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Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Il 21 gennaio 1944, Giovanni Martelli e Otello Frangioni si erano recati alla Casa Manna, un luogo di ritrovo per gli antifascisti comunisti livornesi e situato in via Trieste, col fine di prender parte a una riunione. Il punto di ritrovo era però fissato in un altro luogo e, visto che nessuno si presentò all’appuntamento, Frangioni e Martelli si recarono alla Casa Manna. Una volta entrati, caddero in una trappola, perché ad attenderli vi era un commando unificato composto da ufficiali tedeschi, repubblichini e questori.
Il terzo arresto mette a dura prova l’animo di Martelli e lo segna nel profondo perché i rischi che poteva correre erano maggiori del passato. Viene arrestato perché le autorità fasciste identificavano in lui il «filo conduttore» col movimento di liberazione e l’esponente ideale da cui trarre informazioni sulle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi[1]. In quei giorni viene ripetutamente interrogato dal questore Moraglia, dal capitano della polizia Porquier, dai marescialli Marchesi e Artieri[2].
Martelli continua a negare qualsiasi coinvolgimento o relazione con gli altri membri della Resistenza livornese, afferma che non sapeva niente sui manifesti della propaganda partigiana e sui volantini del movimento di liberazione. Martelli ricorda il suo terzo interrogatorio con le seguenti parole:

«[…] A domanda risposi: io, nella mia prima giovinezza mi ero interessato di politica, ma soprattutto in seguito ai due arresti ed alla condanna cui fui sottoposto, nonché per l’essermi trovato in luogo di capofamiglia, non mi era interessato più di nulla. Da allora a quel momento, aggiunsi, c’era anche l’esperienza dell’Africa Orientale e, immediatamente dopo la vita di fabbrica come operaio specializzato, alla qualcosa tenevo al di sopra di tutto. Citai la esperienza del cantiere Orlando, […] e, infine, la esperienza alla Moto Fides. Le domande che attorno a queste risposte mi furono date furono sempre pronunciate dal tenente Purchié e dall’agente repubblicano Hippert. Sia l’Altieri come il Marchesi, non solo non mi fecero mai domande ma mai si opposero alle mie risposte. E, sia chiaro, solo loro due potevano farlo! Questo comportamento mi fu di grande conforto e non mancai di riferirlo a chi, dopo di me, doveva passare sotto quel “torchio”. Ciò che soprattutto poteva incutere maggiore timore, cosa che io stesso subii, era che a quell’interrogatorio erano sempre presenti uno o due rappresentanti della “Gestapo” e, spesso, erano loro a suggerire domande […]»[3]

Alla domanda posta dalle autorità repubblichine sul perché non fosse fascista, lui risponde con fermezza dicendo che non lo era e che non lo sarebbe mai stato, perché si definiva come eticamente diverso da loro. Nel periodo della terza detenzione presso il carcere Don Bosco di Pisa conosce esponenti di spicco della Resistenza locale e ebbe degli scambi epistolari con alcuni di questi, come Fortunato Garzelli e Oberdan Chiesa[4]. Purtroppo, venne a conoscenza di una tragica notizia, ovvero che un mese prima erano stati catturati all’Ardenza tutti i frequentatori della Casa Manna, come Vasco Iacoponi, Corrado Faiani e lo stesso Oberdan Chiesa[5]. Prima condividevano le celle in comune con altri, ma con l’arresto di Frangioni e di Martelli vennero messi in celle di isolamento.
Chiesa ebbe degli scambi epistolari con Martelli e gli chiese quale fosse la sua posizione, aveva un brutto presentimento e temeva per la sua vita. Quando Martelli cercò di inviare un biglietto di risposta, venne a conoscenza che Chiesa era stato fucilato. I due si erano incontrati due mesi prima a Cevoli, perché quest’ultimo attendeva Chiesa per l’invio di materiali col fine di realizzare dei documenti falsi. La scomparsa di Chiesa ebbe «l’effetto di una doccia fredda sull’intero gruppo e richiamò alla mente di ognuno la realtà del momento» che stavano vivendo[6].
Il 12 febbraio per ordine del prefetto Fac-Duelle viene messo in isolamento e conosce di nuovo la dura vita nel carcere fascista, soffre la fame, la sete, il freddo, la solitudine, la paura di non potercela fare. L’esperienza di Modena lasciò un segno indelebile, soprattutto per le condizioni in cui viveva: predominava una sensazione di insicurezza, perché spesso venivano prelevati alcuni prigionieri da parte dei nazisti e dei repubblichini per fucilarli[7]. Alle azioni di sabotaggio della Resistenza corrispondevano spesso queste rappresaglie nelle carceri.
Quattro mesi dopo viene trasferito nel carcere Sant’Eufemia di Modena e tenta una fuga durante il bombardamento dell’11 giugno. Il giorno successivo viene chiamato per un presunto interrogatorio, ma Martelli teme di non far ritorno. Al suo ingresso nella stanza dell’interrogatorio si trova davanti due marescialli tedeschi, i quali gli chiedono di spogliarsi per effettuare una valutazione delle sua condizioni fisiche. Molti detenuti e rivali politici venivano sottoposti a queste fittizie valutazioni che servivano per “attestare” l’idoneità fisica dell’individuo. È facile intuire che qualora una persona fosse risultata debole, malata o anziana, veniva mandata in Germania con la scusa fittizia che sarebbero stati inseriti in nuovi contesti lavorativi. In realtà venivano spediti nei campi di concentramento.
Nella medesima occasione, un capitano delle brigate nere gli promette che, in caso avesse preso parte a delle opere di volontariato, sarebbe stato scarcerato. Molti aderirono all’iniziativa perché ciò avrebbe permesso ai detenuti di uscire dal carcere e di raggiungere le altre formazioni partigiane attive nel modenese. Martelli rifiuta la proposta perché non lo convince, non si fida delle promesse dei repubblichini.
Nell’ultima settimana di luglio, i nazifascisti realizzano degli attacchi contro la Repubblica partigiana di Montefiorino, a cui i gappisti della sessantacinquesima Brigata “Walter Tabacchi” rispondono con diversi attacchi contro gli automezzi e le strutture delle forze di occupazione tedesche. Nella tarda mattinata del 30 luglio i militari del Rustungskommando di Bologna ricevono la notizia dell’ennesimo attentato nel centro storico di Modena, dove è detenuto Martelli: nel primo pomeriggio una delegazione parte dalla città felsinea e raggiunge la Ghirlandina. Convocate le autorità̀ civili e militari della RSI, i soldati del Rustungskommando invocano una rappresaglia esemplare. In un primo momento propongono di rastrellare venti persone da catturare nei caffè del centro storico e di fucilarle in Piazza Grande, ma le obiezioni di alcuni fascisti li convincono a desistere. Dopo una breve discussione, i tedeschi accettano che gli ostaggi siano prelevati dalle carceri di Sant’Eufemia, ma impongono di eseguire la missione nel più breve tempo possibile poiché vogliono tornare a Bologna per cena. Mentre i venti detenuti scelti per la strage vengono incolonnati e fatti uscire dalla prigione, suona l’allarme aereo e i modenesi affollano il rifugio di Piazza Grande. Sul selciato, il plotone d’esecuzione fa distendere le vittime sul ventre formando due file e tutti vengono uccisi con dei colpi alla nuca. Dopo il cessato allarme, la popolazione della città resta inorridita dal macabro spettacolo della piazza: i venti corpi inerti vengono lasciati sul selciato per quasi ventiquattro ore, poi un autocarro li trasporta al cimitero di San Cataldo.
La paura di non poter tornare a casa si materializza per Martelli: i prossimi che verranno condannati a morte sono proprio i detenuti antifascisti toscani. Sulla base di ciò che accadeva fuori dalle mura di Sant’Eufemia, ognuno poteva avere le ore contate. Molte persone che aveva conosciuto in quel periodo erano già morte per fucilazione o per impiccagione. La speranza di rivedere la sua amata Livorno si affievolisce, così tanto che sostiene:

«noi tutti fondavamo la nostra speranza sul fatto che i nostri verbali fossero rimasti a Livorno, per mio conto ciò voleva dire fino ad un certo punto, poiché io ero negativo, ma così non era per altri compagni, che in seguito a prove schiaccianti o accuse, o per non aver saputo resistere all’interrogatori avevano dovuto ammettere qualche cosa. Un giorno fummo di nuovo chiamati ed interrogati, insistemmo sull’atteggiamento assunto al primo interrogatorio e questa volta – ormai delusi delle volte precedenti – che non credevamo più a nessuna possibilità di uscirne, fu proprio la volta decisiva […]».[8]

Alla fine di agosto, Martelli viene scarcerato insieme ad altri compagni di Partito come Otello Frangioni ed è proprio a Otello che dedica la sua Autobiografia, proprio perché con lui ha «condiviso la vita nel partito subendo insieme rischi ed arresti»[9]. Di quel periodo così difficile, Martelli racconta:

«[…] Dopo alcuni giorni da quel triste episodio [dell’uccisione dei venti detenuti del Carcere di Sant’Eufemia] fu inviato al carcere, per interrogarci, un giudice istruttore. Uno alla volta fummo tutti interrogati e tenuto conto che quel giudice non aveva nulla in mano, in quanto i documenti istruttori erano rimasti al di là del fronte, fu relativamente facile a tutti a confermare le dichiarazioni già fatte e, chi si era troppo esposto, a rettificare la propria posizione. Capimmo di lì a pochi giorni che quel giudice era stato inviato dal Prefetto Repubblichino (credo di chiamasse De Santis), il quale era in rapporti con il Cnl.
Fu veramente la volta buona: a fine settembre – così mi sembra ricordare – fummo invitati tutti ad uscire con gli indumenti personali. Ci fu chiaramente detto che eravamo liberi. L’unico che rimase, per uscire dopo un mese circa, fu Vasco
Iacoponi. Una volta in libertà io fui incaricato dai compagni, eravamo tutti alloggiati in un grande albergo di Modena, di recarmi in una segheria nei dintorni di Modena dove conobbi il Baroni che era stato al confino con Vasco, il quale mi consegnò i documenti falsi, naturalmente repubblichini, con i quali avremmo dovuto viaggiare nei territori occupati […]»[10].

