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La Liberazione di Siena

Fra la rocca di Radicofani, nel sud della provincia di Siena, e Radda in Chianti, a nord, la distanza è di un centinaio di chilometri. Le truppe alleate impiegarono un mese, dal 18 giugno al 18 luglio 1944, per percorreli. Velocità media: meno di 3 chilometri e mezzo al giorno. L’avanzata dei reparti inglesi a est del terrirorio provinciale, di quelli americani a ovest e del Corpo di spedizione francese al centro incontrò, infatti, un forte contrasto da parte dei tedeschi, i quali si ritiravano ordinatamente, combattendo attestati su una serie di linee difensive predisposte, volta per volta, laddove la conformazione del terreno rendeva più efficace il fuoco di sbarramento di mitragliatrici e cannoni.

Alcuni centri abitati (Radicofani, Chiusi, Poggibonsi) furono teatro di scontri duri e prolungati fra i soldati dei due eserciti contrapposti. Altri (Casole d’Elsa, S. Gimignano) subirono cannoneggiamenti da entrambi. Ad altri ancora vennero invece risparmiate vittime e distruzioni perché ubicati in luoghi di scarsa rilevanza tattica.

Le bande partigiane, che avevano fortemente destabilizzato l’apparato militare fascista della RSI fra i mesi di marzo e maggio, nel giugno-luglio moltiplicarono l’attività tesa a ostacolare gli spostamenti dei tedeschi e accrebbero così il loro contributo di sangue alla libertà, un contributo che superò i trecento caduti fra uccisi in combattimento e fucilati in rastrellamenti e rappresaglie.

È in questo contesto che, il 3 luglio, avvenne la Liberazione di Siena ad opera dei tirailleurs e dei fantassins del generale J.G. De  Monsabert, rimasto un benemerito nella storia cittadina per non aver dato l’ordine di aprire il fuoco dei suoi cannoni sia per non colpire i monumenti senesi che conosceva ed apprezzava, sia perché era stato informato che i tedeschi se ne stavano andando da un luogo che non era inserito lungo le loro linee difensive.

Si trattò di circostanze fortunate che limitarono i danneggiamenti. Andarono ad aggiungersi ad un’altra circostanza non meno fortunata, ovvero l’ubicazione della stazione ferroviaria, bersaglio principale dell’aviazione alleata, quasi in aperta campagna. Un fatto che, a sua volta, aveva contenuto gli effetti sul centro storico dei ripetuti bombardamenti aerei.

Nelle settimane precedenti l’arrivo del Corpo di spedizione francese le forze antifasciste e il CLN di Siena si erano arrovellati intorno ad un’alternativa drammatica: tentare un’insurrezione o cercare un compromesso e una convivenza con le autorità fasciste in attesa degli Alleati? La prima ipotesi, oltre che dal  timore dei combattimenti fra case, piazze, palazzi, chiese, era stata ostacolata dal fatto che le bande partigiane, abbastanza forti, come ricordato, nelle campagne, si trovavano lontane dalla città. La più vicina, il 2° Distaccamento della Brigata Garibaldi “S. Lavagnini”, era a una quindicina di chilometri, nella zona di Tegoia. Un rastrellamento tedesco, avvenuto il 24 giugno, ne aveva bloccato l’intento di attraversare le linee in direzione di Siena. L’altra ipotesi si era scontrata, invece, con la difficoltà morale, prima ancora che politica, di scendere a patti con nemici quali il prefetto fascista Giorgio Alberto Chiurco e con rastrellatori di partigiani come Alessandro Rinaldi.

Fra spinte contrapposte e comunicati contraddittori, alla fine era prevalsa la linea che, dall’esterno del Comitato, aveva tracciato l’autorevole esponente dell’antifascismo Mario Bracci. Consultatosi con una cerchia di amici, fra i quali Ranuccio Bianchi Bandinelli, il Bracci si era recato in prefettura nell’intento di convincere Chiurco a rimanere in città per mediare con i tedeschi, con i quali aveva un ottimo rapporto.

Annotò Bracci nel suo diario: «Colloquio quasi drammatico: deve restare al suo posto […]. E se il mio governo mi ordina di ritirarmi? Disobbedire […]. Io ero commosso, lui piangeva. Si è persuaso».

Conseguenza implicita dell’accordo era l’incolumità di Chiurco. Nessun GAP avrebbe dovuto sparargli. Bracci non faceva parte del CLN, agiva un po’ da battitore libero. E il CLN non se l’era sentita di sposare ufficialmente la sua iniziativa, suscitandone il sarcasmo: «Naturalmente l’ineffabile Comitato […] mi ha quasi sconfessato e non si è voluto impegnare[…]. Vorrebbero che [Chiurco] rimanesse, ma liberi loro di ammazzarlo in qualunque momento. Bei tipi».

D’altra parte, neppure Chiurco era stato del tutto ai patti. Asserragliato in prefettura, aveva lasciato Siena un giorno e mezzo o due prima dell’ingresso dei francesi, mentre le retroguardie germaniche abbattevano le mura cittadine a Porta S. Marco, facevano saltare in aria ponti e infrastrutture, saccheggiavano i negozi portando via le merci esposte sui banchi e quelle imboscate nei retrobottega. Che erano molte di più, come avrebbe annotato con una punta di perfidia l’arcivescovo Mario Toccabelli.

Sta di fatto che l’opzione insurrezionale era stata accantonata. Alla guida del Comune si trovava il notabile Luigi Socini Guelfi. In quanto podestà aveva accettato tutte le scelte del fascismo, comprese le leggi razziali, e non si era dissociato dal rastrellamento degli ebrei del novembre 1943 né dalla fucilazione di partigiani alla caserma Lamarmora avvenuta nel marzo dell’anno successivo. Non gli venivano però attribuite responsabilità dirette. Era stato dunque considerato un fascista con cui si poteva collaborare.

E così, per vari giorni, Socini Guelfi e e gli esponenti del CLN avevano convissuto nelle sale del Palazzo pubblico e insieme avevano formato una Guardia Civica, con compiti “esclusivamente difensivi” e di “ordine pubblico”.

Alcuni fascisti (fra di essi il federale Giovanni Brugi e il milite della X Mas Walter Cimino) erano stati uccisi, i prigionieri politici ancora detenuti nel carcere di S. Spirito, a disposizione dei tedeschi, erano stati liberati con un’irruzione dei GAP, ma il “patto” aveva retto. E gli Alleati alla fine erano arrivati.

Tuttavia, proprio in quel 3 luglio, mentre la popolazione festeggiava la libertà, il nemico era ancora a due passi, appena al di là delle rovine della stazione ferroviaria, sulla collina di Vicobello. Lì morirono tre giovani della Guardia Civica che, precedendo le pattuglie francesi, si scontrarono con una retroguardia tedesca. Furono i primi caduti della schiera di oltre ottocento partigiani della provincia di Siena i quali, dopo la liberazione del loro territorio, si sarebbero arruolati nel “Cremona”, il gruppo di combattimento italiano a fianco degli Alleati, e avrebbero partecipato nel nord Italia alla liberazione dell’intero Paese.

 

Articolo pubblicato il 1° luglio 2024.




La Resistenza nel Volterrano

Nelle ricostruzioni canoniche della Resistenza volterrana, è stato dato molto risalto alla vicenda della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”. I lavori dedicati alla storia partigiana della zona sono intitolati alla Brigata e l’interesse è ruotato intorno alla sua costituzione: nella storia ufficiale della Resistenza nella zona, La tavola del pane di Pier Giuseppe Martufi[1], gli eventi precedenti alla nascita, avvenuta nei primi giorni di maggio del 1944, sono stati raccolti nel capitolo dedicato alla «preistoria della Brigata», mentre le formazioni armate dalla cui unione prese vita sono definite senza alcun dubbio come suoi «distaccamenti», anche se la loro esistenza operativa era molto precedente l’avvio stesso della Brigata. Si tratta a ben vedere di una distorsione del corso degli eventi, causata da una prospettiva “dalla coda alla testa”, tipica del canone resistenziale: per questo approccio, la storia – degna di essere raccontata – inizia solo con la costituzione della Brigata, ovvero con il raggiungimento di una ampia dimensione militare operativa, mentre ogni altro gruppo partigiano nella zona va considerato come una sua filiazione anche se più anziano. Il senso più autentico della vicenda resistenziale, secondo tale visione, si avrebbe quindi solo con la realizzazione di una formazione armata stabile e ben organizzata, inquadrata a sua volta in un disegno più ampio, quello delle Brigate Garibaldi di concezione comunista. La numerazione della Brigata, a cui generalmente si dà poco rilievo, la 23ª (ma sarebbe più corretto chiamarla 23ª bis: la 23ª fu in realtà la “Pio Borri” operante nell’Aretino[2]), è a questo proposito un elemento fondamentale: contribuisce a inserire l’evento locale in una trama nazionale, a collocare l’impegno armato di qualche centinaio di partigiani operanti nel Volterrano in un coordinato e consapevole progetto militare e politico di guerra contro il nazismo e il fascismo.

Le conseguenze di quest’impostazione sono evidenti: non solo si riconosce una centralità esclusiva alla Resistenza armata, lasciando altre forme resistenziali ai margini, ma se ne sancisce la dignità e il rilievo storico solo una volta raggiunta una dimensione tale da potersi fregiare del titolo di “Brigata”, quindi con un inquadramento marziale e un numero di effettivi tale da poter rappresentare un’unità militare comparabile a quelle degli eserciti regolari. Tali considerazioni possono essere condivisibili se ci caliamo idealmente nel contesto bellico, in una situazione di guerra in cui l’obiettivo di dimostrare la massima forza sul campo delle forze partigiane poteva essere decisivo anche a fini politici. Tuttavia, in sede di ricostruzione storica non è consentito insistere in una prospettiva teleologica. Non si può leggere il corso degli eventi prendendo come pietra di giudizio una parte dei suoi esiti[3].

Per tracciare una storia del partigianato volterrano sin dalle sue origini bisogna partire dalla banda del Massetano, o della Marsiliana, dal nome del bosco in cui aveva la base, una delle pochissime formazioni in Toscana costituita sin dalla metà del settembre 1944. Nacque su iniziativa di alcuni antifascisti di Massa Marittima, tra cui Otello Gattoli ed Elvezio Cerboni[4]. Ai primi di novembre il gruppo, che contava allora circa tra 70 elementi, si spostò dalla Marsiliana, tra Massa e Montioni, verso le località dell’Uccelliera e di Poggio all’Ulivo, pochi chilometri a nord, in un’area più interna. Qui tra il 6 e il 7 novembre, avvenne l’ingresso in formazione in qualità di comandante di Mario Chirici, figura storica dell’antifascismo locale, repubblicano con una solida esperienza militare e recente collaboratore dei partigiani jugoslavi, già attivi e ben organizzati contro i nazifascisti da molto tempo. La banda aveva già contatti con Colle Val d’Elsa, Livorno, Volterra e Firenze, iniziava ad essere un nodo importante della rete dell’organizzazione clandestina toscana. Così, quando dopo una retata fascista a fine novembre la formazione si sciolse, non appena riuscì a ricostituirsi, all’inizio del 1944, venne comunicata a Chirici la nomina da parte delle strutture organizzative delle Brigate Garibaldi a comandante della 3ª Brigata, «con promessa […] di aiuti di materiali, armi, munizioni, uomini che sarebbero dovuti venire in breve tempo»[5]. A quanto risulta furono compiute missioni fino a Livorno, Pisa, Viareggio e Firenze, per estendere la rete di contatti, reperire fornitori e nuovi volontari. Purtroppo, il 16 febbraio 1944, la formazione subì un rastrellamento da parte dei fascisti che colse di sorpresa i partigiani, provocando un vero e proprio disastro militare, con cinque morti e diciotto arrestati.

Dall’eccidio del Frassine Mario Chirici non godette più di una buona nomea. I suoi antichi collaboratori però svilupparono la lotta partigiana spostandosi in altri territori. Elvezio Cerboni si era già trasferito dopo lo scioglimento di fine novembre dalla zona di Massa Marittima a quella di Pomarance, in particolare nell’area di San Dalmazio. Entrato in contatto con il Cln di Pomarance, iniziò dal gennaio 1944 a organizzare uomini e costruire basi, in particolare presso il podere di Casinieri nel bosco di Berignone. Intorno a sé riuscì a costruire una vera rete organizzativa, che si curava di rifornimenti e reclutamenti, mantenendo contatti costanti con Pisa, Massa Marittima e soprattutto Volterra. Tra febbraio e marzo 1944, gli antifascisti volterrani – che alla fine del 1943 si erano costituiti in Cln – passarono all’azione anche all’interno della città.

Il bosco di Berignone, i luoghi della Resistenza. Mappa originale elaborazione di Stefano Gallo.

