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Monte Giovi e dintorni: memorie e commemorazioni della Resistenza in provincia di Firenze

La piramide in ricordo del contributo femminile alla Resistenza In ricordo del contributo femminile alla Resistenza ed alla Costituzione dello Stato Repubblicano

Monte Giovi è un complesso montuoso situato nella provincia di Firenze, entro la dorsale appenninica di Monte Morello e Monte Senario, che separa il Mugello dal Valdarno e dalla Valdisieve. Il suo territorio è diviso tra i comuni di Pontassieve e Borgo San Lorenzo e, in misura minore, da quelli di Rufina, Vicchio e Dicomano.

Foto da Google Maps di Monte Giovi dal satellite

Il massiccio raggiunge l’altitudine maggiore nella sua cima (992 metri), ma lungo il crinale principale si trovano anche Poggio Ripaghera (914 metri) e Monte Calvana (913 metri) [1].

A dimostrazione della centralità di Monte Giovi negli eventi della Resistenza toscana, la Provincia di Firenze assieme alle Comunità montane “Montagna Fiorentina” e “Mugello” e ai comuni di Borgo San Lorenzo, Dicomano, Pontassieve e Vicchio vi hanno istituito un parco dedicato alla guerra di Liberazione chiamato, “Parco culturale della Memoria”.

Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, Monte Giovi fu uno dei luoghi dove i primi “ribelli” si aggregarono in formazioni partigiane. È qui che si costituirono alcune delle più famose brigate.

Tra la popolazione dei paesi presso Monte Giovi e coloro che parteciparono alla Resistenza si creò un legame di collaborazione. Molti, tra cui Acone, tutt’oggi luogo della memoria del Monte, offrirono rifugio, non senza ferite, come dimostrano le varie stragi nel territorio.

I partigiani ricambiarono, salvando i beni dei contadini dai sequestri che operavano i tedeschi o dall’ammasso obbligatorio che esigevano i fascisti, per poi riconsegnarli di soppiatto con la complicità dei “derubati”.

Fra i primi gruppi partigiani ci fu il “Gruppo Pontassieve” rimasto noto per la volontà di agire in totale indipendenza: i partigiani che lo costituivano non si aggregarono alle altre formazioni se non dopo il suo scioglimento. Sempre a Monte Giovi si formarono la “Faliero Pucci” e la “Spartaco Lavagnini”. Qui operarono anche la “Caiani” e la “Lanciotto Ballerini”.

Ai partigiani si unirono alcuni prigionieri di guerra russi, allora reclusi in un campo nei pressi della vetta del monte, a Tamburino, che poi avevano trovato rifugio ad Acone.

Nell’agosto del ’44 da qui partì o transitò buona parte dei partigiani che contribuirono alla battaglia di Firenze.

I tedeschi e i fascisti non restarono, però, in questi mesi, con le mani in mano. Durante la ritirata nazifascista, in vari gruppi di partigiani erano presenti anche spie e infiltrati. Il loro ruolo serviva a minare ulteriormente il rapporto tra le varie brigate e la popolazione civile, spesso vittima di ritorsioni.

Per quel che riguarda il versante pontassievese e rufinese, è bene ricordare che quel territorio, dopo l’8 settembre 1943, diventò un obiettivo di grande interesse per gli Alleati e le loro azioni aeree, essendo Pontassieve un importante snodo ferroviario e stradale, oltre ad essere sede delle Officine delle Ferrovie dello Stato. Come del resto in tutta la Toscana, i bombardamenti e le rappresaglie tedesche non mancarono, essendo stata quella toscana una terra martirizzata dalla ritirata nemica.

Monte Giovi e la sua popolazione subirono molte ferite proprio in quell’anno. A fronte del forte legame tra i partigiani e la cittadinanza, si verificarono eventi drammatici, come in molte altre zone d’Italia.

Già durante gli ultimi mesi del 1943 si erano intensificati gli scontri tra nazi-fascisti e ribelli, come dimostra il tafferuglio scoppiato a Nave di Ponte a Vico, tra Pontassieve e Rufina. Pontassieve venne inoltre presa di mira dai bombardamenti.

Nella primavera del 1944, fascisti e tedeschi avevano cercato di intercettare le formazioni partigiane tra Monte Giovi e Falterona, così come nei mesi seguenti. Nei monti del Mugello e della Valdisieve si rifugiavano molte squadre di ribelli che, via via, si andarono strutturando. Tristemente noto l’eccidio nazifascista consumatosi a Berceto (Rufina) [2][3], tappa del Sentiero della Memoria, il 17 aprile 1944. In quell’occasione, proprio durante una di queste intercettazioni, nell’incontro-scontro tra nazifascisti e partigiani, sempre per rappresaglia, furono uccise undici persone, compresi donne e bambini.

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Nel frattempo, nel maggio del 1944, il movimento partigiano fiorentino fu costretto a riorganizzarsi. L’obiettivo era quello di superare il modello delle piccole formazioni autonome, per passare ad una grande formazione unica, un’unica brigata partigiana. Tale compito fu affidato dai centri dirigenti fiorentini a Aligi Barducci (“Potente”), dal 24 maggio 1944 alla guida della prima Brigata “Garibaldi”, la “Lanciotto Ballerini”. La Brigata si ricostituì proprio su Monte Giovi [4].

Anche il mese di giugno era iniziato con uno scontro tra tedeschi e partigiani, proprio sul Monte Giovi, a Monte Rotondo, presso Casa Messeri, coinvolgendo la 10° Brigata “Garibaldi”, la “Caiani”, dove morirono un partigiano e tre tedeschi. Seguirono bombardamenti degli Alleati su Pontassieve per rendere difficile ai tedeschi di raggiungere Firenze [5].

È in questo contesto che si verificò anche la triste vicenda della Pievecchia, a Pontassieve, l’8 giugno 1944, dove quattordici uomini vennero uccisi, di cui tredici fucilati durante la rappresaglia tedesca, con l’obiettivo di punire la popolazione inerme [6][7].

Pievecchia, Ok!Valdisieve

Tra il 10 e l’11 luglio 1944 si consumerà un nuovo eccidio, questa nel versante mugellano, verso Vicchio. Il mattino del 10 luglio, si presentò alla fattoria di Padulivo, a circa 6 km da Vicchio, alle pendici di Monte Giovi, un reparto di SS con circa una sessantina di uomini. La fattoria ospitava allora circa centocinquanta sfollati mentre il proprietario, Aldo Galardi, aiutava, saltuariamente, le locali formazioni partigiane.

Durante la perquisizione, i tedeschi si accorsero della mancanza di un cavallo che era stato nei giorni precedenti requisito dai partigiani. Questi furono avvertiti della presenza dei tedeschi e tesero un’imboscata poco lontano da Padulivo, quando le SS si stavano ritirando. Un tedesco venne ferito, mentre un altro morì. I tedeschi, tornati alla fattoria, arrestarono tutti coloro che trovarono, prima di appiccare il fuoco all’abitato.

Per rappresaglia, sul ponte dove avevano subito l’agguato, le SS giustiziarono, tra gli arrestati, dieci uomini e una donna; solo uno degli uomini sopravvisse. Dopo una notte di prigionia, i catturati subirono un interrogatorio e furono rilasciati, tranne quattro uomini e tre donne. Gli uomini furono portati di nuovo nel luogo dell’agguato partigiano e uccisi, mentre le donne vennero liberate [8].

In ricordo della triste vicenda è stato posto un cippo in località Padulivo nel 1994. Ogni anno, inoltre, il Comune di Vicchio con l’Anpi locale commemora l’eccidio.

Sempre sul versante mugellano, in zona Borgo San Lorenzo, villa Cerchiai, presso Sagginale, fu attaccata, verso la metà dell’agosto 1944, da alcuni tedeschi che tentarono un accerchiamento delle forze partigiane.

Nello stesso mese vi sarà la strage della famiglia Einstein , nota anche come strage di Rignano o strage del Focardo (3 agosto 1944) e la strage alle ville e fattorie di Legacciolo e di Podernovo, alla Consuma (25-26 agosto 1944), per ricordare altri tristi eventi, non troppo distanti da Monte Giovi [9].

Posteriore e ben diverso il fatto che scosse il Santuario della Madonna del Sasso, vicino a Santa Brigida, reso noto dal romanzo di Cassola, La ragazza di Bube. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora ancora ben visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Santuario del Sasso

Il 13 maggio 1945, in occasione della festa alla Madonna del Sasso, infatti, una normale giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò nel caos. Fuori dalla chiesa, prima della funzione, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, si scontrarono verbalmente, a causa dei vestiti “succinti” di quest’ultimi. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Carmine Zuddas, incaricato della sorveglianza, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. La situazione degenerò: pare che alcuni abbiano tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine. Stando alle testimonianze, il figlio, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’arrivo di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciambri (Bube), che sparò contro il ragazzo, uccidendolo.

Vennero arrestate 10 persone, dopo le prime indagini, 7 delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube.

Il processo si tenne a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di S. Brigida.

La dinamica non è tutt’oggi chiara, Bube si è sempre dichiarato innocente, ma l’evento è significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano. Chiunque si riteneva portatore di una giustizia, spesso in contrasto con le altre. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e un fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta [10].

La vicenda ispirò Carlo Cassola che la raccontò nel suo romanzo, La ragazza di Bube [11], dal quale Comencini trasse la storia per farne un film. Nada Giorgi, protagonista del libro assieme al marito, non sentendosi ben rappresentata da Cassola, ha in seguito delegato a Massimo Biagioni la scrittura di un altro libro sulla vicenda (Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, 2006) [12].

Nessuna lapide ricorda l’evento al Santuario e non vi sono commemorazioni e cerimonie ufficiali al riguardo.

Monte Giovi è rimasto invece un luogo simbolico della Resistenza locale, dove ogni anno si tiene una vera e propria festa dei Partigiani e dei Giovani. Una festa per socializzare e commemorare, come viene definita. L’evento si tiene proprio nel versante pontassievese, presso Acone, piccola frazione in collina.

Tutti gli anni, a cominciare dal 1949, il secondo fine settimana di luglio, l’ANPI della provincia di Firenze con la collaborazione delle Case del Popolo dei paesi vicini, delle Pro-loco e altre associazioni organizza una festa sulla cima del Monte. La manifestazione si articola in due giorni, il sabato dedicato ai giovani, con spettacoli e balli che durano fino a notte fonda, e la domenica, quando si tengono, invece, le commemorazioni e le orazioni ufficiali. Visto che la strada dalla Rufina è lunga ed arrivare ad Acone non è semplice, in molti campeggiano nell’abetina di Fonte alla Capra.

Nella due giorni sono anche attivi stands gastronomici, si effettua la vendita di libri tematici e altre manifestazioni che variano ogni anno [13].

