiudizi di genere che le costrinsero a ruoli più tipicamente femminili – della loro esperienza, a guerra finita, si ricordò prevalentemente i “compiti di cura” e non già le minoritarie ma a volte significative “mansioni di guerra”, troppo limitate e sporadiche, appunto, per emergere nel prevaricante paradigma memoriale del “maschio guerriero” con cui la Resistenza fu a lungo raccontata.

Perché le cose cominciassero a cambiare si dovette attendere, come noto, almeno la fine degli anni Sessanta, quando grazie a un radicale ribaltamento di prospettiva e all’emergere di una nuova consapevolezza politica da parte del nascente movimento femminista, le individualità, le intenzioni, le speranze, le illusioni – insomma le biografie di molte resistenti – tramite lo strumento dell’oralità e della testimonianza personale (ri)guadagnarono spazio e centralità, divenendo così fonte e risorsa determinante per una diversa interpretazione del ruolo storico giocato dalle donne. L’asse portante del paradigma armato della Resistenza ne risultò così profondamente incrinato a favore di altre progettualità ed esperienze, le quali poi, nei decenni a seguire, trovarono più idonea sistemazione in nuove e plurali categorie storiografiche di Resistenza (variamente definita come “senz’armi”, “civile” ecc.) entro le quali la gamma delle mansioni e del ruolo ricoperto dalle donne risultò assai più ampia, ricca, in ogni caso “diversamente” centrale per la sopravvivenza del movimento resistenziale. Non più e non solo, perciò, staffette o combattenti, secondo la tradizionale dicotomia escludente che le aveva sin lì relegate prevalentemente (e spesso con un diverso giudizio di valore) entro il primo dei due termini, ma più variamente, informatrici, sabotatrici, agenti oltre le linee, propagandiste, portaordini, infermiere, cuoche, ecc. ecc. Una varietà di mansioni e responsabilità che portò a riconoscere in esse il perno centrale e indiscutibile attorno al quale i partigiani poterono di fatto creare e mantenere i loro fondamentali collegamenti con il territorio e la popolazione civile e rurale.

La ricchezza del quadro poté esser raggiunta solo grazie all’emergere delle fonti della soggettività (memorie personali, diari, interviste, testimonianze dirette) raccolte e messe a disposizione per la prima volta da pioneristici lavori, di cui spesso le stesse donne si resero protagoniste, oltreché come testimoni dirette, anche come ricercatrici e storiche. Anche in Toscana, come in altri contesti regionali che avevano conosciuto importanti movimenti di resistenza, questi primi lavori cercarono coraggiosamente di andare oltre la tradizionale parzialità e reticenza delle fonti coeve ai fatti, quelle prodotte cioè nel farsi degli eventi o subito dopo la fine del conflitto dalle stesse formazioni partigiane e dagli organi dirigenti della Resistenza. La pubblicazione nel 1978 da parte del Comitato femminile antifascista per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione della Toscana del volume Donne e Resistenza in Toscana[1] costituì ad esempio un primo importante, benché per certi versi ancora incerto, tentativo di far emergere sui pochi documenti d’archivio e le consolidate ricostruzioni disponibili la voce diretta delle protagoniste[2]. Nonostante il valore aggiunto dei nuovi squarci conoscitivi proposti, il volume, soprattutto per alcune province, prendeva atto di un certo effettivo ritardo nella partecipazione femminile alla Resistenza, limite che veniva giustificato richiamando, da un lato, i tempi relativamente brevi della Resistenza toscana – la quale, nonostante la sua consistenza e il suo carattere intenso di lotta, era durata meno al confronto con quella sperimentata nelle regioni dell’Italia settentrionale – e, dall’altro, il peso della tradizionale struttura economica mezzadrile della regione, nella quale, alla centralità produttiva svolta dal lavoro delle donne non era corrisposta, a causa dell’isolamento da loro patito all’interno delle famiglie tradizionali, un’altrettanta centralità sociale che fosse in grado, soprattutto nelle campagne, di coinvolgere attivamente madri e figlie nelle organizzazioni antifasciste e resistenziali[3].

Comitato femminile Antifascista, “Donne e Resistenza in Toscana”, Giuntina, Firenze 1978

È curioso, ma al tempo significativo, che questi stessi caratteri che avrebbero costituito un freno alla partecipazione delle donne toscane al movimento resistenziale, dai primi storiografi della Resistenza venissero invece proposti positivamente come i tratti originali del modello resistenziale toscano, che era stato appunto temporalmente breve ma assai combattivo e capace soprattutto di farsi trovare nel momento di avvio del processo di liberazione dei territori regionali, inaugurato nell’estate del 1944, a uno stadio piuttosto avanzato di maturità politica e militare; un modello resistenziale che, oltretutto, se proprio in quel decisivo frangente era risultato vincente, lo doveva soprattutto alla stretta saldatura prodottasi tra mondo mezzadrile e Resistenza, tra contadini e partigiani[4]. Una conferma in più, insomma, d’una Resistenza sin lì letta ancora con un’ impostazione piuttosto carente sul piano della sensibilità di genere. Una lettura che, d’altra parte, anche la stessa documentazione partigiana coeva ai fatti tendeva spesso a confermare, anche se forse con qualche potenziale sfumatura in più.

Tornare a interrogare le carte partigiane del tempo, non già per chiedere a esse materiali e stimoli utili ad uno studio sulla storia delle donne nella Resistenza, quanto invece per indagare in modo possibilmente meno liquidatorio e parziale quale immagine (per quanto sfocata, silente, artefatta o limitata possa risultare) nei diversi contesti operativi e territoriali quelle stesse carte ci restituiscono dei percorsi e delle traiettorie femminili, può forse essere un tentativo valido e fruttuoso ai fini di un più approfondito studio sulla Resistenza tout court. Cogliere in sostanza “cosa” quelle carte partigiane – che intercettano, registrano o di contro tacciono la presenza femminile nelle formazioni partigiane – ci dicono della Resistenza stessa. Può essere che ne emerga un ritratto già noto e per certi versi stantio, ma anche che invece ne affiorino a tratti sfumature insolite e persino elementi inattesi. Certo, ciò se si è disposti a ritornare sulle carte delle formazioni – per così dire – senza pregiudizi di genere (da entrambe le parti), ma con la consapevolezza di quanto negli anni è stato acquisito grazie alla sollecitazione della soggettività delle protagoniste del tempo. Si tratta, naturalmente, di una ricerca ancora in buona sostanza da fare, anche per il caso toscano.

Quanto segue, non è perciò che una assai parziale e approssimativa restituzione di un primo tentativo di carotaggio condotto senza alcuna pretesa di esaustività su un campione assai ristretto di fonti partigiane coeve, raccolte nel fondo Resistenza armata in Toscana. Si tratta di un fondo conservato presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea, nel quale sono contenute relazioni, bollettini, corrispondenza e documentazione varia (in originale e, soprattutto, in copia) relativa a tutte le formazioni partigiane della regione.

Come molte altre serie documentali sulle formazioni toscane, anche per questo fondo esiste almeno un limite euristico che è il caso di premettere e che è connesso al problema della “coevità” delle fonti che raccoglie. Gran parte della documentazione che vi si conserva è costituita infatti dalle relazioni generali sull’attività delle formazioni che, in quanto stese nella gran parte dei casi a partire dalla liberazione dei territori dove queste ultime operarono, sono spesso di qualche mese successive ai fatti descritti. Vi è naturalmente anche corrispondenza e documentazione prodotta nel farsi degli eventi, ma questa costituisce una minoranza, e spesso è oltretutto lacunosa e incerta nei riferimenti. Delle relazioni generali delle formazioni, dunque, conosciamo già i conclamati limiti come fonti: esse costituiscono intanto documenti performativi, che puntano cioè a proporre una raffigurazione della Resistenza rispondente ad alcuni obiettivi successivi, quali quelli del riconoscimento partigiano, e pertanto risultano sensibili a diverse variabili, quali ad esempio i diversi rapporti di forza esistenti tra i partiti dell’unità antifascista. Oltretutto, il più delle volte, questa documentazione, che (con pochissime e quasi del tutto rare eccezioni) è scritta da uomini, riproduce una visione sostanzialmente combattentistica e marziale della Resistenza, priva perciò di un’equanime sensibilità nel registrare il diverso coinvolgimento e lo squilibrio dei ruoli tra i generi. Se la performatività di queste fonti rispetto al problema della partecipazione delle donne agisce spessissimo da filtro, va detto però che non sempre lo fa secondo le logiche di una deliberata esclusione o di un sostanziale ridimensionamento al ribasso del ruolo delle donne. A volte, infatti, emerge dalle relazioni partigiane l’interesse e la preoccupazione a che il ruolo e la presenza delle donne – seppur comunque difficile da inquadrare al di là delle consuete mansioni assistenziali loro riconosciute – non risultino però sottodimensionate. Da parte di qualche estensore di relazione si dichiara persino l’augurio esplicito a che alle proprie gregarie – benché presentate semplicemente come staffette – in nome del coraggio e del sacrificio dimostrati venga riconosciuta la qualifica di partigiane combattenti, indipendentemente da che i requisiti assai stringenti della normativa di riferimento lo consentano o meno.

(ISREC – Lucca) La viareggina Didala Ghilarducci con il compagno Ciro Bertini “Chittò” che seguì sulle Alpi Apuane per combattere i nazifascisti

Certo, l’impressione generale che si ricava da una ricognizione parziale di questo tipo, è che non vi siano stravolgimenti rispetto a quanto ci immaginiamo possa emergere sulla partecipazione delle donne dalle carte partigiane . Affiora però di contro e anche a dispetto dell’uso totalizzante della categoria di “staffette” una maggiore varietà dei campi di impiego del personale femminile, con mansioni e incarichi, continuativi o occasionali, che a volte si muovono lungo un confine piuttosto labile tra funzioni logistico-assistenziali e attività strettamente connesse con l’azione armata vera e propria (anche se poi,  rispetto a quest’ultima, le donne appaiono più spesso nelle vesti di coadiuvanti dei compagni maschi). Continua comunque a resistere alla luce della nostra parziale ricognizione, l’idea complessiva di una specializzazione delle donne all’interno delle formazioni declinata in attività preferenzialmente assistenziali o informative, specializzazione che è certo anche frutto di un’esclusione da un concorso in armi più rilevante prodotto negli estensori delle relazioni dal permanere inconscio di quadri mentali di riferimento che guardano alla presunta minorità (fisica, morale, emotiva) delle donne.
Talvolta, questa minorità filtra in modo esplicito nella documentazione partigiana stesa dai comandi, anche se come elemento forse inconscio legato a retoriche e strategie espressive consuetudinarie e introiettate: «benché donne…», pare talvolta di leggere in tralice nelle argomentazione dei loro comandanti, come a voler dire che non poche delle loro gregarie sembrano quasi sorprendere questi ultimi per le capacità di imporsi sacrifici e rispondere coraggiosamente al dovere che impone la lotta di Liberazione, quasi non fossero da meno degli uomini. Formule avversative di questo tipo non sono rare e se anche sono utilizzate per esprimere in realtà giudizi positivi su quelle singole personalità che si dimostrano in qualche modo capaci di superare le aspettative, spesso al ribasso, che la loro condizione di genere sembra suggerire, in realtà risultano sintomatiche di un filtro tipicamente maschile nella lettura dei caratteri individuali.

Le signorine Wanda Giorgi, Editta Pinelli e Alfonsine Blasta, riferisce ad esempio Vittorio Turri il comandante del servizio informazioni della Divisione partigiana “Lunense”, «benché tutte assai giovani», dimostrano «una serietà e una abilità non comune» e in parte, appunto, inattesa[5]. Di Maria Zannoni, lo stesso Turri dice d’essere questa «una delle migliori staffette sia per l’età che per l’aspetto»[6]. L’indulgere nell’osservazione della forma estetica, se può risultare fuori luogo, sottende probabilmente il fatto che quest’ultima può costituire al tempo una dote e un’arma utile nell’espletamento di una funzione non di rado attribuita al personale femminile, quella cioè della “persuasione” o, come recita la formula moralmente più compromettente spesso usata nelle carte partigiane, della “corruzione” del nemico, che, al pari di una seduzione, viene raggiunta da queste temerarie anche attraverso il loro personale fascino. Nel giugno del 1944, il comandante della 32° Brigata Rosselli “Renzo Galli”, che opera a Siena, dopo la cattura da parte dei tedeschi è processato e condannato a morte; tuttavia, si legge in un rapporto, «elementi femminili» appartenenti alla formazione «corrussero le sentinelle», di modo che il Galli poté approfittare, fuggendo ai suoi carcerieri attraverso una fogna[7]. Nel pistoiese, Giuliana Giavazzi della Brigata GL, mentre si «intratteneva coi militi» della GNR lasciava il tempo ai compagni di introdursi nella caserma per sottrarre armi e munizioni[8]. La già citata Wanda Giorgi, informatrice della Divisione “Lunense” e prima di essa della 4° Brigata “Ligure” operante in Lunigiana, nubile, ventenne, presumibilmente avvenente, si manteneva «in continuo contatto con i soldati tedeschi e fascisti» a cui «sapeva estorcere le notizie più importanti». Anche quando catturata dai tedeschi il 5 dicembre 1944, aggiungeva il rapporto, «ella sosteneva lo stretto interrogatorio senza fare alcuna rivelazione che potesse nuocere ai suoi compagni»[9].

Quella informativa, lo si sa, è una delle mansioni, assieme a quella di staffette, in cui le donne bene o male si specializzano, anche perché, come riconoscono i comandi, a loro è concessa una libertà che i compagni maschi non possiedono. Scrive, a riguardo, nella sua relazione conclusiva Antonio Mattesini, maresciallo di fanteria già appartenete al comando del SIM prima dell’8 settembre e poi ideatore nell’aretino di un nucleo clandestino di informazioni militari poi inglobato nella 23° brigata Garibaldi “Pio Borri”: «si è notato che i più anziani di età e le donne in specie (…) sono sempre stati i più abilissimi informatori in quanto indisturbati penetrano con facilità nei ritrovi e nei luoghi attingendo le più sicure fonti militari»[10]. E pur tuttavia, nonostante questa ammissione, l’impiego effettivo dell’elemento femminile nel centro informativo del Mattesini risulta piuttosto minoritario. Su 41 agenti attivi, 39 sono uomini e solo 2 donne, per di più sorelle (Rosa e Savina Palombi), mentre ancora tra i collaboratori occasionali 28 sono uomini e 4 donne. Decisamente più nutrita risulta invece la rappresentanza femminile entro il Servizio Informazioni Militari della citata Divisione Garibaldi “Lunense”, la formazione ispirata nell’agosto 1944 da Roberto Battaglia al confine tra Garfagnana e Lunigiana. Il servizio dispone infatti di una dozzina di «addette a vari osservatori», sorta di «staffette di vigilanza» alle quali è dato il compito di osservare da punti prestabiliti, spesso coincidenti col luogo di residenza o la sede lavorativa, tutti gli eventuali spostamenti di fascisti e tedeschi che esse poi riferiscono al comando della Divisione. Questo personale femminile svolge talvolta anche missioni mobili che comportano anche il doversi infiltrare presso il nemico nel tentativo di estorcere informazioni. È il caso della già citata Wanda Giorgi o di Editta Pinelli “Annetta” «in frequente contatto con i soldati tedeschi e fascisti» ai quali – viene detto della seconda – «sapeva prendere le notizie più importanti»[11]. Molte di queste informatrici sono per lo più giovani, nubili, spesso insegnanti o impiegate pubbliche nei comuni della zona da dove accedono perciò a informazioni preziose sugli occupanti. Vi sono però altre che vengono da famiglie contadine, come nel caso di Fanny Pellegrini di Fivizzano, e che oltretutto vivono nel difficile contesto di guerra disagiate condizioni economiche. Altre ancora sono sposate e hanno famiglia e prole, fatto questo che le espone ulteriormente a un pericolo maggiore. Arduina Grassi Incerti ne ha addirittura sei di figli; Maria Altieri, casalinga, ha tre bimbi in tenerissima età coi quali, oltretutto, è costretta a passare il fronte quando la sua attività di informatrice viene scoperta ed è perciò letteralmente inseguita dai tedeschi che le devastano pure casa[12].

Il “mimetismo” relativo cui beneficiano le donne nel contesto dell’occupazione, dove sono gli uomini a esser di per sé stessi sospetti, le rendono perciò adatte per compiti di collegamento e raccolta di informazioni, attività che richiedono mobilità e, appunto, passare inosservate. Aspetto, questo, che registrano puntualmente le carte partigiane: «il servizio di collegamento», si legge negli incarti della Brigata “Buozzi” legata al Psiup fiorentino, «doveva esser fatto attraverso il nostro elemento femminile, dato che ad esso soltanto poteva esser permessa una certa libertà di circolazione»[13]. Similmente si esprime anche il comandante della Brigata Garibaldi “Gino Menconi” operante sulle Apuane: «è di valore incalcolabile l’opera svolta dalle donne nel campo dei collegamenti sia nei momenti di stasi che in quelli di combattimento. Il maggior numero di staffette fu sempre reclutato fra le donne ed esse si dimostrarono insuperabili in determinati servizi che richiedevano la massima prudenza»[14].

Sui rischi in cui le staffette possono incorrere la casistica è sterminata, come i pericoli nei quali possono potenzialmente incappare. Giusto alcuni esempi che le carte delle formazioni toscane ci riportano. Il 3 luglio 1944 le sorelle Lidia e Anna Lia Innocenti, staffette della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, sono inviate attraverso le linee nemiche nell’area di Rigutino per appurare l’eventuale spostamento delle artiglierie tedesche. Svolgono il loro incarico egregiamente, ma sulla via del ritorno sono seguite da due militari tedeschi che, insospettiti, si fanno condurre presso l’abitazione delle due giovani. Qui, accusate di spionaggio, le costringono a un duro interrogatorio: «siccome le due donne tengono un contegno sprezzante», si legge nel report della formazione, i militari le violentano. Anna Lia viene tragicamente uccisa sul momento, assieme alla madre che tenta di opporsi, mentre Lidia rimane gravemente ferita[15]. Il 7 luglio, un’altra collaboratrice di una compagnia di un battaglione poi rifuso nella stessa Brigata “Pio Borri” viene uccisa dai tedeschi nella zona di Castiglion Fiorentino in Val di Chiana durante un’analoga missione oltre le linee volta ad accertare la dislocazione e la consistenza delle artiglierie tedesche. La donna è Gabriella Brogi, una cittadina belga che porta il cognome del marito italiano, Pericle Brogi (il nome effettivo, che le carte partigiane non dicono, è Gabriella Maria De Jaquier De Rosée), e che si era fatta collaboratrice del movimento locale di resistenza sin dalle prime fasi. Fatto abbastanza singolare, a seguito della sua tragica morte, le sarà intitolata la 2° compagnia (“Gabriella Brogi”) del 2° battaglione della 23° Brigata “Pio Borri”[16]. Nell’agosto del 1944, in piena battaglia di Firenze, ci sono staffette che, come Teresa Cantini passano più volte il fronte tedesco attestato sul Mugnone per collegare gli insorti nei quartieri sotto controllo nemico con i comandi militari partigiani installati nella parte già liberata della città[17]. La staffetta Dina Giannelli, mentre si reca a portare una comunicazione al comando del distaccamento SAP del PCI prima zona di Firenze, viene colpita a morte da raffiche di mitragliatrice, mentre poco dopo un ordigno colpisce una sua compagna, la staffetta Lida Salani, che rimane gravemente ferita[18]. Il 3 settembre 1944, Giuliana Barbetti, 23 anni, staffetta del comitato militare del CLN di Lucca, incaricata di portare attraverso le linee alle avanguardie alleate rilievi topografici sulle fortificazioni tedesche della Gotica, incappa in un infernale fuoco d’artiglieria ed è ferita gravemente da schegge di granata al fianco e alla gamba[19].