Nella zona di Montieri, invece, si era spostata una squadra reduce dall’eccidio del Frassine, composta da Vinicio Modesti, Vittorio Ceccherini, Giorgio Vecchioni e Giorgio Stoppa. Insieme a loro c’erano quattro jugoslavi prigionieri fuggiti l’8 settembre dalle prigioni di Pisa («gli unici, tra noi – avrebbe ricordato Stoppa -, ad avere esperienza di guerra partigiana»[6]), quattro russi e un gruppo di giovani renitenti alla leva. «Commissario politico fu nominato “Gino” Desiderio Cugini che aveva ricoperto tale carica nella formazione del “Frassine” e che si era distinto per lo zelo con il quale aveva contribuito alla costituzione di detta formazione»[7]. Questo gruppo, conosciuto in quel periodo come la “formazione del dottore”, dalla professione di Stoppa, avrebbe costituito il nucleo originario della futura 23ª Brigata Garibaldi. Il contatto con il Cln di Radicondoli e con la rete organizzativa della zona furono decisivi.
Per il 21 marzo 1944 venne organizzata la più imponente azione militare mai realizzata nella zona dagli antifascisti, frutto del coordinamento di quattro diversi gruppi partigiani: quello di Stoppa, allora posizionato alla Cornocchia, quello di Cerboni, che si muoveva dalla zona meridionale di Berignone (verso Pomarance e San Dalmazio), una Squadra volante di partigiani di Colle Val d’Elsa, basata nella parte settentrionale del bosco di Berignone, e un quarto gruppo di senesi da poco arrivato alle Carline. L’azione fu condotta contro i fascisti del paese di Montieri e riuscì perfettamente. I problemi emersero in seguito: forse proprio a causa dei rischi di esposizione corsi nell’organizzazione di un’azione così complessa, molte posizioni vennero scoperte. Cerboni venne tradito e arrestato, la squadra dei colligiani cadde in un’imboscata e fu decimata.

Mentre la zona tra Pomarance, Volterra e Siena veniva così investita dalla repressione fascista, la formazione di Giorgio Stoppa, che nel frattempo si era spostata nel bosco delle Carline, riusciva invece a mantenere solidità e un discreto grado di efficienza e organizzazione. «Dopo l’azione di Montieri – si legge nella relazione ufficiale della Brigata – fu necessario un lungo periodo di prudenza perché furono effettuati numerosi rastrellamenti che colpirono gli altri Distaccamenti che operavano nella zona, mentre il “Guido Boscaglia”, dato il sistema accurato di vigilanza e le precauzioni osservate nello svolgersi della vita dell’accampamento, non fu individuato e non subì attacchi»[8]. La banda anzi continuò ad ingrandirsi, ospitando anche membri della Brigata Spartaco Lavagnini del senese, oltre che nuove reclute. Dalla tempesta abbattutasi dopo Montieri sul movimento clandestino antifascista, la “formazione del dottore”, come era chiamata allora dalla professione di Stoppa, emerse come la più solida e affidabile tra le tre esistenti.
Alla fine di aprile si realizzava un ulteriore salto di qualità nella vita della formazione: iniziavano ad arrivare casse cariche di armi e materiali attraverso i lanci aerei da parte degli anglo-americani. Grazie alle missioni militari provenienti dal Sud Italia, avvennero dei contatti logistici che con l’ausilio di telegrafisti consentirono l’organizzazione dell’invio di materiali via aerea. I primi aviolanci erano stati concordati per la zona di Berignone, dove effettivamente avvennero; fu poi convenuto di spostare la località dell’operazione alle Carline. Furono molti i lanci, circa una decina, che fornirono armi automatiche nuove e munizioni.

Nel frattempo, era stato deciso di stabilire alle Carline il comando unificato di tutte le forze partigiane, prima divise. La riunione avvenne nel bosco di Berignone, alla presenza di Alberto Bargagna, detto “Giorgio”, responsabile militare del Cln di Pisa, «il quale, dopo aver predisposto gli aviolanci di armi e materiale […] era dovuto rimanere in Berignone perché avvertito da Pisa di essere stato individuato dai fascisti»[9]. Fu lui a essere nominato comandante della nuova Brigata, la 23ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi, poi intitolata “Guido Boscaglia”, dal nome di Guido Radi, detto “Boscaglia”, partigiano ucciso l’8 maggio 1944, in uno scontro con i fascisti.

NOTE

[1] Pier Giuseppe Martufi, La tavola del pane. Storia della 23ª Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia” con documenti e testimonianze sulla Resistenza nella provincia di Grosseto, Livorno, Pisa e Siena, Anpi-Siena, Siena 1980. In maniera analoga la più recente Storia della XXIII Brigata d’Assalto Garibaldi. Tesi di laurea di Francesco Gronchi, a cura dell’ANPI-Sezione di Volterra, Volterra 2014.

[2] Ivan Tognarini, Guerra di sterminio e Resistenza. La provincia di Arezzo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990.

[3] Santo Peli, La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana, BFS, Pisa 2022.

[4] Katia Taddei, Ribelli. Formazione delle brigate Garibaldi nel territorio delle Colline Metallifere ed episodi di guerra civile alla luce di nuove fonti giudiziarie, Betti Editrice, Monteriggioni (SI) 2024.

[5] Da Chirici all’Anpi di S. Vincenzo, 8 novembre 1945, in Carte Pier Nello Martelli, f. 1, carte sciolte.

[6] Testimonianza di Giorgio Stoppa, settembre 1977, in Martufi, La tavola del pane, p. 112.

[7] Relazione ufficiale 23ª BG.

[8] Relazione ufficiale 23ª BG, p. 9.

[9] Martufi, La tavola del pane, p. 33.




La solitaria impresa di Mario Bonacchi

La figura del comandante è spesso decisiva per la vita di una formazione partigiana. Un capo autorevole e carismatico che unisce all’abilità di condurre la guerriglia anche qualità di natura etica come il coraggio e lo spirito di sacrificio può fare la differenza. Un uomo con queste caratteristiche è sicuramente il primo comandante delle squadre armate lucchesi, Roberto Bartolozzi, che però, alla fine di giugno 1944, viene ucciso dai fascisti in un agguato. Proprio la consapevolezza dell’importanza per un capo di dare l’esempio ai suoi uomini, così come per mesi ha fatto Bartolozzi, spingerà il suo successore a essere protagonista di un’iniziativa tra le più audaci nella storia della Resistenza armata a Lucca.

Castelnuovo di Garfagnana, domenica 20 agosto 1944.

Silla Turri, da alcuni giorni a capo del locale distaccamento della XXXVI Brigata nera “B. Mussolini” e commissario prefettizio del Comune, si trova nella sala consiliare della Rocca ariostesca. Non sa che nel corso della notte alcuni partigiani della Brigata garfagnina della Divisione Garibaldi Lunense hanno piazzato una bomba a orologeria sotto la pedana del tavolo riservato al podestà. Tuttavia, Turri non è seduto al suo posto. Così, quando l’ordigno esplode, a rimanere ucciso è il sergente della Brigata nera Giovanni Battaglini. Turri rimane ferito e con lui altre due Camicie nere, Giulio Tamburi e Antonio Broglio detto “Zacchia”, oltre all’impiegato comunale Francesco Simonetti.

Vengono subito arrestate e tradotte al carcere di San Giorgio a Lucca diverse persone, tra cui un manovale quarantunenne appartenente al III Battaglione della Brigata garfagnina della Lunense, Giorgio Giorgi, e un’impiegata del Comune, Luciana Bertolini, accusata di aver dato le chiavi della sala ai partigiani. Il giorno successivo ai due si aggiunge anche Gina Gualtierotti: è fidanzata con Michele Bertagni, fratello di Giovanni Battista comandante proprio del III Battaglione. È in realtà quest’ultimo il vero obiettivo dei fascisti: ventitré anni, di Pieve Fosciana, ha combattuto sul fronte balcanico e dopo l’armistizio è rientrato in Garfagnana. A metà giugno 1944 si aggrega a una neonata formazione armata che si è costituita a Careggine e che sarà l’embrione della futura Garibaldi Lunense. In meno di due mesi, egli trova il modo di portare a termine diverse azioni di sabotaggio e, per la fantasia e il clamore che esse suscitano, il gruppo da lui comandato diventa ben presto noto anche tra la popolazione civile come “Battaglione Casino”. Così, quando c’è da trovare un responsabile dell’attentato a Turri, le indagini puntano subito nella direzione di Giovanni Battista Bertagni.

Lucca, mercoledì 23 agosto 1944

Il CLN di Castelnuovo informa degli arresti Pietro Mori, del Comitato Militare del CLN comunale di Lucca e questi coinvolge il Plotone Questura: già da alcuni mesi si è formato, in seno alla Questura di Lucca, un gruppo di effettivi e ausiliari che partecipa alla lotta partigiana cittadina come una sorta di quinta colonna, soprattutto controllando l’attività delle truppe tedesche e delle autorità repubblicane e informandone il CLN. Ne è a capo il tenente Luigi Giusti che, peraltro, proprio quel giorno sta sostituendo il questore Carlo Alberto Gusmitta: grazie a questa circostanza viene a sapere che Bertolini, Giorgi e Gualtierotti sono in procinto di essere fucilati. Capisce che non c’è tempo da perdere: qualcuno deve agire prima che qualcuno dei tre catturati parli o che la sentenza di morte sia eseguita.

Il Plotone Questura è inquadrato nella formazione partigiana comandata, da un mese e mezzo, da Mario Bonacchi. Ventisette anni, reduce dalla campagna di Russia, dai primi mesi del 1944 guida il gruppo del quartiere di Sant’Anna. Dopo l’uccisione di Roberto Bartolozzi, il CLN lucchese ha affidato a lui la riorganizzazione e il comando dei partigiani lucchesi. Pertanto, Giusti si rivolge a Bonacchi per organizzare in poche ore una spedizione che liberi le persone catturate e a rischio uccisione. Il piano è tanto semplice quanto rischioso e si basa su un finto ordine di scarcerazione a scopo di interrogatorio con tanto di timbro della Brigata nera e firma falsa del tenente Carlo Dinelli. Ci vuole però qualcuno che entri in carcere travestito da milite della Brigata: sarà Bonacchi stesso.

Lucca, giovedì 24 agosto 1944, ore 18

Il capo partigiano, procuratosi una divisa da brigatista, la camuffa sotto una giacca blu, nasconde il mitra e l’elmetto in una borsa di paglia e si avvia in bicicletta verso San Giorgio. Una volta arrivato vicino al carcere, incontra Anna Maria Nardi: le lascia la borsa e la giacca blu e la trasformazione in milite fascista è completata; un’altra partigiana, Wilma Franceschini, è appostata in via San Giorgio, mentre Enzo e Guglielmo Bini (padre e figlio) sono davanti al carcere per segnalare eventuali pericoli.

Bonacchi entra dunque con il suo mitra in carcere e presenta il documento di scarcerazione: il secondino, dopo avergli ordinato di deporre l’arma, lo accompagna nell’ufficio competente. Bonacchi esegue, ma il timore di trovarsi disarmato di fronte a qualche vero milite della Brigata nera è forte. È fortunato: prima che qualcuno si accorga dell’inganno, i tre detenuti vengono portati da lui. Il quartetto si può dirigere ora verso l’esterno, con il capo partigiano che ancora non può svelare la sua vera identtià e sempre con il timore di venire scoperto. Ancora una volta tutto va bene e gli viene restituito il mitra. Una volta fuori dal carcere, Bonacchi svela chi è veramente  raccomandando ai tre liberati di far finta di niente: Bertolini e Gualtierotti vengono affidate a Wilma Franceschini, che le nasconde nel convento di Santa Zita in piazza Sant’Agostino (e lì rimarranno fino all’arrivo degli Alleati), a poche centinaia di metri da San Giorgio, mentre Giorgi fugge con i Bini: il giorno successivo ripartirà per la Garfagnana.

Lucca, venerdì 25 agosto

Dinelli si presenta al carcere e chiede dei prigionieri. Saputo che sono stati liberati dietro presentazione di un documento recante la sua firma, vengono passati in rivista tutti i militi della Brigata nera, quelli veri. Nessuno di loro è quello visto dai secondini del carcere. I sospetti si dirigono su uomini della Questura, perché solo lì possono avere carta intestata e timbri, e tutti sono sottoposti a una prova calligrafica, per capire chi può essere stato a falsificare la firma. Il principale indiziato è Giusti, ma il perito grafologo non avvalora tale ricostruzione.

Lucca, domenica 27 agosto, mattina

Idreno Utimpergher, comandante della XXXVI Brigata nera, è furioso per lo smacco subìto e, nonostante non siano state raccolte prove, ordina l’arresto e la consegna ai tedeschi di Ferdinando Lucchesi, professore di disegno caposquadra del plotone Questura, dello stesso Giusti e di tutti gli ausiliari di polizia. Alcuni di loro verranno deportati in Nord Italia e torneranno a Lucca soltanto a guerra finita, mentre Giusti e altri riescono a sfuggire alla cattura.