 

Panel presso Acone

 

Monumento in ricordo della Resistenza ad Acone

 

La piramide in ricordo del contributo femminile alla ResistenzaIn ricordo del contributo femminile alla Resistenza ed alla Costituzione dello Stato Repubblicano

La piramide in ricordo del contributo femminile alla Resistenza
In ricordo del contributo
femminile alla Resistenza
ed alla Costituzione
dello Stato Repubblicano

 

Spiazzo ad Acone, dove si tiene-ogni anno-la Festa dei partigiani e dei giovani

 

Note:

[1] Vivi Acone! https://viviacone.it/acone/luoghi-da-visitare/monte-giovi/ [consultato nel maggio 2024]

[2] Vangelisti, Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Consiglio Regionale della Toscana, Edizioni dell’Assemblea, 2014

[3] Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]

[4] cfr.  Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, pp. 322-323

[5] cfr. Ivi, p. 322

[6] Atlante stragi nazifasciste, Pievecchia, Pontassieve, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2400 [consultato nel mese di maggio 2024]

[7] cfr. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008

[8]Atlante stragi nazifasciste, Ponte a Vicchio e Strada Padulivo-Vicchio, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2412  [consultato nel mese di maggio 2024]

[9] Atlante stragi nazifasciste, Consuma, Pelago, https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2371 [consultato nel mese di maggio 2024]

[10] Mazzoni, Dania, Attraverso la bufera. Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione (1943-1948), Comune di Pontassieve, 1990, pp. 142-144

[11] Cassola, Carlo, La ragazza di Bube, Einaudi, Torino, 1960

[12] Biagioni M., Nada. La ragazza di Bube, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006

[13] Baldini, Giovanni, Monte Giovi, ResistenzaToscana.it, (9 gennaio 2004), https://resistenzatoscana.org/storie/monte_giovi/ ]

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




La Liberazione di Arezzo

“Era giunta l’ora di resistere,

Era giunta l’ora di essere uomini,

di morire da uomini,

per vivere da uomini”

(Piero Calamandrei)

 

La notte del 25 maggio 1944 le vallate che circondano Arezzo si illuminarono con una miriade di falò accesi dalle formazioni partigiane e dai contadini in risposta all’ultimatum definitivo, che scadeva alla mezzanotte dello stesso giorno, diramato dal Capo della Provincia Melchiori nei confronti dei militari sbandati, dei partigiani e dei renitenti di leva: «Tutti coloro che non si presenteranno saranno considerati fuorilegge e saranno passati per le armi mediante fucilazione alla schiena»[1].

La Notte dei Fuochi, il nome con cui questo atto è entrato nella storia – tuttora ogni anno ne viene celebrata la ricorrenza – conteneva in sé una sorta di sfida ai nazifascisti come un invito corale a loro rivolto: «Siamo qua… veniteci a prendere!»[2].

Arezzo aveva già manifestato la propria insofferenza ed avversione al fascismo quando gli iscritti al nuovo partito fascista repubblicano non arrivavano a 2500 a fronte di una popolazione provinciale di circa 300.000 abitanti. E come nel resto d’Italia anche la popolazione aretina aveva accolto la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 e l’armistizio dell’8 settembre con euforia e sollievo. Ci si illuse che quegli eventi avessero messo il punto finale ad un dramma iniziato più di vent’anni prima e a quell’immane tragedia che era la guerra. Quel sospiro di sollievo rimase però strozzato in gola… I nazisti rivelarono il loro vero volto di padroni occupanti, i fascisti quello ancor più orribile di bestie feroci. Cominciava così una parentesi non meno sanguinosa e drammatica della precedente. Ma ormai più niente e nessuno avrebbe fatto tornare indietro chi aveva assaporato di nuovo o gustato per la prima volta l’esaltante sapore della libertà.

Nella città di Arezzo le esigue forze politiche locali nei 45 giorni del governo Badoglio fecero fronte comune, e riallacciando contatti sia a livello regionale che nazionale con gli attivisti antifascisti riuscirono a dar vita al Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA). L’obiettivo principale del Comitato consisteva nell’organizzare la Resistenza in città e provincia, tentando di coordinare l’attività delle squadre dei partigiani che agivano nel proprio territorio[3]. Un contributo particolare fin dall’inizio fu dato dai contadini della vallata che, dopo l’8 settembre ’43, fornirono aiuto, assistenza ed ospitalità gettando le premesse dell’azione armata agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia, ai renitenti alla leva[4]. Tutti questi individui rifugiati fuori città costituirono quindi l’ossatura delle prime formazioni partigiane organizzate dal CPCA. Ma ancora l’antifascismo aretino non era pronto per una lotta così dura quale era la lotta clandestina, soprattutto all’inizio i suoi componenti non adottarono le necessarie cautele di riservatezza che la pericolosa attività intrapresa avrebbe invece consigliato. E così una delle prime formazioni partigiane costituitasi, “La Vallucciole”, forse la più importante per numero di uomini e per armamenti, nel corso di un rastrellamento dei nazifascisti, l’11 novembre del 1943, subì una gravissima battuta d’arresto: fu ucciso il giovane capitano Pio Borri e l’intera formazione fu dispersa.

L’improvvisazione militare, la scarsità degli armamenti rispetto al nemico, la mancanza di comandanti con esperienza tale da poter contrastare le truppe tedesche in quanto a programmazione e logistica, misero a dura prova i partigiani che seppur soccombendo continuavano la loro lotta per la libertà. Mettevano a rischio la loro vita, sottostavano alle torture con uno spirito di sacrificio che non era espressione di un’avventura militaresca e neanche il dissennato e cieco amore per il rischio, ma era la consapevolezza della necessità di un rinnovamento e ricostruzione di una società che in passato aveva reso possibile gli errori e gli orrori del fascismo.

Il CPCA non riuscì mai a controllare completamente l’attività militare resistenziale, nelle quattro vallate (Valdarno, Valdichiana, Valtiberina e Casentino), di tutte e cinque le formazioni partigiane più quelle che si erano formate spontaneamente. E dopo la disfatta della “Vallucciole” l’attività di guerriglia proseguì in tono minore ma senza mai rinunciare del tutto ad azioni militari e di intelligence così da tenere occupati i nazifascisti e per tentare di ingannarli sulla reale entità di forza della resistenza aretina. Anche il rallentamento dell’avanzata delle forze alleate contribuì al ridimensionamento della lotta partigiana che dovette attendere la fine dell’inverno del 1943-44 e la disfatta di Montecassino per riprendere appieno l’attività armata. Ma durante questo periodo di tenuta della Linea Gustav, così magistralmente architettata dal generale Kesserling, che si appoggiava ad una delle più forti barriere naturali dell’Italia meridionale, non riuscendo ad avanzare gli Alleati iniziarono a bombardare le retrovie tedesche per distruggere strade, ponti, ferrovie così da tentare l’isolamento delle truppe naziste. E così Arezzo, snodo importante delle vie di comunicazione, iniziò ad essere bersagliata dall’aviazione anglo-americana. Il primo bombardamento giunse inaspettato il 12 novembre 1943, cogliendo di sorpresa l’intera popolazione e le autorità fasciste che si erano insediate dopo la proclamazione della Repubblica di Salò[5]. Visto che era stato colpito anche il palazzo della Federazione fascista, il Comitato non si fece sfuggire questa occasione e fece subito affiggere dei manifesti dove si rivendicava che il bombardamento era stato una rappresaglia degli Alleati contro i fascisti per l’uccisione del partigiano Pio Borri avvenuta il giorno prima, al fine di dimostrare che le forze antifasciste erano in contatto continuo con gli anglo-americani in modo tale da intimorire i nemici e rassicurare le proprie milizie che non erano lasciate sole a condurre la battaglia[6].

Ma il terrore ad Arezzo arrivò con il bombardamento del 2 dicembre che provocò moltissime vittime e ingenti danni alle abitazioni e segnò l’inizio dello spopolamento della città. Si calcola che dopo sei mesi di bombardamenti (solo nel capoluogo aretino furono sganciate 1800 tonnellate di bombe) alla fine d’aprile del 1944 in città erano rimasti poco più di cento abitanti[7].

Col sopraggiungere della primavera, la caduta di Montecassino e l’entrata in Roma degli Alleati dettero un ulteriore spinta emotiva alle formazioni partigiane aretine che si riorganizzarono supportati dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), trasformandosi in Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN) così da operare quel salto di qualità che gli avrebbe consentito di contrastare con più efficacia le milizie nazifasciste e preparare il terreno per la liberazione di Arezzo. Fu una trasformazione non solo formale ma anche nella sostanza; infatti, ci fu una riorganizzazione militare con la costituzione della XXIII Brigata garibaldina “Pio Borri”, composta da tre battaglioni, e la XXIV Brigata “Bande Esterne”, che insieme andarono a formare la Divisione partigiani “Arezzo”; inoltre si operò un cambiamento ai vertici del Comitato: destituiti, con la scusa che erano ricercati e ormai compromessi, Sante Tani e Achille Ravera, presero le redini di comando del neonato CPLN Siro Rossetti, Aldo Donnini e Raffaello Sacconi, in pratica il braccio armato del vecchio CPCA, insieme ad Antonio Curina (che diventerà il primo sindaco dopo la liberazione), Eugenio Calò ed Arnolfo Funari[8]. Questo cambiamento ebbe anche l’avvallo della Chiesa aretina che entrava direttamente nell’organizzazione con don Onorio Barbagli. Del resto, il vescovo di Arezzo Emanuele Mignone si schierò fin dall’inizio apertamente con la Resistenza prendendo le distanze dalla Chiesa toscana, il cui atteggiamento si orientava verso una neutralità con frange di simpatia nei confronti del fascismo repubblicano ignorando volutamente il CTLN e le formazioni partigiane verso cui l’alto clero nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione di molti combattenti all’ideologia comunista[9]. Non fu così per gli esponenti del clero aretino che non si fecero condizionare dalla paura delle idee marxiste e a partire dal vescovo fino all’ultimo prete della parrocchia più sperduta delle montagne casentinesi (a parte qualche eccezione), dettero il loro insostituibile contributo alla resistenza rimettendoci anche in alcuni casi la propria vita: in poco più di due mesi nella provincia di Arezzo vennero trucidati 15 sacerdoti e 2 seminaristi, di cui 10 appartenenti alla diocesi aretina, 5 a quella di Fiesole e 2 alla diocesi di San Sepolcro (circa il 30% del totale dell’intera Toscana)[10]. E non dobbiamo dimenticare il ruolo svolto dalla parrocchia di San Domenico dove padre Raimondo Caprara riuscì a far coraggio alla poca popolazione rimasta in città provvedendo a sfamare, curare e nascondere quei disperati che avevano trovato rifugio nella sua chiesa situata in città e quindi rischiando per il continuo contatto con nazisti e repubblichini che là stazionavano.