(ISRT) Tina Lorenzoni, crocerossina e staffetta della Brigata GL “V”. Catturata e uccisa dai tedeschi durante la battaglia di Firenze.

Contrariamente agli esempi sopra riportati, ci sono formazioni, operanti in contesti di periferia e dal relativo valore militare, che non sembrano invece voler esporre i propri effettivi femminili a rischi inutili, anche se non è chiaro fino in fondo se ciò sia conseguenza di una consapevole volontà di salvaguardia dell’elemento femminile o di un’implicita ammissione della loro inadeguatezza a mansioni di guerra, o entrambe le cose. La Sap di Fibbiana, Montelupo Fiorentino, ad esempio, ha solo due donne all’attivo: Clara Pozzolini, che è un’impiegata dello stato civile del comune a cui sono stati attribuiti compiti di vigilanza, e la staffetta Maria Cioni. Come ci tengono a sottolineare i comandi nella relazione, sono però i soli effettivi maschi della formazione che vengono «impiegati in azioni pericolose», anche se poi la Cioni, che grazie alla sua conoscenza dell’inglese si troverà a far da interprete con le avanguardie alleate, dovrà espletare comunque questa sua mansione «anche in momenti particolarmente pericolosi per il violento cannoneggiamento»[20]. D’altro canto, nelle aree in cui si combatte, qualsiasi funzione anche non direttamente marziale attribuita al personale femminile si rivela lo stesso rischiosa: «pericolosissimo pure era il servizio di raccolta e di porta feriti disbrigato in maniera lodevole dalle staffette femminili», si legge nei report della Brigata Garibaldi fiorentina “Sinigaglia”, una delle più combattive. La Brigata GL “Vittorio Sorani”, attiva nei giorni della battaglia per Firenze nel quartiere fiorentino di Rifredi, allora sotto occupazione tedesca, organizza un ambulatorio clandestino per l’assistenza alla popolazione civile. Una sua effettiva, Tina Lorenzoni, crocerossina e tra le più attive staffette fiorentine, accompagna una partoriente in condizioni non ottimali «attraverso la linea nemica sotto varie raffiche di mitragliatrice» fino nel centro della città, già in mano alleata[21]. Non molto dopo, come noto, la stessa Lorenzoni, nel corso di un’altra missione di infiltrazione oltre le linee nemiche sulle colline a nord di Firenze verrà catturata e fucilata dai tedeschi.

Nella documentazione partigiana, non di rado si trovano a riguardo del personale femminile notazioni che rimandano ad attività collaterali all’azione militare vera a propria, spesso legate al sabotaggio, le quali, se non implicano nella pratica l’uso delle armi, richiedono quantomeno il possesso di conoscenze tecniche o un minimo di dimestichezza bellica e balistica normalmente appannaggio delle componenti maschili. Le due staffette della citata Brigata “Buozzi”, Lidia Albertoni e Ludovica Marcella Paperini, mentre la formazione è impegnata a Firenze sulla linea del Mugnone, vengono incaricate di recarsi oltre il tracciato difensivo tedesco «per individuare i punti di collocamento delle mine» che devono esser fatte brillare per rallentare la ritirata tedesca[22]; un compito che, immaginiamo, presupponeva il possesso di qualche cognizione sul funzionamento e la portata degli esplosivi. Meno complessi, tecnicamente, ma non meno rischiosi risultano altri incarichi di sabotaggio, talvolta affidati a personale femminile interno o esterno alle bande. La signora Poggi, ad esempio, collaboratrice della formazione comandata dal capitano della regia Marina Giuseppe Cecchini e attiva nella bassa valle del Serchio, in provincia di Lucca, veniva spesso incaricata dal comando di «recarsi in determinati punti a tagliare i fili telefonici»[23].

La questione capitale del porto effettivo delle armi da parte del personale femminile sembra invece sfuggire o appena trapelare dalla documentazione collazionata per questa parziale ricognizione. Ogni volta che nelle carte si trovano descrizioni dettagliate su azioni militari e se ne indicano i membri che ne prendono parte, molto raramente compaiono tra essi nomi femminili. La ragione, naturalmente, è ovvia e rispecchia l’effettiva esiguità della partecipazione in armi da parte delle donne aggregate alle formazioni nel contesto di combattimenti. È oltremodo significativo, comunque, il fatto che le volte in cui si trovano nei documenti riferimenti di questo tipo non di rado è in conseguenza di un coinvolgimento improvviso e casuale da parte di staffette o componenti femminili in scontri col nemico . Nel resoconto relativo a un attacco subito dalla 4° compagnia del 1° battaglione della 23° Brigata aretina “Pio Borri”, ad esempio, delle patriote Detti Concetta, Ciofini Ester e Romani Anna Maria si specifica che «accorse sul posto di combattimento ad informare il comandante di compagnia circa i movimenti tedeschi vengono coinvolte con i partigiani nel combattimento e rimangono anch’esse ferite»[24]. Diversamente, in un contesto d’emergenza in cui gli effettivi partigiani scarseggiano, come accade ad esempio in una situazione di prima linea, può esser richiesto alle stesse staffette di svolgere attività di vigilanza armata e quindi, all’occorrenza, l’uso delle armi. Tra il 9 e il 10 agosto 1944, si riporta ad esempio in un report della 3° Brigata “Rosselli” impegnata nella liberazione di Firenze, «dato il precipitare della situazione tutti, indistintamente, dai comandanti alle staffette femminili, prestarono ininterrotto servizio armato».

La guerra partigiana nelle carte delle formazioni risulta principalmente affare per uomini. D’altra parte, la lente tradizionale attraverso la quale si legge da subito quell’esperienza è tipicamente maschile e mette al centro del discorso le virtù marziali, i valori combattentistici, la morte, gli eroismi. La partecipazione femminile, pur se molto più articolata, continua perciò a rimanere espressa con formule discorsive e retoriche prettamente ancillari, che ne mettono in luce semmai il ruolo di assistenza materiale e morale alla Resistenza in armi. Non è però questo sguardo, così parziale e soggettivo, esito esclusivo del fatto che a compilare le carte delle formazioni siano quasi sempre partigiani maschi. Appare significativo in tal senso che, anche per il caso toscano, questa visione ancillare della Resistenza delle donne trovi alcune conferme persino in quelle pochissime relazioni stese da attiviste e compagne responsabili di organizzazioni femminili legate alla Resistenza. Un esempio, tra altri, può essere la relazione stesa da Flora Giannini, responsabile del gruppo femminile della SAP di Carrara legata alla FAI (Federazione Anarchica Italiana). Si tratta di sette cartelle fitte che rivendicano al gruppo di donne in questione una gamma di attività in grado di spingersi ben oltre i meri aiuti materiali forniti ai partigiani delle Apuane e che abbraccia invece anche servizi di spionaggio, di porta armi e munizioni o di cura morale e psicologica ai combattenti. C’è, inoltre, racchiusa in quelle pagine, la netta rivendicazione di un’adesione indefessa e incondizionata da parte delle donne carrarine alla causa della Resistenza, adesione che non si cura dei sacrifici e delle difficoltà subite, e che anzi vuol porre in sodo la capacità di resistenza e adattamento delle donne della formazione alle stesse dure condizioni di vita in montagna che sperimentano i partigiani in armi. Ma, oltre a questo, pare emergere in filigrana come il loro ruolo, per quanto effettivo ed entusiasta, risponda a una vocazione orientata a dare tutto in funzione dei partigiani combattenti, che esse seguono infatti quasi come ombre, fornendo loro tutto ciò di cui essi abbisognano e non sono in grado di procurarsi. Una certa idea di sussidiarietà, forse imposta dalla forma mentis della società del tempo o forse in parte anche dalla volontà di toccare in chi doveva legger e valutare quel documento le giuste corde sentimentali e psicologiche, non era perciò del tutto assente nel modo con cui si descriveva da parte delle stesse protagoniste la collaborazione del gruppo femminile. Peraltro, il tutto espresso con un linguaggio intriso di patos sacrificale che non si discostava molto da quello infuso in molte altre relazioni partigiane di fatti d’armi:

Per le brave compagne non esistevano né pesi né fatiche, ma animate da quel coraggio che è forza e fede dell’ideale seguivano quei prodi da uno sganciamento all’altro, sotto il tiro del cannone e sotto il fischio della mitraglia, pur di portare loro il necessario: armi, munizioni e viveri abbondanti. Esse erano messaggere in tutti i pericoli, sempre pronte alla voce del dovere di giorno e di notte, non arrestandosi davanti a nessun ostacolo pur di portare a termine le loro missioni […] Esse con fulgido esempio sfuggendo alle insidie nemiche, salivano i monti affrontando tutti i pericoli, sfidando la morte per portare non solo il pane, nutrimento materiale, ma la loro buona parola che era conforto morale a quei prodi, che celati tra le creste frastagliate, passavano i giorni pieni di tristezza e privazioni, lontani dalle loro case, dai loro cari, dove un pensiero costante li portava ogni dì, dove l’attesa di quella libertà li tendeva frementi d’azione. Era vicino a loro, che esse si portavano dopo i duri combattimenti per raccogliere i feriti, prodigando loro cure ed attenzioni, dando sepolture occasionali e degne per toglierli dalle mani del nemico e toglierli al loro oltraggio.[25]

Anche quella della partigiana-Antigone che, come la grossetana Norma Parenti, a suo rischio personale sottrae i corpi dei compagni caduti all’oltraggio del nemico assicurandone contro il divieto di quest’ultimo degna sepoltura – una funzione caritatevole quanto rischiosa, coraggiosa quanto deflagrante sul piano della disobbedienza al comando della guerra nazifascista –, è elemento che trapela talvolta nelle stesse carte partigiane, anche se forse non in tutta la sua pienezza di significato.

(ToscanaNovecento) Norma Parenti, antifascista e partigiana grossetana, catturata, seviziata e uccisa dai tedeschi. Medaglia d’oro al valor militare.

Da questa ricognizione incerta e parziale, sfuggono invece molte altre questioni, sulle quali talvolta, ma non sempre, le carte partigiane tacciono o si mostrano reticenti, ma che proprio per questo sono però altrettanto importanti. Tra queste, ad esempio, il problema della convivenza e della condivisione degli stessi spazi e delle stesse condizioni di vita partigiana all’interno delle formazioni tra personale maschile e femminile, e dunque la questione della moralità e della disciplina che tali rapporti sollevano. Come ha ricordato tra altri Santo Peli, la presenza di donne giovani e potenzialmente desiderabili tra le file partigiane sollevò talvolta da parte dei comandi decisi «moralismi», volti a frenare l’insorgere nella truppa maschile di speculari «fantasie»[26], moralismi che lasciarono tracce entro i codici disciplinari che le singole formazioni si diedero e nei provvedimenti disciplinari che i comandi in alcuni casi sanzionarono. Tracce, queste, talvolta recuperabili nei carteggi e nella documentazione partigiana coeva.

Altra questione che trapela dagli incarti partigiani, con sensibile accelerazione a partire dalla vigilia della fine della guerra, è quella inerente il problema del riconoscimento partigiano per staffette e, più in generale, per il personale femminile. Considerazioni e sensibilità anche divergenti sul da farsi presero in quel frangente ad animarsi tre le stesse file partigiane. Sicuramente, da un lato, agì da parte di alcuni comandi la volontà di mantenere la guerra di Liberazione nell’alveo del paradigma combattentistico del maschio guerriero, certificandone perciò i suoi effettivi come tali e mantenendo di conseguenza la partecipazione femminile su di un piano meramente assistenziale. Dall’altro, invece, non mancarono preoccupazioni contrarie, perché si tenesse conto cioè, premiandolo adeguatamente, del valore non solo sussidiario e simbolico del contributo offerto alla Resistenza dalle donne. Il tenente di fanteria Luigi Geri, comandante della formazione “Valoris” collegata al PCI di Pistoia, ad esempio, dopo aver parlato dell’opera svolta dalle sue staffette Liana Pisaneschi e Marina Capponi chiudeva la sua relazione generale con queste parole: «Ritengo doveroso segnalare l’operato delle staffette che si sono prodigate sprezzando il pericolo, fino all’inverosimile, portando attraverso le maglie nemiche armi, munizioni e materiale di propaganda. A queste, pur non avendo partecipato a combattimenti deve spettare la qualifica di partigiane combattenti»[27].

Talvolta, come può leggersi nei carteggi che si scambiano i comandi partigiani toscani già a partire dalla fine del 1944, nella compilazione dei ruolini e nel rilascio dei primi attestati può succedere che alcuni di essi si dimostrino un po’ laschi nel concedere a collaboratrici e patriote il riconoscimento di partigiane combattenti, talvolta facendo ciò a scopi puramente assistenziali, talaltra seguendo anche logiche premiali su base politica o dietro mirate raccomandazioni. Situazioni che però si scontrarono spesso con chi, non solo insisteva perché il rilascio delle qualifiche rispecchiasse i criteri di legge, ma si dimostrava preoccupato di contenere l’esperienza resistenziale entro un canone puramente combattentistico e, come tale, eminentemente maschile. Di fronte alla troppo leggera concessione di alcuni tesserini attestanti la qualifica di partigiane combattenti per una ventina di donne della fiorentina Brigata Garibaldi “Sinigaglia”, un piccato esposto inviato nel settembre 1944 al comando delle Garibaldi fiorentine protestava asserendo trattarsi in quel caso di donne chiamate in realtà dalla formazione «a disimpegnare il lavoro di pulizia, di cucina e di sguattere». Valutata la situazione, in quel caso il comando garibaldino propose di considerarle perciò come «servizio ausiliario», includendole tra le richiedenti la qualifica di «patriota»; grado che poi la Commissione regionale toscana riconobbe per alcune di loro. Almeno una di esse, sappiamo,  fece ricorso alla Commissione di secondo grado per ottenere il titolo di partigiana combattente, che tuttavia le fu rigettato[28].

Che vi siano nella documentazione partigiana coeva spunti e appigli ancora utili per approfondire e problematizzare alcune fondamentali questioni potenzialmente in grado di illuminare non solo (o non tanto) il ruolo effettivo della partecipazione femminile alla Resistenza ma in senso più in generale la stessa conoscenza complessiva della vicenda resistenziale e partigiana è qualcosa per cui davvero può valer la pena di riprendere le carte d’archivio e interrogarle con dovuta acribia e rinnovata sensibilità.

 

 

 

[1] Comitato femminile antifascista, Donne e Resistenza in Toscana, La Giuntina, Firenze 1978.
[2] P. Gabrielli, Antifascisti e antifasciste, in M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, vol. 1, Regione Toscana-Carocci, Roma 2006, p. 42.
[3] L. Mattei, La partecipazione delle donne, in AA.VV., Storia della Resistenza senese, Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “V. Meoni”, Betti editrice, Siena 2021, pp. 191-192.
[4] Per un esempio classico di questa interpretazione storiografica del modello resistenziale toscano cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1979, p. 357.
[5] Archivio Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea (AISRT), Resistenza armata in Toscana, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 26.
[6] Ivi, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 13.
[7] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.3 XXII Brigata Fratelli Rosselli, Div. GL 32° Brigata Carlo Rosselli, si vedano i riferimenti alle date del 29 e 26 giugno 1944 nelle due diverse versioni presenti dell’Elenco delle azioni.
[8] Ivi, b. 5 [4], fasc. 15.13 Brigata GL Pistoia, relazione a firma del comandante la Brigata Riccardo Morosi e del comandante la XII zona Vincenzo Nardi, pp. 2-3.
[9] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, pp. 4-5.
[10] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.16 XXIII Brigata Garibaldi “P. Borri”, III Btg., Relazione organico forza e sue variazioni centrale e compagnia “I”, Costituzione del nucleo clandestino d’informazioni di Castel Focognanon (Arezzo), p. 3
[11] Ivi, b. 3, fasc. 7.5.2 Divisione Garibaldi Lunense, Servizio Informazioni Militari, Elenco dei partigiani del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) della Divisione Garibaldi Lunense, p. 5.
[12] Ivi, pp. 4, 12, 14; ivi, Relazione sull’attività svolta dal Servizio Informazioni Militari della Divisione Garibaldi Lunense, p. 29.
[13] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S, 1 agosto 1944, p. 5.
[14] Ivi, b. 3, fasc. 7.3.1. Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, Relazione Brigata Garibaldi “Gino Menconi”, collegamenti, p. 13.
[15] Ivi, b. 8 [Resistenza in Toscana], fasc. 29.3 Relazione sull’attività della 2° compagnia “Gabriella Brogi” del II battaglione della XXIII Brigata Garibaldi “Pio Borri”, 3 luglio 1944, pp. 21-22.
[16] Ivi, 7 luglio 1944, pp. 24-25.
[17] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione dell’attività svolta dalla squadra socialista di Peretola nel periodo maggio-agosto 1944, p. 1.
[18] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.5 Sap I zona PCI Firenze, Relazione dell’attività svolta dalla costutuzione delle Squadre d’azione SAP fino allo scioglimento, p. 12; ivi, Rapporto relativo all’attività svolta dalla 2° compagnia I zona, p. 2.
[19] Ivi, b. 3, fasc. 8.1 Comitato militare clandestino dei patrioti lucchesi, Relazione, ottobre 1944, p. 40.
[20] Ivi, b. 1, fasc. 3.1.4 Sap Fibbiana, Attività svolta, p. 1.
[21] Ivi, b. 2, fasc. 5.1.2.3 Brigata V, Relazione della Brigata “V”, 29 dicembre 1944, pp. 3,6,
[22] , b. 2, fasc. 5.1.2.13 Divisione Potente brigata B. Buozzi, Relazione sulle operazioni clandestine ed azioni di guerra della III zona settore S per la Liberazione di Firenze, p. 6.
[23] Ivi, b. 3, fasc. 8.8. Formazione Cecchini, Relazione del capitano della regia marina Cecchini Giuseppe, Lucca, 2 novembre 1944, p. 3.
[24] Ivi, b. 1, fasc. 1.1.8 XIII Brigata Garibaldi “Pio Borri” I Btg. IV Cpg., Attività operativa, 14 luglio 1944, p.
[25] Ivi, b. 3, fasc. 7.1.4 SAP F.A.I., Relazione militare femminile (Gruppo Flora) SAP-FAI, p. 2.

[26] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 1004, p. 215.
[27] Ivi, b. 5, fasc. 15.22, Banda Valoris, Relazione, Pistoia, 3 maggio 1946, p. 7.
[28] Ivi, Anpi Firenze, b. 3, fasc. Carteggio 1944 non datato, istanza a firma Marco Pieri al Comando Divisione Potente e ai vecchi comandanti della Brigata Sinigaglia e risposta a firma di “Gracco” e altri del 20 novembre 1945.




Le bandiere multicolori delle donne. Una storia di pacifismo e resistenza

Nel secondo dopoguerra l’Italia fu uno dei paesi protagonisti del movimento dei Partigiani della pace, costituitosi a Parigi nel 1949. Nel suo alveo, tra gli anni ’40 e ’50, si sviluppò “dal basso” la pratica della realizzazione delle “Bandiere multicolori della pace”. Si tratta di una pratica autonoma e parallela rispetto a quella delle bandiere della pace arcobaleno.

Le bandiere sono un artefatto classico. Prima dell’avvento delle bandiere prodotte in serie si trattava di un oggetto singolo, “La bandiera”, simbolo identitario soggettivo di quella specifica organizzazione e potente strumento comunicativo. La bandiera attira lo sguardo, trasmette contenuti, unisce le persone, risveglia emozioni. L’uso della bandiera in scioperi e manifestazioni occupa lo spazio, crea collettività, anche attraverso una precisa grammatica dei colori.

