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La memoria dei bombardamenti nella città di Livorno

Uno degli aspetti che emerge con maggior forza dalle memorie delle persone comuni riguardo la Seconda guerra mondiale è sicuramente il ricordo delle distruzioni provocate dalle incursioni aeree. Tale memoria tuttavia, per molto tempo non ha trovato del tutto spazio nella narrazione del conflitto e in quella della Liberazione, dal momento che le truppe alleate hanno dato un decisivo contributo alla sconfitta degli occupanti nazifascisti. Sebbene questo contributo sia innegabile, la conduzione da parte del comando alleato della campagna italiana è stata militarmente dura: l’avanzata delle truppe era preceduta da bombardamenti massicci che avevano lo scopo di colpire obiettivi strategici e di fiaccare l’animo della popolazione. Il bombardamento a tappeto di gran parte del territorio italiano messo in atto dalle fortezze volanti faceva parte pertanto della strategia bellica degli alleati.

In questa strategia rientrava anche l’attacco a Livorno che, a partire dalla primavera del 1943, divenne obiettivo di primissimo piano della guerra aerea grazie alla presenza di alcune infrastrutture fondamentali: il porto, il cantiere navale, la Motofides, l’Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili (ANIC). Il danneggiamento di tali strutture industriali risultava fondamentale sia per compromettere la capacità bellica dell’Italia, sia (dopo la caduta del fascismo) per evitare che potesse servire alle forze armate tedesche presenti sul territorio italiano. I bombardamenti su Livorno furono complessivamente 56 e si collocano tra giugno 1940 e luglio 1944. Cominciarono da parte dell’aviazione francese subito a ridosso dell’entrata in guerra dell’Italia anche se i danni provocati da tali attacchi furono molto limitati e non particolarmente presenti nella memoria di chi li ha subiti. Il primo attacco avvenne il 16 giugno del 1940 e provocò danni nel quartiere Venezia, in Piazza Grande e in Piazza Magenta; il secondo del 22 giugno dello stesso anno colpì abbastanza gravemente l’albergo Palazzo e i Bagni Pancaldi; il terzo del 9 febbraio 1941 riguardò la zona dell’ANIC nella periferia nord della città.

Un rifugio sugli Scali D'Azeglio bombardato (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

Il rifugio sugli Scali D’Azeglio bombardato (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

L’incursione che è rimasta fortemente impressa nella memoria collettiva della città è però quella del 28 maggio del 1943 ad opera dell’aviazione americana. Secondo quanto scritto dal generale del corpo d’armata, comandante generale della protezione civile antiaerea (UNPA), alle 11.30 di quella mattina (per pochi minuti) e alle 12.15 (per la durata di un quarto d’ora) circa 60 aerei dell’aviazione americana si abbatterono sulla città e l’intera zona portuale provocando ingenti danni a stabilimenti e attrezzature militari. Secondo le stime prefettizie le bombe sganciate in due ondate successive, a distanza di 30 minuti una dall’altra, corrispondevano a 180 tonnellate: i morti accertati furono 225 (tra cui 13 militari) destinati però a salire dopo poche ore a 280 a causa dei decessi avvenuti in ospedale, i feriti 232. Ma tutta la città venne duramente colpita: vennero completamente distrutti 200 edifici, come anche la Centrale telefonica e il Palazzo del governo.

Dalle testimonianze di molti anziani emerge il ricordo drammatico di quel giorno perché fu il primo bombardamento che coinvolse completamente tutta la città. Per la prima volta la popolazione si è sentita veramente in pericolo, oggetto della guerra totale. Così ricorda il farmacista Aleardo Lattes, esponente di primo piano della borghesia ebraica livornese, in una pagina delle sue Memorie inedite, conservate presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno:

“Il 28 maggio 1943 alle ore 11,30 la sirena di allarme suonò lugubre. Il popolo, ormai abituato ai falsi allarmi, ripetutisi da circa tre anni, passeggiava per le strade non curante quando, dopo pochi minuti, una prima ondata di bombardieri pesanti sganciò alla periferia della città, e principalmente sullo stabilimento Anic, produttore della benzina sintetica, un centinaio di bombe incendiarie seminando ovunque rovina e distruzione.

Ugo ed io, venne anche Emma, eravamo in farmacia. Era con noi anche qualche passante ritardatario   che non aveva fatto in tempo a raggiungere il rifugio di Piazza Cavour, tanto la carica delle bombe fu fulminea. Dal segnale di allarme alla caduta della prima bomba passarono tre minuti esatti. Le muraglie della farmacia ed il rendi resto, collocato sul banco centrale, tremavano come se un violento terremoto ne scuotesse le fondamenta.