Con le truppe tedesche ormai esasperate per i lunghi anni di guerra, in ritirata verso il nord Italia, mentre sentivano il sopraggiungere degli eserciti alleati e continuamente soggette ad imboscate da parte delle formazioni partigiane ora più che mai agguerrite e con una consistenza numerica che aumentava di giorno in giorno (soprattutto favorita dai renitenti di leva delle classi ’23, ’24, ’25), iniziò per la provincia di Arezzo il periodo tragico delle carneficine: 14 stragi a giugno, 20 a luglio, 2 ad agosto, 1 a settembre, e considerando anche le 5 di aprile e i deportati di Poppi si giunge a circa 1476 vittime. Questi eccidi per lo più di civili inermi, a volte pianificati, rispondevano ai dettami del generale Kesserling che auspicava un contegno durissimo ed intransigente verso le popolazioni considerate fiancheggiatori di coloro che reputava soltanto banditi e non militari: non avevano neanche l’uniforme e quindi dietro ogni borghese si poteva nascondere un partigiano[11]. La lotta partigiana veniva vista come una degenerazione della guerra e non come una forma di guerra conosciuta da secoli, e con questa visione deformante si giustificava per le barbarie delle stragi che perpetrava sistematicamente contro le popolazioni inermi: «uccidete, e qualsiasi cosa accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò»[12]; questo era il contenuto del comando inviato alle truppe il 17 giugno ’44 firmato dallo stesso Kesserling.

Dopo lo sfondamento della Linea Gustav con la sanguinosa battaglia di Montecassino, le truppe alleate si fermarono sulle rive del lago Trasimeno, per poi il 26 giugno ’44 entrare a Chiusi. Da lì qualche giorno dopo presero Montepulciano e finalmente il 2 luglio conquistarono il primo comune aretino, Lucignano, per arrivare il giorno successivo a Cortona. Sulle montagne cortonesi erano state attive e quindi di grande aiuto agli anglo-americani molte squadre partigiane in attesa della loro avanzata che ritardava a causa delle distruzioni messe in atto dai genieri tedeschi e dalle mine che avevano dislocato un po’ dappertutto. Le strade, i ponti e le gallerie non esistevano più e i carri armati procedevano dove capitava, anche in mezzo ai campi di grano e tra le viti distruggendo buona parte dei raccolti. L’avanzata degli Alleati, di conseguenza, rallentò il suo slancio e sembrò quasi fermarsi proprio prima di arrivare ad Arezzo. Sapendo che le truppe di Kesserling difficilmente avrebbero ceduto il passo verso Firenze, visto che la Linea Gotica non era ancora pronta (i tedeschi vi si attestarono soltanto il 27 ottobre), gli Alleati organizzarono una riunione con i comandanti delle formazioni partigiane per conoscere la dislocazione dei reparti nemici e pianificare la battaglia per Arezzo. Durante il meeting fu approntata la strategia per entrare e liberare il capoluogo: una formazione partigiana fornita di armamenti pesanti ed esplosivi si sarebbe introdotta furtivamente in città ed avrebbe atteso l’avvicinarsi degli Alleati per dare il via all’insurrezione nel centro cittadino il successivo 14 luglio. In questo modo, anche se i maggiori pericoli li avrebbero corsi i partigiani, al loro ingresso in città, gli Alleati si sarebbero trovati il CPLN già insediato. Ma la difesa delle truppe e dell’artiglieria della Wehrmacht attestate sul monte Lignano tra Castiglion Fiorentino e Arezzo ritardò l’avanzata delle milizie Alleate e il 14 luglio, ancora lo sbarramento sul monte Lignano, da cui si sarebbe aperta la strada fino ad Arezzo, rimaneva presidiato dalle forze tedesche. Ma avevano le ore contate: l’inferno di fuoco che si era riversato nei giorni precedenti dai cannoni (800 colpi al minuto) e dai bombardamenti aerei degli Alleati, che già avevano destabilizzato le truppe naziste, si completò con la sanguinosa battaglia di Lignano che causò numerose vittime in entrambi gli schieramenti. Così dopo aver perso la posizione sul monte Lignano, alle prime ore del 16 luglio, le truppe tedesche si ritirarono senza operare un inutile e sanguinoso contrattacco per assestarsi sulla Linea Irmgard sul fiume Senio. Così all’alba del 16 luglio la discesa in città dei partigiani coincise con il ritiro delle truppe tedesche e ciò permise di liberare Arezzo senza spargimento di sangue.

16 luglio 1944 – scalinata del Duomo di Arezzo. Incontro fra partigiani e alleati nel giorno della Liberazione della città.

 

Alle ore 7.00 del 16 luglio 1944 la guerra per Arezzo era finalmente conclusa: sulla torre del comune venne issato il tricolore e le campane in città iniziarono a suonare a distesa seguite dalle campane della campagna circostante, dando il segnale agli Sherman, i carri armati alleati, che nella tarda mattinata entrarono nella città libera.

Ma se Arezzo fu liberata senza spargimento di sangue, il ritardo dell’offensiva alleata convenuta il 14 luglio, con i partigiani scesi dalle colline verso posizioni più avanzate per ricongiungersi con le truppe inglesi, generò sfortunatamente l’orribile strage di San Polo: un rastrellamento rapidamente pianificato portò all’arresto di partigiani e civili inermi che furono barbaramente trucidati. Questa azione era in sintonia con le idee e i dettami del feldmaresciallo Kesserling che riteneva di poter procedere con l’impiego sistematico di rappresaglie ed eccidi contro i civili nella guerra antipartigiana. E se la signora Laura Ewert, nipote del colonnello Wolf Ewert che comandò la strage di San Polo – di cui solo recentemente è venuta a conoscenza-, è stata presente quest’anno alla giornata di commemorazione della strage per mostrare la propria angoscia e mantenere vivo il ricordo della brutale azione messa in atto dal nonno, il generale Kesserling, arrestato alla fine della guerra, scampato alla pena di morte e successivamente anche all’ergastolo, libero dopo pochi anni per motivi di salute, una volta tornato in Germania ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi ma che, anzi, gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i diciotto mesi di occupazione tanto che avrebbero fatto bene ad erigergli un monumento:

Lo avrai

camerata Kesserling

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

 

Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire

 

Ma soltanto col silenzio dei torturati

Più duro d’ogni macigno

soltanto colla roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità e non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

 

Su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci troverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

RESISTENZA

 

Piero Calamandrei

 

NOTE

[1] Ivan Tognarini (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale di Arezzo-Tipografia Badiali, Arezzo 1987, p. 50.

[2] Enzo Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci Editore, Cortona 1995, p. 124.

[3] I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo (1943-1944), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990, p. 179.

[4] Il futuro CTLN, ancora “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, nell’autunno del 1943 in un volantino ai “toscani”, elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta. Al momento del nuovo raccolto il CLN incitava i contadini ad evadere gli ammassi per sottrarre grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane, Cfr. ISRT, Collezione manifestini CTLN, in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiesa, 15 marzo 1975, p. 84.

[5] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. 25.

[6] Ivi p. 27.

[7] Agostino Coradeschi e Mario Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, Corocci Editore, Roma 2008, p. 114.

[8] Ivi, p. 115.

[9] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 79.

[10] A. Coradeschi e M. Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, cit., p. 122.

[11] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. XVII.

[12] Ibidem.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.

 




L’eccidio di piazza Ferrucci ad Empoli

Sono 29 persone in marcia verso la morte in una mattina di luglio a Empoli.

Prima di addentrarci nella narrazioni dei fatti di piazza Ferrucci ad Empoli del 24 luglio 1944, è doveroso spiegare il contesto che portò alla fucilazione di 29 civili da parte delle forze armate tedesche. La popolazione toscana è stata vittima – dal 1943 al 1944 – di brutali eccidi perpetrati dall’esercito tedesco, aiutato delle squadre della Repubblica sociale, durante l’occupazione del territorio italiano in seguito all’armistizio. In particolare, le stragi nazifasciste nel territorio toscano si sono intensificate tra l’aprile e il settembre del 1944, in concomitanza con la ritirata tedesca dovuta all’avanzamento degli eserciti alleati. Da ricordare in questo caso vi è  l’Operazione Diadem, che portò allo sfondamento del fronte di Montecassino e di tutte le successive linee di difesa approntate da Kesselring tra la Linea Gustav e la campagna romana. Inoltre il 23 maggio, anche le truppe anglo-americane, ferme sul fronte di Anzio, iniziarono la loro marcia verso la capitale. Dopo il cedimento del fronte, le due armate tedesche iniziarono una disordinata ritirata, che si fece ancor più repentina dopo la liberazione di Roma – tra il 4 e il 20 giugno – dove gli alleati si spinsero fino alla linea del lago Trasimeno, venendo di fatto a mancare una linea di fronte stabile.

Le difficoltà delle truppe tedesche derivavano dalla difficile difesa che presentava il territorio posto sopra Roma. Con l’apertura delle valli del Tevere e dell’Arno il percorrimento si faceva assai ostico. Il Tevere non offriva alcuna protezione, rendendo solo difficili le comunicazioni. Solo l’Arno – dopo Firenze – rappresentava una linea di difesa naturale accettabile per le forze tedesche, oltre ad essere l’ultima difesa prima dell’arrivo alla Linea Gotica. Fu così che l’esercito tedesco mise in atto un riassetto organizzativo totale della linea difensiva che potremmo così riassumere: fu inizialmente costruita la cosiddetta  Linea Dora (Orbetello – lago di Bolsena – Narni – Rieti – L’Aquila – Pescara) e successivamente la Linea Albert (Grosseto – lago Trasimeno – Numana)[1]. La riorganizzazione tedesca riuscì inizialmente nel suo intento, rallentando l’avanzamento alleato e ritardando quindi la liberazione del territorio toscano, con conseguenze atroci per la parti civili. L’inizio di queste azioni di violenza inaudita contro le popolazioni locali va ricondotta anche all’interno di una logica di guerra psicologica viste le difficoltà dell’esercito tedesco nella gestione dei civili. Il casus belli  che portò al cambiamento dell’atteggiamento nei confronti della compagine civile può esser ricondotto all’attentato di via Rasella a Roma del 23 marzo, effettuato dal gruppo di Azione Patriottica (GAP), che portò alla morte di 33 soldati tedeschi e al ferimento di 53. Un’azione così marcata contro l’esercito tedesco in una delle principali capitali europee controllate dal Reich venne percepito a Berlino come un’onta indelebile che portò ad un cambio radicale di atteggiamento di cui l’eccidio delle fosse Ardeatine rappresentò solo l’inizio.