La bandiera arcobaleno è oggi conosciuta globalmente. Un ruolo importante nella sua diffusione e standardizzazione pare averlo giocato Aldo Capitini, che portò una bandiera molto simile a quella che conosciamo, riprendendola da alcune che già circolavano, durante la prima Marcia per la Pace Perugia-Assisi nel 1961. Ma già agli inizi del ‘900 James Van Kirk aveva proposto la World Peace Flag. Nel 1897 ne era stata proposta un’altra da Cora Slocomb e qualche anno prima, nel 1891, un’altra versione ancora era stata proposta da Henry Pettit.

Poco note sono invece le bandiere della pace delle donne italiane, che nonostante la loro diffusione all’epoca restano quasi sconosciute al grande pubblico. Per le loro fattezze sono conosciute come bandiere multicolori. Venivano realizzate spesso a risparmio, con scampoli di tessuto, spesso arricchite con ricami di testo, di disegni o oggetti del lavoro. Sono arrivate a noi attraverso la memoria e gli archivi. Ne sopravvivono numerosi esemplari, a volte in bella vista, altre volte in cassetti e sgabuzzini.

La loro estetica pone un interrogativo: perché fare delle bandiere multicolori per simboleggiare la pace? Probabilmente l’idea che la pace andasse rappresentata con tanti colori si era già fatta strada, a partire dai primi prototipi, e veniva tradotta dallo spirito internazionalista dei movimenti socialisti e comunisti in una bandiera che con i suoi tanti colori rappresentasse i popoli del mondo uniti sotto le insegne della pace.

Furono soprattutto le donne dell’Unione donne italiane (UDI) ad impegnarsi maggiormente nella campagna pacifista e contro la minaccia atomica. Di conseguenza, le bandiere ebbero anche una caratterizzazione e grammatica di genere. La realizzazione delle bandiere era già una delle forme dell’attivismo delle donne. Le laboriose e infaticabili mani femminili cucivano da tempo i vessilli del movimento di emancipazione del lavoro. Le bandiere multicolori divennero così le bandiere della pace “delle donne”, un simbolo delle istanze di emancipazione, esibite e portate in piazza.

Le prime informazioni sulle bandiere multicolori risalgono alla fine del 1948, diventando subito un simbolo di lotta e di opposizione all’ingresso dell’Italia nella NATO, contro la guerra di Corea e la bomba atomica. Nel 1949 a Parma la bandiera, rimossa dalla polizia dalla torretta della fabbrica Bormioli (occupata dalle maestranze), venne portata in bicicletta in alcuni paesi, dove si costituirono i Comitati della Pace al suo passaggio e si raccolsero firme contro il Patto Atlantico. Lo stesso anno l’UDI invitò le donne a portare le bandiere alle manifestazioni dell’8 marzo. Le bandiere vennero utilizzate anche negli eventi delle ragazze dell’UDI, come gli Incontri di Primavera o le gare sportive, legandosi così alla gioventù e all’idea di futuro che incarna. Sono numerose le fotografie apparse sulle riviste del tempo in cui le ragazze sventolano le bandiere. A Siena presso le “Stanze della memoria” è esposta una bandiera dove si può leggere la scritta ricamata: «Le ragazze d’Anqua s’impegnano per la pace».

Ma nell’Italia di quel tempo queste bandiere erano un oggetto politico conflittuale. Dato che la campagna pacifista si contrapponeva alle politiche internazionali e di riarmo dei governi italiani, la bandiera della pace era di fatto uno strumento di opposizione e veniva considerata la manifestazione di un’ostilità politica ai governi, che ne perseguirono l’uso attraverso le forze dell’ordine. Le bandiere divennero così anche un simbolo e uno strumento di resistenza, e con questa declinazione furono incorporate nei repertori dell’azione sindacale. Le ritroviamo in piazza il Primo maggio, esposte ai convegni e ai congressi della CGIL, utilizzate in scioperi e manifestazioni. Capitava spesso che sulle bandiere venissero ricamate le rivendicazioni sindacali. Furono numerosi i mondi del lavoro che realizzarono le proprie bandiere, dalle fabbriche alle mondine, e non mancarono bandiere dallo spirito “confederale”.

Le bandiere divennero uno strumento di lotta a tutti gli effetti, come nell’occupazione della fabbrica Bormioli. Molte testimonianze della loro funzione in questo senso provengono dal mondo mezzadrile. Si affermò la pratica di portarle durante gli scioperi e di issarle sulla vetta dei pagliai e nelle aie durante la trebbiatura del grano. Le bandiere riempivano così lo spazio della conflittualità sociale. Le forze dell’ordine furono impegnate in una lunga battaglia per rimuovere le bandiere dai pagliai, in una ricorsa continua, da un pagliaio all’altro, da un’aia all’altra, che si risolveva nel rafforzamento della volontà delle famiglie mezzadrili di issarle, vedendovi un’espressione di emancipazione dai proprietari e della conquistata libertà politica. Sul la rivista della CGIL Lavoro del 1952 si legge sotto a una foto: «Dopo una combattuta lotta i contadini dipendenti degli agrari fratelli Sonnino di Chiaravalle, issano sull’aia la bandiera della pace. I Sonnino pensavano di poter imporre i loro sistemi antidemocratici, ma la lotta dei contadini ha avuto ragione di loro».

Oggi è in corso un movimento di riscoperta di queste bandiere, sull’onda del rinnovato protagonismo dei movimenti delle donne e del nuovo impegno pacifista oggi sempre più urgente. Nel semiottagono delle Murate, a Firenze, dal 5 marzo al 25 aprile 2025 sarà visitabile una mostra che ripercorre la loro storia in dialogo con le opere d’arte del collettivo Lediesis.

 

Stefano Bartolini è direttore della Fondazione Valore Lavoro, responsabile del Centro di documentazione archivio storico CGIL Toscana e direttore scientifico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).

Martina Lopa svolge attività di ricerca sulla storia delle donne, collabora con la Fondazione Valore Lavoro e fa parte del gruppo di lavoro “Paura non abbiamo” dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPT).




Prima della strage: gli anni Trenta, le relazioni industriali e l’opposizione al regime nella miniera di Niccioleta

L’ex miniera di Niccioleta – frazione del Comune di Massa Marittima in provincia di Grosseto – è nota soprattutto nella memoria pubblica per l’efferata strage1 nazifascista del 13-14 giugno 1944, quando 83 minatori furono massacrati tra il piccolo borgo minerario e Castelnuovo Val di Cecina (Pi), nei giorni della ritirata tedesca.

In questa sede non ci soffermeremo sull’analisi della dinamica di questo episodio già accuratamente studiato, ma sulla portata di quei comportamenti di dissidenza e opposizione al fascismo diffusi tra i minatori di questo villaggio minerario nel corso degli anni Trenta, ritenuti di massimo consenso al regime. A tal fine crediamo necessaria una panoramica sulle difficili condizioni socio-economiche degli operai di questo contesto produttivo, che alimentarono lo scontento e li indussero a manifestare il loro sentimento antifascista anche con gesti eclatanti, ben prima dell’antifascismo organizzato manifestatosi con la lotta di Liberazione.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2056)

Dopo le prime operazioni di ricerca avviate dall’inizio degli anni Venti, la miniera2 di pirite di Niccioleta di proprietà della Società Montecatini entrò definitivamente in funzione nel 1929, quando fu stipulato il contratto di lavoro per i primi 150 operai. Era solo l’inizio di questa attività produttiva, che garantì al colosso della Montecatini il monopolio della pirite italiana, la materia prima fondamentale per la produzione di acido solforico, impiegato per le esigenze dell’industria chimica e per la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura. Negli anni successivi i lavori furono rapidamente ampliati e crebbero sia le maestranze che la produzione3. In Maremma la Montecatini era già attiva dal 1899 e, per quanto riguarda la pirite, deteneva la proprietà anche delle miniere di Gavorrano e Boccheggiano. Nei primi anni Trenta fu inaugurato un imponente sistema di teleferiche, il più lungo d’Europa (oltre 40 km), che permetteva di collegare le tre miniere con Scarlino scalo: da qui il minerale estratto veniva caricato sui treni o condotto a Portiglioni per esser spedito via mare. All’inizio degli anni Trenta e fino al 1940 a Niccioleta fu dato avvio alla costruzione del vero e proprio villaggio minerario di impronta architettonica razionalista, organizzato secondo un ordine gerarchico e dotato dei principali servizi.

Le condizioni di vita degli addetti alle miniere non furono però mai facili. Già nel 1926 venivano denunciate le manchevolezze del sindacalismo fascista4 da parte del sindaco di Massa Marittima, Innocenzo Vecchioni, che riferiva sia «l’abbandono pressoché continuo di questa massa benemerita per parte di chi è preposto alla sua tutela economica e morale», sia le angherie di alcune direzioni di miniere verso le masse dei lavoratori organizzati nel sindacato fascista, riferendosi in particolare «ai licenziamenti o retrocessioni di grado per ripicche verso chi ha un grado nell’organizzazione, come è avvenuto nelle Miniere Niccioleta e Accesa»5. Dal canto suo, il segretario provinciale dei sindacati fascisti, Gino Finotello, rilevava il mancato rispetto dei concordati di lavoro da parte delle imprese, in primis nella parte riferita ai cottimi6. Nello stesso anno il segretario federale Ferdinando Pierazzi e Finotello7 si recarono a Roma presso i vertici delle organizzazioni politiche e sindacali, per far presente la necessità di rinnovare o elaborare contratti equi in favore delle maestranze operaie locali, i cui guadagni erano giudicati largamente insufficienti alle necessità di vita. Dopo la lunga e difficile opera di conciliazione per i patti collettivi di lavoro ispirati ai principi corporativi (nel 1928 furono stipulati quelli per i minatori e gli operai metallurgici), in provincia cominciò ad assumere proporzioni preoccupanti la disoccupazione, dovuta principalmente alla crisi dell’industria mineraria e al ristagno dell’edilizia. La concorrenza estera, la minor richiesta dei mercati, le carenze infrastrutturali, la scarsa competitività dovuta agli alti costi e alla bassa qualità di alcune produzioni erano le cause principali delle difficoltà economiche in Maremma, inserite nel ben più ampio contesto della grave crisi economico-finanziaria internazionale, il cui episodio più eclatante fu il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre 1929, che comportò anni di recessione.

Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta la crisi colpì principalmente le industrie estrattive, edili, chimiche, metallurgiche e del legno, traducendosi in sospensioni o chiusure di attività, riduzioni delle giornate lavorative, continui licenziamenti, all’interno di contesti produttivi divenuti sempre più minacciosi e autoritari.

Alla fine degli anni Venti, tra tutte le miniere della Montecatini la situazione era particolarmente critica a Gavorrano8, dove il lavoro era ridotto a cinque giorni settimanali, le paghe erano molto basse, quelle sui cottimi venivano periodicamente ridotte e le maestranze erano molto scontente e conducevano una vita di ristrettezze con forti ricadute sullo stato di salute, come dimostravano le statistiche degli ammalati. Solo il 30 novembre 1929 furono stabilite le nuove tariffe salariali9 per i minatori della Montecatini, dopo l’accordo siglato tra l’Unione industriale fascista della provincia di Grosseto e l’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria. Pur vantando che l’apertura della miniera di Niccioleta aveva rappresentato il segno della volontà di dar massimo impulso all’attività estrattiva, nell’ottobre 1931 la Montecatini fece presente la gravissima contrazione nei programmi commerciali di collocamento e vendita delle piriti estratte nelle miniere maremmane. In sei mesi fu accumulato uno stock per oltre 100mila tonnellate nonostante l’orario ridotto e i licenziamenti degli operai, poiché la Germania – principale mercato estero – aveva denunciato i contratti di forniture e rinunciato a nuovi acquisti, mentre la domanda era calata pure nel mercato interno per la diminuzione della produzione del susperfosfato per l’agricoltura10. La società optò, dunque, per i licenziamenti degli operai di minor resa nelle miniere di pirite maremmane. Il 1° ottobre 1931 persero il lavoro 88 operai della miniera di Niccioleta e 57 di quella di Boccheggiano. Un altro duro colpo per i minatori della Montecatini si verificò il 17 ottobre 1931, quando in sede ministeriale furono concordate le riduzioni salariali del 21%11. Il 21 ottobre 1931, durante il cambio turno, circa cento operai della miniera di Gavorrano rivolsero ingiurie al direttore della miniera e ripresero i lavori con mezz’ora di ritardo. Intervenne Solimeno Petri, commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, che chiese l’intervento del Comitato intersindacale al fine di riesaminare la questione della riduzione salariale (ristabilendo un guadagno giornaliero di almeno 12 lire per gli adulti e otto per donne e ragazzi), mantenere le cinque giornate lavorative settimanali e infine creare spacci aziendali – a cura della Montecatini – per alleviare lo stato di disagio dei lavoratori12.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2057)

Il prefetto di Grosseto Giovanni Tafuri sollecitò l’intervento del Ministero delle Corporazioni, che nel dicembre 1931 cercò vanamente di convincere la Montecatini – che aveva già licenziato 350 operai – a mantenere le cinque giornate lavorative, evitando il licenziamento di altri 350 lavoratori. Quest’ultima non si mosse però dalle condizioni poste (riduzione a quattro delle giornate lavorative settimanali con il licenziamento di 350 lavoratori o mantenimento delle cinque giornate lavorative con il licenziamento di ben 700 operai), scegliendo la seconda opzione e facendo presente che solo per questioni di ordine politico non aveva ancora provveduto al licenziamento del secondo scaglione di 350 lavoratori13. Un episodio che dimostra la subalternità e la scarsa capacità d’imposizione dello stesso Ministero nei confronti della Montecatini.

La situazione era particolarmente critica pure alla miniera di Niccioleta e rischiava seriamente di compromettere il consenso al regime. Circa 200 dei 350 operai occupati nel borgo minerario non acconsentirono al pagamento dei contributi sindacali e al rinnovo della tessera per l’anno 1932, motivando tale dissenso con le loro disagiate situazioni economiche. Il Comando dei carabinieri di Massa Marittima dispose indagini per verificare che fra la massa operaia non vi fossero sobillatori che agivano per scopi antinazionali14. Stessa cosa era successa a Boccheggiano, dove 300 operai avevano rifiutato il rinnovo della tessera sindacale a causa del suo aumento da sei a 10 lire, mostrando al contempo un forte malcontento per le loro tristi condizioni economiche e per il generale disinteresse del sindacato verso le loro problematiche15.

Nell’aprile 1932 fu lo stesso Direttorio federale grossetano a richiedere la revisione dell’accordo salariale al Ministero delle Corporazioni, dopo aver constatato che gli operai dipendenti dalle miniere di Boccheggiano e Niccioleta percepivano un salario medio giornaliero di 10 lire lavorando cinque giorni a settimana. Si trattava di un guadagno ritenuto insufficiente alle più stringenti necessità quotidiane, che aveva depresso lo stato d’animo dei minatori con ripercussioni in campo politico16. In quel periodo la produzione annua totale delle tre miniere di pirite della Montecatini (Gavorrano Niccioleta e Boccheggiano), più quella di Ravi di proprietà della Società Marchi, ammontava a circa 400mila tonnellate. Il 15 giugno 1932 il prefetto Celi tornò dunque a invocare l’adozione di misure protezionistiche presso il Ministero delle Corporazioni, poiché, stando ai dati da lui recepiti, porre il divieto d’importazione alle 150mila tonnellate di pirite provenienti da Spagna e Grecia avrebbe giovato alla Montecatini, che sarebbe potuta tornare alle sei giornate lavorative nelle sue miniere, con l’assunzione di nuova manodopera17.

Nulla si mosse però a livello governativo. Il 30 luglio 1932 la direzione della miniera di Montecatini di Gavorrano affisse i manifesti che comunicavano il licenziamento di 250 operai. Scoppiarono così nuovi disordini, con circa 300 minatori che si radunarono davanti alla direzione stessa, emettendo grida ostili e lanciando pure qualche sasso contro gli uffici Bedeaux18. Quest’ultimo è il nome dell’inventore del sistema omonimo di razionalizzazione del lavoro volto ad aumentare la produttività, che fu introdotto anche nelle miniere maremmane della Montecatini a partire da quella di Gavorrano dal 1° marzo 1932, tra le lamentele degli operai e una notevole diffidenza anche da parte delle autorità fasciste. Tale sistema si basava sulla scomposizione analitica del lavoro e per le paghe si allacciava a meccanismi d’incentivi a partire dall’unità Bedeaux, corrispondente alla quantità di lavoro che poteva essere svolto da un operaio, in condizioni normali, in un minuto.

Il segretario federale Vecchioni, rivolgendosi al Ministero delle Corporazioni, considerò l’atteggiamento degli operai come diretta conseguenza degli inqualificabili sistemi della Montecatini e della mancanza di comprensione dei dirigenti della miniera. Le autorità fasciste maremmane temevano che il calo della produzione e i licenziamenti avrebbero avuto gravi conseguenze per il mantenimento del consenso al regime e dell’ordine pubblico a livello locale, ecco quindi la necessità di una continua mediazione con le forze imprenditoriali, avvantaggiate però proprio da quel sistema corporativo adottato dal fascismo, che per porre fine alla lotta di classe aveva minato libertà e diritti dei lavoratori.

L’ira delle autorità locali verso la Montecatini si manifestò anche nel corso della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932. Petri si soffermò a lungo sulla questione degli operai della Montecatini, che in soli due anni avevano visto i loro salari dimezzati. Al di là delle riduzioni salariali elencò altre anomalie dovute al comportamento della società, quali: la mancata istituzione di spacci aziendali; l’introduzione arbitraria del sistema Bedeaux nella miniera di Gavorrano a partire dal 1° marzo 1932, che riduceva notevolmente i salari dei lavoratori (da una paga media giornaliera di 26,2 lire con la tariffa a cottimo pieno si scendeva alle 17,2 lire con i valori Bedeaux); la cessazione al 1° luglio 1932 della garanzia accordata per il mantenimento della paga media giornaliera a 17,2 lire; l’arbitrio nel conglobamento del carovita nel guadagno giornaliero; il licenziamento di 30 operai in seguito a un infortunio mortale verificatosi nella miniera di Gavorrano quale diretta conseguenza dell’introduzione del Bedeaux; l’annuncio della chiusura della miniera di Fenice Capanne a Massa Marittima; ed infine l’arbitraria riduzione apportata ai guadagni di alcune squadre di operai addetti ai lavori di rialzamento dei bacini. Il segretario federale Vecchioni condannò, invece, il metodo utilizzato dalla Montecatini, che provvedeva ai licenziamenti senza contrattazione con gli organismi sindacali interessati, «ai quali premerebbe che il numero dei licenziati non venisse a gravare su una sola località ma fosse sempre equamente ripartito fra i diversi paesi dai quali le miniere traggono la manodopera». Dal punto di vista politico Massa Marittima risultava il centro più vulnerabile della provincia, tanto che Vecchioni non esitò a definire come «antifascista» l’azione della Montecatini nei confronti del paese minerario. «Tale sistema, che può aver avuto, come conseguenza diretta una diminuzione notevole di fiducia verso gli organismi politici e sindacali della provincia, che, a dire degli stessi operai, non avrebbero saputo sufficientemente arginare l’azione della Montecatini, è riprovevolissimo», le durissime parole del federale19.

Il 7 agosto 1932 la Montecatini licenziò definitivamente i 250 operai già segnalati. Tra questi riuscirono a salvare il posto di lavoro solo 90 operai di Massa Marittima, in parte confermati a Gavorrano (35), in altra parte assunti a Niccioleta (55).