Il 5 settembre 1944, lui e Otello Frangioni tornarono a Livorno, a seguito di un lungo viaggio per l’Emilia-Romagna e dopo aver attraversato le zone di Vergato e di Marzabotto. Dovettero superare i campi minati, evitare le pattuglie e i rastrellamenti. Il rientro a Livorno non fu facile, ma Martelli riuscì a tener fede all’obiettivo: tornare a casa. Livorno era stata liberata il 19 luglio e il loro rientro venne consacrato con una festa all’interno della Federazione comunista livornese.
Il nuovo Segretario era Aramis Guelfi, che assegnò Martelli alla Federazione di Pisa col compito di dirigere le attività dell’organizzazione sindacale Federterra. Pisa resterà un luogo caro a Martelli, perché proprio lì aveva avuto origine il suo percorso di resistenza attiva al nazifascismo e lì aveva pianificato le attività dei Nuclei del Fronte Nazionale di Liberazione in Toscana. Inizialmente, crede che col suo incarico possa entrare più in contatto con l’anima di quei luoghi che conosceva bene. In realtà, già nei primi mesi del 1945 lascia la mansione perché «non [lo] entusiasmava»[11]. In compenso, viene incaricato della propaganda presso la redazione del bollettino della Federazione. Martelli nella Nota autobiografica del 1987 si lascia ad una confessione, in cui afferma:

«[…] Tutti quegli incarichi, tuttavia, rappresentavano per noi le prime esperienze di vita legale del partito per cui non mancavano, da parte di ognuno di noi, comportamenti tutt’altro che idonei alle responsabilità che ci erano state affidate […]»[12].

Effettivamente, Martelli all’epoca ha 32 anni e conosce ben poco la vita di partito, forse non l’ha nemmeno sperimentata fino in fondo. Martelli ha lavorato in ambito propagandistico e nel contesto della lotta armata al nazifascismo, ma sapeva ben poco di politica. La ridefinizione e il ripristino delle istituzioni democratiche sarà un problema che in realtà coinvolgerà tutto il Paese, la vita politica, le istituzioni pubbliche, i civili.
Dopo la liberazione, Aramis Guelfi venne trasferito alla Federazione comunista di Taranto e poi di Lecce, e Ilio Barontini successe alla guida della Federazione livornese. Martelli diventò Vicesegretario nel periodo in cui Ilio Barontini entrò a far parte prima della Consulta e poi della Costituente.
Negli anni successivi, Martelli diventerà una figura di spicco nell’ambito sindacale e svolgerà una serie di impieghi che lo porteranno lontano da Livorno per diversi anni. Diventerà segretario delle Federazioni comuniste di Treviso e di Carrara, poi svolgerà degli impieghi presso la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). Rientrerà nella città labronica solo negli anni Sessanta, anni in cui verrà nominato come presidente della Commissione di Controllo del PCI locale e come Presidente del Bacino del Carenaggio[13]. Martelli è morto il 22 ottobre 1992 a Livorno.

Conclusioni.

Da decenni la storiografia sta producendo numerose monografie sulle vite degli antifascisti e sulle esperienze di lotta durante la Resistenza (1943-1945), col fine di esaminare complessivamente i valori condivisi e le azioni compiute dai gruppi antifascisti. Allo stesso modo, questo elaborato ha cercato di esaminare i valori di un uomo molto attivo nella resistenza toscana e livornese. Il tema è quindi importante per ricostruire le storie e le figure di chi si è fatto testimone di libertà in un periodo segnato dalla violenza e dall’autoritarismo.

Nello sviluppo dell’elaborato, una domanda è emersa: come si potrebbe descrivere l’esperienza politica di Giovanni Martelli?

L’esperienza politica di Martelli ricorda le esperienze di tanti altri militanti attivi nel periodo della Resistenza all’occupazione nazifascista, in cui questa lotta ha rappresentato un punto di svolta e una chiave di lettura per il futuro repubblicano e democratico del Paese. Per Martelli, la verità è stata rivoluzionaria e ha sempre fatto riferimento a questo valore in qualunque sua battaglia, nelle fabbriche, nella sua città, a livello nazionale. La storia di Martelli è la storia di un uomo resiliente, che ha saputo adattare i suoi ideali davanti a qualsiasi difficoltà o situazione storica; di un militante determinato e fedele agli ideali del Partito; di un sindacalista che poneva le questioni operaie e sociali al centro di qualsiasi analisi sulla realtà circostante.

L’analisi ha evidenziato quanto sia difficile saper racchiudere le esperienze di vita e di militanza politica in poche semplici parole. Ogni storia, seppur piccola, può esser densa di sfumature ed un caso emblematico è proprio quello della vita di Martelli.

Le problematiche emerse nello sviluppo dell’elaborato possono esser riscontrate consultando le fonti utilizzate. Metter insieme di documenti così personali e all’apparenza scollegati ha significato entrare in contatto con dei materiali biografici vivi, che non hanno delle vere e proprie controparti, ovvero: non ci sono dei documenti da confrontare con quanto racconta lo stesso Martelli. Le fonti consultate sono principalmente fonti primarie, arricchite da ricerche realizzate personalmente sui destinatari dei documenti o sui contenuti.

L’augurio da fare per un futuro è che la storiografia possa approfondire maggiormente le biografie di quegli uomini e di quelle donne che hanno apportato notevoli contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, col fine di poter comprendere maggiormente quali sono stati quei valori e quelle speranze che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana e della Costituzione.

NOTE

1 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 10.
2 Martelli conosceva bene il capitano della polizia Luigi Porquier (alias Porchié) perché, come racconta nella Nota autobiografica, era quel ragazzo che aveva percosso nel 1928 durante i corsi premilitari. Dopo le percosse che dette a Porchié, venne mandato al commando di polizia (all’epoca in via Cairoli), dove successivamente venne sottoposto a un interrogatorio e radunato con altri in via Ippolito Nievo. Dopo i rituali di circostanza, venne invitato ad uscire ed espulso per indegnità. Per fortuna, Porchié non lo riconosce durante la terza cattura di Martelli.
3 Allo stesso modo, Martelli conosce anche il brigadiere Marchesi perché è sempre stato presente ai suoi interrogatori, ma lo definisce comunque come una brava persona. L’impressione di Martelli sul brigadiere Marchesi viene descritta anche nel testo: Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 354.
4 Fortunato Garzelli (1902-1944): nasce in una famiglia proletaria e si trasferisce a Livorno perché lavora come aiuto macchinista presso le Ferrovie dello Stato. Aderisce al Partito Comunista e nel 1933 subisce i primi fermi, arresti e perquisizioni. Nel 1941 costituisce il primo Fronte nazionale antifascista ed è membro della Concentrazione antifascista, poi diventato CLN di Livorno. Muore a pochi giorni dalla liberazione di Livorno mentre guida una pattuglia partigiana nei pressi di Quercianella (una frazione di Livorno), in uno scontro a fuoco avvenuto con i tedeschi il 15 luglio del 1944.
Oberdan Chiesa (1911-1944): nasce in una famiglia liberale e aderisce al Partito Comunista. Ben presto viene schedato dall’OVRA e definito come pericoloso antifascista. Negli anni Trenta, vive per un breve in Francia e partecipa alla Guerra Civile spagnola. Al suo rientro viene nuovamente arrestato e liberato in vista dell’8 settembre. Successivamente prende parte alle formazioni partigiane nell’entroterra livornese, ma viene arrestato il 22 dicembre del 1943 e trasferito al carcere Don Bosco di Pisa. Da quell’arresto non vi farà più ritorno, viene infatti fucilato a Rosignano Solvay (LI) il 29 gennaio 1944. Per un approfondimento sul tema, vedi: Brunetti G., Oberdan Chiesa: un uomo, una vittima, un mito. Pisa: Edizioni ETS, 2022.
5 L’Ardenza è un quartiere periferico situato a sud del comune di Livorno.
6 Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 355.
7 Ivi, p. 357.
8 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
9 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
10 Ibidem.
11 Id, Nota autobiografica riferita al “dopo Liberazione”, marzo 1987, p. 2.
12 Ibidem.
13 Quando viene nominato Presidente del Bacino del Carenaggio, Martelli mostra delle doti manageriali che fino ad allora non era riuscito a sperimentare, contribuendo alla costruzione della Lips (la Società addetta alla progettazione e commercializzazione di eliche e alberi di trasmissione nel campo navale) e della piattaforma Sincrolift (una piattaforma della Darsena Morosini). Lasciò la Presidenza nel 1979, perché a lui successe Nelusco Giachini.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




Monumenti, lapidi, segni e luoghi di memoria della Seconda guerra mondiale e della Resistenza maremmana

La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone
Italo Calvino

 

Nessuno di questi monumenti parla davvero del passato: sono al contrario tutti espressione di una storia che è ancora viva e che, ci piaccia o no, continua a governare le nostre vite
Keith Lowe

 

A ottant’anni dalla Liberazione dei nostri territori dal nazifascismo è utile riflettere sulla memoria della Resistenza, provando a capire quale sia l’impatto di lungo periodo o, meglio, l’eredità della Resistenza ai nostri giorni. Di fatto, perché l’anniversario di quest’anno rappresenti nel discorso pubblico un momento significativo per porre all’attenzione il tema, come lo sono stati gli anniversari “tondi” che ci hanno preceduto, è necessario accompagnare le celebrazioni della Liberazione toscana e, nello specifico maremmana, a una riflessione profonda sul senso del parlare di Resistenza oggi, sui termini in cui farlo e sulle modalità memoriali che hanno caratterizzato questi ottant’anni trascorsi dall’estate del 1944, che vide la conclusione per la provincia di Grosseto dell’esperienza della lotta armata.