La tragedia di Empoli va quindi inserita in questo contesto storico, all’interno di una situazione già tesa da mesi a causa degli scioperi del marzo 1944, che ad Empoli avevano riguardato la storica vetreria Taddei e che avevano portato a deportazioni di massa in tutto il territorio circostante. Da un punto di vista bellico invece, con il cambiamento ulteriore del teatro di guerra nel luglio del 1944, vi era stato lo spostamento delle truppe tedesche sulla sponda meridionale dell’Arno in attesa dell’offensiva alleata proveniente dalla Val d’Elsa. Il fronte stava rapidamente cambiando. Con la liberazione di Grosseto (metà giugno) e Siena (3 luglio), gli Alleati risalivano verso Pisa e Livorno, e il fronte si avvicinava sempre più al territorio empolese. Ad ulteriore riprova va riportato l’ordine di evacuazione del centro cittadino diramato dall’occupante tedesco per i territori di Empoli e delle località limitrofe: Tinaia, Pontorme, Cortenuova, Avane, Santa Maria, Pagnana, Marcignana, Spicchio e Sovigliana, Capraia e Limite, Montelupo, Fucecchio, San Miniato e Castelfiorentino[2].

In concomitanza con ciò, il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) empolese aveva invece invitato le formazioni partigiane sparse nel territorio a convergere sulla città, per ostacolare gli spostamenti delle truppe tedesche nei dintorni di Empoli. Durante questa mobilitazione, il 23 luglio, un gruppo di partigiani – intenti a sistemare le proprie armi all’interno di una capanna nei pressi di Pratovecchio – vennero scoperti da un’unità tedesca in perlustrazione appartenente al 29 Grenadier-Regiment. Ne nacque uno scontro a fuoco che portò alla morte di sei, forse sette, soldati tedeschi. I superstiti riuscirono a raggiungere il comando tedesco, situato presso il Terrafino, dove comunicarono l’accaduto al capitano Lutz del 2° Battaglione, il quale informò prontamente il generale Hecker, comandante della 3. Panzer-Grenadier. La rappresaglia tedesca non si fece attendere. Già nel corso della serata vi fu l’arresto di alcune persone, che vennero però rilasciate dopo poche ore, in uno scenario di un’Empoli deserta. La vera reazione tedesca arrivò il giorno seguente, quando gli uomini della 3. Panzer-Grenadier prelevarono numerosi civili per poi condurli a Pratovecchio, nella stessa capanna della sparatoria del giorno precedente. Mentre gli ostaggi aspettavano nervosamente la punizione tedesca, un pagliaio andò a fuoco, probabilmente opera di un civile per cercare di creare un diversivo, ed effettivamente qualcuno riuscì a fuggire. Nel frattempo, oltre all’arrivo di altri soldati, iniziarono ad essere piazzate le mitragliatrici. L’intento era quindi chiaro, la fucilazione degli ostaggi come piena risposta delle azioni partigiane. Proprio durante la fine delle preparazioni, la scena venne notata da un ricognitore inglese, il quale si affrettò subito ad avvertire dell’accaduto l’artiglieria inglese, la quale sparò qualche colpo in zona di avvertimento, consentendo così ad altri civili di scappare. Nonostante le numerose problematiche, l’esercito tedesco, deciso a portare a termine l’operazione, scortò gli ostaggi rimasti nel centro cittadino. Alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il tragitto, ma ne verranno catturati di nuovi[3].

Arrivati ad Empoli, i civili furono fatti sostare sotto il portico del mercato e condotti a gruppi di tre o quattro in piazza Ferrucci dove furono fucilati tra i due alberi di platano. In questa rappresaglia, la 3. Divisione uccise ben 29 persone:

– Bagnoli Luigi (31/05/1883);

– Bargigli Mario Bruno (12/10/1921);

– Bartolini Guido (05/05/1916);

– Bitossi Arduino (10/08/1885);

– Boldrini Orlando (24/07/1880);

– Capecchi Pietro (19/07/1883);

– Cerbioni Bruno (27/02/1926);

– Cerbioni Francesco (25/10/1887);

– Cerbioni Giulio (11/10/1915);

– Chelini Gaspero (26/09/1897);

– Chelini Gino (04/03/1892);

– Ciampi Giuseppe (10/05/1891);

– Ciampi Pietro (16/08/1896);

– Ciampi Virgilio (03/05/1893);

– Cianti Giulio (16/09/1911);

– Gimignani Pasquale (19/09/1898);

– Gori Corrado (30/12/1879);

– Martini Giulio (08/06/1878);

– Martini Pietro (10/04/1885);

– Morelli Mario Gino (15/08/1888);

– Nucci Palmiro (20/03/1888);

– Padovani Gaspero (22/10/1865);

– Parri Alfredo (02/05/1910);

– Parrini Antonio (56 anni);

– Peruzzi Carlo (02/11/1881);

– Piccini Gino (13/08/1895);

– Pucci Alfredo (06/10/1892);

– Taddei Gino (11/12/1906);

– Vizzone Domenico (03/03/1904)[4].

 

I loro cadaveri rimarranno in piazza fino al giorno seguente. Soltanto uno di loro riuscì a salvarsi, Arturo Passerotti. Tentò la fuga prima dell’esecuzione e, nonostante fosse stato colpito alla gamba destra e alla testa, riuscì a scappare[5]. Nei giorni successivi Empoli resterà teatro di altre manifestazioni di rappresaglia tedesca, questa volta tramite minamenti e bombardamenti, fino alla sua definitiva liberazione, il 2 settembre.

Oggi quei 29 nomi sono dignitosamente ricordati nella stessa piazza F. Ferrucci ad Empoli, rinominata piazza “XXIV luglio” in loro onore.

 

 

Note

 

[1] C. Gentile, Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45. 4. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci Editore, Roma, 2005, pp. 89-90.

 

[2] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, p. 487.

 

[3] G. Fulvetti, Ucciere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), regione Toscana, Carocci editore, Roma, 2009, pp. 157-159.

 

[4] Atlante delle stragi nazifasciste in Italia

https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2395

 

[5] Per leggere la sua testimonianza si rimanda a Empoli negli ultimi cento anni: notizie, figure, personaggi: antologia di testi letterari e di varia documentazione, a cura di A. Morelli, Empoli, Comune di Empoli, 1977, pp. 96-99.

 

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Le deportazioni dell’8 marzo 1944 nell’empolese

92 lavoratori in viaggio verso il campo di concentramento di Mauthausen. La loro unica colpa? Aver scioperato, aver cercato di rivendicare i propri diritti. Un atto ritenuto di un oltraggio tale, dall’autorità tedesca, che fu pagato con la vita.

Marzo 1944. Il fronte bellico interno presentava una situazione di assoluta impasse: era fallito il contrattacco tedesco di Anzio come l’avanzata alleata sul fronte del Cassino. Le notizie più entusiasmanti per la resistenza interna provenivano dal fronte orientale, con la liberazione dell’intera Ucraina da parte dell’Unione Sovietica e la loro repentina avanzata. Mentre i partigiani fantasticavano l’eventuale creazione di un secondo fronte di guerra alleato, paventato dagli entusiasmi di Radio Londra. È in questo contesto, di stallo italico ma di grande fervore internazionale che si inseriscono gli scioperi generali indetto dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) per la rivendicazione di un aumento delle razioni alimentari, dei salari e contro la deportazione degli italiani in Germania.

Non doveva essere una semplice rivendicazione. Nei mesi che la precedettero, crebbe continuamente la mobilitazione alla lotta clandestina nei territori dell’empolese. Lo sciopero sarebbe dovuto essere una dimostrazione di forza da parte del CNL nei confronti di fascisti e tedeschi. La dimostrazione di esser in grado di mobilitare la maggior parte della popolazione, di rendere pubblica l’insoddisfazione per l’autorità. E così fu.

Lo sciopero, inizialmente previsto per il 3 marzo, nella zona dell’empolese fu rinviato al giorno successivo. La notte tra il 3 e il 4 marzo varie riunioni tra le squadre di SAP e GAP portarono alla decisione di organizzare alcune postazioni con mitragliatrici e casse di bombe per proteggere il corteo, che furono posizionati già a partire dall’alba. Alle otto del mattino un corteo di donne partì da Avane dando inizio alla manifestazione. Passando dalle frazioni di Mangolo e Santa Maria si unirono altre centinaia di donne, formando un’onda rosa che andò presto ad unirsi agli operai delle fabbriche e ai contadini, oltre che ai piccoli commercianti una volta chiusi i loro negozi. Per le strade del centro cittadino, ormai invase dalla mobilitazione, era alta la voce della protesta collettiva, manifestata da vari cori, da «Pace e Pane» a «Fuori lo straniero». Una rabbia popolare che aveva una chiara connotazione anti-fascista ed anti-tedesca, le cui autorità non ebbero la forza di interrompere. Gli intenti del CLN si realizzarono completamente, con i fascisti che presero dolorosamente atto della situazione, ben consci che una risposta armata alla protesta avrebbe potuto portare – oltre che ad una possibile guerriglia con le forze partigiane – ad una successiva mobilitazione in cui fosse presente l’intera popolazione. La piena riuscita dello sciopero si verificò anche nelle altre località dell’empolese, solo a Limite e Capraia ci fu il tentativo da parte dei carabinieri e dei fascisti locali di sedare la protesta tramite lacrimogeni, senza però successo[1].

La situazione più interessante la troviamo ad Empoli. Dove la riuscita della mobilitazione derivò dall’unione delle rivendicazioni portate avanti dai contadini – forti proteste per la consegna di ulteriori 15 kg di grano all’ammasso e la richiesta del diritto di libera macinazione – e dagli operai, rappresentati soprattutto dai lavoratori della vetreria Taddei, il complesso industriale più grande dell’empolese. L’unione di questi due ceti, storicamente divisi, creò la forza necessaria per dimostrare alle autorità locali la presenza di un dissenso strutturato e ormai impavido di fronte alle minacce fasciste. Una delegazione di scioperanti fu anche ricevuta in Comune per ricevere tutte le rassicurazioni di rito. Le autorità fasciste si dimostrarono così inermi e succubi della situazione, facendo percepire il loro netto disagio nel constatare la presenza di un dissenso non controllabile[2].