 

Il motivo per cui è Bonacchi stesso a eseguire la liberazione in prima persona verrà da lui spiegato in un articolo pubblicato un anno dopo sul quotidiano La Nazione:

Gli Alleati si avvicinavano a Lucca; il giorno dell’insurrezione era prossimo. I componenti le squadre di città dovevano avere la prova definitiva che [il comandante, NdA] non sarebbe rimasto in preda a timori o esitazioni.




Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.




Guerra aerea su Siena.

…Durante una mia udienza privata nel periodo “tedesco”, entrò emozionatissimo nello studio del Papa il prelato di servizio, recando copia di un telegramma: gli Alleati avevano bombardato Siena, danneggiando anche alcune importanti chiese della città. Pio XII ne fu ovviamente rattristato ma il tenore del messaggio gli sembrava strano nella penna di un arcivescovo (il bieco nemico, la perfida Albione e così via). Solo alla fine si svelò l’equivoco: il mittente non era l’arcivescovo Toccabelli, ma il segretario federale repubblichino della provincia toscana – se non ricordo male, si chiamava Chiurco – che non domandava benedizioni ma, più o meno, pregava il Pontefice di stramaledire gli inglesi…

 

Un curioso aneddoto quello ricordato da Giulio Andreotti nelle proprie memorie, in grado di riassumere in sé molte delle contraddizioni riguardanti la complessa vicenda dei bombardamenti aerei sulla città di Siena.

Caso particolare, quello senese, che vide il capoluogo e la provincia risparmiati dalle distruzioni delle bombe dal cielo fino alle ultime settimane del 1943, quando tutto intorno le città della Toscana e dell’Italia pagavano a caro prezzo l’impreparazione con la quale il regime fascista aveva portato in guerra il paese. Favorita da una posizione geografica defilata e da un numero ridotto di obiettivi strategici sul proprio territorio, Siena conservò la propria inviolabilità per tutta la prima parte del conflitto mondiale, ma da tale vantaggio nacque l’errata convinzione, condivisa tanto dagli abitanti quanto dalle autorità fasciste, che nessun ordigno sarebbe caduto all’ombra della Torre del Mangia. Fiducia mal riporta quella della cittadinanza, ingenuamente convinta che una sorta di protezione divina avvolgesse la città, i suoi monumenti e abitanti. Direttamente responsabili le autorità civili e militari, sostanzialmente inoperose fino alla fine del 1942 e conseguentemente colte impreparate dall’intensificarsi della guerra aerea sulla penisola italiana, cui tentarono di riparare avviando la costruzione di rifugi antiaerei spesso mai completati e comunque inadeguati a offrire una reale protezione ai propri avventori.

La caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la sua rinascita in veste repubblicana l’8 settembre seguente arrecarono ulteriori danni alla già improvvisata organizzazione antiaerea provinciale. I pochi militi prima presenti lasciarono la divisa e dovettero essere rimpiazzati; la costruzione dei ricoveri pubblici venne arrestata nella speranza che l’armistizio con gli Alleati significasse la fine del conflitto; le sirene di allarme, posizionate nei centri nevralgici della città per avvertire gli abitanti in caso di pericolo, non ricevettero la necessaria manutenzione e finirono per rompersi. I rappresentanti della nuova Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini assieme ai suoi sostenitori più fedeli e retta dalle armi tedesche, riattivarono la rete di avvistamento attorno alla città istituendo nuove postazioni di osservazione in località sopraelevate e sulla Torre del Mangia; per allertare i cittadini in caso di pericolo, mobilitarono tamburini delle contrade e parroci delle chiese cittadine; per tranquillizzare una popolazione sempre più intimorita dalla minaccia dei bombardamenti, rinnovarono la donazione simbolica di Siena alla Madonna, come fatto in passato nei momenti più bui della secolare storia cittadina. Come ha scritto Nicola Labanca, «mentre la guerra si fa moderna e novecentesca, i fascisti di Siena rispond[evano] con il medioevo».

Gli Alleati, intanto, bloccati nella propria avanzata verso il Nord all’altezza del fronte di Cassino durante le ultime settimane del 1943, lanciavano nel gennaio 1944 una massiccia campagna di bombardamenti volti a disgregare le strutture di rifornimento tedesche.

In tale contesto si inseriva il ricordo di Andreotti, testimone della particolare richiesta di aiuto inviata al pontefice dal prefetto senese Giorgio Alberto Chiurco dopo il primo bombardamento subito dalla città il 23 gennaio 1944. Indirizzata nella zona della stazione ferroviaria, comunque mancata dagli ordigni, l’incursione aveva interessato i quartieri periferici a sud-est della città, producendo alcune decine di feriti e 25 vittime. La posizione decentrata dello scalo ferroviario, collocato in quella che allora era aperta campagna, fece sì che il lancio errato dei bombardieri non travolgesse il centro cittadino. Il rischio di nuove incursioni si dimostrò tuttavia concreto già il 29 gennaio, quando un nuovo attacco alleato portò alla distruzione della stazione centrale e al pesante danneggiamento del vicino aeroporto di Ampugnano.

Di fronte al pericolo di nuove incursioni sullo scalo ferroviario, prontamente riattivato per garantire il transito dei rifornimenti tedeschi verso Cassino, la scelta delle autorità fasciste repubblicane fu di provare la strada della diplomazia internazionale.

Richiamandosi alla Convenzione dell’Aja del 1907, tentarono così di far riconoscere a Siena la qualifica di città aperta, prevista per quelle località che non si fossero trovate in prossimità di obiettivi strategici di rilevanza militare e, soprattutto, che non avessero ospitato al proprio interno reparti combattenti. Preoccupato di mantenere il controllo su un territorio provinciale sempre più tenacemente contesogli dalle forze partigiane, il prefetto Chiurco aveva tuttavia accasermato nel capoluogo un numero crescente di truppe da impiegare nelle operazioni di controguerriglia, mentre i locali comandi germanici mantenevano il proprio posto nel centro cittadino o nelle sue prossimità, non consentendo peraltro alcuna deviazione del traffico ferroviario transitante dallo scalo senese.

In risposta al problema venne fatto ricorso alla non meglio precisata formula di “città ospedaliera”, promuovendo la versione di una Siena rifugio per profughi e malati – come in parte era – e priva al contempo di reparti armati, caserme, comandi militari, in realtà ancora presenti all’interno del territorio urbano e, anzi, destinati a crescere in numero nelle settimane successive.

Sbarrate le vecchie porte di accesso alla città, dipinte grandi croci rosse su fondo bianco nella piazza del Campo e sui tetti degli ospedali del centro, il caso di Siena fu portato all’attenzione della Santa Sede con la preghiera di interessare al riguardo i comandi angloamericani. Questi rilevarono tuttavia l’impossibilita di conferire qualsiasi riconoscimento alla città, a causa della sua funzione di collegamento tra il Nord e il Sud della Toscana e stante anche l’uso militare fatto dai tedeschi delle vicine linee ferroviarie e stradali. Pure le generiche rassicurazioni fornite circa la possibilità di salvaguardare i monumenti e i feriti presenti nel centro storico, sarebbero rimaste strettamente subordinate “all’azione che possa essere richiesta dalla situazione militare”, lasciando intendere che qualsiasi decisione sarebbe dipesa dall’evolvere del contesto bellico, che vedeva in quel momento i tedeschi impegnati a far affluire rifornimenti di armi e uomini verso il fronte, attraverso i collegamenti stradali e ferroviari della città. La comunicazione giungeva agli inizi di marzo.

Il perdurare dello stallo creatosi lungo la linea dei combattimenti, ancora ferma a Cassino nonostante il tentativo di sbarco attuato ad Anzio dagli Alleati alla fine di gennaio, aveva intanto contribuito a fare nuovamente di Siena un bersaglio dei bombardieri statunitensi.

Delle incursioni erano state condotte sulla città a gennaio e, poi, l’8 e il 16 febbraio, con la popolazione civile sempre più disperatamente aggrappata alla speranza in un buon esito delle trattative diplomatiche, che la stampa fascista presentava come ancora possibili. Dalle autorità di Salò, tuttavia, non furono intraprese iniziative in tal senso. Senza risposta rimasero anche gli appelli indirizzati dal prefetto Chiurco a Mussolini, per una presa di posizione pubblica in favore di Siena che non sarebbe mai arrivata.

Da parte loro, i comandi alleati ribadirono il 3 aprile che nessun riconoscimento sarebbe stato accordato a Siena, la cui rilevanza come centro di comunicazioni faceva sì che qualsiasi decisione al riguardo dovesse essere subordinata alle necessità militari del momento.

Mentre tutta la provincia era ormai interessata dall’azione dei cacciabombardieri statunitensi, Siena subiva l’11 aprile un nuovo, pesante bombardamento. Colpita e distrutta la stazione ferroviaria, anche le zone limitrofe di piazza d’Armi, dell’Antiporto e porta Camollia furono investite dai lanci dei bombardieri. Se i residenti in prossimità di Camollia poterono rifugiarsi nel ricovero costruito sotto la porta – peraltro con criteri che lo rendevano inadatto a resistere all’urto dei pesanti ordigni utilizzati dagli americani – quelli della zona di piazza d’Armi e della stazione non ebbero altre alternative se non disperdersi nelle vicine campagne. I morti furono almeno 13, i feriti una quindicina. Le squadre di primo soccorso, prive di equipaggiamento e mezzi meccanici, continuarono a scavare tra le macerie dello scalo ferroviario fino al sopraggiungere della notte per trarre in salvo i civili rimasti imprigionati.

Un nuovo attacco il 14 aprile seguente procurava la distruzione del deposito locomotive e nuovi danni a ciò che restava della stazione.

Quelli che sarebbero rimasti impressi nella memoria locale come gli ultimi bombardamenti aerei su Siena confermarono il fallimento del progetto della cosiddetta “città ospedaliera”, rivelatosi strumento propagandistico utile a tranquillizzare la popolazione civile e distoglierne l’attenzione dai gravi problemi attanaglianti la sempre più traballante struttura di governo fasciata, pressata dalle insistenti richieste dell’alleato-occupante tedesco, indebolita dai contrasti interni al fascismo repubblicano, screditata dai successi militari dei partigiani nelle campagne.

Nel maggio seguente, l’imponente offensiva delle forze alleate sfondava infine le difese tedesche sulla linea di Cassino. Mutato il contesto bellico e concretizzatasi la prospettiva di una rapida avanzata verso Nord, gli Alleati non portarono nuovi attacchi alla stazione ferroviaria senese, il cui utilizzo si rivelava adesso fondamentale per l’afflusso di uomini e materiali verso l’Italia settentrionale. Sarebbero stati al contrario i guastatori tedeschi, prima della ritirata, a distruggere i pochi vagoni e binari sopravvissuti alle incursioni aeree dei mesi precedenti, lasciando Siena e i suoi abitanti nella condizione di dipendere dai rifornimenti alleati per la propria sopravvivenza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giulio Andreotti, A ogni morte di Papa. I Papi che ho conosciuto, Rizzoli, Milano 1980;

Claudio Biscarini, Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944, Del Bucchia, Massarosa 2008;

Michelangelo Borri, La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche, Il Leccio, Monteriggioni 2019;

Nicola Labanca (a cura di), I bombardamenti aerei sull’Italia: politica, stato e società (1939-1945), Il Mulino, Bologna 2012.




Combattenti aretini senz’armi…

Francesco Venuti, autore delle Memorie di guerra e di prigionia, edito dal Consiglio Regionale della Toscana nel 2018, ha inteso contribuire con questa ricerca all’impegno dispiegato nel corso del tempo dai molti storici che hanno studiato il dramma dell’8 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani del 1943, mediante il paziente recupero di testimonianze scritte dagli stessi deportati in forma di diario o di ricordo, oltre al paziente lavoro di archivio compiuto sia in Italia che in Germania, soprattutto a partire dal Convegno di Firenze del 1985.
Si è trattato non solo del tentativo di colmare un “vuoto di memoria” causato dal silenzio che per decenni aveva accompagnato la vicenda degli I.M.I. ma anche di compiere un sia pur tardivo atto di giustizia nei confronti di tutti quegli italiani in uniforme che per decenni erano stati dimenticati dalle istituzioni repubblicane, dalla società nazionale impegnata nella faticosa ricostruzione postbellica, da un’opinione pubblica tesa a cancellare gli orrori della guerra insieme alle sue vittime: perfino le stesse autorità militari sembrava avessero steso un velo su quanto era accaduto ad una massa sterminata di soldati ingannati dai nazifascisti.
L’oblio e la rimozione colpirono i sopravvissuti sin dal momento della liberazione e del rimpatrio, spesso vissuti dagli ex internati come fonte di sofferenze, rabbie, umiliazioni, provati quando si resero conto che presso le autorità italiane mancava la necessaria volontà e spesso la stessa capacità di comprendere non solo la portata del loro vissuto, ma più banalmente gli stessi problemi legati al rimpatrio: i governi formatisi in seguito alla liberazione nazionale non mostrarono alcun interesse ad attrezzarsi adeguatamente per accogliere i sopravvissuti. L’opinione pubblica, alimentata in parte da una propaganda ancora di stampo fascista, tendenzialmente considerò gli internati come l’immagine perturbante non solo della sconfitta, ma anche quella dell’imboscamento e della fuga dalle responsabilità. Spesso lo stesso rientro in famiglia, oggetto di idealizzazione durante la prigionia, soffocava ogni tentativo del reduce di narrare le proprie sofferenze di fronte all’indifferenza di chi aveva a sua volta subito le sofferenze del passaggio del fronte, le prepotenze degli invasori e le violenze fasciste.
In conclusione, quella che nella esperienza comune poteva costituire un passaggio dalla prigionia alla libertà, divenne per la maggior parte dei reduci un crollo delle illusioni, la chiusura nello sconforto che spiega come ad una narrazione priva di ascolto fu scelto il silenzio.