Philip Cooke scrive che c’è ancora il bisogno di colmare quello che lui definisce come “il divario fra l’indagine storica e l’analisi culturale”, per indagare quella doppia elica costituita dalla politica italiana e dalla cultura della Resistenza italiana, “due filamenti legati fra loro […] componenti strutturali del DNA dell’Italia contemporanea” che aiutano a comprendere la natura profonda di un paese che sulla memoria della Resistenza è in parte divisa (L’eredità della Resistenza. Storia, culture, politiche dal dopoguerra a oggi, 2015). Senza poter qui approfondire la questione per gli anni più recenti, come il bel volume di Philip Cooke fa, è necessario però almeno partire da questo ragionamento per evidenziare le diverse fasi nella costruzione della memoria della Resistenza che riguardano direttamente l’argomento di questo articolo (ovvero l’immediato dopoguerra, il decennio successivo che potremmo definire della “canonizzazione” del discorso resistenziale e gli anni Sessanta che sono caratterizzati dalla presenza del tema della “Resistenza tricolore”).

Su tale costruzione memoriale agiscono diversi vettori legati alla storia culturale come la letteratura, le arti figurative, il discorso pubblico e la memoria istituzionale (ad esempio, il calendario civile), la comunicazione politica, i testi giornalistici, le culture popolari, il cinema, la televisione, la musica, la rappresentazione fotografica; si tratta di alcuni dei temi a cui sono state maggiormente dedicati studi specifici, a partire soprattutto dagli anni Ottanta. Scarseggia invece, anche per quanto riguarda la provincia di Grosseto, una specifica attenzione al tema dei monumenti e dei segni di memoria dedicati alla Resistenza e questo nonostante il fatto che, se si considera la Resistenza come religione civile dell’Italia repubblicana, proprio i monumenti condensino di fatto riti, simboli e commemorazioni che fanno parte di questa tradizione memoriale.

Sul perché questo avviene Iara Meloni pone, a partire dal caso piacentino (saggio in Piedistallo della storia, a cura di S.Nannini e E. Pierazzoli, Viella 2022), alcune riflessioni molto interessanti a livello generale, a partire dalla considerazione evidente che rispetto al caso delle “memorie di pietra” della Prima guerra mondiale, su cui invece gli studi abbondano, non ci siano stati per la Resistenza miti unificanti, come ad esempio quello della mater dolorosa, e non esista una figura unica come quella del soldato in armi, richiamata dalle diverse forme di monumentalizzazione legate al milite ignoto: esistono invece una moltitudine di protagonisti e, di conseguenza, anche una moltitudine di atteggiamenti, comportamenti, azioni e quindi narrazioni diverse a cui gli studi sulla memoria della lotta di Liberazione dal nazifascismo devono fare riferimento. Altro aspetto da tenere in considerazione è anche la diffidenza, che in quel momento storico si impose con forza, nei confronti di tutta quella serie di retoriche celebrative e di miti patriottici, che erano stati retaggio del bagaglio culturale fascista e che nel dopoguerra invece si volle nettamente evitare, proprio per segnare una cesura con quell’esperienza. In questo senso, Iara Meloni parla di una vera e propria volontà di “smonumentalizzazione”, evidente sia nella modalità di creazione dei diversi segni di memoria, sia nell’assenza di studi specifici su di essi.

In provincia di Grosseto, negli anni, sono stati tentati progetti di mappatura delle “memorie di pietra” del territorio, facendo interagire monumenti, lapidi e segni di memoria con un approfondimento storico che potesse narrare e approfondire le vicende da essi ricordate (si veda, ad esempio, il progetto Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale). Ma al di là di alcuni tentativi portati avanti da diversi soggetti, fra cui l’Isgrec, non c’è stato un tentativo di contestualizzazione di quei monumenti che abbia coinvolto tutto il quadro provinciale, ovvero non si è guardato a quelle tracce del passato resistenziale con uno sguardo d’insieme che ne indagasse genesi e caratteri specifici.

Altro aspetto che caratterizza i primi anni dopo la fine del conflitto è il concentrarsi dell’asse della narrazione memoriale in località periferiche, in luoghi isolati e poco frequentati che però sono i luoghi che vengono riconosciuti significativi per singole comunità o per specifici gruppi sociali o politici. Si struttura in quei primi anni, insomma, un vero e proprio binomio fra evento e luogo, per cui il monumento – e il ricordo – si colloca nel luogo in cui l’evento avviene. Se teniamo presente che la memoria a livello locale della Resistenza è per lo più innervata in singole comunità[1], il ragionamento che ne deriva è che proprio lo spazio comunitario alla fine della guerra diventa una delle modalità principali attraverso cui la storia della Resistenza inizia a farsi discorso pubblico e a essere narrata, con modalità che ovviamente cambiano nel tempo[2].

In questa fase immediatamente successiva alla Liberazione si vedono chiaramente nascere gli archetipi di quella che sarà la successiva rappresentazione della Resistenza.

Lapide in memoria di Giovanni Pastasio

Cippi e monumenti sorgono numerosi nei luoghi di uccisione di partigiani o, in alcuni casi, di vittime del fascismo; nell’immediato dopoguerra, infatti, la precisa volontà di non dimenticare i caduti del periodo squadrista e di tornare a commemorare persone che non si erano potute commemorare fino ad allora porta alla creazione di alcune targhe e monumenti legati alle vicende degli anni Venti[3]. Già il 17 agosto 1945, ad esempio, a Gavorrano viene apposta una lapide che ricorda il luogo e il giorno in cui nel 1921, Giovanni Pastasio, giovane minatore antifascista, fu ucciso durante un’incursione di squadristi di Follonica, mentre a Scarlino viene collocata una targa in ricordo di Gabriello Dani, capolega dei contadini del territorio, ucciso l’11 settembre 1921 da una spedizione fascista.

Di contrasto, nella toponomastica si evidenzia la necessità impellente di una vera e propria epurazione simbolica rispetto a quel retaggio culturale fascista che aveva segnato profondamente le architetture delle città ma anche appunto i nomi delle strade, in particolare in riferimento al periodo squadrista.

In un documento del Comune di Grosseto dell’agosto 1943 (quindi ancora prima dell’inizio della Resistenza) appare evidente come già a seguito del 25 luglio ci si ponesse immediatamente la problematica di cambiare alcuni di questi toponimi (tornando in questo caso a quelli precedenti): ad esempio, a Grosseto si eliminò Piazza Rino Daus, martire del fascismo, squadrista senese della prima ora che aveva partecipato alla cosiddetta “presa di Grosseto” del giugno 1921; nella stessa logica avvenne la trasformazione in Via Piave di Via Ivo Saletti, squadrista che aveva partecipato alla spedizione punitiva su Roccastrada del luglio 1921, colpito poi sulla strada del ritorno o da un’imboscata o per fuoco amico – secondo due ricostruzioni contrapposte difficilmente verificabili –, alla cui morte seguì l’uccisione per rappresaglia da parte dei fascisti di dieci cittadini del paese.

Cippo di Boccheggiano in ricordo dei partigiani Ghiribelli, Malossi e Tompetrini

Se in merito alla memoria dello squadrismo il centenario della marcia su Roma nel 2022 ha avviato una riflessione complessiva, in questo primo tentativo di indagine è difficile pensare di poter anche solo citare, invece, i moltissimi cippi che a partire dal 1945 vengono dedicati ai caduti partigiani, spesso collocati in località davvero impervie e isolate, per cui si rimanda alla mappatura realizzata sul sito ResistenzaToscana creato della Federazione Regionale Toscana delle Associazioni Antifasciste e della Resistenza di cui fanno parte fra le altre ANPI, ANED e FIAP, a partire dal 2003. Fondamentale, però, è soprattutto sottolineare come questi luoghi diventino centrali nelle prime commemorazioni del 25 aprile o in cerimonie che avvengono nella ricorrenza delle date in cui le persone ricordate sono state uccise: i monumenti in questione diventano fin da subito, insomma, luoghi di ricorrente vivificazione rituale del ricordo, incarnando tutta una serie di rituali commemorativi che li hanno tenuti vivi come luoghi di memoria fino ad oggi.

Lapide a Campo al Bizzi (Monterotorndo Marittimo)

Quello che però è soprattutto utile, in quest’ottica, è guardare ad alcuni luoghi che sono centrali nella narrazione “canonica” della Resistenza maremmana, senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo come riflessione di partenza sul tema. Ad esempio, la lapide di campo al Bizzi che ricorda l’Eccidio del Frassine (Monterotondo Marittimo) avvenuto il 16 febbraio 1944: posta sul casale che fu bruciato durante il rastrellamento del gruppo di giovani partigiani, in cui persero la vita Otello Gattoli di Massa Marittima, Silvano Benedici di Volterra, Pio Fidanzi di Prata, Salvatore Mancuso di Catania e Remo Meoni di Montale (Pt), è un esempio lampante di tutte le caratteristiche finora evidenziate perché nonostante il notevole isolamento del luogo la lapide (che oggi è stata spostata dal casale, che sta cadendo a pezzi, e inserita in un monumento scultoreo collocato nelle immediate vicinanze) è tuttora commemorata annualmente alla presenza di moltissime persone che la raggiungono dopo una lunga escursione a piedi organizzata dall’Anpi e dal Comune di Monterotondo Marittimo.