Le conseguenze dello sciopero furono chiare. Una situazione di ordine pubblico non più sostenibile e a cui andava posto un rimedio. La rappresaglia non ebbe però luogo nella stessa giornata, per le ragioni già scritte, ma arrivò qualche giorno più tardi. Il clamore della mobilitazione, che ricordiamo, ebbe una grande impatto in tutte le parti d’Italia sotto il controllo tedesco, ebbe una risonanza tale che arrivò direttamente alla scrivania dello stesso Hitler. Il quale, una volta informato, diede disposizione a Himmler, il comandante delle SS, di deportare il 20% di coloro che avevano partecipato agli scioperi in Germania per “lavorare”. Fu così che tra il 4 e l’8 marzo del 1944 i dirigenti locali repubblichini stilarono varie liste di nomi che avrebbero deportato da lì a breve. Decisione, questa, accolta con grande gioia e soddisfazione dai comitati fascisti locali, desiderosi di poter stilare liste arbitrarie più rivolte a connotazioni politiche e personali che riguardanti i fatti del 4 marzo (basti pensare che molti fra gli uomini che verranno deportati non avevano partecipato allo sciopero generale). Sorgeva però un problema logistico e di ordine pubblico. Vista la grande solidarietà della popolazione allo sciopero di quattro giorni prima, sarebbe stato assai rischioso svolgere queste operazioni di giorno, con il rischio di una nuova mobilitazione. L’operazione fu allora svolta la notte tra il 7 e l’8 marzo, dove i repubblichini locali, coadiuvati dalla GNR, dai poliziotti e dai carabinieri, iniziarono un rastrellamento mirato sul territorio dell’empolese. Per evitare troppe problematiche fu utilizzato un modus operandi assai semplificato: gruppi di persone armate si presentavano a casa della persona da prelevare invitandola a seguirli nella caserma più vicina dove, dicevano gli squadristi, ci sarebbe stato un maresciallo o un suo vice che aveva delle domande da porgli. L’incursione in piena notte, il sonno, la paura e la mancata conoscenza del fatto che non si trattasse di un fatto isolato ma di una deportazione generale, portò tutti gli uomini a seguire i poliziotti o chi per loro senza scappare o reagire. Un’operazione che nella sua malvagità fu gestita con rara lungimiranza e dove fu curato ogni particolare. A Montelupo, ad esempio, i fascisti, consci che sarebbe stato impossibile con questo metodo prelevare chi era già scappato dal paese – la maggior parte si rifugiò nella zona di Botinaccio – organizzarono l’imboscata utilizzando un’ambulanza per evitare ogni tipo di sospetto. Un’altra tattica diversificata fu utilizzata per i lavoratori della vetreria Taddei di Empoli, i quali furono direttamente prelevati in azienda con una retata. Stessa sorte sarebbe dovuta toccare anche agli operai di un’altra vetreria empolese, la CESA. In questo caso però, intuendo la situazione che si stava creando, il capo fabbrica Betti Rinaldo ebbe la lungimiranza di azionare l’allarme che fece scappare tutti gli operai, i quali vennero a conoscenza soltanto il giorno seguente di esser sfuggiti non ad un guasto all’impianto ma ad una deportazione di massa[3].

Come dicevamo, esclusa la CESA, il rastrellamento riuscì perfettamente. Ad Empoli, oltre ai 26 operai della Taddei, furono arrestate altre 30 persone, a Montelupo gli arrestati sono 22, a Limite sull’Arno 11, a Vinci 7, a Fucecchio 9 e a Cerreto Guidi 7[4]. L’indomani, tra lo sgomento e l’incredulità della popolazione, ignara della sorte dei loro concittadini, gli arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio, ammassati, senza dormire né mangiare, l’arrivo ad una stazione ferroviaria austriaca. Stanchi, impauriti e sprovvisti di un abbigliamento adeguato alla neve pungente furono costretti ad intraprendere una marcia di sei chilometri fino ad una fortezza abnorme, con due torri unite da un muro in pietra al centro del quale si trovava una grande portale di legno. In pochi di loro riuscirono, in quelle condizioni, a scorgere una scritta che inaugura il campo: «Il lavoro rende liberi!». Erano arrivati a Mauthausen.

Dei 92 lavoratori ed antifascisti prelevati la notte tra il 7 e l’8 marzo e spediti al campo di concentramento, soltanto 5 o 6 avrebbero successivamente fatto ritorno alle loro famiglie, tutti gli altri non riuscirono a sopravvivere alle condizioni disumane dei campi.

 

 

Note:

 

[1] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, pp. 469-470.

 

[2]  A. Dini, La notte dell’odio, Editore Nuova Fortezza, Livorno, 2000, p. 23.

 

[3]  Ivi, pp. 26-29.

 

[4]  L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, p. 472.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




La Liberazione di Siena

Fra la rocca di Radicofani, nel sud della provincia di Siena, e Radda in Chianti, a nord, la distanza è di un centinaio di chilometri. Le truppe alleate impiegarono un mese, dal 18 giugno al 18 luglio 1944, per percorreli. Velocità media: meno di 3 chilometri e mezzo al giorno. L’avanzata dei reparti inglesi a est del terrirorio provinciale, di quelli americani a ovest e del Corpo di spedizione francese al centro incontrò, infatti, un forte contrasto da parte dei tedeschi, i quali si ritiravano ordinatamente, combattendo attestati su una serie di linee difensive predisposte, volta per volta, laddove la conformazione del terreno rendeva più efficace il fuoco di sbarramento di mitragliatrici e cannoni.

Alcuni centri abitati (Radicofani, Chiusi, Poggibonsi) furono teatro di scontri duri e prolungati fra i soldati dei due eserciti contrapposti. Altri (Casole d’Elsa, S. Gimignano) subirono cannoneggiamenti da entrambi. Ad altri ancora vennero invece risparmiate vittime e distruzioni perché ubicati in luoghi di scarsa rilevanza tattica.

Le bande partigiane, che avevano fortemente destabilizzato l’apparato militare fascista della RSI fra i mesi di marzo e maggio, nel giugno-luglio moltiplicarono l’attività tesa a ostacolare gli spostamenti dei tedeschi e accrebbero così il loro contributo di sangue alla libertà, un contributo che superò i trecento caduti fra uccisi in combattimento e fucilati in rastrellamenti e rappresaglie.

È in questo contesto che, il 3 luglio, avvenne la Liberazione di Siena ad opera dei tirailleurs e dei fantassins del generale J.G. De  Monsabert, rimasto un benemerito nella storia cittadina per non aver dato l’ordine di aprire il fuoco dei suoi cannoni sia per non colpire i monumenti senesi che conosceva ed apprezzava, sia perché era stato informato che i tedeschi se ne stavano andando da un luogo che non era inserito lungo le loro linee difensive.

Si trattò di circostanze fortunate che limitarono i danneggiamenti. Andarono ad aggiungersi ad un’altra circostanza non meno fortunata, ovvero l’ubicazione della stazione ferroviaria, bersaglio principale dell’aviazione alleata, quasi in aperta campagna. Un fatto che, a sua volta, aveva contenuto gli effetti sul centro storico dei ripetuti bombardamenti aerei.

Nelle settimane precedenti l’arrivo del Corpo di spedizione francese le forze antifasciste e il CLN di Siena si erano arrovellati intorno ad un’alternativa drammatica: tentare un’insurrezione o cercare un compromesso e una convivenza con le autorità fasciste in attesa degli Alleati? La prima ipotesi, oltre che dal  timore dei combattimenti fra case, piazze, palazzi, chiese, era stata ostacolata dal fatto che le bande partigiane, abbastanza forti, come ricordato, nelle campagne, si trovavano lontane dalla città. La più vicina, il 2° Distaccamento della Brigata Garibaldi “S. Lavagnini”, era a una quindicina di chilometri, nella zona di Tegoia. Un rastrellamento tedesco, avvenuto il 24 giugno, ne aveva bloccato l’intento di attraversare le linee in direzione di Siena. L’altra ipotesi si era scontrata, invece, con la difficoltà morale, prima ancora che politica, di scendere a patti con nemici quali il prefetto fascista Giorgio Alberto Chiurco e con rastrellatori di partigiani come Alessandro Rinaldi.

Fra spinte contrapposte e comunicati contraddittori, alla fine era prevalsa la linea che, dall’esterno del Comitato, aveva tracciato l’autorevole esponente dell’antifascismo Mario Bracci. Consultatosi con una cerchia di amici, fra i quali Ranuccio Bianchi Bandinelli, il Bracci si era recato in prefettura nell’intento di convincere Chiurco a rimanere in città per mediare con i tedeschi, con i quali aveva un ottimo rapporto.

Annotò Bracci nel suo diario: «Colloquio quasi drammatico: deve restare al suo posto […]. E se il mio governo mi ordina di ritirarmi? Disobbedire […]. Io ero commosso, lui piangeva. Si è persuaso».

Conseguenza implicita dell’accordo era l’incolumità di Chiurco. Nessun GAP avrebbe dovuto sparargli. Bracci non faceva parte del CLN, agiva un po’ da battitore libero. E il CLN non se l’era sentita di sposare ufficialmente la sua iniziativa, suscitandone il sarcasmo: «Naturalmente l’ineffabile Comitato […] mi ha quasi sconfessato e non si è voluto impegnare[…]. Vorrebbero che [Chiurco] rimanesse, ma liberi loro di ammazzarlo in qualunque momento. Bei tipi».

D’altra parte, neppure Chiurco era stato del tutto ai patti. Asserragliato in prefettura, aveva lasciato Siena un giorno e mezzo o due prima dell’ingresso dei francesi, mentre le retroguardie germaniche abbattevano le mura cittadine a Porta S. Marco, facevano saltare in aria ponti e infrastrutture, saccheggiavano i negozi portando via le merci esposte sui banchi e quelle imboscate nei retrobottega. Che erano molte di più, come avrebbe annotato con una punta di perfidia l’arcivescovo Mario Toccabelli.

Sta di fatto che l’opzione insurrezionale era stata accantonata. Alla guida del Comune si trovava il notabile Luigi Socini Guelfi. In quanto podestà aveva accettato tutte le scelte del fascismo, comprese le leggi razziali, e non si era dissociato dal rastrellamento degli ebrei del novembre 1943 né dalla fucilazione di partigiani alla caserma Lamarmora avvenuta nel marzo dell’anno successivo. Non gli venivano però attribuite responsabilità dirette. Era stato dunque considerato un fascista con cui si poteva collaborare.

E così, per vari giorni, Socini Guelfi e e gli esponenti del CLN avevano convissuto nelle sale del Palazzo pubblico e insieme avevano formato una Guardia Civica, con compiti “esclusivamente difensivi” e di “ordine pubblico”.

Alcuni fascisti (fra di essi il federale Giovanni Brugi e il milite della X Mas Walter Cimino) erano stati uccisi, i prigionieri politici ancora detenuti nel carcere di S. Spirito, a disposizione dei tedeschi, erano stati liberati con un’irruzione dei GAP, ma il “patto” aveva retto. E gli Alleati alla fine erano arrivati.

Tuttavia, proprio in quel 3 luglio, mentre la popolazione festeggiava la libertà, il nemico era ancora a due passi, appena al di là delle rovine della stazione ferroviaria, sulla collina di Vicobello. Lì morirono tre giovani della Guardia Civica che, precedendo le pattuglie francesi, si scontrarono con una retroguardia tedesca. Furono i primi caduti della schiera di oltre ottocento partigiani della provincia di Siena i quali, dopo la liberazione del loro territorio, si sarebbero arruolati nel “Cremona”, il gruppo di combattimento italiano a fianco degli Alleati, e avrebbero partecipato nel nord Italia alla liberazione dell’intero Paese.

 

Articolo pubblicato il 1° luglio 2024.