Nell’archivio dell’Associazione Combattenti e Reduci della Federazione pratese l’autore dello studio citato in apertura si è imbattuto in nove testimonianze relative ad I.M.I. sopravvissuti della provincia di Arezzo. Si tratta di DINO BELARDI, AGOSTINO BROCCHI, GIUSEPPE CANNONI, ARMANDO LAPI, ORLANDO LIPPI, ALESSANDRO MARTINI, DINO MASETTI, MINO MENCATTINI, OSVALDO VISI.

Dino Belardi nasce a Camucia (Cortona) il 20 agosto 1912. Si sposa con Elena Salvadori. Dal 28 ottobre partecipa alle operazioni svoltesi sul fronte greco-albanese 1940 nel diciannovesimo Reggimento di artiglieria “Gavinana” ed è catturato in Albania il 14 settembre 1943. È internato nello M. Stammlager V G, presso Bonn col numero di matricola 89918 e inviato al lavoro coatto presso una fattoria. Liberato nel 1945, rimpatria il 13 settembre dello stesso anno presentandosi al Centro Alloggio di Bolzano. Il suo foglio matricolare così recita: «Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra». Muore a Montemurlo di Prato, dove si era trasferito con la famiglia, l’8 agosto del 1997.

Agostino Brocchi nasce a Cortona il 23 marzo 1924, è chiamato alle armi l’11 maggio 1943 e arruolato nel sesto Reggimento Genio. Catturato a Bologna e deportato a Dortmund dal settembre 1943 ad aprile 1945, col numero di matricola 19798 è inviato al lavoro coatto in una fabbrica di armi dove riceve persistenti danni alla salute connessi al lavoro, come varici interne degli arti inferiori di notevole entità con esito a destra di ulcera varicosa. Al momento del rimpatrio, l’11 settembre 1945, si presenta al Centro Alloggio di Como.

Giuseppe Cannoni nasce a Castelfranco Piandiscò (Arezzo) considerato uno dei borghi più belli d’Italia il 24 agosto 1916. Arruolato di leva il 10 giugno 1936 e chiamato alle armi il 15 maggio 1937, milita nel 40° Reggimento di fanteria, Divisione “Modena” come soldato semplice fino al 27 agosto 1938. Richiamato alle armi il 2 maggio 1940 col grado di caporalmaggiore, il 12 ottobre 1943 è catturato a Prevesa (Epiro), che dal luglio del 1942 era sede della 139ª Squadriglia della Regia aeronautica italiana, internato presso Linz (Vienna) col numero di matricola 30311 e condannato al lavoro coatto di riparatore nelle ferrovie in qualità di tornitore. Rimpatria il 25 giugno 1946, e si ricongiunge alla famiglia abitante nella frazione di Certignano. Il 5 settembre è costretto ad operarsi di ernia epigastrica contratta durante la prigionia. Si ignora la data di morte.

Armando Lapi nasce l’8 maggio 1910 a Cetica, nel comune di Castel San Niccolò (Arezzo). Arruolato nell’Arma dei carabinieri il 2 luglio 1929, dapprima è assegnato alla Legione Allievi di Roma e poi, a partire dal 7 novembre 1939, risulta in servizio nella Legione di Firenze, dopo che il 28 ottobre 1939 si era sposato nella chiesa di Torre, frazione anch’essa di Castel San Niccolò, con Emilia Durazzi ed era andato ad abitare a Strada, capoluogo del comune. Il 19 luglio 1941 parte per il fronte dei Balcani in servizio presso la 65ª sezione dei carabinieri della Divisione di fanteria “Cacciatori delle Alpi”. Dopo l’8 settembre 1943 riesce a rimpatriare con mezzi di fortuna e raggiungere la famiglia il 18 ottobre dello stesso anno. Subito dopo si presenta al Comando della Legione di Firenze; ma poiché non intende aderire alla R.S.I. si dà alla macchia, rientrando di nascosto nella casa paterna di Campareccia, dove lo raggiungono la moglie e il figlio di due anni. Dopo il fortuito incontro con un maresciallo, suo vecchio amico, militante nella formazione “Lanciotto Ballerini”, operativa sul Pratomagno al comando di Aligi Barducci (“Potente”) lo segue nella cosiddetta “Repubblica partigiana del Pratomagno” e combatte col nome di battaglia di “Quaranta”. Partecipa alla vittoriosa battaglia di Cetica il 29 giugno 1944, giorno nel quale i nazifascisti avevano attuato le stragi di Civitella della Chiana, Cornia e San Pancrazio di Bucine. Catturato dal nemico il 4 agosto successivo, durante un rastrellamento, insieme al fratello Artemio è deportato in Germania nella regione della Saar, dove svolge lavoro agricolo coatto nelle fattorie oppure di addetto alla rimozione delle macerie procurate dai bombardamenti a Wiesbaden e a Francoforte sul Meno. I due fratelli sono liberati nell’agosto 1945 e nello stesso mese rimpatriano: Armando presterà servizio presso la Compagnia dei carabinieri di Prato, dove sono nati altri due figli, Lorenzo e Liliana, fino al pensionamento, il 1° novembre 1956 e dove si è spento il 20 dicembre 2006.

Orlando Lippi nasce a Poppi (Arezzo) il 15 maggio 1920, dove il 15 giugno 1944 è catturato come civile, essendo un contadino, internato a Sondershausen, in Turingia col numero di matricola 42076 e obbligato al lavoro in una officina di produzione di armi nel reparto di pezzi da mitragliatrici come tornitore. È liberato dalle truppe americane nel maggio 1945.

Alessandro Martini di Cortona nasce il 21 settembre 1915. In servizio militare a Corfù, non si conosce in quale arma, è catturato nel settembre 1943 e internato a Fulda, nell’Assia, nello Stammlager IX A col numero di matricola 82608, dove è costretto a lavorare in una fabbrica di maschere antigas ed altri lavori, fino a maggio del 1945. Secondo la sua dichiarazione per tutto il tempo dell’internamento è stato tenuto sotto custodia e sottoposto a continue perquisizioni e controlli da parte dei sorveglianti. Rimpatria il 5 luglio 1945.

Dino Masetti nasce il 19 ottobre 1923 a Pratovecchio (Arezzo). Nel gennaio 1943 è inquadrato nell’8° Reggimento di artiglieria di stanza a Postumia, in Slovenia. Dopo l’8 settembre 1943 tenta di fare resistenza ai tedeschi con un gruppo di commilitoni, ma è catturato e inviato in Germania in diversi campi di prigionia: Stettino, Mannheim, Ludwigschafen, Heidelberg, Landau, per poi finire a lavorare sulla linea Sigfrido agli inizi del 1945. Rimpatria nel settembre 1945.
«L’8 settembre […] a un certo momento verso le nove di sera suonò l’allarme e venne l’ordine assoluto di rientrare in caserma ma non si sapeva ancora il perché, che c’era stato l’armistizio […] fu fatta resistenza, noi non ci si arrese ai tedeschi, ma non s’aveva nulla: si aveva un moschetto e la pistola, ma cosa si fa contro i carri armati? In conclusione, fu fatta una sessantina di morti e poi ci si dovette arrendere».

Mino Mencattini di Stia (Arezzo), presta servizio militare a partire da febbraio 1942 nel terzo Reggimento “Granatieri di Sardegna”, corpo della Divisione “Forlì” di stanza a Viterbo. Dopo l’8 settembre 1943 è catturato e internato prima a Wietzendorf (lager X/B, matricola n° 173040 KG- ITL) presso Belsen e poi a Klein Wasleben, nel Magdeburgo. Il suo racconto autobiografico della prigionia mette al centro della narrazione la condizione di totale distruzione della dignità degli internati, lo stato di abbandono, la solitudine aggravata dalle sopraffazioni, dalle violenze e dalla fame ossessiva e incalzante. La deportazione sui carri bestiame, senza cibo, ma soprattutto senza acqua segna l’inizio «dell’abbrutimento, dell’autoannientamento morale nel quale l’infernale macchina tedesca avrebbe voluto ridurci, facendoci prima morire nello spirito».
Il discorso del comandante SS del campo di Wietzendorf rivolto ai prigionieri il giorno dopo il loro arrivo non lascia dubbi:
«Voi non siete dei normali prigionieri di guerra; i prigionieri di guerra sono avversari, leali combattenti che cadono prigionieri e meritano rispetto da soldati; voi siete dei volgari traditori badogliani che ci avete improvvisamente e proditoriamente voltato le spalle; perciò, non possiamo, non dobbiamo considerarvi prigionieri di guerra, ma pericolosi internati a completa disposizione del grande Reich e del nostro grande Führer. […] Tenete bene a mente una cosa – aggiunse – voi non siete nessuno, siete una cosa, uno strumento, del quale disporremo come crederemo meglio, quando e dove vogliamo!».
Finalmente, per i sopravvissuti, il 1° luglio 1945 partenza per l’Italia. Al passo del Brennero attende i reduci un vecchio treno merci, già occupato, insufficiente per tutti:
«L’impatto con quel treno fu un’amara delusione per tutti. Tutta l’accoglienza “ufficiale” di cui ci aveva parlato il colonnello Salzano consisteva in quel merci rugginoso e stipato e in un plotone di carabinieri per sorvegliarci. […] Mi tornavano in mente le parole di quell’anziano capitano degli alpini che ci aveva avvertiti: – Non aspettatevi che vi accolgano a braccia aperte; per i reduci non è facile parlare di diritti, non lo fu neppure nel 1918, e allora tornarono vittoriosi. I diritti saranno di quelli che sono stati a casa, degli eroi dell’ultima ora. […] Andiamo avanti tutti verso casa; siamo liberi in questo treno che ci riporta, ma siamo muti. Abbiamo tutti bisogno di scongelare, di sciogliersi l’anima, disincagliarci, riacquistare la speranza e la fiducia in noi stessi e negli altri. Ma sono cose, doni che pochi potranno darci. Non certo la nostra “mamma Italia” che quasi si vergogna di noi…».

Osvaldo Visi di Angiolo, nato a Lierna, frazione del comune di Poppi (Ar), ultimo di tre fratelli tutti chiamati alle armi.
«… Nel periodo che ho passato in Germania ricordo di aver cambiato molte città, ma di queste non ricordo che alcuni nomi. Ricordo di aver lavorato il ferro in una fabbrica vicino alla quale c’era una casa dove portavano con i camion i prigionieri provenienti da vari Paesi europei. Io non ci sono mai entrato, ma sentivamo dire che da lì li portavano poi a morire. Qui ho visto uccidere un uomo perché aveva “rubato” un po’ di frutta in un orto …».

Le fonti delle loro narrazioni sono presenti rispettivamente: per Dino Belardi, Agostino Brocchi e Giuseppe Cannoni nell’archivio della Federazione pratese dell’A.N.C.R. Per Armando Lapi e Dino Masetti in Ultime voci, raccolta di testimonianze a cura della Federazione pratese: per il primo alle pp. 90-96, vol. III, per il secondo alle pp. 48-56, vol. VIII. Per Mino Mencattini le memorie sono presenti in Eravamo nessuno, Edizioni Fruska, Stia (Ar), 1989. Per Osvaldo Visi la testimonianza integrale è reperibile in Salvo Salvi, Ritorno alla vita. Ricordi di un lontano dopoguerra, Edizioni Fruska, Soci (Ar), 2012.




Il Campo P.G. n. 60 di Colle di Compito (Capannori)

IL CAMPO FINO AL 10 SETTEMBRE 1943[1]

Nel giugno 1940 l’Italia fascista entrò in guerra. Fin dai primi giorni il Ministero degli Interni istituì su tutto il territorio nazionale campi per i militari nemici catturati. Contestualmente inasprì la legislazione antiebraica del 1938 e, con norme che si fecero sempre più restrittive, impiantò campi di concentramento e luoghi per il “normale internamento di guerra degli stranieri nemici e/o indesiderabili, e degli italiani pericolosi”. [2]

Il campo P.G. n.60, sorse[3] come campo per soldati e sottufficiali angloamericani ma dopo il tragico episodio del 10 settembre 1943, oggetto di questa nota, fu ristrutturato e servì al fascismo repubblicano come campo di concentramento – fino alla metà del ’44 – per ebrei e oppositori alla RSI e ai tedeschi occupanti.