Commemorazione al cippo in memoria del tenente Gino (2021)

Simile per perifericità, anche se più elaborato dal punto di vista stilistico, il monumento commemorativo al Tenente Luigi Canzanelli, noto come “tenente Gino”, caduto insieme al suo attendente, il soldato Giovanni Conti, il 7 maggio 1944, a seguito di un’imboscata tesa da un gruppo di nazifascisti, nei pressi di Murci, frazione di Scansano; in questo caso il ricordo si colloca nell’ambito della Resistenza “con le stellette”, trattandosi di militari che aderiscono alle formazioni partigiane e, in questo caso, le guidano. Interessante è notare come questo monumento, collocato nel luogo dell’imboscata, sia stato restaurato nel 2021 dal Comando dei Carabinieri, un soggetto diverso da quelli che tipicamente agiscono quali vettori di memoria. Del resto, la stessa caserma del Comando provinciale dell’Arma di Grosseto è intitolata proprio a Luigi Canzanelli.

Monumento a Ponte del Ricci

Altro monumento particolarmente precoce in provincia di Grosseto è quello di Ponte del Ricci, nel Comune di Roccastrada. Collocato di fatto a un semplice bivio stradale, lontano dai paesi e isolato, si situa in un luogo che si trovò in prossimità del passaggio del fronte, dove il 17 giugno 1944 persero la vita quattro giovani partigiani della formazione “Gramsci” di Roccastrada, fra cui il comandante del distaccamento dei “Lupi rossi” di Montemassi. La memoria di questo episodio si è modificata nel corso del tempo grazie alla ricostruzione storica: dapprima identificato come una strage di civili, grazie alla ricerca di Cinzia Pieraccini del 2005, è stato riconosciuto come un episodio avvenuto durante un combattimento, legato, quindi, a uno scontro a fuoco tra partigiani e tedeschi in ritirata. Il monumento che oggi è presente, e che ha sostituito un semplice cippo con i nomi dei caduti, è stato realizzato nel 1973 dallo scultore Vittorio Basaglia.

Se lo spontaneismo è spesso all’origine di questi primi luoghi di memoria, con gli anni Cinquanta la monumentalizzazione risente maggiormente del discorso nazionale che si struttura sulla Resistenza.  Nell’Italia del centrismo democristiano e dell’alleanza occidentale la tradizione diviene infatti il serbatoio più rassicurante a cui la politica della memoria può attingere; anche per parlare di Resistenza ci si rifà a nodi narrativi che si legano alla pietas o che si rifanno all’interpretazione della Resistenza come a un secondo Risorgimento e che, quindi, interpretano le figure dei partigiani caduti secondo uno schema narrativo che si richiama alla lettura nazional-patriottica del martirio eroico.

Addirittura, a Grosseto la Chiesa cattolica e in particolare la figura del Vescovo Galeazzi contribuiscono negli anni Cinquanta a sottolineare questo aspetto della pietas cristiana fino al punto di cristallizzare in qualche modo la memoria di una “guerra senza Resistenza”. La costruzione della cripta della Chiesa del Sacro Cuore, infatti, contribuisce a incentrare la narrazione della guerra appena trascorsa sulle vittime civili, ricordando in particolare la “strage delle giostre” del 26 aprile 1943, quando nel corso del primo bombardamento subito da Grosseto, persero la vita 134 cittadini tra cui decine di bambini. [4] La narrazione del bombardamento di Pasquetta si manterrà incardinata al registro della pietas anche successivamente; ritroviamo la stessa impostazione, infatti, anche in monumenti successivi che continuano a fare riferimento a un universo simbolico prettamente religioso.

Cripta della Basilica del Sacro Cuore – Memoriale alle vittime dei bombardamenti (anni Cinquanta)

 

Monumento alle vittime dei bombardamenti di Grosseto (2003)

In merito, invece, al topos della Resistenza come “secondo Risorgimento” va precisato che, sebbene il racconto di taglio patriottico fosse già emerso durante la guerra per narrare la Resistenza come sforzo corale del popolo italiano, si strutturerà soprattutto in seguito in contrasto con la narrazione egemonica da parte comunista. Un’altra delle caratteristiche su cui riflettere nei monumenti della Resistenza del primo dopoguerra e degli anni Cinquanta è, quindi, la tendenza diffusa ad aggiungere (o comunque ad affiancare negli spazi pubblici) i nomi dei caduti del 1940-45 e dei caduti della Resistenza ai monumenti dedicati ai caduti della Prima guerra mondiale.

Memoriale ai caduti di Massa Marittima

In questa logica della Resistenza come secondo Risorgimento, in sostanza, essi vengono in qualche modo inseriti, come evidenzia anche Iara Meloni, in un “patriottico abbraccio cumulativo” (Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita, 2020).

 

Per esemplificare in relazione al contesto grossetano, non si può non citare il memoriale dei Caduti di Massa Marittima, luogo chiuso al pubblico (aperto solo in alcune occasioni), che raccoglie i caduti delle guerre di indipendenza, i caduti della Prima guerra mondiale, i caduti della campagna di Russia e i caduti della Seconda guerra mondiale, fra cui alcuni partigiani.

Monumento ai caduti della Resistenza, cimitero di Sterpeto (Grosseto)

Allo stesso modo, si può fare riferimento alla terminologia impiegata nel monumento ai caduti della Resistenza realizzato nel 1954 nel cimitero di Sterpeto a Grosseto. Nelle lapidi laterali che fanno parte di questo monumento è interessante soffermarsi sul linguaggio, sulla retorica: una delle targhe recita “i partigiani caduti non risposero ad alcun bando, non alzarono bandiera, l’Italia li aveva chiamati per il suo tricolore morirono” (entra qui in gioco il tricolore, come simbolo evocativo del patriottismo), mentre sulla seconda lapide viene richiamato il “sangue versato per la patria”, in uno schema discorsivo chiaramente inserito in questa logica.

Il terzo tema cui si accennava, evidentemente collegato, è quello della memoria pubblica, militare e combattentistica, quasi epica, della Resistenza a cui si lega la figura dell’eroe, commemorato attraverso un vero e proprio “culto del martire”. Questa interpretazione martirologica della Resistenza è evocata nelle poche rappresentazioni figurative di quegli anni in Maremma, di cui un esempio fra tutti è il cippo di Potassa (la cui rappresentazione scultorea è in questo senso autoevidente). Fu dedicato al partigiano Flavio Agresti, Medaglia d’Argento al valor militare con la seguente motivazione: “In un tragico periodo della Patria invasa dal nemico, si faceva organizzatore ed animatore del Fronte Clandestino di Liberazione nel paese di Scarlino. Offertosi spontaneamente per una difficile e rischiosa missione di collegamento, tra un gruppo e l’altro di patrioti, veniva catturato dai reparti tedeschi. Sottoposto a stringente interrogatorio e ad ogni specie di sevizia e di tortura, onde rivelare l’entità dei patrioti e la missione a lui affidata, si rifiutava decisamente.

Monumento in memoria del partigiano Flavio Agresti

Legato, poi, dietro a un barroccino con le braccia incatenate dietro la schiena e trascinato per diversi chilometri, non avendo voluto tradire i compagni, veniva barbaramente finito da una raffica di fucile mitragliatore, chiudendo, così gloriosamente, una vita interamente dedicata alla Patria”.

Il rapporto fra i concetti di “eroe” e “martire”, ma anche lo slittamento semantico da “vittima” a “caduto per la lotta di Liberazione”, del resto, variano anch’essi al variare dell’evoluzione del discorso pubblico sulla Resistenza, quindi in base al contesto storico di riferimento. Ad esempio, la spinta a una narrazione eroica della Resistenza può essere interpretata come una reazione al clima della fine degli anni Quaranta con il fallimento dell’epurazione e l’avviarsi dei primi processi ai partigiani. Si rifugge in questo momento dal rischio di una “memoria debole”, sia attribuendo anche alle vittime delle stragi nazifasciste la qualifica di caduti per la lotta di Liberazione, sia ricorrendo al lemma del martirio e quindi quasi imponendo al lutto un senso a posteriori, determinato dalla scelta di donare la vita per la causa della lotta partigiana. Ci troviamo di fronte a una forma di narrazione estremamente ricorrente, che permane significativamente anche in monumenti di molto successivi.

Monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), Cittadella dello Studente (Grosseto)

Ad esempio, nel monumento ai Martiri dell’antifascismo e della Resistenza (Monumento ai deportati), che pure è del 1985: una composizione architettonica in cemento e metallo, “tempietto moderno”, costituito da linee strutturali orizzontali e verticali, alternate a linee curve, immerso nel verde. Fu progettato da Maria Paola Mugnaini, allora studentessa del Liceo Artistico di Grosseto, in preparazione dell’esame di maturità, con la guida e la collaborazione dell’architetto Pietro Pettini, già docente del Liceo. La Provincia di Grosseto lo realizzò in occasione del quarantesimo Anniversario della Liberazione e fu collocato nella sede attuale, all’interno della Cittadella degli Studi. Si tratta di un monumento completamente astratto, ma al cui interno una targa recita “La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio  – Uno studente fucilato dai nazifascisti il 4 maggio 1944”.