La storia ignota degli italo-greci a Firenze

Per i fiorentini non più giovani quell’area di fabbricati situata nella zona di Novoli, fra via Magellano e via di Caciolle, era considerata il quartiere dei greci, dove fra l’altro si potevano comprare sigarette di contrabbando sino agli inizi degli anni Ottanta. Per coloro che ci abitavano era invece Laspeica, in greco melma, un rione per decenni privo di strade e marciapiedi che nelle giornate di pioggia diventava un vero e proprio pantano, da cui il nome che gli era stato dato. Gli abitanti di questi appartamenti, costruiti nella prima metà degli anni Cinquanta, non erano propriamente greci ma italiani, la maggior parte di origine pugliese, che furono rimpatriati nel secondo dopoguerra. Erano quegli italiani che sul finire del XIX secolo, emigrati dalle coste pugliesi, raggiunsero la Grecia in cerca di una sistemazione economica migliore di quella che poteva offrire loro il nuovo Regno d’Italia. Molti si concentrarono nella città di Patrasso dove formarono una comunità di circa 3000 persone integrate perfettamente nel tessuto sociale greco [1]. Poi venne il 28 ottobre 1940 quando alle prime luci dell’alba le truppe italiane ricevettero l’ordine di attaccare la Grecia [2]. Con l’inizio della guerra lo sdegno e il rancore dei greci esplosero con il fragore della prima bomba che cadde proprio sulla scuola italiana di Patrasso “Santorre di Santarosa” facendo crollare la cappella adiacente al cortile dell’edificio: l’aereo volando ad altissima quota non poté certo distinguere la bandiera italiana che sventolava in quel mattino livido di pioggia [3]. Per fortuna era un giorno festivo (anniversario della marcia su Roma), vacanza per la scuola italiana, per cui non vi furono vittime innocenti.

Da quel momento l’armonia di un’integrazione naturale che nel corso del tempo si era creata fra la comunità italiana e i greci si sgretolò improvvisamente producendo ritorsioni su quei poveri italiani increduli di quanto stava accadendo, ma soprattutto innocenti per l’attacco militare che Mussolini aveva deciso contro quella terra in cui loro vivevano da generazioni in pace con sé stessi e con gli altri. Ma per i greci erano considerati corresponsabili dell’aggressione fascista e tutti i cittadini italiani, di sesso maschile, di oltre sedici anni, furono rinchiusi nei campi di concentramento di Goudì, Argos, Neakokkinià [4]. 

Con l’8 settembre del 1943 finì l’occupazione italiana della Grecia che passò direttamente sotto il controllo della Germania nazista e per la comunità italiana iniziò un nuovo calvario, oltre all’intransigenza ed alle mortificazioni messe in atto dagli ex fratelli greci, gli italiani dovevano ora subire anche la rabbia e le ritorsioni degli ex alleati tedeschi. Presi tra due fuochi la vita per gli italiani residenti in Grecia risultò sempre più problematica. Da una parte aumentarono le angherie ad opera dei greci perché li ritenevano i primi responsabili dell’occupazione, dall’altra iniziarono le deportazioni e le uccisioni ad opera dei nazisti, che manifestavano nei loro comportamenti maggiore ferocia verso gli italiani piuttosto che contro i greci. Finita la guerra il destino di queste persone di origine italiana pareva segnato; infatti, il governo ellenico aveva espresso al comando delle Forze Alleate l’intenzione di deportare in un ragionevole limite di tempo ai loro paesi di origine tutti i cittadini di Stati nemici ed ex nemici che si trovavano in Grecia, e di conseguenza il provvedimento riguardava anche gli italiani. A niente servì l’appello di Alcide De Gasperi alla Commissione Alleata per poter bloccare il rimpatrio degli italiani residenti in Grecia, e nell’autunno del 1945 iniziò l’esodo dei nostri connazionali…

La signora Angela aprì la porta di casa ritrovandosi dinnanzi un funzionario di polizia che gli intimava: mercoledì prossimo alle otto si faccia trovare al porto con tutta la sua famiglia per essere imbarcati sulla nave che vi porterà in Italia [5]. 

Più o meno le stesse parole furono proferite in quel novembre del 1945 a tutti gli abitanti di origine italiana che risiedevano a Patrasso da due o tre generazioni. Solo pochi giorni quindi per abbandonare la propria casa e i propri averi (fu consentito loro di portare solo poche e piccole cose). Si sta parlando di più di tremila persone integrate perfettamente nella società greca che, con lo scoppio della guerra, non solo subirono angherie, sopraffazioni ed insulti dai loro concittadini greci, ma alla fine del periodo bellico furono deprivati delle loro proprietà e cacciati malamente dal territorio ellenico. Sarebbe come se in un ipotetico scontro tra occidente e mondo arabo (e di questi periodi non è fantascienza…) si imbarcassero sulle navi tutti gli arabi residenti in Italia (molti dei quali con cittadinanza italiana) per riportarli in Africa.

Ecco di tutta questa storia degli italo-greci, della loro sofferenza nel lasciare una terra che ormai consideravano propria, delle loro difficoltà nel riadattarsi e nel reinserirsi nella società italiana che aveva lasciato alle spalle il Ventennio – di cui questi profughi conservavano un ricordo condizionato dalla propaganda fascista di assistenza agli italiani residenti all’estero – ecco che di questa vicenda la storiografia ufficiale sembra essersene dimenticata o forse neanche di conoscerla. È vero che si trattava della storia di poche migliaia di individui, storia che si configura come una goccia d’acqua nel mare delle profuganze che nel dopoguerra si muovevano per tutta l’Europa e nel mondo, ma si trattava pur sempre della vita di essere umani vittime di un destino scritto da altri di cui loro incolpevoli subivano le sorti.

 

Nave Patrai.

Per tutto il mese di novembre le corvette Patrai e Terrmoscopilichi fecero la spola tra Patrasso e Bari, portando a termine l’esodo dei nostri connazionali; dal capoluogo pugliese – dove molti decisero di rimanervi – risalirono la penisola con treni, spesso trovando posto su vagoni merci, con un interminabile viaggio su una linea ferroviaria rattoppata, giungendo finalmente a Bologna dove esisteva un centro di smistamento. Da qui i profughi presero principalmente due direzioni, verso il Piemonte, regione nella quale erano in funzione tre grandi complessi, la Caserma Passalacqua a Tortona, in provincia di Alessandria, la Caserma Perrone a Novara e le Casermette di Borgo San Paolo a Torino, o verso Firenze alla Caserma ex Genio dia via della Scala, dove trovarono alloggio circa 2000 italo-greci.

 

Veduta esterna della Caserma di via della Scala adibita a Centro profughi dal 1944 al 1956.

Questa grande struttura, originariamente un convento costruito alla fine del Duecento, nel corso dei secoli ha cambiato più volte uso di destinazione: ha accolto la prima stamperia a caratteri mobili nel 1472, successivamente dopo una restaurazione nel periodo rinascimentale è divenuta un educandato, dopo un conservatorio, per poi essere preso in consegna dall’esercito e dai carabinieri fino all’8 settembre del 1943 quando fu occupato dalle truppe tedesche. Dopo la Liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 venne trasformato in Centro di raccolta per sfollati e profughi [6]. Artefice ed organizzatore del Centro fu il Capitano inglese Limbert che rimase al comando della struttura per circa un anno. Quando nel novembre del ‘45 giunsero ad ondate quei profughi provenienti dalla Grecia, molti locali della Caserma erano ancora occupati, nonostante i continui appelli ad abbandonare la struttura, dagli sfollati e dai fiorentini sinistrati, e gli italo-greci trovarono posto solo ammassandosi nelle camerate ancora libere e dentro un teatro e una chiesa sconsacrata all’interno dello stesso edificio.

Vivevano in grandi stanze, alcune senza finestre, dormendo per terra sopra pagliericci o ammassi di cenci che fungevano da materassi, una ventina di persone per camerata, dove ogni nucleo familiare trovava un proprio spazio innalzando coperte come divisori. Per queste persone ogni giorno si presentava come il precedente, sradicati dalla propria terra per colpe altrui, chiedevano soltanto che fosse concessa loro la possibilità di ricominciare, sia pure con fatica, a vivere. E in questo contesto di profondo degrado al Centro profughi all’inizio vi era solo il dolore, l’indecenza, l’abbattimento, vi era la totale sfiducia nelle istituzioni; nel cuore di questa gente sfortunata, piano piano, si faceva strada l’odio… ed era comprensibile. Gli avevano promesso un’accoglienza diversa in alloggi confortevoli e invece niente di tutto questo: “Venga a vederci signor Ministro” [7] scrivevano a Emilio Lussu allora in carica al Ministero dell’Assistenza postbellica. Queste persone avevano lasciato alle spalle le brutture, le persecuzioni, i morti sulle piazze di un’assurda guerra, avevano abbandonato piangendo la loro terra, le loro case, il loro mare, i loro animali come quella gattina di nome Xenià dagli occhi verdi che seguì fino al porto la sua padroncina, ma nella ressa e nella confusione venne scacciata e di lontano sulla banchina sembrava salutare quella bambina con le lacrime agli occhi che si allontanava dal porto di Patrasso imbarcata sulla nave che la portava in Italia [8].

Dai primi tempi del loro insediamento nella caserma di via della Scala gradatamente siamo passati tramite provvedimenti comunali e della Prefettura, con decreti legislativi, e soprattutto con le continue rivendicazioni sfociate spesso in rivolte di queste persone che niente avevano da perdere, ad una situazione di vita un po’ più decorosa di quella iniziale ma sempre al di sotto della normalità. Anche una certa propensione nel sapersi arrangiare, caratteristica dei patrassini e più in generale di tutti gli abitanti del bacino del Mediterraneo, giungendo perfino a contravvenire alla legge con la pratica del contrabbando, va inserita nel computo di tutti quegli elementi che contribuirono ad un qualche miglioramento delle condizioni di vita di questi profughi.

 

Giovani residenti al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Stella.

Famiglia italo-greca al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Croce.

E infatti solo dopo pochi mesi di vita al Centro, i profughi organizzarono in modo autonomo un mercato montando le bancherelle in via della Scala, una tra le strade meno movimentate di Firenze era diventata una delle più animate. Il Centro Profughi aveva creato un ambiente cosmopolita, in perpetuo movimento, «tanto che bastava affacciarsi ai cancelli per avere l’impressione di un grande alveare. E piano piano, lungo i marciapiedi della via erano cominciate le bancarelle. Naturalmente avevano attecchito quelle dei commestibili e delle cianfrusaglie, tanto che chi passava si godeva uno spettacolo vivo di colori,  poponi, cocomeri e altra frutta di ogni sorta esposti in pieno sole per un lungo tratto» [9]. Non era difficile scovare in mezzo ai banchi del mercato anche chi ti offriva di nascosto sigarette di contrabbando, naturalmente ad un prezzo inferiore rispetto a quello imposto dal monopolio di Stato. Questa attività illegale era nata quasi per caso perché venivano rivendute le sigarette che i soldati americani generalmente donavano alla popolazione: «avevo dieci anni e nascondevo i pacchetti di sigarette regalate dagli americani sotto il maglione per venderle sotto i portici di fronte a Piazza della Repubblica» [10].