Niccioleta. Edificio dell’Associazione Nazionale Combattenti di Niccioleta
Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949  (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2118)

Nel 1933 proseguirono le difficoltà nei mercati del rame, del mercurio e dei prodotti metallurgici. Petri ribadì che persisteva uno stato di depressione morale tra i minatori – in primis tra quelli di Niccioleta e Boccheggiano – visto il «considerevole malcontento sia per l’inadeguamento dei salari al bisogno della vita, sia per i noti metodi esotici di lavoro, arbitrariamente applicati»20. La questione dei minatori maremmani assunse una rilevanza nazionale e fu trattata perfino nella riunione del Direttorio nazionale del Pnf a Bari, nel settembre 1933. Intanto, i provvedimenti antidisoccupazione, rimasti a lungo lettera morta, trovarono una loro prima applicazione a partire dalla fine del 1934, sulla base di alcune misure cardine quali le 40 ore settimanali, l’abolizione del lavoro straordinario, la limitazione dell’impiego di donne e ragazzi alle prestazioni di loro competenza specifica e la sostituzione dei lavoratori pensionati. Fu una prima boccata d’ossigeno per le maestranze locali, con alcune industrie – tra cui quelle estrattive – che ripresero le assunzioni, ponendo un primo argine alle conseguenze drammatiche dell’assenza di lavoro, particolarmente sentite nell’area amiatina e in quella dell’Argentario. Tra il 10 e il 15 dicembre 1934, con l’applicazione delle 40 ore lavorative la Montecatini procedette all’assunzione di 167 operai, tra cui 32 a Niccioleta, 46 a Boccheggiano e 80 a Gavorrano21.

Era vicina anche la resa dei conti col sistema Bedeaux. L’introduzione di questo sistema di lavoro – applicato anche alle miniere di Gavorano, Boccheggiano, Ravi e Rigoloccio della Montecatini – aveva infatti originato una lunga vertenza che fu posta a livello nazionale. La maggiore intensità di lavoro richiesta agli operai si era risolta addirittura in una diminuzione delle paghe. La questione fu chiusa il 9 novembre 1934 con la mozione del Comitato corporativo centrale22, che ristabiliva il primato della regolazione collettiva per l’applicazione di qualsiasi sistema di salario o incentivi, mantenendo ai lavoratori la possibilità di conoscere con chiarezza e semplicità gli elementi che componevano la loro retribuzione. Tale atto sancì l’abolizione del Bedeaux e il ritorno alle tariffe a cottimo pieno nelle miniere della Montecatini, con piena soddisfazione delle autorità fasciste locali23.

L’episodio del Bedeaux costituì però un’eccezione. «Non potevano esserci dubbi ormai su quale fosse la collocazione del fascismo nel conflitto tra padroni e operai. La presenza sempre più diffusa in ruoli chiave della gerarchia della miniera – anche se soprattutto nelle mansioni inferiori di sorveglianza – di personale di esplicita appartenenza fascista, spesso di matrice squadrista, ne era la manifestazione più esplicita. L’identificazione del fascismo con il comando capitalistico, e viceversa, era netta. […] Emerse talvolta qualche residua frizione tra le autorità locali e la Montecatini, indotta dalla percezione dello strapotere che la società mineraria stava esercitando, ma nessuna giunse mai a incrinare la consonanza di fondo. Questo connubio Stato/capitale, o anche fascismo/capitale, sperimentato dai minatori già nel sottosuolo, si riproduceva in superficie, dove, insieme al ruolo primario di antagonista di classe, assumeva quello benevolo, ma sempre diffidente e all’occorrenza severo e perfino brutale, del padre di famiglia attento ai bisogni dei propri figli»24.

L’accordo per le tariffe salariali delle maestranze della Montecatini fu stipulato il 22 febbraio 1935. Furono stabilite le tariffe per i lavori a cottimo, i quali dovevano esser fissati mediante un biglietto rilasciato all’inizio del lavoro dal capo servizio al capo compagnia, contenente indicazioni sulle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro stesso: una loro mutazione poteva portare al diritto della revisione dei prezzi di cottimo. Per i lavori non previsti nelle tabelle allegate l’impresa era chiamata ad applicare nuove tariffe provvisorie della durata di due mesi, «tali da permettere agli operai laboriosi e di normale capacità lavorativa di raggiungere un guadagno non inferiore a quello delle categorie cui appartengono». Nella liquidazione dei guadagni di cottimo doveva risultare con semplicità ed evidenza il lavoro eseguito, con a parte le trattenute sul salario. Infine, furono stabilite delle maggiorazioni per il lavoro straordinario e festivo25. Tra gli operai della Montecatini si manifestò da subito una certa apprensione per la prima liquidazione in loro favore con il nuovo sistema: timori giudicati infondati dal prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni, che il 3 maggio 1935 scrisse che le nuove tariffe avevano migliorato, sia pure di poco, le condizioni salariali delle maestranze26. Ci possiamo chiedere se ci furono veramente questi miglioramenti salariali. Ci vengono in aiuto due importanti documenti. Il primo, prodotto dal sindacato provinciale fascista dei lavoratori dell’industria, specifica che le tariffe concordate nel 1935 erano ispirate al desiderio di assicurare all’operaio laborioso e di normale capacità produttiva il guadagno della paga ad economia maggiorata del minimo di cottimo. Nelle paghe non furono però conteggiate le operazioni passive, ossia i “tempi persi” che pure venivano considerati nell’unità Bedeaux, procurando così un danno economico per i lavoratori27. Ciò è confermato da un importante promemoria prefettizio del giugno 1939, che rivela come la trasformazione del Bedeaux in cottimo normale e tale mancato conteggio comportarono una diminuzione di circa il 12% dei salari. Inoltre, più in generale, calcolando tutte le riduzioni e gli aumenti per le maestranze della Montecatini dal 1930 al 1939, emergeva un quadro impietoso, ovvero un abbassamento dei salari del 36-40%28.

All’inizio del 1936 la miniera di Niccioleta poteva contare su circa mille lavoratori ed era in pieno sviluppo. Produceva, infatti, quasi 17mila tonnellate di pirite al mese, con un rendimento medio a operaio maggiore rispetto alle miniere di Gavorrano e Boccheggiano, dove si producevano rispettivamente 24mila e 12mila tonnellate con 1.660 e 800 operai. La situazione produttiva era in continuo miglioramento per i prezzi di vendita molto più remunerativi (1,6-1,7 lire per unità zolfo rispetto alle 1-1,1 del 1935), ma paradossalmente la situazione salariale delle maestranze era sempre più preoccupante, poiché con i loro guadagni i minatori non erano in grado di garantirsi il minimo indispensabile per soddisfare i loro bisogni materiali, tanto che ogni mese centinaia di lavoratori si dimettevano dalle miniere di pirite della Montecatini per cercare fortuna altrove29.

Il 25 giugno 1936 il questore di Grosseto riferì al prefetto lo stato di disagio dei minatori della miniera di Niccioleta per gli scarsi guadagni e la loro richiesta di un nuovo contratto di lavoro, specificando che «la stessa questione si agita nelle altre miniere dipendenti dalla Montecatini. Si rende pertanto necessario e urgente un radicale provvedimento prima che abbiano a verificarsi incidenti»30. Lo stesso prefetto Palici di Suni un mese prima aveva avvertito i ministeri competenti, facendo presente che le paghe in tutte le miniere della Montecatini continuavano ad essere estremamente basse – con massimi che raramente superavano le 12 lire – ed esprimendo quindi la necessità di concedere almeno un ritocco parziale ad alcune categorie di lavoratori31.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2061)

Presso le confederazioni interessate si era aperta una vertenza per la revisione dei salari nella miniera della Niccioleta, che stava per essere deferita all’esame del ministero delle Corporazioni, poiché non era stato possibile raggiungere l’accordo sulla richiesta dei lavoratori di determinati salari base, oltre la maggiorazione di cottimo del 20%. Per il prefetto, più che insistere sulla determinazione sempre complessa e difficile dei salari base, sarebbe stato più utile estendere le tariffe di cottimo pieno in vigore nella miniera di Gavorrano alle altre miniere maremmane della Montecatini. Il 23 luglio 1936, presso il Ministero delle Corporazioni, fu stipulato l’accordo salariale integrativo per gli operai della miniera di Niccioleta (poi esteso a quella di Boccheggiano), che prevedeva a seconda delle categorie di lavoratori un aumento dal 7 al 20% sui salari fino al momento percepiti32. Per tutto il personale furono stipulate le paghe a economia e quelle con il 20% di cottimo. Le tariffe di cottimo dovevano essere fissate sul posto di lavoro nei primi cinque giorni del mese dal caposervizio in relazione alle condizioni fisiche e tecniche del lavoro. Fissati i prezzi, i capiservizio erano tenuti a rilasciare ai capicompagnia i biglietti contenenti le indicazioni delle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro ed i prezzi unitari, che dovevano essere sottoscritti dal capo compagnia. Erano previste inoltre maggiorazioni per le temperature nei cantieri interni, gli straordinari (20% in più per le prime due ore, 35% per le ore successive), i giorni festivi (50% in più della paga a economia) e le ore straordinarie notturne (60% in più della paga a economia)33.

La situazione però non migliorò e le controversie continuarono, soprattutto per quanto riguardava l’applicazione del minimo di cottimo, che la Montecatini intendeva riservare solo alle categorie di lavoratori sotto facile controllo e non, in caso di insufficiente produzione, ai singoli minatori che lavoravano «con una certa indipendenza a squadre nei sotterranei della miniera»34. Il prefetto cercò di convincere il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, a svolgere opera di persuasione presso le masse operaie per far loro comprendere l’equità degli accordi sottoscritti in sede ministeriale. Marino restò però fermo nelle sue posizioni, chiarendo che dopo l’entrata in vigore dell’accordo salariale per i minatori della Niccioleta e di Boccheggiano, ad un considerevole numero di minatori adibiti ai lavori a cottimo non era stata corrisposta la paga di 15,8 lire giornaliere indicata nel suddetto accordo35.

La questione in ballo era se al lavoratore a cottimo dovesse spettare in ogni caso, quindi indipendentemente dal risultato della lavorazione, la percentuale minima di maggiorazione oltre la paga base. Marino chiariva che la giurisprudenza era ormai concorde nel ritenere che la maggiorazione di cottimo spettasse indistintamente a tutti i cottimisti, portando a sostegno della sua tesi la sentenza del pretore di Massa Marittima del 12 dicembre 1936, che nella causa intentata dell’operaio della Niccioleta, Orlando Orioli, contro la Montecatini, aveva condannato quest’ultima a pagare la somma richiesta dal lavoratore (15,91 lire), più gli interessi e le spese del giudizio. Orioli, classe 1908, nato a Siena e residente a Massa Marittima, aveva citato la Montecatini innanzi al pretore di Massa Marittima per ottenere il pagamento di 15,8 lire a titolo di corresponsione della differenza fra il salario percepito nel mese di agosto 1936 (14,29 lire giornaliere) e quello che gli sarebbe spettato nella misura del minimo garantito per il lavoro a cottimo (paga base di 13,15 lire più il 20% di maggiorazione). La sentenza specificò che la quota di maggiorazione era dovuta a tutti i cottimisti e costituiva parte integrante del salario36. Marino confermava che il sistema di vigilanza attivo in miniera avrebbe impedito la mancanza di laboriosità, essendo previste inoltre le punizioni disciplinari e i demansionamenti degli operai. Quest’ultimi, a loro volta, erano sicuramente interessati a produrre per superare i minimi di paga. L’insufficienza produttiva non era quindi dovuta alla mancata laboriosità dei minatori ma ad un’errata fissazione dell’unità di cottimo o alle difficoltà verificatesi nel corso dei lavori, un fenomeno frequente causato dalla durezza della roccia, dal ritardato scoppio di una mina, dalla mancanza di legname e di armature o da altre imprevedibili circostanze37.

Una quarantina dei 250 minatori adibiti nei lavori a cottimo nella miniera della Niccioleta non percepivano il 20% di maggiorazione perché il minerale estratto non raggiungeva la quantità stabilita e la Montecatini non li considerava laboriosi e di normale capacità lavorativa, appellandosi all’articolo due del contratto provinciale di lavoro. Le compagnie erano formate da quattro o sei operai: solo in quelle che producevano il quantitativo di materiale stabilito la Montecatini corrispondeva la paga giornaliera di 15,8 lire stabilita dal contratto. La repressione di ogni atto di dissidenza all’interno della miniera era all’ordine del giorno. I carabinieri di Massa Marittima, venuti a sapere che fra la massa operaia di Niccioleta vi erano elementi «non laboriosi, che tentano di creare dissidi», svolsero accertamenti per identificare i presunti sobillatori, in realtà colpevoli solamente di richiedere il trattamento economico previsto dal contratto di lavoro. Il 13 gennaio 1937 fu identificato quale «autore principale di tale lagnanza«» l’operaio Gino Quintavalle, classe 1911, un reduce della guerra d’Etiopia, che si batteva affinché agli operai fosse corrisposta la paga prescritta dal contratto. Quintavalle fu licenziato per indisciplina ma il fascio locale non attribuì nessuna colpa alla Montecatini38. Perfino i carabinieri di Grosseto rivelarono però che serpeggiava il malcontento tra gli operai di Niccioleta anche per la severità e l’eccessivo autoritarismo dei dirigenti della miniera. Quest’ultimi avrebbero dovuto porre, quindi, una maggiore attenzione al riguardo, per evitare che questo di stato di cose, giudicato ancora non allarmante, si acuisse39.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2124)

Nel corso del 1937 continuarono le lamentele degli operai di Niccioleta sia per la totale inadeguatezza della paga minima giornaliera in relazione al costo della vita (il riferimento era soprattutto alle paghe giornaliere dei manovali, pari a 11,4 lire per i 225 manovali esterni e a 11,7 lire per i 191 interni), sia per lo sconsiderato rialzo dei prezzi degli spacci aziendali, che dopo l’aumento del 7% dei salari degli operai erano addirittura cresciuti del 20%. Il questore di Grosseto invitò, dunque, i carabinieri ad esercitare assidua vigilanza e a comunicare ogni emergenza riguardante l’ordine pubblico40. Il 15 gennaio 1938 entrò in vigore il contratto collettivo per la disciplina dei cottimi, che all’articolo due garantiva ai cottimisti il guadagno della paga ad economia più la maggiorazione del cottimo togliendo la condizione dell’”operaio laborioso e in normale capacità produttiva”, mentre all’articolo tre prevedeva che agli operai dovessero essere comunicate per iscritto e da subito le indicazioni del lavoro da eseguire e del compenso unitario corrispondente (tariffa di cottimo). La Montecatini, come rilevato dal sindacato fascista, non solo non assolse a tali doveri, ma aumentò considerevolmente il personale addetto alla sorveglianza degli stessi operai, al fine di ottenere da essi un aumento della produzione con mezzi coercitivi. «Pertanto gli operai che non riescono ad aumentare il proprio rendimento vengono, su indicazione degli stessi sorveglianti, chiamati in Direzione e diffidati di licenziamento. Gli operai temono fortemente che la Direzione miri a ottenere delle medie di rendimento assolutamente superiori alla loro normale capacità fisica, le quali non potrebbero essere mantenute, mentre potrebbero costituire dei precedenti di riferimento in caso di contestazioni o revisioni di tariffe di cottimo», scriveva il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, che segnalò tale fenomeno alla competente federazione nazionale di categoria e chiese all’Unione fascista degli industriali di Grosseto di rispettare sia l’articolo 19 del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro per l’industria mineraria, sia l’articolo tre del contratto collettivo per la disciplina dei cottimi41.

L’ultima modifica contrattuale degli anni Trenta si ebbe con il contratto collettivo per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto, siglato a Roma il 27 gennaio 1939 ad integrazione di quello nazionale stipulato il 9 maggio 1937. Per i lavoratori delle singole miniere della Montecatini furono stabiliti dei minimi di paga ad economia per la giornata lavorativa di otto ore, con i guadagni di cottimo adeguati a tali minimi e maggiorati della percentuale di cottimo (20% per le miniere di Niccioleta e Boccheggiano)42. Altre controversie sorsero però in merito all’accordo interconfederale per gli aumenti del ventennale, sottoscritto il 20 marzo 1939, che doveva essere applicato nella misura del 10% su tutti gli elementi di retribuzione. La Montecatini, però, rivalendosi su un presunto onere derivato dal nuovo contratto, dispose l’aumento del solo 5%, suscitando ancora una volta il malumore degli operai. Quest’ultimi, temendo di non vedersi concessi gli aumenti disposti dal duce, manifestarono al sindacato fascista la forte volontà di trasferirsi in altre province per poter guadagnare di più. La vertenza, risolta il 19 giugno 1939 dopo ampio esame presso le competenti federazioni nazionali, stabilì l’aumento del solo 7% da applicarsi su tutti i guadagni a cottimo o ad economia degli operai interessati, a far data dal 31 marzo 1939. La Montecatini si impegnò a corrispondere gli arretrati nella misura differenziale del 2% entro il mese di luglio43. Anche tale transazione non segnò la fine dei problemi per i minatori delle miniere di Gavoranno, Ravi e Rigoloccio della Montecatini: dopo la modifica unilaterale delle tariffe di cottimo da parte della direzione delle miniere fu infatti aperta una nuova vertenza collettiva44.

I minatori di Niccioleta rimasero stretti, da una parte, dalle rigidità del corporativismo fascista, subalterno alle esigenze del mondo imprenditoriale e incapace di migliorare le sorti degli operai nonostante gli apparenti sforzi – e i ben più rilevanti limiti – del sindacato dei lavoratori dell’industria, ridotto generalmente all’impotenza; dall’altra, dal crescente autoritarismo della Montecatini, spalleggiata dalle autorità locali fasciste e votata in primis a tutelare i suoi profitti.

Dopo questa lunga disamina, riteniamo che la complessità delle condizioni socio-economiche dei minatori nel corso degli anni Trenta sia stato un fattore che abbia contribuito a creare fra di loro un clima di diffusa ostilità al regime, in un territorio, il massetano45, dove tra l’altro nel corso del tempo si erano compenetrate varie tradizioni: repubblicana ottocentesca (mazziniano-garibaldina), anarchico-libertaria, socialista e comunista.

«Nelle miniere di Boccheggiano e Niccioleta, in tutto il periodo del fascismo si manifestarono avversioni alla dittatura. Gli antifascisti intensificarono la loro lotta con il reclutare nuovi proseliti alla causa contro la dittatura mussoliniana, quando ancora non tutti avvertirono che l’aggressione fascista alla giovane repubblica di Spagna avrebbe messo in pericolo la pace nel mondo, si era negli anni 1936-1937. Ebbene, a Massa Marittima fin da questi anni operava un gruppo di ispirazione anarchico-libertario, facente capo a Giuseppe Gasperi, operaio della miniera di Niccioleta. Nel 1938, a Boccheggiano, per iniziativa di Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni, si costituì una sezione clandestina comunista»46.

Lo scrittore Luciano Bianciardi, autore insieme a Carlo Cassola del libro inchiesta “I minatori della Maremma”, confidò nella lettera all’editore in cui spiegava come era nato il volume, che «negli anni del fascismo furono proprio certi minatori di Niccioleta che mi parlarono, per la prima volta, di Gramsci, quegli stessi minatori che da me volevano sentir parlare di Croce»47.