Fu scelta l’area paludosa del Pollino, paradiso dei cacciatori di uccelli acquatici,[4] appartenuta al conte Gaddo della Gherardesca e da lui parzialmente bonificata grazie a un’idrovora inaugurata nel 1925. Al tempo della requisizione da parte dell’Esercito Regio, ne era proprietario il genovese Giuseppe Ravano che, con la moglie Candida Bombrini, vi gestiva una fattoria. Non ci è documentato l’assetto originario del campo; possiamo però ricavarne alcune caratteristiche – dimensione e strutture – oltre che da testimonianze – da una pianta di poco successiva. [5] La recinzione, con “fili spinosi“, abbracciava un perimetro di circa 600 mt, con diverse garitte per le sentinelle. Vi trovavano posto baracche di legno utilizzate come dormitori cui si aggiunsero tendoni di tipo “Roma” per fare fronte alle maggiori esigenze. Un luogo insalubre e soggetto ad alluvioni, assai freddo d’inverno per la nevicate sui monti antistanti e infestato da insetti nei mesi estivi; situato a tre km dal primo posto di ristoro (un dopolavoro[6]), ma con il vantaggio della prossimità (grazie a una stradina vicinale che attraversava il campo) alla piccola stazione di Colle di Compito, sulla linea Lucca-Pontedera: all’epoca uno snodo ferroviario vitale, soprattutto per il collegamento con la Piaggio. La linea, dopo il bombardamento della stazione di Pisa, il 31 agosto ’43, era diventata arteria logistica nevralgica per i tedeschi e, proprio perciò, bersaglio di frequenti e rovinose incursioni aeree alleate che ne decretarono il finale abbandono, spesso colpendo anche il campo. [7]

In questa fase (prima dello “sbandamento”) la sorveglianza e il controllo fanno capo al Ministero degli Interni. Il comando del campo è affidato a un colonnello dell’esercito coadiuvato da ufficiali, carabinieri e soldati. [8] Nonostante le forti carenze igieniche rilevate anche da ispezioni della CRI[9] e qualche problema di convivenza[10] i prigionieri vengono trattati con umanità: ricevono pacchi con generi di prima necessità; presso il campo è in servizio per un certo tempo un capitano medico; in certe occasioni possono, accompagnati, uscire in paese. La popolazione locale – che vede “i neri” per la prima volta – prova nei loro confronti curiosità e sentimenti di solidarietà; non mancano i piccoli baratti (molto richiesta la canapa, per fumarla) e l’abituale quota di mercato nero. Nel complesso le relazioni, anche tra soldati e popolazione locale, sono buone. Lo scenario bellico, però, evolvere. Nel giro di soli tre mesi, da luglio a fine settembre 1942, il numero dei prigionieri, soprattutto inglesi e sudafricani, cresce vertiginosamente. È un picco cui farà seguito un brusco e drastico calo. [11] Lo Stato Maggiore dell’Esercito decide comunque la trasformazione del campo da ‘attendato‘ a ‘baraccato’, ma alla fine di agosto alcune “difficoltà” impongono il ripiegamento delle tende e il trasferimento altrove di tutti i prigionieri di guerra. [12] Si rendono necessari alcuni lavori per la riapertura del campo che però, nonostante l’ordine dello Stato Maggiore del 31/12/42, figura ancora chiuso al marzo ’43. [13] Sicuramente il campo P.G. n. 60 è di nuovo in funzione nell’agosto del 1943, come si evince da forniture fatte in quel mese.

IL SACRIFICIO DEI MILITARI E LA SOLIDARIETA’ AI FUGGIASCHI

L’armistizio coglie di sorpresa anche i militari che gestiscono il campo. Lo dirige, da quasi un anno, il 65enne colonnello Vincenzo Cione, un veterano decorato della Grande Guerra, (di intuibili sentimenti antitedeschi) per la seconda volta richiamato in servizio. Un “uomo bravo” secondo un testimone[14] che spesso lo accompagna alla stazione dalla casa dove abita, sul vicino Colle dell’Uccelliera. Da due giorni incertezza e inquietudine gravano sulle guarnigioni di un esercito lasciato senza direttive dopo la fuga del re e del generale Badoglio a Brindisi. Forse già nelle ore immediatamente successive all’annuncio la mancanza di ordini ha prodotto anche lì qualche riuscito tentativo di fuga. Il giorno 10 settembre[15] verso metà mattinata, il campo è in allerta. Qualcuno ha avvertito del prossimo arrivo di una pattuglia tedesca che, infatti, giunge poche ore dopo dal vicino aeroporto di Tassignano dove è di stanza la Luftwaffe. Non sono molti, i tedeschi: arrivano in moto e sidecar, forse soltanto in quattro, ma ben armati. Intimano la consegna del campo, dei prigionieri e della relativa documentazione. Cione non obbedisce, forse perché spera ancora di poter ottenere ordini superiori, forse perché preoccupato per la sorte dei soldati e dei prigionieri. [16] Certo è che non riconosce subito l’autorità degli avieri del Reich, non si piega immediatamente agli ordini seccamente impartiti. Sulla dinamica dell’episodio si sono date versioni diverse. Alcune testimonianze, nessuna però “in presa diretta”,[17] hanno attribuito l’inizio dell’eccidio (a questo, più che a un vero scontro a fuoco mi pare assimilabile) a cause accidentali: un gesto di sorpresa male interpretato, il terreno sconnesso, le mani alzate in segno di resa. Incidenti, dunque, che avrebbero provocato la “reazione” tedesca, ovvero le raffiche di mitra che freddano, insieme a Cione, il capitano Massimo De Felice e il soldato Felice Mastrippolito, mentre un altro ufficiale resta ferito. È lecito dubitare di questa versione. Quella forse più rilevante (anche se riferita),[18] è del trombettiere del campo, Giuseppe Mangino, presente ai fatti. “Beppe” raccontò chiaramente, la sera stessa, di un allarme da lui suonato su ordine di Cione e del suo netto rifiuto di consegnare il campo. “E subito lo mitragliarono all’istante“. Una “postura” resistenziale, dunque, diversa da quanto accade a Cefalonia o a Rodi, ma espressione di valori (senso di responsabilità e protezione verso i prigionieri nemici affidati alla propria custodia; sentimento di appartenenza all’Esercito Regio, anche se in disfacimento; incompatibilità con la prepotenza brutale degli occupanti) che ritroviamo anche negli ufficiali che, al Sud, stanno ricostituendo i Gruppi di Combattimento e nella “lunga resistenza” degli IMI. I momenti che seguono immediatamente la tragedia sono di inevitabile caos. Difficile che 4 tedeschi possano controllare cosa accade lungo tutto il reticolato. Numerosi testimoni raccontano di soldati e carabinieri (anch’essi allo sbando) che aprono varchi o cancelli per far uscire i prigionieri. Non sappiamo con certezza chi, generosamente, lo fece per primo; non abbiamo i nominativi né il conteggio preciso di quanti riuscirono a fuggire e di quanti invece, soldati e prigionieri, restarono intrappolati in quel recinto che sarebbe poi diventato uno dei “Campi di Salò” riservati all’internamento civile di ebrei (pochi giorni dopo inizierà la “caccia”), oppositori, “diversi”. Abbiamo però una costellazione di episodi, belli e significativi: da quelli ricordati da A. Mancini[19] alle testimonianze rese a Galli e ai successivi studi di E. Pesi e ISREC Lucca. Perfino troppi gli esempi. La famiglia di Giulia Angelini che vuota “le casse dei vestiti” per rivestire i prigionieri; la contadina Zaira di Castelvecchio Alto, che ospita e nutre il trombettiere Beppe e altri tre paracadutisti inglesi; oppure la “Bianca” di S. Leonardo (il “maternage” delle donne fu decisivo). È tutto un pullulare di storie di solidarietà (e futura amicizia) tra chi soccorre e chi fugge, se non dal campo PG. 60, da altri distaccamenti di lavoro. A Matraia, ad esempio, dove l’assistenza delle famiglie è corale. [20] È la nascita di quella rete di protezione che estenderà il suo operato, a dispetto delle pene severissime,[21] anche a renitenti, ebrei, partigiani. Ne faranno parte luminose figure di sacerdoti che si prodigano fino all’estremo sacrificio per fornire, continuativamente e spesso in accordo con CNL e formazioni partigiane, riparo e assistenza ai perseguitati dalla Guardia Nazionale Repubblicana e dai nazisti occupanti.

Il C.P. 60 continuerà ancora per alcuni giorni ad esistere. Trasferiti i militari, deportati i prigionieri e rimasto dunque incustodito, divenne quasi interamente oggetto di appropriazione da parte della popolazione ormai allo stremo. [22] I corpi di Cione e De Felice furono portati a Lucca, nel “campo dei soldati” e deposti in un apposito sacrario, per essere poi sepolti, nel 1990, nei loro luoghi d’origine, ad Avellino e a Chieti. [23]

 

PROSPETTIVE FUTURE

La vicenda del Campo per prigionieri P.G. 60, fissatosi nella memoria popolare postbellica come “campo di concentramento di Colle di Compito“, ha acquistato negli ultimi due decenni, grazie anche a un’accresciuta visibilità mediatica,[24] una forte carica simbolica, travalicando il livello locale. Da un lato, l’immediata adiacenza all’annuncio armistiziale ne fa un epicentro ideale in quanto primo – unico forte e tragico – episodio di resistenza dei militari in Provincia di Lucca (e tra i primi in Toscana). Dall’altro, la concorde gara di solidarietà verso i prigionieri in fuga, che vede protagonista la popolazione del compitese, arricchisce i profili biografici ed esemplifica il nesso tra le diverse resistenze. Non mancano, certo situazioni, analoghe[25] che però, nel panorama nazionale, restano assai contenute.

A ridosso della via dei cipressi, un cippo posto nel 1993 ricorda oggi il sacrificio dei tre militari in un luogo di notevole bellezza paesaggistica: il lago della Gherardesca, zona turisticamente vocata e mèta frequente di passeggiate nella via della Memoria.

A conclusione di quanto finora esposto risulteranno forse utili due raccomandazioni: l’urgenza di sperimentare nuove forme di valorizzazione di questo importante “luogo della memoria” (benché, rispetto ad altre realtà preda di “oblio”, non sia mai venuta meno nei due decenni trascorsi l’attenzione istituzionale) e, soprattutto, l’esigenza ormai matura di procedere ad una sistematica trattazione in sede storiografica.

 

 

NOTA:

[1] Il primo, essenziale, lavoro di raccolta di una parziale ma significativa documentazione, arricchita da 19 testimonianze sui periodi in cui il campo era in funzione, si deve al pionieristico impegno del Prof. Italo Galli, appassionato conoscitore della realtà storica locale coadiuvato dalla Associazione Il Melograno. Italo Galli. I sentieri della memoria: il campo di concentramento di Colle di Compito: i documenti e le voci dei testimoni 1941-1944. Consiglio Regionale della Toscana, 2005.

[2] C.S. Capogreco, I campi del Duce, 2004 p.9; sulle norme: https://www.annapizzuti.it/normativa/testocircolari40.php

[3] I. Galli (op.cit., p.31-33) ritiene di poter assumere per la decisione formale d’allestimento il luglio 1940, anche se la costruzione inizierebbe dal 1941; la fonte è una nota del Podestà di Capannori in cui si cita un decreto (17/7/40) del Comandante della Zona di Pisa che ne dispone, insieme ad altri campi, la costruzione. Le testimonianze rese, pur se discordanti, sono perlopiù inclini a posticipare tale data. Vedi, più oltre, anche la nota n. 7. Il sito “Campi Fascisti” (che riporta documentazione d’archivio consultabile online) ne colloca addirittura al luglio 1942 la piena operatività (cfr: https://campifascisti.it) individuandolo come uno dei sette campi per prigionieri censiti in Toscana (tra cui l’ospedale di guerra per prigionieri n. 202 a Lucca).

[4] Lo scherzoso addio ai beccaccini lo si legge nella targa apposta il 22/8/1925 in prossimità dell’impianto idrovoro.