Il contrabbando di sigarette, inizialmente tollerato dalla Guardia di Finanza, coinvolse sempre più i profughi facendo diventare il Centro di via della Scala il più grande punto cittadino di smistamento e smercio di sigarette [11]. La cronaca della stampa locale di quegli anni fa riferimento a continue ispezioni della polizia e soprattutto della Guardia di Finanza nei locali del Centro alla ricerca di sigarette che puntualmente scovavano nei posti più impensati.

Il contrabbando assunse dimensioni sempre più grandi sino a divenire una nota distintiva per i profughi “greci”, anche quando lasciarono il Centro di via della Scala per andare ad abitare nelle case popolari in via di Caciolle. Qui all’interno del rione, fra le stradine che collegavano le abitazioni con quelle tipiche scale esterne, è proseguito per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il rione dei greci – molti clienti ignoravano la loro origine italiana – è stato sempre conosciuto dalla cittadinanza fiorentina come il luogo di approvvigionamento per quei fumatori che volevano risparmiare sul costo del pacchetto di sigarette. E se la Guardia di Finanza inizialmente aveva ricevuto precise disposizioni di tollerarlo, perché i profughi dovevano cercare pur di rifarsi una vita, poi intervenne duramente perché appunto questo fenomeno aveva assunto proporzioni molto più vaste – tutti passavano “dai greci” per le sigarette – con conseguenti danni al monopolio di Stato. Non tutti i profughi però continuarono questa pratica illegale, per molti fu solo all’inizio della loro avventura italiana, per poi cercare altre occupazioni: un lavoro che avrebbe dato loro la possibilità di un sostentamento economico per sperare in un futuro migliore. E non essendoci nella Firenze postbellica un’abbondanza tale di richieste per accontentare tutti, si specializzarono in attività di artigianato quali l’elettricista, il sarto, il falegname… Vi erano poi coloro che avevano trovato lavoro proprio all’interno del Centro nei laboratori di biancheria e calzoleria, locali annessi al Centro stesso, per la confezione di materiale assistenziale. Solo più tardi con l’inizio degli anni Cinquanta cominciarono le assunzioni in alcune fabbriche fiorentine che avevano ripreso la produzione industriale dopo la guerra: alcuni entrarono nella Pignone altri nella Gover. Ma ci furono anche coloro che decisero di raggiungere il nord Italia, soprattutto Torino, dove la Fiat aveva iniziato a richiamare emigranti da tutta la penisola. Queste persone che avevano lasciato Firenze si riunirono agli altri profughi che nel viaggio dalla Grecia a Bologna decisero di continuare per il nord.

Con il passare degli anni, oltre al lavoro, il problema più impellente per i profughi era riuscire a trovare una sistemazione in alloggi esterni dal Centro. A livello nazionale vi era l’esigenza da parte delle autorità statali di smantellare i centri di raccolta, o perlomeno di liberarli dalla presenza di quei profughi che soggiornavano ormai da anni in queste strutture a carico dello Stato. I vari Ministeri che si occupavano dei profughi avevano anche la necessità di reperire nuovi spazi per poter contenere le ondate dei rimpatriati dalle regioni giuliano-dalmate che continuavano a giungere in Italia sino alla fine degli anni Cinquanta. I tentativi messi in atto dai funzionari dello Stato non dettero però buoni risultati in merito: venivano elargite somme di denaro abbastanza consistenti per liberare i posti all’interno dei centri di raccolta, ma i profughi una volta acquisita la liquidazione continuavano a rimanervi perché non trovavano nessuna sistemazione all’esterno. Il Decreto-legge del 19 aprile 1948 n. 556, che imponeva la cessazione dell’assistenza ai profughi entro il 30 giugno 1949 tramite una liquidazione di 50.000 lire a persona, non dette assolutamente i risultati ipotizzati [12]. Il 30 giugno ‘49 almeno a Firenze nel Centro Profughi di via della Scala non si liberò nessun posto, anzi a leggere l’articolo del Nuovo Corriere del 7 ottobre 1949 sembra che la situazione abbia assunto toni da farsa pirandelliana perché quei soldi ricevuti allo scopo di trovare una sistemazione al di fuori delle mura del Centro – a sentire i profughi – furono subito spesi per acquistare tutti quegli oggetti, brande, coperte, pagliericci e il corredo per il vettovagliamento che furono loro ritirati al momento della liquidazione [13].

Per avviare realmente lo sfollamento del Centro di via della Scala si dovrà attendere la metà degli anni Cinquanta con le assegnazioni degli alloggi popolari: a parte qualche nucleo familiare che si staccò dalla comunità italogreca trovando sistemazioni nei nuovi quartieri dell’Isolotto e di Sorgane, gli altri furono dislocati sia nel già citato quartiere “dei greci” di via di Caciolle, sia alle Gore sopra Careggi, che – in un numero minore – a Coverciano in via Gelli. Nel novembre del 1956 con l’ultima famiglia traslocata nella casa popolare assegnata, il Centro profughi cesserà la sua attività e riprenderà la funzione di caserma militare. In via della Scala non vi sarà più il mercato multicolore che aveva reso piena di vitalità una strada meno frequentata e dai cancelli della caserma non si avrà più l’impressione di una grande alveare. E iniziava così per i profughi usciti dal Centro un nuovo – inverso – percorso di acculturazione: l’inserimento nella società italiana, fiorentina in specie.

 

Città di Firenze – Case per i profughi. Legge 4 marzo 1952 n. 137.

 

A distanza di quasi ottant’anni molti protagonisti dell’esodo dalla Grecia sono scomparsi, altri sono ormai anziani, quasi tutti hanno lasciato le case dei rioni di via di Caciolle e via delle Gore, e negli anni gli appartenenti alla comunità si sono sposati con donne e uomini italiani perdendo progressivamente le caratteristiche della loro grecità, soprattutto la lingua che era rimasta nei primi tempi come elemento di forte distinzione. A Laspeica – nessuno ormai chiama più così il rione di via Caciolle – per le strade non si sente più parlare greco e neanche sentiamo più gli odori tipici della cucina greca, i venditori di sigarette erano già scomparsi da tempo e in questo quartiere ormai i segnali del passaggio della comunità patrassina stanno sfumando, inghiottiti da quel processo di integrazione che sembra abbia lasciato molto poco della loro storia e tradizione. La storiografia italiana che ha iniziato ad interessarsi delle profuganze del secondo dopoguerra contribuirà a non disperdere questa storia e concedere alle loro vicende un posto, seppur piccolo dato l’esiguo numero dei protagonisti, nel panorama della storia italiana del XX secolo. Altrimenti si correrebbe il rischio di appiattire, non conoscendolo, il loro viaggio “andata e ritorno”, come se non fosse mai avvenuto, come se dalla Puglia non fossero migrate volontariamente alla ricerca di un futuro migliore migliaia di persone alla fine dell’Ottocento verso la penisola greca, e da lì ritornare in Italia, cacciate malamente per colpe non loro e costrette a lasciare ogni loro avere costruito faticosamente su quella terra in circa settant’anni. Senza il soccorso della storiografia la loro speranza emigrando dalla Puglia, l’integrazione, la sofferenza, il dolore, l’emarginazione, e di nuovo la speranza e nuovamente la reintegrazione nella società italiana, che costituiscono la storia di questi uomini e donne, svanirebbero negli anni rimanendo semmai nei racconti orali tramandati di generazione in generazione che probabilmente con il tempo andrebbero persi. È un dovere quindi portare alla luce pagine di vicende umane del tutto o quasi ignorate o di storie già dimenticate al fine di rendere cosciente l’intera comunità che anche le vicende di pochi individui, come quella degli italo-greci, reclamano un posto nella storia ufficiale.

 

NOTE

[1] Insieme a Patrasso erano Atene, Corfù e Salonicco, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, costituite per lo più da migranti meridionali soprattutto pugliesi. Anche a Zante vi era una piccola comunità di italiani di origine meridionale, che poco prima della Grande guerra non superava le 100 unità; meno numerosa era la presenza italiana a Cefalonia, dove agli inizi del Novecento si contavano nell’isola 19 famiglie, in prevalenza pugliesi, Cfr. Giulio Esposito, Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in Giulio Esposito e Vito Antonio Leuzzi (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari 2015, p. 223.

[2] Sui recenti studi storici dell’occupazione italiana della Grecia cfr. i saggi di Paolo Fonzi: Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943), Le Monnier, Firenze 2020; Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), Carocci, Roma 2022.

[3] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso durante il periodo fascista (1930-1945), Ibiskos, Empoli 1988, p. 19.

[4] Cfr. Santarelli Lidia, La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Paolo Pezzino e Luca Baldissara (a cura di), Crimini e memorie di guerra: violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, 2004. Nei documenti consultati presso l’Archivio di Stato di Firenze sulle richieste dei certificati di qualifica di profugo emerge come la maggior parte degli italo-greci giunti a Firenze furono, durante la guerra, internati civili in quei campi per circa 6/7 mesi, in Archivio di Stato di Firenze (ASFI), fondo prefettura, serie certificati qualifica di profugo, Fascicoli da n. 1 a n. 80, classifica 3A/2/14.

[5] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[6] Sulla storia della Caserma di via della Scala, convertita in Centro profughi dall’agosto del 1944 al novembre del 1956, cfr. il fondo dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) presente all’Archivio Storico del Comune di Firenze, dove sono raccolti in perfetto stato molti materiali sull’Ente dalla sua istituzione alla sua chiusura.

[7] Come si vive al centro profughi? Centinaia di ricoverati scrivono una lettera aperta al ministro Lussu – Il testo del documento – Dichiarazioni dei dirigenti, «La Patria», 22 novembre 1945.

[8] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso, cit., p. 48.

[9] Mercanti bianchi e neri in via della Scala, «La Nazione», 31 agosto 1947, p. 2.

[10] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[11] Sul contrabbando di sigarette degli italo-greci a Firenze, oltre all’analisi della stampa locale del periodo, sono interessanti le relazioni degli assistenti sociali sui minori italo-greci che svolgevano tale attività, in ASFI, Direzione dei centri per la giustizia minorile, servizio sociale per i minori, anni 1951-1955.

[12] Giulio Montelatici, Lo sgombero… dei profughi, «Il Nuovo Corriere», 3 giugno 1949, p. 2.

[13] Ibid.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.