Negli anni Trenta possiamo isolare alcuni episodi di manifesta opposizione al regime nella miniera di Niccioleta. L’11 luglio 1935 furono arrestati quattro operai originari dell’Amiata, più precisamente di Abbadia San Salvatore (SI), traferitisi nel territorio di Massa Marittima dopo la chiusura delle miniere di mercurio amiatine, che aveva comportato il licenziamento di molti operai. Erano stati accusati di aver cantato canti sovversivi come “Bandiera Rossa”, di essersi fatti fotografare con delle maglie rosse per mettere in evidenza le loro idee politiche (e perfino di aver litigato con il fotografo perché nell’immagine non si scorgeva bene il colore rosso), nonché di aver rivolto offese all’effigie del duce riprodotta sui giornali, sputandovi pure sopra. La data scelta per compiere questi “atti sovversivi” non era per nulla casuale e fa capire molto di più: si trattava infatti del 1° maggio, il giorno della festa del lavoro, abolita dal regime il 20 aprile del 1923, in favore della ben più autarchica e individualista festa del lavoro italiano, fissata il 21 aprile, in coincidenza con la fondazione (Natale) di Roma.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_7395)

I quattro giovani arrestati48 erano: Primo Vagnoli, classe 1901, comunista, dal 1935 domiciliato a Massa Marittima e minatore nella miniera di Niccioleta; Carlo Contorni, classe 1902, di fede comunista, che ad Abbadia San Salvatore non risultava avesse mai svolto propaganda o partecipato a manifestazioni sovversive; Mauro Capecchi, classe 1909, anche lui giunto alla miniera di Niccioleta nel 1935 dopo aver perso il posto di lavoro nelle miniere di mercurio dell’Amiata; Lorenzo Contorni, classe 1910, celibe, con due fratelli e tre sorelle, un minatore di idee comuniste privo di precedenti penali che ad Abbadia San Salvatore non aveva mai dato luogo a rilievi, trasferitosi a Massa Marittima nel 1935 per dare un sostegno alla famiglia. Il loro caso fu trattato dalla Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia, che nella seduta del 23 luglio 1935 condannò al confino i quattro giovani minatori – considerati un pericolo per l’ordine nazionale – assegnando pene differenti: un anno per Vagnoli, due per Capecchi e Contorni Carlo, tre per Contorni Lorenzo.

Quest’ultimo ebbe la condanna più pesante nonostante gli accertamenti eseguiti avessero escluso che potesse trovarsi a cantare “Bandiera Rossa” con i compagni la sera del primo maggio. I carabinieri reali della tenenza di Massa Marittima non escludevano però la sua partecipazione ad altre manifestazioni sovversive, riferendosi ad atti raccolti a suo tempo e dichiarando che i suoi ideali e comportamenti erano di dominio pubblico sia nel suo paese di nascita, sia nell’ambiente in cui lavorava. Tutto ciò bastò per la condanna a tre anni, a dimostrazione di quanto fosse sommaria l’amministrazione della giustizia nella dittatura fascista.

Lorenzo Contorni49 fu assegnato al confino di Ponza (LT), dove «tenne cattiva condotta, affiancando i comunisti più pericolosi e non dando prova di ravvedimento». Fu prosciolto il 10 marzo 1937 e munito di foglio di via obbligatorio per Siena. Neanche il confino placò però il suo antifascismo, visto che ottenne la qualifica di patriota per la sua attività svolta all’interno della III Brigata Garibaldi SAP di Campiglia (Livorno), dal marzo 1944 fino al 25 giugno dello stesso anno50.

Carlo Contorni51, invece, fu confinato a Ventotene (LT), mantenne sempre le sue idee e continuò a frequentare i comunisti della colonia, senza dar luogo a particolari rilievi. Trasferito a Fuscaldo (Cs) il 15 settembre 1936, fu dimesso dal confino il 10 luglio 1937 e tornò a svolgere il lavoro di minatore nella miniera di Sirai-Pozzo Tanas in Sardegna. Scontò due anni di confino a Ventotene pure Mauro Capecchi, che prese poi le armi nella lotta di Liberazione nel territorio amiatino. Fu infatti partigiano combattente dal 12 settembre 1943 al 20 luglio 1944 all’interno della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, dove ricoprì pure la carica di comandante del VII distaccamento (nome di battaglia “Faro”)52.

La pena minore toccò invece a Primo Vagnoli53, che fu tradotto a Palazzo San Gervasio (Mt) e dopo aver scontato un anno di confino andò a vivere nella provincia di Siena, dove era nato e aveva domicilio.

Almeno due dei quattro protagonisti di questo primo gesto eclatante di antifascismo all’interno della miniera di Niccioleta condividono un lungo percorso di opposizione al regime, sfociato nella lotta partigiana. La dura realtà di vita di miniera negli anni Trenta, non solo a livello lavorativo ma anche per la difesa delle proprie idee di libertà e giustizia, è ben restituita dallo stesso racconto di Mauro Capecchi.

«Il lavoro era duro è in mezzo a noi erano sempre presenti spie fasciste, ma anche operai che, in caso di necessità, si sarebbero prestati al gioco dei fascisti: gente debole, paurosa e soprattutto affamata. Iniziai a prendere contatto con i minatori. Loro esprimevano lamentele ed eravamo tutti d’accordo nell’attribuire al governo fascista la colpa dei mali che ci affliggevano. […] Come ho detto, la vita a Niccioleta era assai dura. Nelle pause di lavoro discutevamo e i nostri nuovi compagni recepivano con piacere i nostri rilievi contro i padroni e il fascismo. Mi ricordo che la domenica andavamo a Massa Marittima, dove si ritrovava la maggior parte degli operai; si faceva merenda e si beveva il vino, che era la medicina che faceva riprendere le energie a chi era costretto a fare un lavoro così pesante. Intanto ad Abbadia il fascio locale, a nostra insaputa, prendeva misure per controllarci: spesso a Niccioleta venivano operai che si spacciavano per minatori di altre miniere e che erano pronti ad unirsi alle critiche contro il fascismo, per poi riferire alla polizia quanto avevano sentito dire da noi»54.

Servivano dunque tanto coraggio, una coscienza vigile ed occhi accorti per fare un minimo di propaganda e mantenere almeno una piccola opposizione interna nei luoghi di lavoro, ora che il fascismo al potere aveva spazzato via ogni forma di libertà e compresso i diritti dei lavoratori all’interno dell’ideologia corporativa. Tutto era più complicato soprattutto negli anni Trenta, considerati periodo di massimo consenso al regime.

Eppure qualcosa in miniera continuava a muoversi ed ancor prima della guerra di Spagna, che segnò un periodo di ripresa per l’antifascismo. Perfino il capo servizio della miniera di Niccioleta, l’impiegato Corrado Rossetti, classe 1895, originario di Vercelli, finì nel mirino del regime per la sua attività considerata ostile. I fatti si riferiscono al febbraio 1935, quando l’ingegnere Mario Delfino, addetto alla miniera e fiduciario del fascio, venne a conoscenza che alcuni operai dipendenti dal capo servizio Rossetti non volevano aderire al versamento delle quote in favore dell’Ente opere assistenziali (EOA). La responsabilità ricadde sullo stesso Rossetti, accusato di non aver svolto adeguata attività propagandistica fra i lavoratori. Fu dunque sollecitato da Delfino ad adoperarsi affinché quest’ultimi comprendessero «l’alto fine sociale e umanitario delle suddette ritenute». Interrogato dai carabinieri, Rossetti dichiarò che avrebbe rifiutato tal compito, perché contrario a qualsiasi forma di collaborazione e dubbioso sul reale impiego delle trattenute. In generale, l’impiegato non iscritto al Partito nazionale fascista (Pnf) era descritto come individuo dal carattere impulsivo e contrario al regime, non ossequiente alle leggi e non ben visto sia dalla maggioranza della popolazione, sia dalle autorità politiche locali, che lo ritenevano capace di esplicare propaganda sovversiva. Pur risultando di buona condotta morale e privo di precedenti penali, Rossetti non partecipava mai alle cerimonie patriottiche del posto, né frequentava persone di sicura fede fascista. In relazione alla nota della Prefettura di Grosseto del 29 maggio 1935, fu diffidato ai sensi dell’articolo 174 del Testo Unico di Pubblica Scurezza dal prefetto di Trento, poiché dopo tale episodio era stato trasferito a Calceranica (TN), sempre alle dipendenze della Montecatini. Qui Rossetti fu adeguatamente vigilato e chiamato a desistere da tali atteggiamenti sconvenienti, pena provvedimenti di polizia di maggior rigore. In seguito, mantenne una buona condotta e fu radiato dal Casellario politico centrale il 19 novembre 193655. Quel che aveva dichiarato non può però passare inosservato: la mancata propaganda a favore delle opere assistenziali del regime, così come la mancata fiducia verso la reale destinazione dei fondi raccolti, testimoniano una consapevolezza abbastanza diffusa sui frequenti casi di peculato, corruzione, conflitto d’interessi, nepotismo e favoritismi vari che contraddistinguevano l’operato del partito fascista nelle province, compresa quella di Grosseto, provocando disservizi e un generale malcontento nella popolazione, oltre a un forte scetticismo sulla moralità dei personaggi pubblici in camicia nera56. D’altronde, per fare solo un esempio simile a quello di Niccioleta riguardante la provincia di Grosseto, sempre nel 1935, ad Arcidosso la sezione del fascio locale era talmente screditata a causa dei molti casi di malaffare, che gran parte dei cittadini del posto preferirono inviare le fedi direttamente al duce, senza alcuna mediazione del partito, in occasione della giornata della fede del 18 dicembre 1935, organizzata per consegnare l’oro alla patria dopo le sanzioni contro l’Italia a causa dell’invasione dell’Etiopia57.

Dalle fonti di polizia la miniera di Niccioleta risulta particolarmente temuta per l’ordine pubblico, tanto da esser costantemente vigilata. Il 15 settembre 1936 il Comando della tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima richiese l’allontanamento dai lavori della miniera dei fratelli Pizzetti (Bruno ed Elvezio), minatori comunisti, e di altri individui sovversivi tutti originari di Abbadia San Salvatore (Settimio Rosati, Corrado Forti, Temistocle Coppi e Giuseppe Pacchierini), «perché capaci di svolgere opera deleteria sul buon andamento del lavoro e di inculcare nell’animo dei compagni sentimenti antifascisti e contrari alle nostre istituzioni»58.

Il durissimo lavoro in miniera comportò anche un alto numeri di morti sul lavoro, a causa sia delle malattie professionali (in primis la silicosi), sia degli incidenti dovuti alle scarse condizioni di sicurezza. Negli anni Trenta 11 persone persero la vita nelle operazioni lavorative in miniera: tra questi vi fu Gino Cini, un ventinovenne minatore di Prata, che morì il 30 marzo 1938 a causa di una frana nel cantiere adiacente alla miniera, dove effettuava lavori nella galleria di scolo. I compagni decisero l’astensione dal lavoro fino al seppellimento della salma, rifiutandosi di obbedire ai voleri della Montecatini che reclamava la ripresa del lavoro per i turni di mezzanotte e commentando con risentimento la decisione della Società59.

Tre anni più tardi, i minatori della Niccioleta sempre provenienti dall’Amiata furono autori di un clamoroso gesto di ribellione verso le autorità fasciste, originato dalla volontà di celebrare l’antico rito farsesco del carnevale morto. Si tratta di una festa satirica e goliardica, ancora oggi celebrata durante il mercoledì delle ceneri soprattutto in alcune parti dell’Italia centro-meridionale, che decreta la fine del carnevale mettendo in scena «la denuncia sociale e il ribaltamento dei ruoli, in forma di parodia delle autorità costituite e di protesta ritualizzata». Attualmente il funerale del carnevale più noto è quello di Montuorio al Vomano (TE), le cui origini paiono risalire proprio agli anni Venti del Novecento, quando alcuni giovani universitari del posto che studiavano a Napoli recuperarono tale tradizione osservata in Campania come forma di opposizione al regime fascista, che provvide a proibirla nel giro di pochi anni. «A Reggello, nel Valdarno, a Marroneto, nel grossetano, ad Amalfi, nel golfo di Salerno, il Carnevale morto era o è incarnato da una persona scelta fra gli abitanti del paese, secondo un modello onnipresente nelle regioni centro-meridionali della Penisola»60.

Difficile non leggere la volontà di criticare il regime anche nella mascherata organizzata dai minatori di Niccioleta per l’ultimo giorno di carnevale, che fu vietata dal segretario del fascio di Massa Marittima, Francesco Casanova. Nonostante il permesso non concesso, il 1° marzo 1938, verso le ore 23, una quarantina di minatori – tra cui undici col viso dipinto di nero – iniziarono a circolare per il borgo minerario, trasportando in barella un compagno che rappresentava il carnevale moribondo. Verso mezzanotte la comitiva giunse dinanzi alla sede del Dopolavoro dove era in corso una festa da ballo: i minatori cercarono di forzare l’ingresso ma il segretario amministrativo del fascio che si trovava sulla porta, Umberto Bellini, cercò di respingerli prima di essere colpito con un pugno al viso dall’operaio Mario Ghilardi, che dette il via all’irruzione nel locale. Dopo esser stato informato su quanto stava succedendo, Casanova si recò sul posto e fu aggredito con alcuni pugni dagli operai, non riportando conseguenze e riuscendo infine a far uscire dal locale i minatori, grazie all’aiuto di Bellini e della guardia giurata della miniera, Luigi Torrini. L’intervento dei carabinieri di Massa Marittima condusse all’arresto di undici operai per violenza contro pubblico ufficiale, tra cui un comunista, due ex sovversivi, cinque apolitici, due giovani fascisti e un fascista.

Retro della scheda anagrafica di Duilio Rosati con la qualifica di Caduto per la lotta di Liberazione (Credits: Fondo Ricompart)

Tra gli arrestati cinque erano originari di Santa Fiora, ovvero i due giovani fascisti Mario e Raffaello Ghilardi, entrambi del 1915, oltre a: Giacomo Bani (cl.1883), il più anziano del gruppo che prima dell’avvento del fascismo professava idee socialiste; Luigi Vagaggini (cl.1906), con precedenti penali ma considerato di buona condotta politica; Armando Dondolini (cl.1913) e Guido Martellini (cl.1914), ambedue privi di precedenti e di buona condotta in genere. Provenivano da Castell’Azzara Flavio Testi (cl.1891) e Agostino Mastacchini (cl.1900), da Abbadia San Salvatore Flavio Paganini (cl.1909) e da Piancastagnaio Duilio Rosati (cl.1907), tutti fino al momento considerati di buona condotta politica61. Fu evidentemente subito rilasciato l’undicesimo componente della carnevalata, il comunista Corrado Fortini. Gli altri dieci, ad eccezione di Mario Ghilardi, furono messi in libertà provvisoria il 17 marzo 1938, circa un mese dopo l’accaduto. Tornarono dunque alla miniera di Niccioleta alle dipendenze della Montecatini mentre il processo era ancora in fase istruttoria. «Quando li liberarono – intervenne anche il Dottor Mori per chiedere la liberazione, perché erano bravi operai – rivennero a Niccioleta e c’era un posto chiamato Poggio della Madonna, un podere con grandi querci. E si ritrovarono tutti su – familiari, amici – e fecero una merenda. Cantavano…tanto è vero che quando tornai a casa chiesi cosa cantavano. Era un motivo, una canzone che non conoscevo, non sapevo. E ‘l mi’ babbo, dopo un pò di tempo mi disse che era ‘L’internazionale’. Però non si vide nessuno», la testimonianza di Stelio Olivelli, cugino di Guido Martellini62. Cinque degli undici giovani minatori che avevano sfidato il regime con quell’irriverente rito carnevalesco, ovvero lo stesso Martellini, Mario Ghilardi, Agostino Mastacchini, Flavio Paganini e Duilio Rosati, trovarono la morte a Castelnuovo Val Di Cecina il 14 giugno 1944, massacrati dai nazisti. I loro nomi risultano nel fondo Ricompart con la qualifica “caduti nella lotta di Liberazione”. Non erano, infatti, partigiani combattenti ma avevano presumibilmente preso parte ai turni di guardia per salvare la miniera (e quindi i loro posti di lavoro) dai possibili atti di devastazione da parte dell’esercito tedesco in ritirata. L’elenco con i nominativi di coloro che svolsero la vigilanza armata agli impianti della miniera fu recuperato dal reparto responsabile della strage, il III Polizei-Freiwillingen-Bataillon-Italien. Se la strage s’inserisce nella logica della “ritirata aggressiva tedesca” che mirava a far terra bruciata e a diffondere il terrore nella popolazione civile, il perché di questa ferocia sui minatori può esser spiegato con la loro «estraneità al fascismo che poi era diventata ostilità acclarata, duratura e quasi unanime nei suoi confronti e quindi nei confronti dei suoi alleati. Un’ostilità che […] trovava proprio nel paese il luogo ove coagularsi»63.

Il miglior ritratto dei minatori di Niccioleta rimasti vittime nella strage emerge dalle accalorate parole di Padre Ernesto Balducci, l’autore de “L’uomo planetario”, originario di Santa Fiora, che di tanti di quei lavoratori era stato amico d’infanzia e compagno di scuola.

«I miei compagni non ebbero modo né tempo di scrivere lettere. Ma non avrebbero saputo che cosa scrivere, dato che non sono morti per la patria, non sono morti per la libertà, sono morti perché hanno fatto, nel luogo di lavoro, quello che dovevano fare. La miniera era il loro inferno, dove morivano un po’ ogni giorno, ma era anche il pane delle loro famiglie. Era la morte e la vita, il luogo della loro servitù e della loro potenza virile. Gli impianti che volevano salvare erano del padrone, ma erano anche parte di loro, gli strumenti della loro fecondità. Morendo per salvarli ci hanno lasciato un messaggio che sarebbe toccato a noi tradurre in un nuovo diritto di proprietà. E invece i padroni si ripresero le miniere. Anzi, si ripresero l’Italia64.

 

 

NOTE:

1Sulla strage vedi: P. Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, Il Mulino, Bologna, 2001; K. Taddei (a cura di), Coro di voci sole. Nuove verità sull’eccidio degli 83 minatori della Niccioleta, Effigi, Arcidosso -Gr, 2017.

2Sulla storia della miniera vedi: R. Zipoli (a cura di), Niccioleta. Fotografie e memoria di una comunità mineraria, Biblioteca comunale “Gaetano Badii” di Massa Marittima, 2022. Per un’ampia e completa bibliografia su Niccioleta si rimanda allo stesso volume pp. 461-472. Il 3 dicembre 2023 a Niccioleta è stato inaugurato il percorso della memoria, un itinerario urbano pedonale che con l’ausilio di 14 pannelli ripercorre le tappe salienti della storia di questo villaggio minerario. Il progetto, realizzato dal Comune di Massa Marittima e dal Parco nazionale delle Colline Metallifere con il contributo della Regione Toscana e di Massa Marittima Multiservizi, ha ottenuto il patrocinio del Comitato provinciale Anpi “Norma Parenti” e dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).

3ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione situazione maestranze dipendenti della miniera di pirite ella Niccioleta della S.A. Montecatini (18/5/1936).

4Prima ancora della fase corporativa, il sindacalismo fascista in Maremma conobbe una sonora sconfitta con la destituzione di Luigi di Castri, il segretario provinciale dei sindacati fascisti che nell’estate 1924 guidò la mobilitazione dei minatori al fine di promuovere uno sciopero generale della categoria, per recuperare parte delle conquiste del Biennio rosso che erano state cancellate nel contratto del 1923. Di Castri sfidò la stessa Montecatini, che stava diventando uno dei maggiori sostegni del regime nell’ambito dell’economia nazionale. A fine 1924 fu deposto da ogni incarico, espulso dall’organizzazione e costretto a lasciare Grosseto. Successivamente, con la svolta totalitaria ed i patti di Palazzo Vidoni (2/10/1925), la Confederazione generale dell’industria e quella delle corporazioni fasciste si riconobbero reciprocamente quali unici rappresentati del capitale e del lavoro, abolendo le commissioni interne di fabbrica. Seguì la legge 3 aprile 1926 n. 563, che segnò la fine dei sindacati non fascisti, disciplinò giuridicamente i contratti di lavoro, istituì il ministero delle Corporazioni, creò la Magistratura del Lavoro per la risoluzione delle controversie ed abolì serrate e scioperi. Il 21 aprile 1927 fu emanata la Carta del Lavoro, il documento simbolo del corporativismo fascista. Sulla questione Di Castri vedi A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, in S. Campagna e A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2021, pp. 228-233.

5ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del sindaco di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (22/4/1926).

6ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del segretario provinciale dei sindacati fascisti Gino Finotello all’Unione industriale grossetana (16/9/1926).

7Le sorti di Gino Finotello, segretario dei sindacati fascisti della provincia di Grosseto dal maggio 1924 al maggio 1927, non furono migliori di quelle del suo predecessore Di Castri. In seguito ai forti contrasti con il segretario federale Ferdinando Pierazzi, denunciò le ingerenze della Federazione provinciale del Pnf sull’organizzazione interna e l’autonomia dei sindacati, chiese urgentemente l’invio di un ispettore confederale per porre termine al dissidio tra la Federazione provinciale del Pnf e l’Ufficio provinciale dei sindacati fascisti, difese il proprio operato e richiese il trasferimento in altra provincia (21/5/1927). Secondo Finotello, le gerarchie politiche premevano per affidare compiti sindacali di notevole importanza all’interno dell’Ufficio a uomini di cultura limitata e completamente digiuni di sindacalismo. In seguito, un passaggio fondamentale fu lo “sbloccamento” dei sindacati fascisti del 22 novembre 1928, che comportò lo scioglimento della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti con la conseguente costituzione delle Confederazioni autonome di categoria, privando di ulteriore forza contrattuale il sindacato, ormai ridotto al totale controllo governativo. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 498.

8ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 595. Lettera del podestà di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (30/8/1928).

9Le nuove tariffe salariali per i minatori della Montecatini ne “La Maremma” (8/12/1929).

10ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (5/10/1931).

11ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Tabelle salariali delle maestranze della miniera di Niccioleta della Società Montecatini dopo le riduzioni del 21%.

12ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria Solimeno Petri al segretario federale e al prefetto di Grosseto (27/10/1931).

13ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del ministero delle Corporazioni al prefetto di Grosseto (30/12/1931).

14ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Circolare del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima. Oggetto: situazione economica e politica a Massa Marittima (1/3/1932).

15ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Biglietto postale di stato urgente del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima (28/2/1932).

16ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Ordine del giorno della riunione del Direttorio federale del 2/4/1932, trasmesso al prefetto di Grosseto e al ministero delle Corporazioni (19/4/1932).

17ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Circolare del prefetto di Grosseto Giuseppe Celi ai ministeri delle Corporazioni, dell’Interno e delle Comunicazioni (15/6/1932).

18ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Telegramma del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima al prefetto di Grosseto (30/7/1932).

19ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Verbale della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932.

20ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 538. Rapporto mensile sulla situazione industriale della provincia, stilato dal commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, Solimeno Petri (27/12/1933).

21ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 634.

22«[…] Un ordinamento come quello fascista nel quale il capitale e il lavoro sono sullo stesso piede di uguaglianza dinanzi allo Stato, non può e non deve servire ad una Compagnia straniera a carattere commerciale, per fare i suoi interessi permettendo lo sfruttamento della nostra più grande ricchezza: l’uomo. […] I primi a fare la grande esperienza del nordico sistema di meccanizzazione umana sono stati proprio i forti minatori di Gavorrano e Boccheggiano non abituati certo né a cronometrare lo sforzo generoso delle proprie braccia, né a numerare le gocce del loro sudore. Istintiva e naturale è stata, sin dal primo momento, la loro avversione al Bedeaux […] Per la sua unilateralità il sistema stesso sfuggiva ad ogni controllo, ad ogni disciplina sindacale, ed i rappresentanti degli operai, nei loro tentativi di tutelare gli interessi dei lavoratori, sempre si trovavano di fronte agli ostacoli creati dalla sfuggente tortuosità del sistema. Così per due anni è stata la nostra provincia il campo di questa battaglia senza clamore, combattuta dalle forze sane della nuova economia nazionale contro la prepotente invadenza della tendenza esotica. […] Oggi l’intervento del Duce ha sciolto il nodo inestricabile ed ha aperto la strada maestra alla soluzione del problema. E la provincia di Grosseto […] terra che ha per primo promosso la crociata del diritto e della giustizia, esulta oggi che il grande gesto di giustizia è compiuto, ed al Duce magnifico rivolge il tributo di gratitudine e devota riconoscenza». Giustizia mussoliniana, ne “La Maremma” (17/11/1934).

23Collaborazione fascista in atto, ne “La Maremma” (2/2/1935).

24A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., pp. 234, 236.

25Dopo l’abolizione del Bedeaux: la stipulazione dell’accordo per le tariffe salariali degli operai della Montecatini, ne “La Maremma” (23/2/1935).

26«[…] Si sono così dimostrati pienamente infondati gli allarmi diffusi prima della liquidazione tra la massa operaia, e le diffidenze di questa verso l’organizzazione sindacale dei lavoratori, i cui dirigenti, centrali e periferici, hanno invece dimostrato in quest’occasione di saper tutelare gli interessi degli operai con avvedutezza ed energia». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645. Relazione mensile sulla situazione politica ed economica della provincia, inviata dal prefetto di Grosseto Francesco Palici Di Suni al Capo del Governo, ministro dell’Interno (3/5/1935).

27ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, all’Ispettorato corporativo, Circolo di Firenze (14/7/1939).

28ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Promemoria sulle applicazioni degli aumenti del ventennale alle maestranze minerarie della Società Montecatini della provincia di Grosseto (17/6/1939).

29ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione prefettizia sulla situazione delle maestranze dipendenti dalle miniere di pirite della Niccioleta della Società Montecatini (18/5/1936).

30ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del questore di Grosseto Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (25/6/1936).

31ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni al ministero delle Corporazioni e p.c. al ministero dell’Interno. Oggetto: miniera della Niccioleta, vertenze salariali (23/5/1936).

32ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del ministero delle Corporazioni, Direzione generale del lavoro, previdenza e assistenza, al prefetto di Grosseto. Oggetto: accordo integrativo salariale per gli operai della miniera di Niccioleta (24/7/1936).

33ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 640. Accordo integrativo salariale del contratto provinciale per le miniere della Provincia di Grosseto, da valere per gli operai dipendenti dalla Miniera di Niccioleta della Società Montecatini (23/7/1936).

34ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (12/9/1936).

35ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto (3/10/1936).

36 Il testo della sentenza chiariva che «[…] la quota di maggiorazione è dovuta a tutti i cottimisti e fa parte integrante del salario onde il datore di lavoro non può in nessun caso corrispondere al lavoratore una retribuzione inferiore a quella resultante dalla paga base e dalla percentuale minima di lavorazione. […] Il contratto di cottimo non è fatto per gli operai inferiori al tipo normale per laboriosità e capacità. La laboriosità e la normale capacità sono dunque qualità che devono sussistere in ogni operaio che viene adibito al lavoro a cottimo. La dichiarazione XIV della Carta del Lavoro prescrive dunque che il lavoratore a cottimo di normale laboriosità e capacità deve conseguire un minimo di guadagno oltre la paga base; dal che può desumersi che essendo i lavoratori adibiti al cottimo tutti presumibilmente forniti delle supradette qualità, tutti gli operai che lavorano a cottimo devono conseguire quel minimo di retribuzione che è costituito dalla paga base più la maggiorazione di cottimo». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666.

37ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto. Oggetto: garanzia minimi di cottimo operai miniera Boccheggiano-Niccioleta (12/1/1937).

38ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: paghe degli operai della miniera di Niccioleta (29/1/1937).

39ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: malcontento negli operai addetti alla miniera Niccioleta della S.A. “Montecatini” di Massa Marittima (23/4/1937).

40ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis.

41ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 688. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, al prefetto di Grosseto (31/1/1938).

42ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 709. Contratto collettivo integrativo a quello nazionale per l’industria mineraria, da valere per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto (27/1/1939).

43 ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703.

44 La modifica consisteva nell’includere nelle voci di cottimo già esistenti delle nuove operazioni (ad esempio la colmata di carrello, lo spostamento di carrello ecc.) precedentemente pagate a parte. In pratica, mentre prima l’arrivo del carrello carico di minerale alla bocca del fosso comprendeva numerose operazioni separatamente retribuite, con il nuovo metodo la Montecatini mirava a retribuire le squadre operaie complessivamente per ogni carrello giunto alla bocca del fosso. Si cercava quindi di ottenere dagli operai un maggior rendimento con la stessa retribuzione. I lavoratori furono invitati a squadre per accettare i nuovi prezzi di cottimo: chi rifiutò di accettare tali condizioni senza aver prima consultato l’organizzazione sindacale competente fu passato al sistema di retribuzione a economia, con una riduzione di guadagno del 10% e l’ammonizione di severi provvedimenti disciplinari in caso di un calo di rendimento. Il sistema in pratica eludeva l’articolo due del contratto nazionale sulla disciplina del lavoro a cottimo, permettendo di non aumentare le tariffe insufficienti. Il malcontento tra gli operai crebbe, mentre la Montecatini, spalleggiata dall’Unione degli industriali, accusava di demagogia gli esponenti dei sindacati. I carabinieri di Grosseto riferirono che l’influenza della Montecatini era tale che gli stessi ambienti locali avrebbero preferito soffocare la tesi dei sindacati pur di conservare la benevolenza della Società. La situazione era definita preoccupante per ragioni economiche, di equità e per il mantenimento dell’ordine pubblico. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del Comando del gruppo carabinieri reali di Grosseto al prefetto di Grosseto (20/5/1939).

45Al Comune di Massa Marittima è stata attribuita la medaglia d’argento al Valor Militare per il suo contributo alla lotta di Liberazione. Nella motivazione è stata citata anche la difesa degli impianti minerari di Niccioleta.

46M. Tanzini, “Sui martiri di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora“, anno IX, Effigi, Arcidosso, 2004. Su Giuseppe Gasperi vedi: www.bfscollezionidigitali.org/entita/13539-gasperi-giuseppe. Sulla cellula comunista di Boccheggiano vedi: R. Zago, O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano, in “Toscana Novecento” (www.toscananovecento.it).

47L. Bianciardi, C. Cassola, “I minatori della Maremma“, Laterza, Bari, 1956 (ultima edizione Minimum Fax, Roma, 2019).

48ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645, relazioni sulla situazione politica della provincia inviate dal questore Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (30/7/1935 e 31/7/1935).

49ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 422, f. Contorni Lorenzo.

50https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1c42b689817c8bac296

51ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 449, f. Contorni Carlo.

52https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1852b689817c8bab62e

53ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 471, f. Vagnoli Primo.

54F. Avanzati, Gente e fatti dell’Amiata. Abbadia S. Salvatore fra storia, mito e memoria 1900-1937, La Pietra, Milano, 1989, pp. 220-221.

55ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 466, f. Rossetti Corrado.

56 P. Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura, Carocci, Roma, 2015; M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2018.

57Per la situazione politico-amministrativa di Arcidosso vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 628; ACS, MI, DGAC, Podestà e consulte municipali, b. 168, f. 1007, s.f. 1, Arcidosso.

58ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 518.

59ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519. Per le statistiche sui morti sul lavoro nella miniera di Niccioleta vedi: S. Polvani, Miniere e minatori. Il lavoro, le lotte, l’impresa, Leopoldo II, Follonica -Gr, 2002, pp. 40-41.

60www.gransassolagaich.it/riti-e-pratiche-sociali/allegro-funerale/

61Tutta la documentazione su questo episodio in: ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519.

62L. Niccolai, Resistenza e guerra di Liberazione sul Monte Amiata (ottobre 1943-giugno1944), in AA.VV., Miniere e società, Giornate di Studio. Dal “memoriale unico” del 1919 alla strage di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici culturali e ambientali per Santa Fiora”, anno IX, Effigi, Arcidosso -Gr, 2004, pp. 67.

63A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., p. 265.

64E. Balducci, Quei miei compagni di scuola diventati minatori e fucilati, ne “L’Unita”, (20/6/1984).




O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano

Nell’estate del 1938, pochi giorni dopo l’annuncio del censimento degli ebrei — preludio all’emanazione di una speciale normativa[1] che avrebbe reso evidente la natura razzista e antisemita insita nell’ideologia fascista sin dalle origini — nel piccolo borgo minerario di Boccheggiano, situato nella Maremma grossetana, venne fondata una cellula clandestina comunista[2]. L’obiettivo era ridare impulso alla lotta per l’emancipazione, la libertà e la solidarietà, ideali conosciuti prima del fascismo ma da anni soffocati e silenziati. Infatti, con le “leggi fascistissime”, emanate tra il 1925 e il 1926[3], ogni forma di opposizione fu repressa tanto che «alla fine del 1926 tutti i partiti, tranne il Pnf, furono messi praticamente fuori legge, mentre, per iniziativa del segretario del Pnf, la Camera dichiarò decaduti i deputati dell’opposizione “aventiniana” e del Partito comunista (9 novembre)»[4]. Negli anni ’30, persino le attività clandestine divennero impossibili a causa dell’inasprimento del controllo totalitario, attuato attraverso la repressione della polizia tradizionale e dell’OVRA, l’Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, che operava sia entro i confini italiani sia all’estero, con l’obiettivo di spezzare ogni possibile legame tra gli antifascisti. È in questo scenario di violenza e censura che alle 15:30 dell’8 agosto 1938 Anuello Lorenzoni, Altero Lorenzoni, Bruno Traditi, Ideale Tognoni, Eraldo Periccioli e Bandino Pimpinelli[5] decisero di costituire la cellula clandestina di Boccheggiano. Erano quasi tutti minatori, ad eccezione di Anuello, che lavorava come falegname, e di Altero, muratore.

In un’intervista collettiva rivolta ad Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni fu proprio quest’ultimo a specificare l’importanza della cellula comunista già nel 1938: «Ebbene, anche se non riuscì a prendere contatti con l’esterno, si riuscì invece a organizzare e a tenere viva la lotta nelle miniere anche sotto il regime fascista; si riuscì soprattutto a far sì che tutta la zona circostante Boccheggiano si avesse dalla nostra parte anche chi non combatteva apertamente.»[6]

Peraltro, non stupisce che sia proprio in un contesto minerario a sorgere la cellula clandestina comunista. Già nel 1919 il Partito Socialista aveva conquistato l’egemonia tra i minatori[7] ottenendo importanti risultati grazie alla stretta collaborazione tra forze politiche e organizzazioni sindacali[8], come l’introduzione di minimi salariali e la regolamentazione delle tariffe a cottimo[9]. Tale forza, tuttavia, era già segnata da una frammentazione interna che avrebbe portato alla scissione del 1921 e alla nascita del Partito Comunista d’Italia, cui aderirono principalmente le nuove leve della Federazione Giovanile e della Camera del Lavoro, affascinati dalle spinte rivoluzionarie[10].

Montieri, di cui Boccheggiano era importante frazione anche dal punto di vista della forza politica dei minatori, oltre ad essere stato il primo Comune socialista della provincia, fu l’ultimo a soccombere alle sistematiche azioni punitive[11] dello squadrismo dei fascisti, che avevano creato una propria roccaforte a Gerfalco da cui partivano per compiere le loro violenze[12].

All’alba della marcia su Roma il movimento operaio e socialista della provincia di Grosseto era stato sostanzialmente soffocato: nessuna organizzazione, nessun organo di stampa, nessuna sede per le riunioni, nessuna lotta contro il padronato delle Società minerarie della Montecatini e della Ravi-Marchi era possibile. Questa repressione si intensificò ulteriormente con il connubio tra fascismo e industria che trovò la consacrazione nel Patto di Palazzo Vidoni nell’ottobre del 1925[13].

La soppressione delle organizzazioni politiche e sindacali sancita dalle leggi fascistissime[14] portò progressivamente a un generale peggioramento delle condizioni di lavoro dei minatori e, in particolare, ad una significativa contrazione del salario operaio[15], fenomeno che si aggravò ulteriormente con la Grande Depressione. Durante questo periodo, la produzione della lignite calò drasticamente e solo alla fine degli anni ’30, in concomitanza con la politica autarchica e l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, i livelli della produzione e il numero degli operai impiegati nelle miniere tornarono ai livelli del primo dopoguerra[16]. Meno accentuato fu, invece, l’impatto della crisi sull’estrazione della pirite che, anzi, grazie al suo impiego nell’industria chimica, conobbe un importante potenziamento[17].

Tutto ciò contribuisce a spiegare l’esistenza, fin dalle origini del regime fascista, «di forme, spesso spontanee e contraddittorie, ma tuttavia assai vivaci, di resistenza all’azione di snaturamento delle tradizioni di classe attuata dal fascismo e di difesa dell’identità sociale e ‘culturale’ dei minatori»[18].

Anche l’isolamento geografico dei luoghi[19] – borghi e villaggi appositamente sorti negli anni ’30 – favoriva sia un capillare controllo da parte della Società mineraria e degli organi del regime fascista, sia una certa atomizzazione della lotta operaia. Allo stesso tempo, però, tale isolamento teneva vivo un sentimento di appartenenza e di emancipazione che, pur latente, talvolta si manifestava nell’antifascismo spontaneo, fino a tradursi in forme più collettive. Un esempio significativo è l’episodio che nel 1930 vide protagonista Ideale Tognoni, futuro fondatore della cellula clandestina e figlio di un militante e dirigente del PSI già vittima di attacchi, arresti e perquisizioni per mano fascista: non ancora maggiorenne, venne arrestato e imprigionato per un mese con l’accusa di aver disegnato la falce e il martello sui carrelli della miniera[20]. Inoltre, all’inizio del ‘32 i minatori di Montieri e Boccheggiano chiesero di non risultare più iscritti al sindacato fascista, criticando la sua inadeguatezza nel difendere i diritti dei lavoratori, e immediatamente furono imitati dai minatori di Prata e Roccatederighi che lavoravano con loro. Da Boccheggiano la protesta si estese a Niccioleta, dove il conflitto trovò espressione anche all’interno del villaggio[21], in quel quartiere operaio che la Montecatini aveva volutamente costruito come sobborgo ghettizzato.

Contro ogni soffio di rivendicazione si alzava la repressione della Società mineraria e del suo alleato fascista: la battaglia più aspra fu condotta contro il metodo Bedeaux[22] che sfruttava la forza-lavoro operaia. I minatori reagirono con azioni di propaganda cui la Montecatini rispose chiamando un battaglione della Milizia per piantonare la miniera giorno e notte[23] e avviando licenziamenti. Il conflitto culminò il 3 settembre 1933 quando un corteo di operai si diresse verso l’ufficio del direttore della miniera di Boccheggiano per protestare contro le riduzioni salariali: lo scontro finì con la distruzione dei mobili negli uffici[24]. La Montecatini ebbe però la meglio, con il supporto della Milizia. Seguì poi la minaccia di inviare gli operai nella guerra in Africa se non avessero “rigato dritto” mentre quasi tutte le domeniche gli squadristi arrivavano nel borgo minerario, dove si facevano consegnare degli elenchi dai fascisti locali per proseguire le violenze nelle case degli oppositori[25]. Ogni giorno, all’uscita della miniera, i fascisti ricordavano ai minatori chi comandasse, non solo perché erano «comunisti, ma anche e soprattutto perché…operai».[26]

Questo fu il clima in cui, ai primi di agosto del 1938, sorse la cellula clandestina comunista, quasi segnando un nuovo corso nel contingente della lotta antifascista che, fino a quel momento, si era svolta nelle gallerie della miniera, resistendo all’annichilimento voluto dal regime. Rispetto alla prima fase di attività della cellula, l’azione si concentrò principalmente sulla propaganda, vista come l’unico mezzo per rimpolpare le fila, un compito estremamente difficile ma che doveva essere tentato.