[5] Una relazione dell’Ufficio tecnico provinciale (LU) (20/12/1943) reca una pianta allegata: si tratta del nuovo progetto di ricostruzione (in forma più ampia, dopo lo smembramento all’indomani del 10 settembre) come “campo di Salò”, operantetra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 (I. Galli, op. cit. p.157). Un testimone che, ‘nel 41, aveva lavoratoalla costruzione del campo parla di due casette in legno – altri invece di quattro – lunghe una trentina di mt.  “imperliate e incatramate sopra”. Le costruzioni per i soldati (dall’altro lato della via vicinale) erano invece “scialbate e murate” mentre le garitte distavano tra loro 50 mt. (I. Galli, op. cit; p.130-31) e passarono dalle iniziali 4 angolari a 12. (I. Galli, op. cit, p.34)

[6] Ne fa menzione una donna di Castelvecchio C. che in data 2/7/42 chiede al podestà il permesso di vendere bibite e frutta nel campo di concentramento “che viene montato” vicino al paese.

[7] Cfr. Documenti e Studi (Isrec Lucca) n.32/2010 p. 285. Nell’incursione del 21/5/’44 fu ucciso l’industriale James C. White (Glasgow, 1889) che risulta – dalla documentazione riferita – internato lì, assieme alla moglie, fin dall’agosto del 1941.

[8] La presenza di ufficiali risulta da testimonianze e documenti, oltre che dai tragici fatti del 10/9/43. Edo Toschi, carabiniere che aveva accesso al campo, poi passato con i partigiani dell’XI zona Patrioti, parla di 9 carabinieri, un maresciallo e un centinaio di soldati in forza nell’agosto ’43 (I. Galli, op.cit. p.37). Il colonnello Vincenzo Cione(dopo il Col. Crarino Di Pietro) assume il comando il 1/10/1942. Neanche un anno dopo il suo rifiuto di consegnare il campo ai tedeschi ne segnerà la sorte.

[9] Le latrine esterne sono assi di legno sul fossato; mancano libri o simili, l’assenza di zanzariere genera 180 casi di malaria. Cfr.https://www.liberationroute.com/it/pois/1477/colle-di-compito-concentration-camp

[10] Alcune testimonianze parlano di “risse” e “pestaggi” tra bianchi e neri e di conseguente divisione degli ambienti.

[11] Al 1/8/’42 sono registrati nel campo 2.465 prigionieri di guerra. Al 30/9/’42 salgono a 3.970, così suddivisi: 2.224 inglesi, 1.737 sudafricani, e 9 di altre nazionalità. Cfr. https://campifascisti.it/documento_doc.php?n=685. Il numero dei prigionieri, fin dall’inizio costante e non molto elevato (alcune centinaia), conosce invece nel secondo semestre del ‘42 andamenti opposti: un’impennata e un crollo. Tant’è che il Prefetto Marotta, in una lettera al colonnello medico scrive (15/11/’42): “il campo dei prigionieri si sta sciogliendo e non si sa dove verranno destinati gli ufficiali medici ad esso addetti” (I. Galli, op cit. pag. 47). Nel settembre ’43 il numero risalirà a 1000-1200, forse anche di più (E. Toschi in I. Galli, op.cit., p.37).

[12] La stasi nel funzionamento del campo che risulta “ripiegato per l’inverno” meriterebbe – ci pare – una ricerca approfondita, quantomeno sulla destinazione di un numero così rilevante di prigionieri e sulla natura delle “difficoltà” insorte. Su questo aspetto anche la fonte da cui attingiamo (https://campifascisti.it/documento_doc.php?n=738) non va oltre l’esibizione dei documenti. Probabili cause della sospensione: l’inizio delle piogge, la scarsa illuminazione e l’assenza di riscaldamento.

[13] Il 23 aprile 1943, (si legge nella stessa fonte) “si propone di utilizzare alcuni prigionieri di guerra tratti dal campo n. 82 di Laterina per portare a termine i lavori di riapertura del campo. In particolare si propone per evitare gli inconvenienti che hanno portato alla chiusura del campo lo scorso inverno” di “spostare l’area cintata dalla parte opposta di quella attuale; montare le tende sui terrazzi a nord e a sud della nuova area utilizzando lo spazio centrale per le adunate e come campo sportivo per i prigionieri”.

[14] Capini Vito, in I. Galli, op.cit. p.99

[15] La data dell’episodio e del decesso di Cione (e dei due militi) verrà definitivamente certificata con rettifica del 21/4/’47 sul suo Stato di servizio. Ciononostante, alcune testimonianze raccolte da I. Galli continuano a indicare date diverse. Edo Toschi, ad es., indica, dichiarandosene certo, il 9/9 come data dell’uccisione dei tre militari.

[16] Del tutto realistica l’interpretazione di G.L. Fulvetti con cui concordiamo: “Cione cerca di guadagnare tempo per consentire la fuga sia ai suoi uomini che ai prigionieri ma i tedeschi indovinano subito le sue intenzioni”. Cfr. G.L. Fulvetti, Una comunità in guerra, L’Ancora del Mediterraneo, 2006. Fondamentale su tutta la vicenda dei prigionieri evasi e sulla assistenza ricevuta dalla popolazione del compitese (e non solo) resta: E. Pesi, Resistenze civili, M.P. Fazzi, 2010, in particolare p.111 e sgg.

[17] Cfr. I. Galli, op.cit., pagg.53-54

[18] Testimonianza di Giulia Angelini (I. Galli, op.cit. p. 124-25). “Beppe” (a cui la famiglia di Giulia forniva latte) ha mantenuto rapporti di amicizia con loro fino alla morte.

[19] A. Mancini (illustre antifascista lucchese, filologo e storico, promotore e presidente del CLN) nelle sue “Memorie dal carcere” (Le Monnier, 1986, p.49) scrive di come molti contadini, nel loro rudimentale inglese di ex emigranti in America, chiamavano i fuggiaschi: “Come, come into my house!” e li ospitavano a prezzo di grandi rischi.

[20] Storie esemplari, come quelle del carbonaio Ghigo e di Doug Harrison del North Yorkshire; oppure quella di Giuseppe Taddeucci e Thomas Dormant dell’Essex.

[21] Il decreto del governo della RSI del 9/10/’43, diffuso a mezzo stampa e manifesti, ricorda che “qualsiasi borghese italiano che potrà dare indicazioni in merito a prigionieri americani o inglesi evasi, atte a facilitare la cattura, avrà una ricompensa di L.500. Ogni borghese italiano che darà alloggio ai prigionieri o suddetti o comunque li aiuterà, sarà immediatamente arrestato e passato per le armi”. In diversi, invece, riceveranno come riconoscimento il “Diploma Alexander”.

[22] Una nota dell’Ufficio tecnico Provinciale di Lucca del 20/12/43 elenca minuziosamente i materiali asportati da ignoti con “vandalico saccheggio” (Cfr. I. Galli, op.cit. pp.157-158).

[23] La famiglia di Mastrippolito, di S. Buoro (CH), raggiunta dopo molti tentativi, lo aveva dato per disperso in Russia; si trovava invece, in licenza, al CP.60.

[24] Oltre al citato libro del Prof. I. Galli, ricordiamo: la prima delle dieci “Pillole di Resistenza” (visibile anche su canale YT Isrec Lucca) e il fumetto Come into my house, M.P. Fazzi, 2019, con testi di E. Pesi e disegni di L. Lenci

[25] Soprattutto le popolazioni dell’Appennino tosco romagnolo, fin dal settembre 1943 accolsero e salvarono dalla prigionia e dalla morte decine di migliaia di persone, ricercate e perseguitate dall’occupante tedesco e dai fascisti della Repubblica sociale italiana (https://percorsisolidarieta.istorecofc.it/)




La battaglia di Piombino

Sono passati 80 anni da quel lontano 10 settembre 1943, quando gli abitanti di Piombino, sostenuti ob torto collo anche dalle forze armate presenti in città (soprattutto dalla Marina di stanza nel territorio della cittadina e lungo le coste del promontorio), si ribellarono alla presenza tedesca e diedero vita ad una vera e propria battaglia caratterizzata sin da subito da un amalgama difficilmente distinguibile di spontaneità e di organizzazione.

Attorno all’episodio, entrato immediatamente – perlomeno alla fine del conflitto – nella narrazione anche retorica costruita attorno alla Resistenza, si sono accumulate intenzioni estranee agli avvenimenti stessi, rendendo la battaglia piombinese un topos obbligato nella rievocazione delle azioni partigiane. Resta comunque il fatto incontrovertibile che essa fu il primo episodio di resistenza nei confronti dei tedeschi, a soli due giorni dall’annuncio dell’armistizio Badoglio dell’8 settembre 1943. A conclusione della guerra, la sua eccezionalità attirò l’attenzione non solo di politici (soprattutto comunisti e socialisti), ma anche di storici che si confrontarono più o meno dettagliatamente sulla vicenda.

Il primo fu il saggio di Ugo Spadoni, pubblicato nel 1955 (in occasione del decennale della Liberazione) su la «Rivista di Livorno», che portava un titolo significativo: Per una storia della battaglia di Piombino. Un paio di anni prima, invero, ne aveva fatto cenno anche Roberto Battaglia nella sua Storia della resistenza italiana, basandosi sulla testimonianza di Edo Azzolini pubblicata su «Vie Nuove» nel 1952.

Come desumibile l’episodio aveva attirato l’interesse di studiosi e di militanti per le sue caratteristiche di spontaneità e organizzazione, perché era il risultato, in parte perlomeno, di una città operaia e sovversiva dove l’odio per i tedeschi ed i fascisti aveva trovato l’occasione ed i mezzi per esprimersi, prefigurando in qualche modo la potenzialità di una sognata ed idealizzata presa del potere da parte delle classi subalterne che riuscivano a piegare ai loro fini anche le squadre del regio esercito. Con il passare degli anni si sono aggiunte altri ricerche: da quella di Ivan Tognarini (al quale si unì poi la voce di un non professionista della materia come Rocco Pompeo, che nel 1965 vi dedicò la tesi di laurea, successivamente pubblicata) fino ai più recenti ed accurati confronti con le carte d’archivio sulle quali ha lavorato Stefano Gallo, studioso sensibile alla tematica senza però mai farsi prendere la mano da un eccessivo entusiasmo come è invece accaduto per altri ricercatori. La stessa narrazione proposta da Ivan Tognarini risultava in qualche modo piegata alla necessità del riconoscimento della medaglia d’oro. Quella d’argento che era stata conferita nel 1973 apparve a tutta la cittadinanza e alla sua classe dirigente, saldamente in mano al Partito comunista, un riconoscimento non solo tardivo ma anche sminuente.

La vicenda, che si colloca due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, ricorrenza della quale quest’anno ricordiamo l’80° anniversario, si realizzò e si consumò nell’arco di circa 48 ore.

Occorre ricordare che nella città c’erano già state manifestazioni di entusiasmo per le strade in occasione del 25 luglio e che probabilmente già da quella data era andato costituendosi un Comitato di concentrazione antifascista presieduto da Ulisse Ducci, figura piuttosto ambigua nel panorama dei resistenti. Arrivato a Piombino dopo una condanna al confino perché implicato in un tentativo di uccisione di Mussolini, divenne abbastanza presto confidente dell’Ovra e giocò in tutto il periodo della sua presenza nella cittadina toscana un ruolo opaco. Tuttavia, fu anche capace di tessere relazioni con l’ambiente antifascista più genuino espresso dalla città, che vedeva in lui un eroe senza macchia[1]. Al suo fianco troviamo nel Comitato di concentrazione antifascista alcuni sicuri oppositori al regime come Giorgio Millul, Federigo Tognarini, Pio Lucarelli, Adriano Vanni, Renato Ghignoli ed altri. Quanto poi ciò che avvenne fosse tutto frutto della direzione del Comitato e quanto invece fosse il risultato di una volontà spontanea di parte della popolazione, è arduo da stabilire. Probabilmente giocò qui, come da altre parti, una mescolanza di entrambi gli atteggiamenti. In ogni caso furono tali spinte che in primis si rivolsero verso i soldati, in particolare i marinai presenti in città, affinché si facessero carico di uno scontro diretto con le truppe tedesche che, all’inizio della giornata del 10 settembre, erano presenti con forze esigue.

Al comando dei militari dislocati sul promontorio c’erano due personalità ben diverse: da una parte il capitano di corvetta Giorgio Bacherini; dall’altra il capitano di fregata Amedeo Capuano. Come ha sottolineato Bardotti nella sua prolusione alla cerimonia per il 10 settembre 2022, l’apparato di difesa militare che faceva capo all’esercito italiano per Piombino era significativo. Tutta la zona dipendeva dalla 215° divisione costiera agli ordini di Cesare Maria De Vecchi che aveva come comandante il generale Fortunato Perni, il quale, tra l’altro, poteva contare su due efficaci batterie a guardia del porto. Agli ordini del capitano Amedeo Capuano faceva capo una terza batteria, in buona efficienza affidata a Giorgio Bacherini. Il dispositivo era ulteriormente rafforzato dal XIX battaglione carri m42 (in tutto 38 mezzi), dislocato presso la pineta di Torrenuova e posto al comando del tenente colonnello Angelo Falconi. In tutto le difese potevano contare su circa 800 militari, oltre ai soldati in attesa d’imbarco per l’Elba, la Corsica e la Sardegna.