13 aprile 1944: la pasqua di Vallucciole

Vallucciole

Vallucciole è un piccolo borgo dell’alto Casentino, situato sul versante meridionale del Monte Falterona, appartenente all’attuale comune di Pratovecchio-Stia [1]. L’area intorno alla località, comprendente gli abitati di Molino di Bucchio, Serelli, Monte di Gianni ed alcuni gruppi di case e poderi sparsi nella zona, è tristemente nota per la strage avvenuta il 13 aprile 1944, in cui persero la vita 108 civili, in prevalenza donne, anziani e bambini.

 

Rimasta a lungo isolata e distante dai grandi avvenimenti della storia, la quiete del borgo e delle località limitrofe venne bruscamente interrotta nella primavera del 1944. Il 13 aprile la 2ͣ e la 4ͣ compagnia della Hermann Göring invasero la piccola vallata, saccheggiando le abitazioni, distruggendo le case ed uccidendo i civili che incontrarono durante il loro cammino.

 

La notte del 13 aprile i reparti comandati dal capitano Loeben partirono da Stia in direzione di Molin di Bucchio, arrestandosi dopo pochi chilometri al casale di Giuncheto, dove abbandonarono i mezzi motorizzati per proseguire a piedi. In base alle fonti inglesi il contingente, composto da circa ottocento uomini, venne diviso in tre gruppi, due agirono indipendentemente, compiendo un accerchiamento della vallata, mentre uno più esiguo, posto nelle retrovie, svolse funzione di controllo, impedendo l’accesso e la fuga dall’area.

 

Le formazioni che operarono la manovra a tenaglia occuparono, perquisirono e distrussero tutti i centri abitati che incontrarono nel corso dell’avanzata. Durante il loro passaggio i soldati della Hermann Göring uccisero tutte le donne, gli anziani e i bambini che individuarono lungo il tragitto, mentre utilizzarono gli uomini adulti per il trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti prelevati dalle abitazioni. Una volta terminata la distruzione e la perquisizione delle case, le colonne proseguirono il loro cammino in direzione del Falterona, alla ricerca delle formazioni partigiane segnalate dalle autorità fasciste locali. Conclusasi quest’ultima fase dell’operazione, la colonna tornò a valle, dove vennero infine uccisi gli uomini che erano stati utilizzati per il trasporto delle munizioni e degli oggetti frutto della precedente razzia [2].

 

Dalle prime ore del 13 aprile 1944 tutti i paesi e i poderi sparsi nella vallata vennero colpiti uno dopo l’altro dall’avanzata tedesca: la popolazione di Vallucciole, Monte di Gianni, Molin di Bucchio, Serelli e i casali di Giuncheto e Moiano vennero inesorabilmente colpiti dall’azione. Dovunque si ripetè la medesima scena, i soldati facevano irruzione nelle abitazioni, prelevavano gli uomini abili al trasporto delle casse di munizioni e degli oggetti depredati dalle case, mentre donne, bambini ed anziani venivano immediatamente uccisi sul posto.

 

Il sopravvissuto Giovanni Bardi ricorda in questo modo quell’orribile esperienza: Così camminammo per delle ore. Ad ogni casa ci fermavamo e dappertutto la stessa storia. I tedeschi entravano: gli uomini venivano buttati fuori e caricati con le cassette: la nostra fila si allungava. Nelle case le donne e i bambini venivano ammazzati subito. E le bestie, anche, nelle stalle. E poi davano fuoco. Cambiavano soltanto il modo; qui con la benzina, in un’altra casa con le bombe incendiarie, e massacravano con le bombe, coi fucili, coi mitra, con le mazze, coi coltelli. Avevano arsenali di armi e le adoperavano [3].

 

La scena si ripeté in tutti i caseggiati attraversati dall’avanzata tedesca. Dopo aver distrutto e seminato il panico in un abitato la colonna proseguiva il suo cammino alla ricerca delle abitazioni successive. Durante l’ascesa del Falterona coloro che non riuscivano a trasportare i materiali venivano uccisi lungo il tragitto. Il trentasettenne Severino Seri, incapace di poter seguire la colonna a causa della sua cecità venne ucciso a Vallucciole, mentre Pietro Vadi e Angiolo Marchi, il primo sessantasei anni e il secondo settantotto, vennero eliminati lungo il percorso per non esser riusciti a trasportare i materiali [4].

 

Nel corso della giornata non mancarono le violenze sessuali ai danni delle donne, testimoniate in particolar modo nel caseggiato di Moiano di Sopra, dove vennero abusate prima di essere barbaramente uccise.

 

La furia nazista non risparmiò nessuno e non si fermò nemmeno di fronte alla presenza dei più piccoli. Nel corso dell’avanzata vennero uccisi bambini appartenenti a tutte le età: undici furono le vittime con meno di dieci anni. A Vallucciole avvenne probabilmente l’episodio più macabro, l’uccisione di Angiola Vadi Gambineri e del figlio Viviano, partorito pochi mesi prima [5].

 

Il piccolo Vivivano foto scattata da Prasildo Giachi il 15 aprile 1945

 

In questo caso, come per ampia parte della strage, non disponiamo di testimonianze dirette, poiché pochissimi furono coloro che riuscirono a salvarsi quel giorno. Le poche informazioni di cui disponiamo provengono dalle notizie fornite dai pochi sopravvissuti, da coloro che per primi si recarono a prestare soccorso nei paesi colpiti dal rastrellamento e dall’indagine condotta nel 1945 dagli alleati.

 

Dopo aver seminato il panico per la vallata, la colonna continuò l’ascesa del Monte, alla ricerca dei partigiani segnalati dalle autorità fasciste. Quest’ultima fase dell’operazione fu un insuccesso e non portò all’individuazione di nessun gruppo partigiano. La colonna di trasportatori percorse dunque a ritroso il sentiero precedentemente compiuto, passando per Monte di Gianni e Vallucciole, fino ad arrivare a valle. A Molin di Bucchio venne intimato a quattro uomini di posare l’attrezzatura e di tornare alle loro case, ma avviatosi verso le loro abitazioni vennero raggiunti dagli spari dei soldati tedeschi. La medesima scena si ripeté pochi istanti dopo al casale di Giuncheto, con la morte di dodici uomini, colpiti alle spalle dalle raffiche di mitra.

 

Il sopravvissuto Santi Trenti ricorda così quel momento: Dal Monte Falterona fummo invitati a tornare a Giuncheto, frazione che rimane nella parrocchia di S. Maria sotto Vallucciole (…) Scaricata tutta la roba a Giuncheto fummo inviati a ritornare alle nostre case, ma appena fummo partiti venimmo presi a fucilate dai tedeschi [6].

 

Ancora oggi ad oltre ottant’anni di distanza dal terribile evento, storici e comunità locali non sono concordi nell’individuare la causa che scatenò il massacro. A lungo è prevalsa la versione che attribuisce la responsabilità della strage all’uccisione a Molin di Bucchio di due soldati tedeschi da parte dei partigiani della Faliero Pucci, avvenuta l’11 aprile, appena due giorni prima della strage di Vallucciole [7].

 

Negli ultimi anni gli studiosi hanno ridimensionato tale interpretazione, collocando la strage all’interno di una grande operazione di rastrellamento promossa dai comandi nazisti. Le ricerche e i risultati emersi dai processi hanno avvalorato tale versione, confermando che l’incursione a Vallucciole non rappresentava una rappresaglia per l’uccisione dei due nazisti, ma era parte di un’azione organizzata precedentemente, volta a bonificare il territorio appenninico compreso tra la statale 71 del Passo dei Mandrioli e la statle 67 del Passo del Muraglione.

 

Allo stesso tempo questa versione non pare sufficiente a giustificare il livello di violenza raggiunto nella valle casentinese. Rispetto ai rastrellamenti compiuto lo stesso giorno nelle vicine località di Partina e Moscaio, a Vallucciole si assistette all’eliminazione di un’intera comunità, con l’uccisione indiscriminata di donne, anziani e bambini.

 

Un elemento che in parte spiega il livello di violenza raggiunto nella piccola vallata risiede nei reparti che furono protagonisti della strage. L’operazione venne affidata alla 2ͣ e alla 4ͣ compagnia della Hermann Göring, reparti ai quali appartenevano i due soldati tedeschi precedentemente uccisi a Molin di Bucchio. Inoltre la Hermann Göring era una divisione profondamente politicizzata, costituita da volontari particolarmente zelanti e da convinti sostenitori del nazionalsocialismo.

 

Nel quadro della presenza tedesca in Italia la strage di Vallucciole si inserisce in una fase di progressiva radicalizzazione della politica d’occupazione. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto a Roma il 23 marzo 1944, i vertici militari giunsero a ritenere la penisola un territorio di difficile gestione ed invitarono i reparti ad agire in modo risoluto e a rispondere in modo deciso a qualsiasi attacco proveniente dall’esterno. Dalla primavera del 1944 si assiste dunque ad un generale inasprimento dell’occupazione tedesca in Italia e alla progressiva tendenza ad equiparare i civili ai membri della resistenza.

 

Vallucciole e la vallata circostante si inseriscono in questo triste fenomeno, rappresentando nella primavera del 1944 il primo caso di strage indiscriminata condotta dalle forze occupanti ai danni dei civili in Toscana.

 

Nel secondo dopoguerra la prima cerimonia pubblica in ricordo delle vittime della strage si tenne nel 1954. In quell’occasione venne inaugurato presso la chiesa dei Santi Primo e Feliciano di Vallucciole un ossario, accompagnato da una lapide recante i nomi dei 108 caduti [8].

 

L’ossario e la lapide con i nomi delle 108 vittime della strage.

 

Nel 1979 è stato creato il primo monumento dedicato alle vittime della strage, realizzato dagli allievi della Scuola del Ferro Battuto. Collocato inizialmente in piazza Pertini, nel 2006 venne spostato nel vialetto che conduce al vecchio cimitero di Stia, dove attualmente si trova e dove è anche presente una lapide con i nomi di coloro che morirono il 13 aprile 1944 [9].

 

Monumento ai Martiri di Vallucciole.

 

 

Note:

[1] Dal 1° gennaio 2014 i centri di Stia e Pratovecchio si sono fusi, dando vita ad un’unica amministrazione.

[2] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944. Storia, ricordo e memoria pubblica di una strage nazifascista, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2017, p. 107.

[3] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, p. 78.

[4] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 114-117.

[5] I primi soccorritori testimoniarono che sul corpo del piccolo Viviano erano presenti numerosi segni di violenza.

[6] Citato in G. Fulvetti, Uccidere i civili, cit., p. 77.

[7] Tesi sostenuta in P. Paoletti, Vallucciole: una strage dimenticata. La vendetta nazista e il silenzio sugli errori garibaldini nel primo eccidio indiscriminato in Toscana, Le Lettere, Firenze 2009.

[8] L. Grisolini, Vallucciole, 13 aprile 1944, cit., pp. 180-181.

[9] https://www.pietredellamemoria.it/pietre/monumento-ai-martiri-di-vallucciole-stia/.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.