Una riflessione che può essere ampliata grazie agli spunti offerti dallo storico inglese Keith Lowe che, nel 2021, facendo riferimento alle molteplici categorie memoriali di “eroi, martiri, mostri, apocalisse, rinascita”, ha evidenziato che “queste cinque declinazioni della memoria non solo si fanno forza ma si amplificano a vicenda. L’idea dell’Armageddon fornisce il contesto perfetto per l’immaginario condiviso della guerra come scontro titanico intorno all’anima dell’umanità. Gli eroi sono più eroici di fronte al male assoluto contro il quale lottavano; e i mostri sono più mostruosi se ci soffermiamo sull’innocenza dei martiri che hanno torturato. Il fine ultimo è collegare tutte queste immagini, per ottenere la fede in un mondo nuovo, che rinasce dalle ceneri di quello vecchio” (Prigionieri della storia. Che cosa ci insegnano i monumenti della Seconda guerra mondiale sulla memoria di noi stessi, 2021).

Monumento ai martiri d’Istia realizzato dal Comune di Magliano in Toscana a Maiano Lavacchio nel 1964

Un ragionamento estremamente interessante da applicare, in particolare, ai monumenti dedicati ai martiri d’Istia e alle vittime della strage di Niccioleta, su cui ci si soffermerà quindi in conclusione. Nel primo caso, si fa riferimento alla strage fascista avvenuta a Maiano Lavacchio, nel Comune di Magliano in Toscana, il 22 marzo 1944: furono fucilati dai fascisti 11 giovani che avevano rifiutato di arruolarsi nel costituendo esercito della Repubblica sociale italiana, 11 inermi nel sentire popolare, “11 agnelli” nei primissimi canti in ottava rima che diedero forma alla precoce narrazione (strutturata in forme capaci di “passare di bocca in bocca”) di una vicenda che lasciò una cicatrice profondissima nella memoria collettiva grossetana, per la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza, per la crudeltà e la barbarie dei carnefici, per il gesto coraggioso del parroco d’Istia d’Ombrone, don Omero Mugnaini, che sfidò le autorità fasciste opponendosi al divieto di dare sepoltura alle vittime.

Successivamente il discorso pubblico che si stava strutturando intorno alla Resistenza trasformerà gli 11 ragazzi giocoforza in partigiani combattenti, partecipi anche da morti dello sforzo corale del popolo maremmano per la Liberazione della provincia. La ricostruzione storica, avviatasi con la raccolta di materiali e fonti documentarie che l’Isgrec ha portato avanti nel corso di ricerche pluriennali (confluite nel volume di Marco Grilli Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei Martiri d’Istia del 2014), ha dimostrato però che sulla possibile scelta partigiana sono possibili solo congetture, mentre di fatto da testimonianze di familiari e amici emerge con forza la scelta di Resistenza civile e non in armi dei ragazzi. Bisogna quindi contestualizzare quella memoria, ricordando che nel dopoguerra la possibilità di una scelta di forte e netta opposizione non in armi al nazifascismo, come quella forse degli 11 “martiri d’Istia”, è preclusa dall’orizzonte del riconoscimento morale: siamo ancora ben lontani da quell’accettazione di una complessità di esperienze e percorsi impostasi poi anche nel senso comune grazie alla feconda categoria interpretativa di Resistenza civile.

La “chiesina” di Maiano Lavacchio

La memoria degli 11 ragazzi di Maiano Lavacchio è impressa in molti luoghi; a Maiano Lavacchio, è presente un tempietto votivo, conosciuto da tutti come “la chiesina”, fatto costruire dalla famiglia Matteini proprio nel punto in cui i ragazzi furono uccisi. Poco distante, il monumento fatto installare dal Comune di Magliano nel 1964, semplice obelisco sormontato da una lanterna funebre. Al suo fianco è presente anche la Casa della memoria al futuro dell’Isgrec, un “progetto partecipato” da cittadini e Istituzioni che ha trasformato un edificio presente sul luogo della strage in uno spazio culturale per la comunità, un laboratorio dove promuovere e produrre arte, cultura e formazione, attraverso l’aggregazione, la coesione e l’inclusione sociale. Un luogo di memoria dove ospitare studenti e stagisti, pensato per custodire una biblioteca ed essere sede di incontri, che è stato inaugurato il 22 marzo 2023 in occasione della 79° commemorazione ufficiale dei Martiri d’Istia.

La Casa della memoria al futuro a Maiano Lavacchio

Altri monumenti e segni di memoria sono dislocati nei paesi di origine delle vittime, a Grosseto, a Cinigiano, a Istia d’Ombrone, ma anche a Ispica in Sicilia e a Serre in provincia di Salerno, da cui provenivano due dei “martiri”, e sono stati mappati e presentati dalla mostra online realizzata dall’Isgrec nel 2021 (https://martiridistia.weebly.com/). Monumento, nel senso più elevato del termine, è anche la lavagna su cui uno dei due giovanissimi fratelli Matteini, nei momenti precedenti la fucilazione, scrisse un messaggio per la mamma, quello straziante “Mamma, Lele e Corrado un bacio” che è diventato uno dei simboli identitari dell’antifascismo grossetano. Oggi la lavagna è conservata nel Municipio di Grosseto, nell’ufficio del primo cittadino, a ricordo indelebile del valore fondante su cui si basa la Costituzione e la convivenza nella civitas.

La lavagna con l’ultimo saluto alla madre dei fratelli Matteini

Come dimostra il caso di Maiano Lavacchio, quella delle stragi è del resto memoria specifica all’interno della più ampia memoria resistenziale dell’intero territorio provinciale. Una memoria che genera un processo di monumentalizzazione estremamente ampio e diffuso a livello territoriale, già evidente nel caso della strage di Maiano Lavacchio e che si riconferma anche nel caso della strage con il più ampio numero di vittime della provincia di Grosseto, quella del villaggio minerario di Niccioleta del 13-14 giugno 1944:[5] in questo episodio le vittime furono 83 minatori, che provenivano dalla provincia intera ed erano arrivati nel piccolo villaggio minerario, soprattutto dal monte Amiata, in cerca di un lavoro, faticoso e pericoloso, ma che potesse garantire vita e sostentamento per sé e per i propri familiari. L’istituzionalizzazione del ricordo si legò di conseguenza ai diversi momenti di traslazione delle salme nei cimiteri di origine[6], in occasione dei quali furono collocati la maggior parte dei monumenti e delle lapidi più antichi.

Tabernacolo dedicato alle vittime di Niccioleta

 

Lastra in memoria di Aurelio Cappelletti, morto a Niccioleta, collocata a Tatti in occasione della traslazione della salma nel 1945

 

Monumento ai caduti di Niccioleta nel Cimitero di Castellazzara, collocato nel dopoguerra in occasione della traslazione delle salme, s.d. (la stele ai caduti di Niccioleta e di tutte le guerre è invece stata collocata nel 1990)

 

Monumento di Giulio Porcinai in memoria dei martiri dell’eccidio di Niccioleta nel Cimitero comunale di Santa Fiora (1951)

 

Lapide a Massa Marittima

 

Lapide a Massa Marittima

La memoria dell’eccidio vide così declinarsi numerose narrazioni su pietra non soltanto a Niccioleta e Castelnuovo Val di Cecina, luoghi delle uccisioni degli 83 minatori, ma in tutta la provincia, sia in monumenti dedicati sia con l’inserimento delle vittime nelle targhe dedicate ai caduti dai differenti Comuni maremmani di origine.

Si tratta inoltre di una monumentalizzazione che si colloca in varie fasi storiche, modificando le sue caratteristiche nel corso del tempo, e che quindi risulta estremamente utile da considerare in relazione al tipo di analisi che si è tentato qui. Un aspetto che si può mettere in evidenza, ad esempio, è quello relativo agli anni Sessanta quando i monumenti, salvo rare eccezioni, si spostano dal luogo degli eccidi nelle piazze principali dei centri abitati, venendo a occupare uno spazio centrale nella narrazione pubblica, come ad esempio succede a Castelnuovo, dove nel ventennale del 1964 oltre al monumento presente nel vallino della fucilazione, viene costruito il Monumento ai Caduti della Niccioleta nella centrale piazza Matteotti. Nello stesso anno a Massa Marittima il carrarese ex partigiano Nardo Duchi realizza il monumento di Parco di Poggio a Massa Marittima: la collocazione è in questo caso simbolica quanto il monumento stesso, che vede i martiri alzare le mani per proteggere la città presente nel panorama immediatamente sottostante.

Massa Marittima (Parco di Poggio), Monumento ai caduti di Niccioleta, scolpito dall’artista carrarese e ex partigiano Nardo Durchi nel 1964

 

Monumento ai Caduti della Niccioleta – Castelnuovo Val di Cecina, piazza Matteotti (1964)

Lo stesso fenomeno di occupazione dello spazio urbano è evidente nel piccolo villaggio di Niccioleta dove alla targa sulla parete prospiciente il cortile dove avvenne la prima fucilazione di sei minatori si sono aggiunti nel corso degli anni a qualche metro di distanza, ma in posizione chiaramente centrata rispetto allo spazio urbano, il cippo commemorativo del 2004 e la targa con i nomi dei minatori uccisi nel 2005, in un processo che satura il luogo simbolico di memorie sovrapposte collocate durante i diversi anniversari.

Lapide a Niccioleta

 

Cippo a Niccioleta

 

Lapide a Niccioleta

Evidente da quest’ultimo esempio è anche come la monumentalizzazione della strage di Niccioleta, dopo una fase di oblio abbastanza prolungato (scrive Paolo Pezzino che nel dopoguerra «la memoria è stata coltivata nelle zone di origine delle famiglie dei minatori, ma il fatto che questi fossero dispersi nell’Amiata, che poi l’eccidio sia avvenuto in un’altra terra ancora, Castelnuovo Val di Cecina, fa sì che la strage di Niccioleta, come altre in Italia, sia stata ben presto dimenticata») abbia ripreso vigore dalla fine degli anni Novanta, con l’avviarsi delle ricerche storiche che portarono a contestualizzare la vicenda nel fenomeno della ritirata aggressiva dell’esercito tedesco (Paolo Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, 2001).