La prima riunione della cellula, tenutasi il 22 agosto[27] 1938, stabilì il nome che avrebbe dovuto avere: Organizzazione Comunista Rivoluzionaria. Si decise, tuttavia, di abbreviare il nome in “O-3-R”, da utilizzare anche nei registri, per evitare che il richiamo esplicito al comunismo potesse attirare l’attenzione o provocare rappresaglie dei fascisti. La cellula assunse un nome emblematico che da un lato richiamava il legame con il Partito Comunista (un legame più teorico che pratico, almeno in questa fase), ma dall’altro si connotava in modo autonomo, come segno di emancipazione e di lotta. La scelta del numero “3” potrebbe coincidere con la posizione della lettera ‘C’ nell’alfabeto oppure evocare la Terza Internazionale, l’organizzazione fondata nel 1919 sotto la guida del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con il compito di coordinare i partiti comunisti a livello mondiale per diffondere la rivoluzione socialista. Così Ideale Tognoni descriveva le origini della cellula, sottolineando come la spinta rivoluzionaria che portò alla sua costituzione fosse il frutto dell’influenza politica trasmessa fin dall’infanzia dai loro padri, di fede socialista, e fortemente segnata dagli eventi del 1917: «ci ha permesso di ricostituire una sezione comunista in pieno regime fascista, chiaro segno questo che l’insegnamento e l’esempio dei nostri vecchi aveva dato i suoi frutti»[28].

Fondazione della cellula

Una delle caratteristiche che emerge immediatamente dai primi verbali delle adunate è la ritualizzazione interna, frutto di quel processo di mitizzazione nei confronti del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, rappresentato in particolare dalla figura del suo segretario Stalin. Già alla prima riunione, infatti, venne stabilita la formula del giuramento per le nuove adesioni, nonché la necessità di dotarsi di regolamenti e di norme disciplinari, definendo subito gli obiettivi perseguiti dai fondatori: cercare di inserirsi tra le fila fasciste «per sabotare e scrutare» ovvero «collaborare materialmente e politicamente a contatto con la nostra classe operaia e attirare a sua volta gli elementi abili alla nostra propaganda ed al nostro Ideale»[29]. Soprattutto nella fase iniziale, infatti, la funzione della cellula fu principalmente quella di tenere insieme gli stessi ideali, offrire un barlume di speranza nella condivisione di una società diversa e far sentire vicini coloro che quotidianamente erano sotto minaccia di violenze.

La capacità organizzativa, in termini di forza, di idee e di supporto economico, fu al centro della seconda adunata che si tenne il 1° settembre. In quell’occasione venne stabilito per ciascun associato il versamento di una quota mensile di 2 lire, una cifra sostanzialmente simbolica che poteva essere garantita da tutti, ma che al contempo rappresentava un segnale di appartenenza e di supporto. Per la prima volta fu approvato il giuramento e Anuello Lorenzoni fu eletto capo della cellula, ruolo che ricoprirà per tutto il periodo della clandestinità. Per garantire la segretezza e tutelare gli iscritti – ispirandosi più a pratiche massoniche[30], la cui tradizione era ben radicata nelle Colline maremmane, che a organizzazioni clandestine internazionaliste – si decise di chiamare i compagni non per nome, ma utilizzando numeri progressivi, in ordine di iscrizione.

Nell’adunata successiva del 10 ottobre, dopo averne discusso negli incontri precedenti, venne letto e approvato il programma, al motto marxista “Proletari di tutti i paesi: unitevi!”. Il programma prevedeva un’organizzazione basata su cellule, ponendo come primo obiettivo la propaganda, rivolta soprattutto ai giovani che meno di altri avevano conosciuto la possibilità di una libertà di pensiero e il pluralismo dei partiti, ormai relegati alla clandestinità all’estero dalle leggi fascistissime. La finalità dell’azione propagandistica era esplicitamente dichiarata: abbattere il governo fascista, in tutti i modi[31], e dar vita ad un nuovo governo.

L’influenza delle idee comuniste – più per evocazione del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e della teoria rivoluzionaria di Lenin che per effettiva militanza pregressa tra le fila del PCd’I – si riflette nel programma: tra gli obiettivi, la cellula si prefiggeva la lotta per l’abbattimento del capitale individuale, un lavoro al servizio di tutti, la socializzazione delle terre, il diritto di eleggere i propri rappresentanti[32], una parità di diritti tra uomo e donna, un connubio uomo-scienza che richiamava il progresso del modo di produzione. Dalla lettura del programma si percepisce un ‘socialismo umanitario’[33], caratterizzato da un profondo senso di solidarietà e dalla volontà di costruire una società più uguale e giusta, nella speranza di riuscire ad abbattere la barriera che separa l’uomo dall’uomo, contro quell’egoistico individualismo finalizzato solo al soddisfacimento dei propri interessi. Se pensiamo agli abusi, alle violenze, alle torture che la popolazione aveva conosciuto già con lo squadrismo del movimento fascista delle origini, questo desiderio di solidarietà e rispetto risulta quanto mai vivo e sentito. Tale pensiero si riflette nell’ultimo punto del programma: «Vogliamo infine essere uomini e non più Massa bruta», un’espressione che invitava a superare la condizione di passività e ignoranza, per sviluppare una coscienza di classe e diventare protagonisti consapevoli della propria storia.

L’impronta comunista della cellula fu riportata anche nel timbro che uno dei nuovi iscritti, Bosco Brachini, fabbricò nell’officina della miniera: qui incise lo stampo che però risultò con la falce e il martello rovesciati, forse per la sua giovane età che gli impediva di ricordare correttamente il simbolo del partito ormai da tempo vietato o perché non tenne conto del fatto che il timbro avrebbe riprodotto l’immagine specchiata.[34]

Per quanto riguarda le disposizioni disciplinari, oltre alla puntualità nelle adunate – proprio per evitare il rischio di essere scoperti –, ogni affiliato avrebbe dovuto prestare giuramento e obbedire agli ordini. In caso contrario, una Commissione avrebbe giudicato il suo operato e il tradimento delle disposizioni avrebbe comportato la condanna a morte. Da un punto di vista morale – perché la cellula non regolava solo la vita politica – all’iscritto era vietato l’abuso di alcol e il gioco.

Ogni iscritto doveva salutare, all’inizio e alla fine di ogni adunata, con il braccio alzato e il pugno chiuso: un gesto che diventava un segno di condivisione e appartenenza acquisendo un significato ancora più profondo nel contesto di paura, violenza e individualismo che caratterizzava quei tempi.

Nel giro di poche settimane il numero degli iscritti e le richieste di adesione aumentarono significativamente, facendo presagire una ventata di speranza, in nome di una lotta collettiva che avrebbe liberato un intero Paese dal giogo fascista. Si rese necessario creare due cellule per consentire l’organizzazione e la clandestinità, ciascuna delle quali dotata di un capo e di un gruppo per l’esecuzione dei compiti[35]. Da quel momento in poi, l’O-3-R avrebbe vissuto fasi alterne di adesioni, con l’obiettivo primario di garantire l’incolumità e la segretezza degli iscritti e delle attività, obiettivi che un numero eccessivo e non controllato non avrebbe potuto garantire.

Il giuramento dei membri della cellula

Il crescente contingente di affiliati richiedeva inevitabilmente un luogo più sicuro per le adunate[36], che dal nuovo anno si svolgevano con cadenza mensile. Così, il 15 febbraio 1939 il capo della prima cellula, Bandino Pimpinelli, con i compagni Altero Lorenzoni e Ideale Tognoni vennero incaricati di andare alla ricerca di un posto sicuro. La stessa sera il luogo fu individuato: era un rifugio situato poco sotto il centro di Boccheggiano, tra gli alberi di castagno tipici delle Cornate, un cunicolo all’interno di una grotta, una vecchia galleria che collegava la miniera e che ora avrebbe permesso di raccogliere in sicurezza tutti i partecipanti alle riunioni clandestine. Era un luogo perfetto, che però necessitava di alcuni lavori per renderlo idoneo all’organizzazione: due sere dopo, a buio inoltrato, tutti i componenti della prima cellula si ritrovarono con «picconi, pale, puntelli, bacchi, ascia, [e] fu così iniziato il lavoro di disgaggio, armamento e porta»[37].

Il 30 marzo il rifugio fu inaugurato con l’adunata di entrambe le cellule: la prima cellula decise che quella vecchia galleria, da quel momento, avrebbe preso il nome di “Rifugio Stalin”, un ulteriore omaggio ideologico alla patria della rivoluzione. Per festeggiare quel luogo condiviso di lotta e ideali, gli iscritti quella sera brindarono con due fiaschi di vino.[38]

Una volta trovato un luogo sicuro per le riunioni, l’attenzione si poteva completamente concentrare sull’opposizione politica. Dai verbali di agosto emerge chiaramente che il primo obiettivo fosse quello di reperire armi automatiche, per garantire la sicurezza e prepararsi allo scontro con l’oppressore fascista. Tuttavia, ad un certo punto, si verificò un evento che sconvolse i comunisti del borgo minerario: la Germania stava varcando “furibonda”[39] le frontiere e pertanto l’O-3-R ordinò di cessare ogni attività di propaganda politica al fine di «iniziare subito il sabotaggio nelle fabbriche, nelle miniere e nelle officine e dove si costruisca per la guerra»[40]. La notizia venne commentata a poche settimane dall’occupazione tedesca della Polonia – al pretesto di “Morire per Danzica” – alla quale, lo stesso 1° settembre, Francia e Gran Bretagna avevano risposto con la dichiarazione di guerra, mentre l’URSS avanzava da Oriente, forte del Patto Molotov-Ribbentrop, firmato il 23 agosto proprio con la Germania, che sanciva la non aggressione tra i due Paesi. Lo scenario che si stava delineando sembrava chiaro anche ai comunisti della cellula clandestina: l’aggressione tedesca ai danni della Polonia non poteva che destare preoccupazione e paura[41], nonostante Mussolini, già il giorno dell’invasione, avesse proclamato la non belligeranza dell’Italia in accordo con Hitler, appellandosi al carattere difensivo del Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939. Tuttavia, per quanto tempo avrebbe potuto reggere questa posizione di neutralità? Quale tipo di supporto sarebbe stato richiesto all’alleato fascista? L’Italia, assolutamente impreparata sia dal punto di vista bellico che industriale, era comunque destinata ad entrare nel conflitto.

Lo scoppio della guerra aveva determinato, anche a livello nazionale, la conversione delle fabbriche per soddisfare le crescenti esigenze belliche, con la produzione di armi, munizioni e mezzi per l’esercito. L’azione di sabotaggio assumeva quindi una duplice valenza: da un lato rappresentava una manifestazione politica di opposizione all’iniziativa militare, dall’altro costituiva una rivendicazione sindacale e civile contro le sempre più drammatiche condizioni di lavoro. È necessario precisare, comunque, che probabilmente tali azioni consistevano più in piccoli atti per rallentare i lavori che in vere e proprie opere di sabotaggio, di cui non risultano testimonianze.

Lo scoppio della guerra non poteva non avere ripercussioni sulla vita della cellula comunista: mentre alimentava il desiderio di intensificare lo scontro con il regime fascista, imponeva un’attenzione ancora più alta verso le nuove richieste di adesione all’O-3-R. La principale preoccupazione riguardava il coinvolgimento dei più giovani: se senza dubbio erano accolti favorevolmente l’entusiasmo e l’energia delle nuove generazioni che chiedevano di partecipare, al contempo, si temeva l’infiltrazione o la scarsa preparazione politica dei nuovi membri. La sincera lealtà alla causa rivoluzionaria era garantita dal giuramento liturgico pronunciato dai nuovi e giovani iscritti: si arrivò così alla nascita dell’O-Giovanile-R[42], affidata alla guida di Ideale Tognoni.

Nel frattempo, il conflitto militare procedeva nella forma della drôle de guerre: la Germania, con una grande velocità grazie alle sue divisioni corazzate[43], aveva occupato Polonia, Danimarca e Norvegia mentre Francia e Inghilterra non avevano sparato ancora un colpo. Man mano che passavano le settimane, anche sul fronte interno cresceva la tensione: l’esigenza di controllo sul territorio, per evitare ogni passo falso e soprattutto ogni ripresa delle forze di opposizione, portò infatti il regime a rafforzare le misure repressive, anche nelle zone più isolate. È con questo intento che nella notte del 25 aprile 1940[44] il borgo minerario di Boccheggiano venne quasi completamente accerchiato dalle spie fasciste, spingendo Anuello Lorenzoni a ordinare riunioni bimestrali e a sospendere le nuove iscrizioni, per evitare rischi di infiltrazioni o arresti. Questo stato di cose perdurò per tutta l’estate: Mussolini, sicuro di salire sul carro del vincitore, il 10 giugno aveva oramai dichiarato guerra attaccando i francesi sulle Alpi, ma già dai primi scontri emerse l’inadeguatezza dell’esercito italiano, mentre la Germania continuava imperterrita a occupare Olanda, Belgio fino alla capitolazione della Francia. Anche a Boccheggiano l’atmosfera che si respirava era pesante e, proprio per non destare sospetti, fu deciso di trasformare gli incontri tra i compagni in occasioni di convivialità, come poteva essere una merenda sotto i castagni.

Tuttavia, mentre si cercava di prestare la massima attenzione per evitare ogni rischio di scoperta, la cellula valutò che i tempi fossero maturi per organizzare l’azione politica tanto attesa: fu pertanto eseguito il censimento delle armi acquistate nel ’39, verificandone la funzionalità e lo stato di conservazione, annotando chi le detenesse. L’inventario rivelò la presenza di una rivoltella automatica e due rivoltelle a tamburo. L’O-3-R sembrava operare su due fronti distinti ma complementari: da un lato, rafforzava la propria organizzazione in vista di un possibile ritorno di quella ‘guerra civile’ vissuta nei primi anni dello squadrismo, dall’altro proseguiva convintamente l’attività di propaganda, che ora si faceva più che mai cruciale per attrarre fidati proseliti, pur restando instancabilmente ma necessariamente nell’ombra[45]. Per queste ragioni, le adunate tornarono ad avere una cadenza mensile e nell’aprile del ’41 si unì una terza cellula composta da compagni più maturi.

Le notizie dal fronte concorrevano ad indebolire sempre più l’immagine di Mussolini e del suo regime, così come le ragioni dell’entrata in guerra: la disfatta della flotta italiana per mano inglese, la resa in Africa di 20.000 soldati italiani, con l’abbandono di 100 carri armati nelle mani di appena 3.000 britannici, le numerose disfatte in terra greca che richiesero l’intervento dell’alleato tedesco.

Elenco dei membri della cellula

Con il costante aumento dei fallimenti dell’esercito fascista, che riflettevano un regime sempre più in crisi, cresceva il bisogno di condividere ideali di libertà e di lotta, espressi ancora una volta attraverso la simbologia politica. Con questo intento, durante l’adunata del 1° maggio 1941 – data simbolo di solidarietà e fratellanza operaia – venne mostrato il vessillo ufficiale dell’O-3-R: una bandiera rossa, ricamata a mano da Miranda Marzolini, moglie di Ideale e l’unica donna a conoscenza della cellula clandestina. La bandiera fu realizzata anche grazie al contributo dei fratelli Ideale e Mauro Tognoni, rinominati adesso rispettivamente alfiere e scorta d’onore. Su quella bandiera rossa spiccava la scritta: “Partito Comunista di Boccheggiano”[46].

All’inizio dell’estate del ’41, ad un anno esatto dall’entrata dell’Italia in guerra, il clima a Boccheggiano si presentava ancora più teso e carico di preoccupazioni, ma a differenza del passato, quando la cellula era arrivata a sospendere le iscrizioni e a rallentare le adunate, adesso l’azione sembrava proseguire: lo stesso Lorenzoni, in qualità di capo, esortava a mantenere viva la propaganda in un paese ormai «assediato dai malfattori, che vigilano oggi più di ieri, per vedere se riescono a toglierci fra le sue ormai minate file impossibilitate di vincere e di abbatterci.»[47]

Dai verbali si ha l’impressione che l’attività clandestina riuscisse a portare nel Rifugio Stalin organi di informazione che diventavano un momento di lettura collettiva e confronto sugli accadimenti. L’unione e il senso di appartenenza si rafforzavano anche grazie a questo, in un contesto in cui il livello di alfabetizzazione era limitato rendendo difficile per molti l’accesso alle informazioni e la comprensione degli eventi. Così, la lettura ad alta voce dei pochi articoli che riuscivano ad arrivare clandestinamente diventava un’importante occasione di condivisione, non solo della cronaca, ma anche dei valori e dell’identità di classe. I più attivi a distribuire «L’Unità» erano i fondatori Bandino, Ideale e Altero, particolarmente impegnati anche nella ricerca di nuovi proseliti per creare altre cellule, persino nei paesi limitrofi. Tra i nuovi iscritti, che andarono a rimpolpare l’organizzazione nei mesi successivi[48], vi era invece Paride Lucchesi, uno dei pochi istruiti di Boccheggiano, che riusciva a portare con sé un «giornaletto di piccolo formato e dalla veste tipografica alquanto dismessa che presto si consumava a passarlo di mano in mano»[49], ovvero il giornale ufficiale del partito comunista che aveva da poco ripreso la stampa clandestina[50].

Tra le notizie che arrivavano dal fronte, quella che colpì maggiormente fu la dichiarazione di guerra alla Russia da parte della Germania, «dopo essere già entrata di soprassalto nel suo territorio»[51]: il Terzo Reich lanciò le sue divisioni corazzate oltre i confini sovietici, un atto che fu definito dall’organizzazione clandestina un vero e proprio tradimento di quel patto militare e politico siglato all’alba della occupazione della Polonia. L’ “Operazione Barbarossa” tedesca finì col rafforzare ulteriormente il senso di appartenenza alla causa comunista. Inoltre, ai compagni non poteva sfuggire che fin dall’inizio Hitler aveva posto tra gli obiettivi del Terzo Reich l’annientamento del comunismo, la fine di ogni prospettiva di internazionalizzazione della rivoluzione proletaria e la conquista di tutti i popoli slavi per estendere il suo potere anche ad Oriente. I verbali non riportano i resoconti delle discussioni politiche ma all’adunata del 10 agosto del ’41 venne approvato un ordine del giorno che ben esprime quel clima: sabotare «qualsiasi lavorazione dove i compagni si trovino occupati per prima fiaccare i due eserciti uniti»[52]. Ancora una volta il sabotaggio veniva indicato come principale strumento di lotta mirato a colpire le forze dell’Asse. Ancora una volta l’alleanza nazifascista doveva essere abbattuta, ancora di più se l’altro fronte era rappresentato dalla ‘Patria dei lavoratori’.