Le forze militari tedesche presenti in campo erano invece assolutamente trascurabili: un piccolo contingente tedesco composto da 7-8 militari dislocati presso una stazione radio, nonché dieci unità germaniche di naviglio leggero, erano ancorate in porto. Prendendo le mosse da queste ultime, un gruppo di trenta soldati tedeschi era sceso a terra poco dopo la proclamazione dell’armistizio per impadronirsi delle banchine portuali. Gli aggressori arrestarono alcune sentinelle a guardia dei moli e tentarono di occupare una postazione di mitragliatrici ma il capitano Bacherini, informato di questi movimenti, ordinò di difendere il porto e intimò l’arresto dei tedeschi presso la stazione radio. La batteria della Marina aprì il fuoco e cinque unità del Reich, di cui quattro in porto e una nel canale, vennero affondate mentre alcuni tedeschi vennero fatti prigionieri. Su questa prima reazione pesò sicuramente la volontà dei soldati italiani che fecero la “scelta”, pur senza ordini dall’alto, di resistere e combattere – sicuramente – sostenuti e incoraggiati dalla popolazione civile.

Questa risposta non era stata messa in conto da parte tedesca neppure come ipotesi: quest’ultima aveva pertanto agito sopravvalutando la propria capacità e la disponibilità alla sottomissione dell’ex alleato italiano.

Prima di procedere ulteriormente nella rievocazione della battaglia, che non risulterà lineare, credo sia utile fare alcune precisazioni, alcune di natura geografico-morfologica sulla collocazione di Piombino ed una di ordine sociale. La prima considerazione riguarda la possibilità di chiudere il capoluogo urbano con una relativa facilità. Vi si accedeva con una sola strada d’ingresso e il promontorio roccioso si prolungava verso il canale di fronte all’Elba. La considerazione di ordine sociale ed economico che probabilmente era il vero oggetto dell’interesse dei tedeschi per prendersi la città, era data dalla presenza di due grandi fabbriche siderurgiche: l’Ilva e la Magona, presenza questa che significava automaticamente una potenzialità di materiale bellico per il contingente tedesco, ma significava altresì anche la presenza di masse operaie che erano state sì sottomesse dal regime ma che non avevano mai coltivato verso di esso nessuna particolare inclinazione. Una composizione di classe fortemente politicizzata e sovversiva come scrivevano i tutori dell’ordine, con una forte e radicata tradizione anarchica, socialista e comunista. Vale la pena ricordare perlomeno due episodi, come fa Rocco Pompeo, della resistenza antifascista e dei lutti che questa dovette sopportare: quello di Lando Landi e quello di Amaddio Lucarelli ed Attilio

Landi. Lando Landi (da tutti conosciuto come “Landino”) era un anarchico per temperamento e per educazione che si era lanciato con tutto l’entusiasmo della sua età giovanile nella mischia sociale. Rappresentante di una resistenza individuale non organizzata, fu ucciso dal piombo di un sicario fascista in via Carlo Pisacane nel giugno del 1922. L’altro episodio della prima resistenza piombinese vide coinvolti Amaddio Lucarelli ed Attilio Landi, ambedue militanti comunisti, e fu di poco successivo al primo. Il 9 luglio 1922, in località “campo alle fave” (Fiorentina), i due giovani comunisti si trovavano sul terreno di campagna del loro vicino: Roberto Cantini. Mentre leggevano e commentavano il giornale, quattro fascisti arrivarono armati di rivoltella. Subito dopo ne giunsero altri sette o otto, ed uno di essi, probabilmente il capo della spedizione, si meravigliò di trovare ancora vivi Lucarelli e Landi, ai quali intimò di alzarsi. Estratta poi la rivoltella, aprì il fuoco: Lucarelli cadde ucciso, mentre Landi, ferito, fu soccorso dalle due sorelle Alfea e Maria, che avevano assistito alla scena[2].

Questi episodi vanno collocati ancora prima della presa del potere da parte delle camicie nere. Ricordiamo che tra gli assalitori di campo alle fave, una zona di campagna alle porte di Piombino, c’era anche il direttore dell’Ilva, Garbaglia. [3] Durante il ventennio le manifestazioni non si spensero mai del tutto anche se in sordina, soprattutto all’interno degli stabilimenti. In particolare, negli ultimi mesi del ’42, quando, per una serie di agitazioni operaie, per la pubblicazione insistente di stampa clandestina e la sua distribuzione nelle fabbriche, per le frequentissime scritte sui muri inneggianti ad un mutamento del regime, per l’ascolto di radio Mosca e radio Londra, centinaia di operai furono attesi all’uscita delle fabbriche e bastonati. Molti antifascisti vennero “mandati a letto” con minacce, purtroppo non vane. Il tutto in un clima nel quale il carattere peculiare del fascismo periferico andava rivelandosi più intollerante e spavaldo di quello centrale.

Ricordiamo anche il volantino diffuso il 30 luglio 1943 dal Comitato di Concentrazione Antifascista che incitava i cittadini piombinesi a stare allertati e a tenersi pronti ma vigili senza approfittare del momento, ciascuno al proprio posto di lavoro e all’ordine dell’esercito italiano. Il volantino finiva con: “Viva l’Italia libera!” [4]

Ma ritorniamo ai giorni della battaglia. Occorre ricordare che una delle otto divisioni tedesche che si trovava tra il Lazio e la Toscana, la 3° Panzer Grenadier, era giunta con il compito di collaborare alla difesa con una decisione unilaterale tedesca, perché Hitler personalmente “temeva molto uno sbarco anglo-americano a Livorno“. Di non minore importanza è il fatto che un’altra divisione germanica (la 90° di fanteria, già Sardinien) occupava nel frattempo la Sardegna e la Corsica.

Però occorre anche precisare che il territorio piombinese era stato munito di piani di difesa dallo Stato maggiore dell’esercito, che considerava poco probabile, ma non impossibile, che l’avversario attaccasse le coste del Tirreno toscano. A questo scopo erano state dislocate una serie di batterie lungo la costa, sul litorale, nei punti chiave per la difesa; altre forze militari dell’esercito nell’immediato retroterra; Rifugi Antiaerei erano stati approntati per la popolazione.

La batteria che si incontrava per prima, venendo da est, era quella della località “il Falcone”. Era una batteria navale da 194 mm, ed aveva il compito di contrastare, o di ritardare il più possibile, un attacco sferrato alla zona est del golfo di Salivoli.

Ad una distanza di circa cinquecento metri, spostandosi verso il centro di Salivoli, era piazzata una batteria con un radar da 88 mm; subito dopo nella località Podere Mazzano c’era una terza batteria da 191 mm. Tutta la zona centrale non vedeva nessuna difesa specifica anche perché in ogni strada, in ogni piazza, in ogni costruzione che dominava il territorio, erano collocate piccole unità che controllavano la zona ed avevano il compito di provvedere alla salvaguardia dei civili.

Tutti questi gruppi erano alle dipendenze dirette del Comando Marina, che si trovava sul “Castello”. Sullo stesso castello vi erano collocate due mitragliere R 76 mm. Così come un dispiegamento di forze era stato programmato per la zona del litorale sino al “Semaforo” dove si incontrava una batteria n. 190 da 120 mm alla quale ne seguiva un’altra, all’altezza del viale Regina Margherita. Era chiamato il gruppo mitragliere sud, per distinguerlo da quello nord, disposto alla sinistra di Corso Italia. Il gruppo nord di Casa Parrini doveva essere il corno sinistro della morsa che si sarebbe stretta intorno a chi fosse entrato dal porto per portarsi al centro della città. Il corno destro era dato dal gruppo complementare sud.

Nel retroterra erano dislocate altre tre batterie: una in direzione di “Ponte d’oro”, l’altra in direzione di “Monte Castelli”, la terza in direzione di Populonia: avevano l’ordine di contrastare un eventuale attacco dal lato nord. Erano rispettivamente: una batteria con radar; una batteria da 207 mm; una batteria antiaerea.[5] L’episodio dal quale tutto probabilmente si generò e precipitò è legato all’iniziativa militare di un gruppo di navigli leggeri tedeschi che, per impadronirsi delle banchine portuali, decise di sbarcare con circa trenta soldati poco dopo la proclamazione dell’armistizio. In seguito allo scontro tra i militari tedeschi e i marinai di Bacherini, questi ultimi ebbero la meglio. La catena di comando italiana ebbe a questo punto la sua prima crisi. Il generale Perni ordinò di liberare i prigionieri e di restituire loro le armi. Il capitano Capuano protestò energicamente contro l’ordine e intimò ai tedeschi di lasciare il porto prima delle 12:00 del giorno successivo.

Alle 4:30 un convoglio tedesco, comandato da Karl Wolf Albrand, formato da due cacciatorpediniere, un piroscafo e 10 unità minori, chiese di entrare in porto per approvvigionarsi di acqua e carbone e poi di ripartirsene. Quest’ultimo venne autorizzato ma, una volta attraccato, sarebbe dovuti ripartire immediatamente. Invece sbarcò velocemente, ma i soldi disarmarono le sentinelle e occuparono il punto di osservazione del semaforo. Fu a questo punto che l’azione, limitata fino a quel momento ai militari, passò nelle mani della popolazione, o perlomeno di una parte di essa. Furono gli operai del turno di notte dell’Ilva i primi a diffondere la notizia e a scendere per le strade e manifestare, chiedendo che la città venisse difesa, ma il generale Perni si limitò a schierare le sue truppe per il solo mantenimento dell’ordine pubblico.

Ricordiamo che le batterie aeree e navali erano in mano ai marinai (eccezion fatta per quelle di Salivoli e di Bocca di Cornia, nelle mani di militari del corpo di Artiglieria); un battaglione era dislocato nella pineta di Terranova. Nei pressi della stazione ferroviaria si trovava un centro di smistamento per la Sardegna, la Corsica, e l’Elba che ospitava in quel momento alcune centinaia di militari ed ufficiali. Sicuramente con queste forze in campo era possibile resistere anche se non possiamo sapere per quanto e con quale finalità.

Sul piano sociale e politico, la città a partire dal 25 luglio era stata attraversata da manifestazioni che chiedevano la pace e il ritorno a casa degli uomini partiti per la guerra e la pressione era stata tale che il Comune di Piombino prese una delibera, in data 3 settembre, solo 5 giorni prima dell’annuncio dell’armistizio, con la quale decideva di mutare nome a tutte le strade e località che ricordassero persone o avvenimenti del caduto regime per sostituirli con nomi che ricordassero cittadini e avvenimenti della lotta antifascista piombinese.

Tutto sembrava concorrere per uno scontro aperto. La situazione cominciò a muoversi più velocemente dopo il primo attacco da parte tedesca del 9 settembre, che, vista l’esiguità delle forze in campo poteva risultare, come poi risultò, avventato. Ma probabilmente la presa del porto di Piombino, vicino com’era all’isola d’Elba e alla Corsica costituiva un obiettivo certamente prioritario per le forze germaniche che queste non avrebbero assolutamente potuto mollare. All’inizio i tedeschi ebbero la peggio e corsero verso le loro imbarcazioni dopo una colluttazione con i marinai italiani che costò sicuramente dei feriti da ambo le parti.

Il passa parola su quello che stava avvenendo riempì le strade della città di popolazione e dei membri del Comitato di concentrazione antifascista che chiedevano ai soldati di respingere i tedeschi. I membri del comitato decisero quindi di rimanere in riunione permanente e chiesero alla Tenenza dei Carabinieri di frenare lo sfascio delle forze militari.

Nel frattempo i tedeschi non erano rimasti inermi e la mattina seguente entrarono in porto con 21 mezzi da sbarco (chiattoni armati con numerose artiglierie a bordo), 2 cacciatorpediniere, 1 corvetta, varie motolance ed un grande piroscafo da carico. Una volta sbarcati, occuparono militarmente il porto e, secondo parecchi testimoni, anche la capitaneria, disarmarono i marinai, i finanzieri e i soldati; incoraggiati dalla mancanza assoluta di ogni opposizione alcune pattuglie si diressero verso il semaforo, occupandolo senza alcuna resistenza.

La mattina verso le cinque – racconta l’operaio Amulio Tognarini – in fabbrica (Ilva) si sparse la voce: … i tedeschi stanno sbarcando… bisogna uscire… andiamo a vedere… bisogna difendersi. Poche ore dopo usciamo in massa dagli stabilimenti ed andiamo in piazza dove c’erano altri operai e molta folla:…cosa vogliono i tedeschi?…Perché i comandi li fanno entrare nel porto?…Ai comandi, andiamo a sentire cosa dicono i comandi… Perché i comandi non mettono in atto gli ordini di Badoglio? … Vogliamo combattere anche noi! Vogliamo le armi!