Lapide posta sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina 2016

Segni di memoria sono comparsi quindi anche recentemente, ad esempio nel 2016 è stata apposta una lapide sul teatro-prigione di Castelnuovo Val di Cecina dove i prigionieri trasferiti da Niccioleta furono imprigionati, mentre dal 2022 Niccioleta è stata accolta nella rete dei Paesaggi della memoria.

Il luogo di memoria specifico relativo alla strage è comunque da sempre rappresentato dal Vallino dei Martiri a Castelnuovo Val di Cecina: qui, in mezzo al rumore assordante dei soffioni boraciferi, avvenne il 14 giugno la fucilazione di 77 minatori e qui inizialmente le salme furono seppellite in fosse senza nome. Sul luogo una semplice croce e un cartello individuarono fin da subito lo spazio simbolico della commemorazione; oggi nel Vallino esiste un museo diffuso, realizzato da Isgrec negli anni Duemila con l’apposizione di pannelli esplicativi.

Il vallino subito dopo la strage

 

Il vallino di Castelnuovo Val di Cecina

 

In seguito, in data imprecisata, ma probabilmente già nel 1945, venne costruito subito a monte un monumento che negli anni ha subito una piccola ma significativa trasformazione (emersa grazie al raffronto con le foto storiche, ma non ancora indagata attraverso le fonti d’archivio): sulla facciata del monumento, alla targa originaria, che era molto evocativa ma non faceva riferimento ai fatti, pare sia stata aggiunta in un secondo momento – imprecisato – una parte iniziale descrittiva dell’episodio (mentre sul retro una seconda lapide ricorda i nomi dei 77 minatori uccisi); quasi che il passare del tempo avesse reso necessario un chiarimento rispetto alla vicenda, non più ritenuta autoevidente per chi incappava nel monumento.

Se per luoghi di memoria intendiamo quei luoghi che «sono percepiti dalle popolazioni che li abitano o li conoscono come espressivi di identità legate al loro vissuto, ai racconti dei loro genitori e nonni» è evidente che la capacità di questi luoghi di dialogare con le comunità di riferimento cambia nel tempo, si perde o semplicemente si trasforma con il passare delle generazioni. I segni di pietra della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, a ottant’anni dai fatti, paiono sempre più necessitare quindi dell’attenzione degli storici e dell’esercizio attivo di memoria da uomini e donne, singolarmente o in gruppo. Solo così pare possibile preservare ciò che questi monumenti e segni di memoria hanno tutti, quell’aspirazione a raccontare «qualcosa di universale per eccellenza: sia l’opposizione alla tirannia, all’ingiustizia o sia la lotta per i diritti e la libertà, per la liberazione della patria» (Massimo Dadà, Paesaggi della memoria. Dai luoghi alla rete, e viceversa, 2018).

Note
[1] Si veda l’esistenza datata ormai al 2017 dei Paesaggi della memoria, rete di musei e luoghi di memoria dell’Antifascismo, della Deportazione, della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della Liberazione in Italia che fa da contraltare all’assenza, fino ad oggi, di un museo a livello nazionale (www.paesaggidellamemoria.it).
[2] Per capire come alla Resistenza del territorio maremmano si è guardato nei diversi momenti storici si possono considerare le diverse opere che al tema si sono approcciate nel contesto locale: ad esempio, I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola del 1956; Visi sporchi coscienze pulite. Storia di un piccolo paese minerario della Toscana di Mauro Tognoni, che è del 1975; il racconto autobiografico di Aristeo Banchi, Si va pel mondo. Il partito comunista dalle origini al 1944 che è del 1993. Si tratta di scritti sulla Resistenza o memorialistici che, se comparati, possono ben darci il senso di come è cambiata questa narrazione.
[3] Sui limiti della memoria e della ricostruzione storica dello squadrismo maremmano si veda Ilaria Cansella, L’avvio dello squadrismo in provincia di Grosseto: il 1921 e i fatti di Roccastrada, in Roberto Bianchi (a cura di), 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, Olschki, 2022.
[4] Cfr. Adolfo Turbanti, Stefano Campagna, Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Effigi, Quaderno Isgrec n. 8, 2021.
[5] Cfr. Katia Taddei, Il massacro dei minatori di Niccioleta. 13-14 giugno 1944, su https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-massacro-dei-minatori-di-niccioleta-13-14-giugno-1944/.
[6] La prima cerimonia avvenne a Massa Marittima alla fine del settembre 1944. Una grande folla seguì gli autocarri che trasportavano i feretri. In quell’occasione, al parco  della Rimembranza parlò a nome dell’intera cittadinanza il socialista Emilio Zannerini.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Rivendicazione di diritti negati

Sono numerose le motivazioni per cui, in epoca contemporanea, si è perpetrata a lungo la posizione subordinata delle donne rispetto agli uomini, che ha comportato la loro esclusione dalla sfera pubblica e ha accentuato la divisione dei sessi a livello lavorativo. In Italia, le cose iniziarono a mutare, soprattutto a livello legislativo, dopo il 1945, nonostante già precedentemente ci fossero stati scioperi e manifestazioni che avevano avuto come protagonista la compagine femminile.

Durante la Seconda guerra mondiale, come già era accaduto nel conflitto precedente, le donne occuparono posizioni lavorative e sociali dalle quali erano state fino a quel momento escluse. Con il crollo del regime fascista e il ritorno definitivo degli uomini dal fronte, si iniziò a riflettere su come accorciare la distanza lavorativa, sociale e culturale che separava donne e uomini. Nonostante non si ripropose l’aggressività che aveva caratterizzato il primo dopoguerra, in un primo momento l’atteggiamento dei sindacati e dei partiti non sembrò mutare rispetto ai primi decenni del secolo: le rivendicazioni riguardanti il diritto al lavoro femminile e la parità salariale sembravano non rientrare nell’agenda politica comunista, molto più interessata ai problemi di disoccupazione operaia maschile.

A livello legislativo furono sicuramente fondamentali il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 (10 febbraio 1946) – che riconosceva anche alle donne il diritto di voto rendendole cittadine a tutti gli effetti – e l’approvazione della legge n. 860 del 26 agosto 1950, sulla «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri», proposta da Teresa Noce (Pci) e sostenuta da Maria Federici (Dc).

Per quanto riguarda l’attività dei sindacati e delle organizzazioni femministe e democratiche, un momento di svolta fu rappresentato dalla Conferenza Nazionale della donna lavoratrice (Firenze, 23-24 gennaio 1954) patrocinata dalla Cgil e di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. In tale occasione si affrontarono le questioni considerate più urgenti e che la Costituzione italiana avrebbe dovuto garantire: il raggiungimento della parità salariale; il diritto al lavoro; la tutela della salute e della maternità; il rispetto della libertà nei luoghi di lavoro; l’attuazione di una legislazione che difendesse le categorie più sfruttate.

A gettare le basi per la Conferenza furono due distinti momenti nel 1952: il primo risalente all’aprile, quando su «Le nostre lotte» venne pubblicato un resoconto di quanto emerso il 25 marzo durante la riunione a Roma della Commissione Femminile Nazionale della Cgil. In quell’occasione si iniziò a riflettere sull’importanza di un’azione concreta, svolta attraverso riunioni e assemblee, per discutere delle problematiche che interessavano le lavoratrici. Dai momenti di confronto, sarebbero dovute scaturire «proposte, rivendicazioni, richieste concrete e precise che, raccolte in quaderni» sarebbero state studiate e analizzate, rappresentando la base per la loro realizzazione. La C.F. riteneva che per garantirsi l’appoggio dell’opinione pubblica sui diritti delle lavoratrici, fosse fondamentale il contributo dei comitati cittadini, delle organizzazioni sindacali e delle singole personalità che «con iniziative e attività, ciascuna nell’ambito che le è proprio, contribuisca alla liberazione delle lavoratrici dalla schiavitù e dall’oppressione ed al raggiungimento della loro completa emancipazione». Quanto emerso sarebbe poi culminato in una conferenza nazionale.

Il secondo momento in cui si parlò di una possibile conferenza nazionale fu durante il III Congresso Nazionale della Cgil (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952), durante il quale si chiese al sindacato di patrocinare una conferenza di tutte le associazioni e gruppi femminili nazionali, che avrebbe portato all’elaborazione della «Carta dei Diritti» per un miglioramento della situazione non solo lavorativa, ma anche abitativa e sociale delle donne italiane.

I lavori di preparazione dell’evento iniziarono molto presto, intensificandosi a inizio autunno 1953. La Commissione di coordinamento e di direzione spronò il coinvolgimento alla mobilitazione delle lavoratrici iscritte alla Cisl e alla Uil, ma anche di coloro non sindacalizzate. Furono invitate a prendere parte all’iniziativa anche tutte le associazioni interessate ai diritti delle donne, tra cui l’Unione delle donne in Italia (Udi), che aveva organizzato a Roma, tra il 10 e il 12 aprile 1953, il Congresso della Donna Italiana. Nonostante si trattò di un evento distinto da quello patrocinato dalla Cgil, permise di iniziare a parlare di temi che sarebbero stati approfonditi durante la Conferenza fiorentina. La Commissione di coordinamento invitò, inoltre, le segreterie delle Camere Confederali del lavoro e le federazione a organizzare assemblee preparatorie e diede le indicazioni per l’elezione delle delegate che avrebbero presenziato a Firenze, scelte durante le assemblee aziendali o interaziendali.