Rispetto all’attività dell’O-3-R, la convocazione delle adunate era diventata, ormai da tempo, una variabile dipendente dal livello di attenzione e pericolo che si respirava per le strade del piccolo borgo, permeato da una presenza sempre più massiccia di fascisti. I crescenti controlli erano la conseguenza di quanto accadeva sul fronte militare, con l’intento di incutere terrore mediante un’oppressione sempre più soffocante: «In molti Paesi e città si verificano fatti da loro commessi a molti de’ nostri compagni da essi scoperti nelle organizzazioni»[53]. Evidentemente non solo a Boccheggiano, ma anche nei paesi vicini gli insuccessi del regime avevano riacceso un fervore politico che dopo anni di silenzio sembrava piano piano riprendere voce. Per questo motivo, a partire dal 1942 l’O-3-R iniziò a cercare collaborazioni esterne: un primo tentativo fu fatto a Prata[54], dove alcuni locali avevano manifestato interesse a unirsi alla lotta politica, ma l’incontro di maggio, cui parteciparono Altero Lorenzoni, Bandino Pimpinelli e Oscar Rocchi, rivelò che il contesto non era ancora favorevole a una struttura organizzata e ideologicamente coerente[55]. La questione, tuttavia, venne ripresa a luglio, ancora una volta sollecitata dai compagni di Prata, perché sempre più imminente si presentava l’esigenza di trovare un contatto con altri centri organizzativi e creare una rete di collegamento: l’obiettivo era quello di diffondere anche presso di loro giornali come «La Giovane Italia», «L’Italia libera» e «L’Unità»[56], strumenti di informazione e propaganda, pur con orientamento politico diverso, contro l’oppressione fascista che continuava a registrare fallimenti militari, e con essi la morte di tanti soldati al fronte. Si percepisce chiaramente il desiderio di rendere l’organizzazione più capillare, creando contatti con altri comunisti locali e mettendo insieme le forze per unirsi nella lotta che li attendeva. Del resto, dall’estate del ’42, sembrano avviarsi i primi rapporti con il PCI, che sarebbero diventati diretti e stabili con la caduta del regime[57]. Anche gli stessi strumenti propagandistici, pur circolando ancora in forma clandestina, cominciavano a farsi sentire con maggiore frequenza, quasi come voler rispondere all’esigenza di un maggiore approfondimento teorico e pratico, mirato a risvegliare la coscienza di classe. Infatti, se da una parte l’attività della Organizzazione Rivoluzionaria aumentava di intensità, dall’altra anche i controlli degli «abbietti e miserabili fascisti»[58] si facevano sempre più stringenti, specialmente agli inizi del ’43. Per questa ragione, l’O-3-R si trovò di fronte ad una scelta, dolorosa ma inevitabile: distruggere tutto ciò che era stato prodotto fino a quel momento fatta eccezione della bandiera, del registro cassa e del registro dell’organizzazione[59]. Nessuna traccia doveva restare, nessun rischio doveva essere corso. Soprattutto ora.

Nel frattempo, le notizie che arrivavano dal fronte rappresentavano motivo di soddisfazione e stimolo per l’Organizzazione, in particolare per i successi degli Inglesi e soprattutto dei “compagni Russi”[60]. La guerra tra Germania e Unione Sovietica aveva visto un enorme dispiegamento di forze da entrambe le parti, ma l’iniziale avanzata tedesca del ‘41 fu l’ultimo successo della guerra lampo della Panzerdivisionen. Già verso la fine dell’anno, la Germania non poteva più contare sulla superiorità tecnologica dei panzer, sopraffatta anche dalla strategia sovietica e dall’inverno russo, proprio come accaduto con Napoleone. La battaglia di Mosca (ottobre 1941-gennaio 1942) rappresentò la prima sconfitta terrestre della Wehrmacht, provocando una pesante frattura psicologica poiché aveva dimostrato la non invincibilità tedesca. All’Armata Rossa si unì la guerra partigiana locale e il tracollo della Germania arrivò definitivamente con la battaglia di Stalingrado dove, dopo mesi di assedio, l’esercito tedesco si arrese, il 31 gennaio 1943.

La crescente speranza accompagnò gli animi della cellula fino alla notte del 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo votò l’ordine del giorno, presentato da Dino Grandi, per deporre il Duce. Di fronte alla notizia della «lunga e desiderata caduta del fascismo e del carnefice oppressore Benito Mussolini»[61] i capicellula diedero ordine ai compagni di rimanere pronti per qualsiasi direttiva potesse arrivare dall’organizzazione provinciale, invitando tutti ad aspettare ulteriori istruzioni.

Il programma della cellula

La valutazione che emerge rispetto a questo concitato momento è chiara: il fascismo era caduto ma per la cellula di Boccheggiano il sistema rimaneva “fascista borghese”, anche sotto la guida del Generale Badoglio «il quale spacciandosi come liberatore del Popolo imponeva dopo poche ore della capitolazzione (sic) leggi che terrorizzarono il popolo Italiano essendo ormai disorientato da 20 anni dall’oppressione fascista»[62]. Il riferimento è sicuramente al proclama del giorno successivo che introdusse lo stato d’assedio insieme a quello del coprifuoco, trasferendo i poteri civili nelle mani dei comandi militari, vietando assembramenti e manifestazioni pubbliche, mettendo in atto repressioni contro eventuali disordini.

Alla concitazione e al rischio di smarrimento legato alla situazione nazionale seguì un fervore di attesa per gli sviluppi degli eventi. Nel verbale del 18 agosto si fa riferimento allo “sciopero per la dimostrazione di Pace mondiale”[63], indetto dai compagni di Prata e svolto per 24 ore presso la miniera del Baciolo e contemporaneamente a Niccioleta. Nonostante le precarie e drammatiche condizioni cui gli operai erano stati sottoposti nel ventennio fascista, alla base dello sciopero non vi erano rivendicazioni economiche, ma un chiaro intento politico: manifestare il dissenso contro il regime appena caduto e sostenere ideali di pace e giustizia, in contrasto con il grido badogliano de “la guerra continua”.

Nel frattempo, continuavano i tentativi di costruire una rete politica territoriale. Il giorno prima della dichiarazione dell’armistizio – già firmato il 3 settembre – Bandino Pimpinelli, nuovamente incaricato da Lorenzoni, si recò a Massa Marittima per prendere contatto con gli altri compagni del PCI e, al suo ritorno, riferì la decisione di costituire un nuovo e più numeroso Comitato[64]. La cellula comunista di Boccheggiano era consapevole del momento storico che stavano vivendo e delle sfide che li attendevano, impegnati in azioni che richiedevano un’organizzazione solida ed efficace. Quella praxis tanto agognata adesso si presentava con tutta la sua forza: anni di regime, di violenza, di oppressione avevano segnato la società, gli animi, le speranze e le illusioni e il cammino verso la liberazione non sarebbe stato facile.

Alla notizia dell’armistizio, trasmessa da Radio Londra e ascoltata nel bar del Lorenzoni[65], che comunicava la resa incondizionata dell’Italia, i capicellula si riunirono con il compagno capo: l’unico ordine fu quello di dar vita a “dimostrazioni patriottiche”. Alle 21 dell’8 settembre fu pertanto organizzato un corteo al quale partecipò tutta la popolazione e due simpatizzanti dell’organizzazione comunista intervennero invitando, sì, al risveglio ma anche alla calma[66].

I mesi successivi avrebbero segnato una nuova fase per l’O-3-R. Tutte le speranze di quei compagni si riversarono nella lotta partigiana.

 

NOTE:

[1] Il censimento fu annunciato il 5 agosto 1938 ed effettuato a partire dal 22 agosto. Fu lo strumento attraverso il quale «gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati», Sarfatti M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione in Collotti E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Bari-Roma, Laterza, 2006, p. 65. Ciò costituì la base della più mastodontica legislazione antiebraica del mondo, dopo quella tedesca. Per un approfondimento si veda, ad esempio, l’opera sopra citata di Collotti.
[2] Questo articolo è il risultato di un lavoro di ricerca condotto sul Fondo Pimpinelli, in particolare attraverso l’analisi del Registro dei verbali della Organizzazione Comunista Rivoluzionaria, conservati presso l’AISGREC, Archivio dell’ISGREC – Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea.
[3] Si vedano il Regio Decreto n. 1848 “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” del 6 novembre 1926 e la Legge n. 2008 “Provvedimenti per la difesa dello Stato” del 25 novembre 1926 che, peraltro, istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e reintrodusse la pena di morte. Da questo momento, ogni forma di critica, di opposizione, di lotta al governo fu vietata e penalmente perseguita, tutti i partiti e le organizzazioni che manifestavano azione contraria al partito furono sciolti, fu istituito il confino di polizia «per quanti manifestassero il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire gli ordinamenti costituiti dello Stato», i giornali di opposizione furono soppressi; molti antifascisti fuggirono all’estero da dove cercarono di guidare la lotta al regime mussoliniano, contando anche su qualche appoggio di gruppi che provarono a continuare ad agire sul territorio italiano in forma clandestina. Si veda anche Spriano, P., Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, v. 3 parte prima, Einaudi editore, collana per «L’Unità», Torino, 1969, pp. 61-62.
[4] Gentile E., Fascismo. Storia e interpretazione, Economica Laterza, Bari-Roma, 2023, p. 20.
[5] Fondo Pimpinelli (da questo momento: FP), Registro verbali, f. 121. Bandino Pimpinelli fu curatore prima e poi custode di tutti i verbali dell’attività clandestina, fino alla sua morte nel 1996. Era il figlio di Ireneo, che fu l’ultimo sindaco di Montieri prima delle leggi fascistissime, socialista e autore di poesie popolari; sarà anche il primo sindaco nominato dal CLN subito dopo la Liberazione.
[6] Nesti A., Anonimi compagni: le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma, 1976, p. 143.
[7] Alle elezioni politiche del 1919 e alle amministrative del 1920 il Partito Socialista era risultato il primo partito: i socialisti conquistarono tutte le amministrazioni comunali ad eccezione dell’Isola del Giglio, dove si registrò la vittoria dei liberali, Monte Argentario, dei popolari, Castiglion della Pescaia e Massa Marittima, vinte dai repubblicani. Cfr. Rogari S. (a cura di), Il biennio rosso in Toscana 1919-1920, Atti del convegno di studi Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso 5-6 dicembre 2019, Firenze: Consiglio regionale della Toscana, 2021.
[8] Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 139.
[9] Cfr. «Il Risveglio», agosto 1919. Si veda anche Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani fra le due guerre, in Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘700. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 199.
[10] Cfr. «Il Risveglio», 27 marzo 1921. Ancora Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 200.
[11] Si rammenti la conquista armata di Grosseto (30 giugno 1921) che portò anche alla distruzione della Camera del Lavoro e della Lega dei Terrazzieri, delle sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, nonché della tipografia de «Il Risveglio»; inoltre, l’incursione squadrista a Roccastrada (24 luglio 1921) considerata “roccaforte rossa”. Per un approfondimento, Cansella I., Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco www.toscananovecento.it/custom_type/roccastrada-1921-un-paese-a-ferro-e-fuoco/
[12] Cfr. Ruffini M., Vitali S., Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 202-03.
[13] Stipulato il 2 ottobre 1925, l’accordo tra il regime fascista italiano e i rappresentanti della Confindustria rappresentò una svolta significativa nei rapporti tra il mondo del lavoro e il governo fascista, a scapito della classe operaia.
[14] In particolare, con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, venne istituito un sistema corporativo che prevedeva il riconoscimento di un unico sindacato per ogni categoria, strettamente controllato dallo Stato fascista.
[15] Nel 1939 la legione territoriale dei carabinieri reali di Livorno, gruppo di Grosseto, inviò al prefetto di Grosseto una relazione in cui di fatto sì evidenziava una riduzione dei salari nel corso degli ultimi 20 anni che oscillava tra il 36 e il 40% circa. Si veda Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 209.
[16] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., pp. 208- 209.
[17] A conferma di ciò, si possono citare, nella prima metà degli anni ’30, l’inaugurazione del villaggio di Niccioleta e la costruzione di un sistema di teleferiche che collegava le tre miniere della Montecatini (Boccheggiano, Niccioleta e Gavorrano) al mare, da dove i materiali venivano imbarcati verso i mercati nazionali e internazionali. In particolare, Niccioleta nacque nel 1933 come villaggio minerario di proprietà della Società Montecatini, ruolo che mantenne fino al 1976, quando divenne frazione del Comune di Massa Marittima.
[18] Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 210.
[19] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Quaderni ISGREC, 08, Effigi, Arcidosso (GR), 2021, p. 239.
[20] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218; Tognoni M., Visi sporchi coscienze pulite. ‘Storia’ di un paese minerario della Toscana, Il Paese reale, Grosseto, 1979, p. 57.
[21] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 213.
[22] Il metodo Bedeaux fu introdotto per la prima volta a Gavorrano nel marzo del 1932 in un contesto di grave crisi che aveva già causato una drastica riduzione del salario e numerosi licenziamenti. In generale, il metodo consisteva in uno strumento volto ad aumentare i ritmi di lavoro, senza collegare lo sforzo fisico al salario percepito; inoltre, prevedeva penalità per i lavoratori che non rispettavano i tempi massimi stabiliti per ogni attività, con l’effetto di alienare ulteriormente il controllo degli operai sul loro lavoro. Molti furono i tentativi da parte della classe operaia di riprendere il controllo delle loro attività, sfruttando ad esempio la voce “lavori eventuali”, ovvero piccoli lavori che richiedevano uno sforzo fisico minore (la riparazione di un quadro d’armatura o il perfezionamento di un disgaggio etc.), ma che venivano valutati nel computo finale dei punti, contribuendo a ristabilire un equilibrio salariale sfruttando la minore produttività richiesta. Cfr. Nesti A., Anonimi compagni cit., p. 140.
[23] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 141.
[24] Per un approfondimento si veda la Testimonianza di Anuello Lorenzoni, Bandino Pimpinelli, Ideale Tognoni in Nesti, A., Ibidem.
[25] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 143.
[26] Cfr. Nesti, Anonimi compagni cit., p. 142.
[27] Verbale del 22 agosto 1938, FP, f. 123.
[28] Nesti, Ibidem.
[29] FP, f. 123.
[30] Si veda anche Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Ibidem.
[31] Cfr. FP, f. 124.
[32] Si rammenti che le leggi fascistissime segnarono anche la morte della democrazia parlamentare: il parlamento, ormai privato delle sue funzioni legislative e di controllo nei confronti dell’esecutivo, non venne più eletto ma nominato con elezioni dette plebiscitarie. D’altronde il regime fascista aveva sempre mostrato disprezzo nei confronti delle elezioni che definiva “ludi cartacei”, Cfr. Viola P., Il Novecento. Storia moderna e contemporanea, v. 4, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2000, p. 93.
[33] Cfr. Campagna S., Turbanti A. (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma cit., pp. 239-240 e Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 219.
[34] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., Ibidem.
[35] All’alba del 25 aprile 1943 gli iscritti erano arrivati a 26 per poi aumentare fino ad una quarantina.
[36] Benché dai verbali non emerga il luogo fino a questo momento utilizzato, si può pensare a sedi fortuite e che non destavano sospetti, tra cui pare lo scantinato o il retrobottega di Anuello Lorenzoni, come riportato da Tognoni, Visi sporchi cit., p. 61.
[37] FP, f. 131.
[38] FP, f. 132.
[39] Verbale del 20 settembre 1939, FP, f. 134.
[40] FP, Ibidem.
[41] Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., pp. 115-116. Per un approfondimento si veda Rogari S., L’opinione pubblica in Toscana di fronte alla guerra (1939-43), in Antifascismo, Resistenza, Costituzione. Studi per il sessantesimo della liberazione, Franco Angeli, Milano, 2006.
[42] FP, Ibidem.
[43] Hitler era convinto che le Panzerdivisionen sarebbero state cruciali per la Blitzkrieg (guerra lampo), cfr. Viola, Il Novecento cit., pp. 188-89.
[44] Cfr. FP f. 137.
[45] Cfr. FP f. 139.
[46] Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 69-70.
[47] Verbale del 18 giugno 1941, FP f. 140.
[48] Verbale del 20 dicembre, FP f. 141.
[49] Tognoni, Visi sporche coscienze pulite cit., p. 18.
[50] L’ultimo numero ufficiale del giornale fondato da Antonio Gramsci fu pubblicato il 31 ottobre 1926. Il 27 agosto 1927 uscì il primo numero dell’edizione clandestina, che ebbe origine nella sede francese di Rue d’Austerlitz e poi nel ’31 con una stamperia a Milano. La pubblicazione clandestina subì una battuta d’arresto tra il ‘34 e il ’39 per riprendere con lo scoppio della guerra e della lotta antifascista. Il giornale tornerà alla pubblicazione ufficiale a Roma il 6 giugno 1944, con l’arrivo delle truppe alleate.
[51] Cfr. Verbale del 10 agosto 1941, FP Ibidem.
[52] FP, Ibidem.
[53] Verbale del 12 gennaio 1942, FP f. 143.
[54] Piccolo borgo confinante, residenza di molti minatori di Niccioleta e Boccheggiano.
[55] Cfr. Verbale del 03 maggio 1942, FP f. 144.
[56] Cfr. Verbale del 22 luglio 1942, FP Ibidem.
[57] Cfr. Ruffini, Vitali, Per una storia dei minatori maremmani cit., p. 218.
[58] Rapporto I del 12 gennaio 1943, FP f. 147. Tale decisione fu poi approvata da tutta l’O-3-R.
[59] FP, Ibidem.
[60] FP, Ibidem.
[61] Rapporto “IIII” del 25 luglio 1943, FP f. 148. Nel rapporto è sottolineato in rosso.
[62] FP, Ibidem.
[63] Verbale del 18 agosto 1943, FP f. 152. Si veda anche Campagna, Turbanti, Antifascismo, guerra e Resistenze cit., p. 227.
[64] Cfr. Rapporto V del 7 settembre 1943, FP f. 148.
[65] Il suo bar era la sede da cui si poteva ascoltare Radio Londra, con una sicurezza garantita da un compagno con il ruolo di palo sulla porta mentre altri compagni facevano finta di giocare a carte per non destare sospetti. Cfr. Tognoni, Visi sporchi coscienze pulite cit., pp. 61-62.
[66] Cfr. FP, Ibidem.



Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




L’ISRPT conclude riordino e digitalizzazione del “fondo manifesti”

Si è concluso il lavoro di riordino, inventariazione e digitalizzazione del fondo manifesti conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia. Si tratta di un patrimonio ricco ed eterogeneo, che spazia su un’ampia spanna temporale e si caratterizza per la varietà di enti produttori e temi trattati o rappresentati. Il fondo conta un totale di 826 esemplari unici di vario formato (A0, A1, A2, A3).

Gran parte del materiale è originale; sono per lo più ristampe solo i giornali murali emessi da comuni, prefetture e altri organi pubblici fra gli anni ’10 e gli anni ’50 del ‘900. Fra i nuclei documentari più rilevanti e consistenti si segnala una raccolta proveniente dal fondo archivistico appartenuto all’ex sindaco di Pistoia Francesco Toni, con materiale risalente agli anni ’60, ’70 e ’80 che è riconducibile in parte ai movimenti per i diritti civili, per il disarmo, per la pace, per la cooperazione internazionale e per la solidarietà con i popoli del terzo mondo, in parte si lega a questioni inerenti alla politica locale quali elezioni, partiti e lotte sindacali.

La storia dell’Istituto, di altri istituti della rete Parri, della rete stessa e di molte altre organizzazioni assimilabili o prossime – quali, ad esempio, l’ANPI – è ampiamente documentata, con innumerevoli locandine riferibili a iniziative e attività, così come alle politiche memoriali elaborate dagli enti pubblici comunali, provinciali e regionali nella seconda metà del secolo scorso.

Non mancano infine serie di manifesti inerenti alla storia d’Italia, pubblicati a scopo divulgativo e propagandistico.

Si tratta dunque di un corpus di fonti primarie utili ai fini della ricerca relativamente alla storia del ‘900 e alla storia locale, rilevanti inoltre in un’ottica di conservazione della memoria storica dell’ISRPt.

L’opera di catalogazione e digitalizzazione ha richiesto l’impegno assiduo e prolungato nel tempo di professionisti, tirocinanti e ricercatori. I manifesti sono stati suddivisi per formato e disposti in un’apposita cassettiera metallica all’interno dei locali che ospitano l’archivio dell’ente. L’inventario è consultabile in formato excel sul sito dell’Istituto alla pagina “fondo manifesti” .
La consultazione è liberamente garantita in sede nei giorni di apertura dell’Istituto, segnatamente il lunedì, martedì e giovedì pomeriggio dalle ore 15:00 alle ore 19:00.

 

Emilio Bartolini è dottorando in scienze storiche presso l’Università del Piemonte Orientale. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Pistoia nella gestione della biblioteca dell’ente e in attività e progetti inerenti la didattica e la divulgazione storica. Il suo principale interesse di ricerca è la storia ambientale in età contemporanea.

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).