Ad un tratto comparvero i carabinieri gridando l’ordine di circolare e di sgombrare. Noi si rimaneva fermi e si cercava di parlare anche con i carabinieri. Ad un certo punto i militari stavano per aprire il fuoco. Ma non ebbero il tempo; ci si strinse intorno alla macchina urlando. Il maresciallo Ripoldi invitava alla calma e cercava di far comprendere la gravità della situazione. La folla spingeva…[6]

In questi scontri tra la popolazione ed i carabinieri Ermete Cappelli, un testimone e militante antifascista, ricorda che fu estremamente prezioso il deciso atteggiamento delle donne. “Furono loro … che si buttarono addosso ai carabinieri, li abbracciarono, ed impedirono che si facesse fuoco sulla folla. Si evitò così un inutile spargimento di sangue”.[7]

Le forze tedesche, consapevoli del pericolo che correvano, provarono a tergiversare promettendo che sarebbero tornati sulle loro imbarcazioni dopo essersi riforniti di acqua senza colpo ferire. Intanto i militari italiani presenti avevano cominciato a dileguarsi nel caos della situazione e senza ordini superiori chiari si verificò il fenomeno già ampiamente documentato sia dalla storiografia, che dalla memorialistica, che dal cinema di “Tutti a casa”.[8]

In città si formarono commissioni incaricate di fare opera di persuasione presso i soldati italiani che avevano abbandonato le loro posizioni, così come le fortificazioni preposte alla difesa della costa. Alcuni gruppi di cittadini andarono in camion fino a Campiglia per convincere soldati e marinai a tornare alle batterie. Anche il comandante della postazione del Semaforo era scappato con abiti civili e fu riportato indietro e rimesso a difesa della città.

Il generale Perni, visto che la battaglia era inevitabile, chiamò in rinforzo una colonna di carri armati dal senese che giunse verso sera. Da parte del Comitato di Concentrazione fu inviato un messaggio al Comando Marina dell’isola d’Elba per chiedere l’invio di alcuni caccia che si trovavano a Portoferraio.

Vennero decise le ultime misure difensive: squadre di cittadini controllavano alcune zone di accesso al porto, con l’ordine di “aprire il fuoco al minimo segno di ostilità da parte tedesca”. Altre squadre furono incaricate di procedere alla sorveglianza sulle spiagge che potevano diventare vie di accesso per imbarcazioni ed evitare così attacchi di sorpresa. Tali squadre, inoltre, avevano il compito di fermare tutti i soldati ed i marinai che affluivano dalle varie parti, e dalle città dove l’occupazione tedesca era già in atto, per obbligarli a riprendere le armi sotto il comando di zona.

La popolazione fu invitata con segnalazioni acustiche (macchine che giravano per le strade fornite di altoparlanti) a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei prima delle ore 19.

Verso le 18, 00 arrivarono i rinforzi chiesti dal generale Perni, che si concretizzarono con l’arrivo del XIX° Battaglione Carri M/42 che, accampato alla pineta di Terranova (Venturina) a disposizione del comando del settore costiero di Piombino, si portò lungo la via piombinese nel tratto Osteria Fiorentina – Strada Statale, poi a Piombino nel pomeriggio del 10 settembre. Comandato dal tenente colonnello Angelo Falconi, disponeva di 20 carri armati e di 18 semoventi: a mezzo di ufficiali e di commissioni cittadine, tale battaglione fu disposto nei punti strategici ed in ordine di combattimento. Falconi poi scrisse:

Sotto l’imperversare del noto bombardamento scatenato improvvisamente dalle armi a bordo dei mezzi navali tedeschi, nella notte sull’11 settembre 1943, completai lo spiegamento delle forze schierate tra il semaforo e gli stabilimenti Ilva, e coordinai e diressi l’azione…[9]

La battaglia era sicuramente già cominciata alle 21.00 del 10 e si era aperto un forte scontro militare con la partecipazione della popolazione (perlomeno quella maschile e più organizzata) di rinforzo alla Marina e all’esercito italiano presenti. Sul luogo e l’inizio della battaglia i testimoni però non sono concordi. Di sicuro, quando lo scontro terminò, i tedeschi fatti prigionieri provenivano sia del Lazio che della Toscana, così come dalla Sardegna e dalla Corsica. Non si trattò solo di uno scontro tra truppe militari ma di una battaglia che vide la partecipazione attiva dei cittadini soprattutto nella difesa che partiva dalle batterie.

Verso la mezzanotte si udì un grande boato: la santa barbara del piroscafo da carico attraccato al lato destro del pontile dell’Ilva era saltata. Tutti, nelle ore della notte del 10 settembre 1943, ebbero da fare. All’ospedale fu assicurato un servizio completo ed interrotto per tutta la notte. Cosa normale in tempi normali, ma quando si osserva che a prestare servizio per tutta la notte fu don Ivo Micheletti ci si rende conto sia di come tutti contribuirono a dare un decisivo contributo alla battaglia, sia di come dalla vicenda emergesse una situazione di caos diffuso.

A trovare la morte per le ferite riportate nella battaglia di Piombino fu Giovanni Lerario, forse la prima vittima della Resistenza italiana. (Il Comune poi gli ha intitolato una via). Alle 3 del mattino dell’11 settembre i tedeschi si ritirarono. Coloro che invece si erano nascosti furono successivamente rastrellati e portati prigionieri al comando italiano. Sul numero dei morti tedeschi non c’è mai stata unanimità; c’è chi parla di 300 vittime e chi di 400. Certo è invece il numero dei prigionieri: 300.

Il disastro dei mezzi da sbarco tedeschi invece fu assai consistente: un caccia saltato in aria; un altro gravemente danneggiato; un piroscafo di medio tonnellaggio ed uno più piccolo, carichi di armi, viveri e munizioni, affondati; varie motolance e varie chiatte da sbarco danneggiate o affondate. Da parte italiana alcuni danni allo stabilimento dell’Ilva, due morti, e solo pochi feriti tra i militari.

Nonostante tutto, nonostante l’esultanza della popolazione, nonostante quella di alcuni militari coinvolti, ci fu un epilogo tragico, forse quasi scontato. Il gen. e fascista Cesare Maria De Vecchi, che da Massa Marittima comandava la divisione costiera della zona, venuto a conoscenza di tutto l’accaduto, impartì l’ordine di liberare i prigionieri.

I prigionieri, che erano stati condotti al castello ove aveva sede il Comando Dicat, furono così prelevati e fatti imbarcare su motozattere tedesche. Fu il comandante Bacherini a consegnarli ad un ufficiale dell’esercito che li aveva chiesti con un ordine del gen. Perni. Lo stesso ufficiale scortò i prigionieri fino al porto e sorvegliò le operazioni di imbarco.

Una sola trasgressione fu presa contro l’ordine di De Vecchi. Mentre quest’ultimo aveva ordinato il rilascio dei tedeschi armati liberi in città, il generale Perni non se la sentì di fare quello che sicuramente sarebbe stato visto e considerato dalla popolazione come una provocazione persino gratuita. Gli ufficiali, i soldati e i marinai abbandonarono i loro posti dove erano tornati per volere della popolazione. Alcuni di loro tentarono di opporsi a tale ordine, ma non poterono nulla per fermare la dispersione dei militari.

Al controllo del Presidio era rimasto un solo piantone: il comandante ed il vice avevano abbandonato la città, dopo aver dato ordine a tutti i reparti di abbandonare le proprie posizioni. Solo il Comando Marina, che già nei giorni precedenti la battaglia aveva fatto sua la volontà popolare, esitò prima di abbandonare la popolazione in mano al nemico.

La sera dell’undici, anche il comandante generale della piazza lasciava la città. Intanto tutti i militari avevano provveduto a rendere inservibili i carri lasciati sparsi per le strade. I pezzi delle batterie erano stati messi fuori uso e le armi e le munizioni fatte sparire. Alcuni vogliono che queste, poi, siano state consegnate ai gruppi di partigiani; altri affermano il contrario.

Le notizie provenienti dalle zone vicine fecero dilagare la sfiducia che si impadronì piano piano di tutti. Le poche novità che giungevano erano infatti sconcertanti e tragiche: solo Piombino, in tutta la Toscana, era insorta contro gli invasori. La città di Livorno era in mano tedesca; a Cecina un generale italiano ed un ufficiale tedesco si erano presentati al comando del Presidio per accordarsi sulla consegna del materiale bellico. A Grosseto l’aeroporto era caduto in mano tedesca.

L’isola d’Elba, su cui si era scatenato un bombardamento infernale da parte dei tedeschi, era caduta, dopo un’eroica resistenza, sotto il dominio germanico, e non aveva potuto inviare le due torpediniere richieste dai piombinesi durante la battaglia. Incombeva inoltre su Piombino la minaccia di un bombardamento, nel caso che i cittadini avessero deciso di continuare a combattere.

In parecchi a Piombino si erano compromessi e decisero di partire, di abbandonare la città prima che finisse in mano tedesca e di sicuro, tra questi, i più coinvolti nel Comitato di concentrazione antifascista. Bacherini ebbe l’ingrato compito di rendere inservibili le armi delle batterie ed i cannoni, e di distruggere tutti i documenti segreti. Fornì inoltre di una licenza-premio i suoi uomini che velocemente si dileguarono.

Dopo una notte insonne arrivarono i primi tedeschi. Nelle prime ore del 12 settembre 1943 erano di nuovo all’ attacco. Ma stavolta, a differenza di due giorni prima, solo le loro armi facevano fuoco. Nessuna reazione da parte italiana; la difesa, le batterie costiere, tacquero come cose morte.

Preceduti da fitte raffiche di mitraglia e da un ben nutrito fuoco di armi di bordo crivellarono di colpi alcune abitazioni di Piombino nei pressi del porto e iniziarono l’occupazione della città, completata da gruppi provenienti da Venturina. Alcuni pensarono addirittura che l’occupazione della città stesse arrivando via terra.

Si concluse così la “battaglia di Piombino”. Con una sconfitta cocente, ma con il ricordo per coloro che vi avevano partecipato di aver provato a difendere la propria dignità e ad uscire vittoriosi dentro una cornice sicuramente ostile.

*Tutto il testo che segue non è il frutto di una ricerca originale ma si appoggia in particolare al volume di Rocco Pompeo La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, prendendo in considerazione anche il testo della prolusione di Riccardo Bardotti (Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea d Siena) pronunciata per la celebrazione del 2022 a Piombino e l’Introduzione al volume di Pompeo di Stefano Gallo, direttore della Biblioteca Serantini di Pisa e ricercatore presso il Cnr di Napoli. A Bardotti e a Gallo va il mio più sentito ringraziamento; per Pompeo rivolgo il mio ringraziamento ai suoi eredi. Le ricerche di Ivan Tognarini sono state ampiamente utilizzate da entrambi e quindi sono entrate in questo pezzo senza difficoltà.

[1] Come aveva sottolineato Pietro Bianconi in La resistenza libertaria. L’insurrezione popolare a Piombino nel settembre ’43, Tracce, Piombino 1983, p. X, poi ripreso da Stefano Gallo nella sua Introduzione al volume di Rocco Pompeo, la polizia aveva ben chiare le caratteristiche della figura di Ducci. Scriveva Bianconi: «Fin dal primo giorno del rovescio del regime fascista, in Piombino, si è messo in evidenza il noto Ducci Ulisse fu Bartolomeo allo scopo evidente di prepararsi una via per una eventuale carica politica. A dire il vero, costui, che ha un ascendente sulle masse operaie, si è affiancato alle autorità e si è tenuto in continuo contatto con i direttori dei locali stabilimenti, con le associazioni dei Mutilati ed invalidi di guerra allo scopo di fare ritornare la calma e perché tale calma continuasse. Nel pomeriggio del 2 andante è stato qui sequestrato l’unito foglio volante – dalle indagini esperite è risultato che autore è stato proprio il Ducci il quale lo ha confessato. Il contenuto di tale foglietto dà la riprova di quanto ho detto e che cioè il Ducci voglia collaborare con le autorità per il mantenimento dell’ordine pubblico. Ciò nonostante d’intesa col locale Comando Militare e con l’Arma dei CC.RR., il Ducci viene sorvegliato attentamente allo scopo di seguirne le mosse ed i precisi suoi scopi».

[2] Rocco Pompeo, La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, p. 3.
[3] www.wuinewsnet, Il delitto di Campo alle fave, ultima consultazione 29 agosto 2023. Nel sito si parla di «direttore del personale e di Garabaglia».
[4] Il testo è riportato in R. Pompeo, La battaglia, cit., p.13.
[5] Tutte le informazioni sulla difesa militare provengono dal volume di Rocco Pompeo.
[6] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.19.
[7] Ivi, pp. 19-20.
[8] Titolo assai azzeccato del film di Luigi Comencini del 1960 (con Alberto Sordi) in cui si racconta lo sfaldamento dell’esercito italiano dopo l’armistizio Badoglio.
[9] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.23.