Durante le assemblee provinciali avrebbero preso la parola le lavoratrici del territorio per portare le testimonianze delle condizioni nelle quali si trovavano, così da creare delle Carte rivendicative, attraverso cui avanzare le proprie richieste. Esse avrebbero dovuto indicare una serie di informazioni: tipo e numero di riunioni realizzate in preparazione della Conferenza provinciale e di quella nazionale; numero di partecipanti; azioni rivendicative già intraprese ed eventuali risultati raggiunti. La documentazione prodotta sarebbe stata poi raccolta in ‘album’ con anche materiali fotografici: oltre alle immagini che ritraevano le lavoratrici durante lo svolgimento delle assemblee, si chiedeva di inserire anche quelle che potessero testimoniare le loro condizioni di vita e di lavoro.

Molti risultati positivi dati dall’impegno alla preparazione della Conferenza si ebbero anche dalle attività svolte da alcune federazioni di categoria, tra cui la Federmezzadri, che riuscì ad organizzare un’Assise nazionale e che nella provincia di Firenze promosse la «Giornata della ragazza mezzadra», per dare rilievo anche alle condizioni in cui si trovavano le più giovani.

Per quel che riguarda l’organizzazione della Conferenza, in un primo momento Renato Bitossi sperò che la manifestazione si potesse svolgere al Teatro della Pergola, in quanto sede adatta ad accogliere le numerose persone in arrivo da tutta Italia, ma Eugenio Saccenti, a causa della programmazione del Teatro, non riuscì a soddisfare tale richiesta. Gli organizzatori decisero così di svolgere la prima giornata all’interno dei locali del Parterre, dove sorgeva anche il Palazzo delle Esposizioni, in Piazza della Libertà, mentre il discorso conclusivo di Giuseppe Di Vittorio – segretario generale della Cgil – del 24 gennaio si tenne al Teatro Apollo (già Cinema Rex e oggi Mercure Hotel).

La Conferenza si aprì con i saluti di Elsa Massai – responsabile della C.F. della Camera Confederale del Lavoro di Firenze – che sottolineò come «la emancipazione della donna, il rispetto e le affermazioni dei diritti delle lavoratrici sono elementi indispensabili per l’avvento di quella società giusta, civile, progredita, per cui oggi ci battiamo». Dopo di lei, Fernando Santi dichiarò che la Conferenza non era importante solo per le donne italiane, ma anche per il mondo del lavoro nella sua globalità. Egli evidenziò il carattere unitario e democratico della Conferenza, poiché a presenziare erano delegate di provenienza diversa con lo scopo di lottare per cancellare l’inuguaglianza e per realizzare la giustizia sociale. A portare i loro saluti ci furono inoltre le operaie licenziate dalla Magona di Piombino, che, attraverso i lavori della Conferenza, speravano di riappropriarsi del diritto al lavoro del quale erano state private.

Durante la prima giornata dell’evento, presero la parola anche esponenti arrivate dall’estero, a prova del fatto che la manifestazione fiorentina aveva l’attenzione internazionale. Mary Wolfard, a nome della Federazione sindacale mondiale, riconobbe nella lotta delle lavoratrici italiane quella di «tutte le donne di tutti i Paesi capitalistici e coloniali ed anche quella della Federazione Sindacale Mondiale». Allo stesso modo, Germaine Guillé – delegata della Confederazione Generale del Lavoro Francese – sottolineò come a muovere le lotte delle donne italiane e francesi ci fossero dei motivi e delle esperienze comuni.

Uno dei temi più dibattuti riguardò la parità salariale. Nella sua relazione, Rina Picolato – al vertice della Commissione Femminile Nazionale – sottolineò che l’accorciamento delle distanze tra la retribuzione maschile e quella femminile rappresentava un miglioramento per tutti e non solo per le donne, dal momento che «le basse retribuzioni del lavoro femminile sono spesso sfruttate come elemento di freno al miglioramento delle stesse retribuzioni maschili, al progredire di tutto lo schieramento del lavoro verso un migliore tenore di vita». Direttamente collegato alla questione economica, vi erano anche lo sfruttamento massiccio e i soprusi padronali ai quali venivano sottoposte le lavoratrici, di cui parlò nel suo intervento Gina Casetti – segretaria della C.I. della Pirelli di Torino.

Queste, insieme ad altre questioni portate in auge dagli interventi delle relatrici, sarebbero state affrontate ulteriormente attraverso un’inchiesta popolare – promossa durante la Conferenza – all’interno dei luoghi di lavoro. A intervenire e a portare la loro testimonianza furono operaie, braccianti agricole, impiegate, professoresse, delegate di associazioni di categoria e delle Camere del Lavoro provenienti da tutta la Penisola, a dimostrazione del fatto che la manifestazione fiorentina riuscì ad avere una larga risonanza nazionale. Gli interventi diedero prova delle situazioni difficili condivise da gran parte delle lavoratrici, anche se appartenenti a luoghi e contesti diversi.

Attraverso il discorso di chiusura, Giuseppe Di Vittorio evidenziò come le donne avessero acquisito, anche grazie al lavoro di preparazione della Conferenza, «una chiara coscienza che l’inferiorità cui le condanna la società, lo sfruttamento supplementare cui le sottopongono i signori agrari ed industriali, non sono cose inevitabili come si è voluto far credere e come qualcuno tenta di far credere ancora oggi». Egli denunciò il fatto che nonostante la Costituzione democratica italiana sancisse i principi di uguaglianza civile, economica e morale della donna rispetto all’uomo, ancora troppo spesso essi non venivano applicati: non solo a livello di remunerazione economica, ma anche per quel che riguardava la garanzia di igiene, sicurezza e protezione della lavoratrice. Per combattere contro le condizioni nelle quali si trovavano moltissime lavoratrici e per concretizzare le iniziative promosse dalla Conferenza, era necessario che le commissioni femminili sindacali si unissero alle altre organizzazioni democratiche che avevano a cuore queste questioni.

Alla luce delle carte rivendicative compilate durante le assemblee preparatorie e di quanto emerso durante la manifestazione fiorentina, venne emanata la Carta dei diritti della lavoratrice. Attraverso di essa, si chiedeva che «i principi sanciti dalla Costituzione – conquistata anche per il generoso contributo delle donne alle Lotte di Liberazione Nazionale – siano tradotti in operante realtà», tra questi il diritto al lavoro e l’accesso a tutte le carriere e professioni; retribuzione uguale per uguale lavoro; la protezione per la salute; la tutela per la maternità; il rispetto dei contratti di lavoro; il rispetto della personalità umana e delle libertà anche all’interno delle aziende. Con la Carta vennero inoltre promosse «La settimana dei diritti delle lavoratrici» (1°-8 marzo) e la già citata inchiesta popolare sulla situazione all’interno dei luoghi di lavoro.

La Conferenza ha rappresentato dunque un momento fondamentale di riflessione, aprendo un dialogo e un confronto a livello nazionale: nonostante fu necessario qualche anno per raggiungere risultati importanti, si ambiva a una «Patria democratica e indipendente, giusta e umana, per tutti i suoi figli».

Queste e altre questioni saranno i temi principali della mostra in occasione del 70° anniversario della Conferenza, che verrà inaugurata nella prima settimana di marzo 2024 presso il Complesso monumentale delle Murate di Firenze. Promossa dalla Cgil nazionale e Toscana e dallo SPI nazionale e toscano, in collaborazione con la Fondazione Valore Lavoro e l’Archivio storico nazionale della CGIL, e patrocinata dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana, sarà un’occasione per riflettere su quanta strada si è fatta finora e quanta ne resta da fare per il raggiungimento della piena parità tra donne e uomini.

Martina Lopa si è laureata in Scienzie Storiche all’Università degli Studi di Firenze, con una tesi sul ruolo avuto dalle donne nelle prime associazioni per la protezione degli animali, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.

Articolo pubblicato nel gennaio 2024.




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.




Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.



I Comitati di Liberazione Nazionale in Valdinievole

La Valdinievole, come tutta l’Italia intera fra il 1943 e il 1945 subì il passaggio della guerra. I mesi più duri dell’occupazione tedesca; le stragi di civili da parte delle truppe tedesche in ritirata a cui in parte parteciparono vecchi e nuovi fascisti italiani; la nascita e l’ingrossamento del variegato movimento partigiano; il contributo di quest’ultimo alla liberazione della zona insieme alle forze alleate; la nuova occupazione, stavolta anglo-americana, del territorio liberato con l’appoggio dei Comitati di Liberazione Nazionale. Ultimo per ordine di tempo, il tentativo ed i primi passi verso il ritorno ad uno stato di pace e di giustizia che per volontà fu ovviamente diverso dal Ventennio, in alcuni aspetti si fecero invece sentire le continuità con i periodi liberale e fascista ed in altri fu completamente nuovo, frutto della rivoluzionaria Assemblea Costituente. L’elezione di quest’ultima coincise con la fine in tutta l’Italia dell’esperienza ciellenistica. Ma cosa furono in realtà i C.L.N. e come operarono nel delicato periodo della transizione tra guerra (anche civile) e nuova pace man mano che i territori venivano liberati?

La situazione per i civili durante tutto il 1944 in Toscana ed in particolar modo lungo il corso dell’Arno, su cui la linea di battaglia tra Alleati e tedeschi si assesterà per tutta l’estate del 1944, è particolarmente precaria. Le stragi che insanguinano la Toscana in quell’estate testimoniano tanto il tentativo delle forze di occupazione italo-tedesche di eliminare qualsiasi tentativo di resistenza tanto quanto nei fatti colpiscono la popolazione indifesa davanti alla guerra in casa: la Strage del Padule di Fucecchio ne rappresenta l’apice in Valdinievole. É in questo momento delicatissimo che iniziano a lavorare i CLN; spesso già operanti in clandestinità, quindi quando il territorio è ancora sotto occupazione, nel momento della liberazione delle varie località i CLN devono riorganizzare la vita delle comunità partendo dai bisogni primari, come nel caso del Comitato di Alimentazione a Chiesina Uzzanese[1]. Formati ufficialmente da due rappresentanti dei cinque partiti antifascisti riconosciuti, PCI, PSI, Pd’A, DC, PLI, i Comitati in questi difficili mesi avevano il compito di assicurare la distribuzione del cibo ai cittadini che non vi avevano accesso. Nei primi momenti a seguito della liberazione come avviene nel caso di Pescia, attraverso l’uso dei gappisti che non scelsero di seguire la liberazione nelle zone montane, il CLN mantenne il controllo dell’ordine pubblico. Non soltanto, il CLN di Pescia, non appena la città è liberata dai tedeschi, convoca i produttori agricoli della zona per convincerli a completare la trebbiatura e a conferire il grano all’ammasso del popolo perché, causa ruberie, rappresaglie e distruzioni di strade, la popolazione è ormai quasi un mese che non riceve il pane. A Pescia, per ripristinare l’uso dell’acquedotto e della circolazione lungo le strade il CLN sperimenta una pratica innovativa: vengono avviati al lavoro forzato i fascisti repubblicani, i vecchi fascisti e i collaborazionisti dei tedeschi, considerati i maggiori responsabili delle attuali rovine. Di questi, solo i non abbienti furono retribuiti per questo lavoro[2]. Il CLN di Pescia, che insieme a quello di Montecatini rappresentò l’ente guida per tutti gli altri CLN comunali della Valdinievole, convocò per il 21 settembre 1944 una riunione dei sindaci di tutti i comuni valdinievolini. Nell’occasione i CLN dei comuni minori, possono portare alla luce i problemi del loro territorio, trovando intorno ai temi dell’approvvigionamento, della sistemazione dei ponti sui fiumi, la viabilità e le finanze, proposte di soluzioni interessanti. Contemporaneamente il CLN pesciatino nomina una commissione di tecnici incaricata di ripristinare, anche se inizialmente per qualche ora al giorno, la corrente elettrica. L’inverno è alle porte e con la diminuzione delle ore di sole, l’elettricità diventa un bene quasi primario per le abitazioni civili; non soltanto per le abitazioni, l’elettricità è necessaria alla tramvia che collega Pescia con Lucca e fino a poco tempo prima anche con Monsummano. Ormai esautorati di tutti i loro poteri, nel giugno del 1946 i CLN cessano di esistere.

Questa forma di autogoverno nato dalla volontà delle persone di tornare a guidarsi dopo vent’anni di dittatura e due di guerra civile, avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto nella nuova Italia repubblicana? É su questo tema e sull’intera vicenda ciellenistica, intesa come fattiva collaborazione tra ideologie contrastanti, basti pensare al PCI e alla DC, che può ancora oggi essere utile interrogarsi.

[1] Della Relazione morale ed economica ne troviamo copie originali all’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), all’ Archivio di Stato di Pistoia (ASPt), Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, b. 7, fasc. 9 e alla Sezione di Pescia dell’Archivio di Stato di Pistoia (SASPe), Comune di Pescia postunitario, n. 482, anno 1945, cat. XV, cl. 1, fasc. 6

[2] Verbale dell’adunanza del 12/9/1944 in ASPt, Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, n. 9 , fasc. Verbali delle riunioni del CLN di Pescia

Simone Fanucci ha conseguito la laurea in storia contemporanea presso l’Università degli studi di Pisa, ed è attualmente docente in un istituto secondario di secondo grado della provincia di Pistoia.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Shangai dal secondo dopoguerra ad oggi

Shangai, nonostante le sue origini, e forse proprio per via di esse, era un quartiere caratterizzato da una forte solidarietà e da un grande senso di appartenenza dei suoi abitanti, fin dai primissimi anni. [1]

In particolare, a partire dagli anni ’70, una marcata coesione sociale ha caratterizzato la sua storia. Le ragioni di questo sono da ricercarsi nelle attività svolte dalla sezione del PCI della zona, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, dal parroco locale, Don Biondi: si tratta di realtà che erano riuscite a promuovere attività culturali e ricreative, anche di stampo politico, incentivando cooperazione, una buona convivenza e un senso di comunità tra gli abitanti del quartiere. [2]

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Una delle esperienze che ha fatto vivere a Shangai uno dei suoi periodi più positivi è stata la creazione del “Punto incontro donna”, voluto dalle donne di quartiere, su proposta della sezione locale del Pci, per avere un luogo dove ritrovarsi. [3] Dalla sua nascita, nel 1985, il quartiere tutto è stato altamente coinvolto in numerosissime iniziative come rassegne teatrali, concerti, corsi di cucito, sfilate di quartiere, feste di carnevale, mercatini, gite di gruppo e molto altro. Nel video prodotto dall’ISTORECO di Livorno[4], in collaborazione con le Scuole Fermi di Shanghai, nel 2020, sono state raccolte le testimonianze di abitanti del luogo che hanno vissuto e gestito in prima persona queste attività. Anche le foto donate da Luana di Dio, anima del “Punto incontro donna”, raccontano una vita di quartiere vivace e culturalmente attiva. Anche nelle due interviste rilasciate, tra il 2020 e il 2022, alla prof.ssa Catia Sonetti, Direttrice dell’ISTORECO di Livorno, Luana di Dio e Manuela Alfaroli hanno rievocato proprio questa storia. A giugno 2022 l’ISTORECO ha organizzato, insieme all’ARCI di Livorno, un’iniziativa molto toccante, in cui sono state esposte diverse fotografie delle varie iniziative portate avanti dal Punto Incontro Donna, e durante cui hanno preso la parola alcune delle donne che sono state, tra il 1985 e il 2017, coinvolte personalmente nella gestione di tali attività. La passione e l’impegno che queste hanno investito per portare avanti idee di cooperazione sociale e solidarietà in un quartiere tra i più poveri di Livorno erano tangibili nei loro ricordi e nelle loro parole. E’ stato molto interessante anche il collegamento online con la scrittrice Claire Hunter, dalla Scozia, che ha illustrato i molti punti in comune tra alcune delle storie raccontate nel suo libro “I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago” (2020, Bollati Boringhieri) in cui riflette sulla straordinaria importanza del cucito e della sua diffusione e trasversalità a livello sociale, in tutto il mondo e in tutte le culture.

Purtroppo la chiusura del centro donna, avvenuta nel 2017, ha provocato una regressione sociale del rione. I molti, ripetuti, tentativi da parte dell’amministrazione comunale di integrare Shangai col resto della città tramite progetti rigenerativi[5], Bandi ministeriali[6], demolizioni di alcuni dei vecchi blocchi e ricostruzioni di nuovi appartamenti e scuole pubbliche (progetto ancora in corso)[7] si sono rivelati poco risolutivi sia a breve che a lungo termine. Oggi infatti, con la mancanza di associazioni ed altre realtà di quartiere come quelle che hanno operato a Shangai tra il 1970 e il 2017, gli investimenti comunali e i tentativi di de-ghettizzare il quartiere e di reintegrazione dello stesso con il resto della città sono riusciti a raggiungere solo scarsi risultati perché il rione ha via via perso quella coesione sociale interna che lo ha sempre caratterizzato, tramutandosi in parte in una zona di spaccio di droga e di marcato degrado sociale. [8]

Conclusioni

La storia di Shangai dalla sua nascita ad oggi, la traiettoria che ha percorso il quartiere, rispecchia molto bene quanto espresso da David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (2015): si tratta di una delle molte storie di periferie ai margini sociali e geografici delle città italiane, nate, osservate e rappresentate attraverso uno sguardo “esterno”, come un luogo in totale antitesi alla raffinatezza, la ricchezza, la bellezza che invece rappresenta il centro cittadino. E’ interessante vedere come, grazie ad attività, progetti, associazionismo proattivo come quello del “Punto incontro donna” per esempio, si possa quantomeno tentare di ribaltare lo sguardo da cui si osserva il quartiere, insieme alle sue sorti. Anche le immagini che raccontano da dentro quella che era la vita di Shangai e degli “shangaini” in quegli anni sembrano narrare una storia diversa da quella classica di quartiere periferico, popolare, povero e ghettizzato. Esse infatti mostrano storie di persone che partecipavano attivamente alla vita del proprio rione, che contribuivano per quello che era loro possibile al senso di comunità e di sostegno reciproco. Il “Punto Incontro Donna”, così come altre realtà del secondo dopoguerra, volute e dirette dagli abitanti stessi del rione, sono riusciti a creare una vera e propria comunità, a dare vita, a livello culturale e sociale, a uno dei quartieri più popolari e poveri della città.

 La prima parte dell’articolo.

nota:

[1] Susini M., Shangai…,cit., p.23.

[2] Susini M., Shangai…,cit., pp.25-79.

[3] https://iltirreno.gelocal.it/livorno/foto-e-video/2015/03/06/fotogalleria/il-punto-incontro-donna-dishangai- compie-30-anni-1.10992853

[4] Video prodotto da ISTORECO, intitolato “Shangai. Storie e memorie di quartiere” all’interno del progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[5] https://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/CdQ%20II%20estratto.pdf

[6] Vedi progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[7] Vedi progetto di riqualificazione anche dei poli scolastici di Shangai https://2017.gonews.it/2015/01/17/quartiere-shangay-inaugurata-la-nuova-scuola-materna-in-via-stenone/

[8] Vedi progetto ISTORECO Livorno “Storie e memorie di Shangai” in

https://www.facebook.com/istitutostorico.livorno/videos/3641411932582974




Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.