Alle 11,45 il bombardamento cessò, o meglio ebbe una sosta. Cautamente uscimmo fuori per constatare il tragico effetto del bombardamento. Una nuvola immensa di fumo nero copriva l’orizzonte. Erano saltati in aria i depositi della benzina sintetica che bruciavano spandendo per l’aria un calore acre e soffocante che rendeva soffocante la respirazione. Le persone uscite, come noi dai rifugi, (poiché non era ancora segnalato il pericolo) si guardavano muti come per dire: E’già finita? E già la popolazione riprese a circolare per le strade quando, alle 12,30 una seconda ondata di bombardieri proveniente dal mare investì la città rovesciandovi un numero imprecisato di bombe di grosso calibro che, a giudicare dagli effetti disastrosi prodotti, doveva essere di circa un centinaio. Fu uno di quei bombardamenti cosiddetti a catena di una violenza tale da far rimanere annichiliti muti e rattrappiti sotto la volta reale della farmacia stretti gli uni agli altri, come se si attendesse da un momento all’altro che una bomba cadesse su di noi, tanto si avvicinavano al centro della città con fragore sempre più assordante. […] Una bomba cadde sugli scali d’Azeglio, al centro della strada proprio sopra un rifugio dove si trovavano una cinquantina di persone. Fu un vero macello, sulla via si aprì una voragine dove un mucchio informe di agonizzanti si dibattevano nel dolore. La violenza delle schegge e lo spostamento di aria aveva fatto crollare, come se fosse di carta, il terzo e il secondo piano dello stabile n.9.

Sebbene da parte dell’autorità podestarile e della Prefettura vennero messe in atto azioni per riportare la vita cittadina ad un livello di relativa normalità, i problemi abitativi, di gestione dei rifugi antiaerei (che si erano rivelati del tutto inefficaci di fronte al pericolo reale), quelli di approvvigionamento di acqua e di materie prime contribuirono a diffondere in città la sensazione di un crollo immanente e di una incapacità da parte delle autorità preposte di assicurare una vera protezione alla popolazione.

In questa situazione già notevolmente compromessa il 28 giugno avvenne un secondo bombardamento che risultò ancora più devastante del primo: in appena nove minuti la città venne sorvolata da 97 fortezze volanti che sganciarono circa 237 tonnellate di  bombe da 500, 1000 e 2000 libbre provocando 209 vittime (tra cui 29 militari italiani e 3 tedeschi), la distruzione di 180 edifici, fra cui gli stabilimenti Moto Fides, Vetreria italiana ed altre industrie, la stazione ferroviaria, il mercato centrale, i cimiteri, i rifugi di recente costruzione nelle vie Galilei, Mastacchi e Garibaldi. Le conseguenze dell’incursione sono descritte, con parole drammatiche, dal prefetto della città accompagnato dal podestà e dal generale dei carabinieri Carlino, nella sua prima ricognizione

Il duomo di Livorno distrutto dai bombardamenti (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

Il duomo di Livorno distrutto dai bombardamenti (Fondo fotografico Sandonnini: Istoreco, Livorno)

 “da una rapida visita eseguita in città si poté avere la percezione esatta della potenza del bombardamento nemico e dei gravi danni provocati al centro cittadino, agli stabilimenti della zona industriale e alla stazione ferroviaria (…) si ebbe anche purtroppo notizia che quattro ricoveri pubblici (…) erano stati colpiti in pieno da bombe e che la quasi totalità dei rifugiati erano rimasti o morti o feriti. Qui l’opera di soccorso fu lunga e assai faticosa perché feriti, corpi umani e brandelli di carne si trovavano frammisti a grossi blocchi di calcestruzzo provenienti dal crollo dei ricoveri e per la cui rimozione occorsero argani e lunghe ore di febbrile lavoro. Qualche ora più tardi, alle squadre di pronto intervento si aggiunsero altre squadre di operai da Rosignano e da Pisa e alcune centinaia di soldati e decine di automezzi messi a disposizione dall’Autorità portuale”.

Proprio il crollo dei rifugi antiaerei che fu la causa del gran numero di vittime rafforzò nella popolazione il convincimento della loro inutilità e dell’assenza di ogni protezione. In città non si poteva più panificare, i negozi erano chiusi, le vettovaglie erano portate in autocarro da Firenze, l’acqua arrivava da Pisa con le motocisterne. La città non era più vivibile e moltissimi furono gli sfollati nelle campagne circostanti la città. Il 25 luglio 1943, in concomitanza con la caduta del regime, Livorno subì un terzo bombardamento in piena notte alle 0,15: morirono 43 civili nell’Istituto Maddalena (41 bambini e 2 suore) e vennero colpite numerose fabbriche alla periferia della città. Le incursioni aeree si susseguirono ancora a settembre e dicembre del ’43 e proseguirono nella primavera del ’44 fino alla liberazione della città avvenuta il 19 luglio dello stesso anno.

La memoria del conflitto si presenta pertanto a Livorno soprattutto come memoria della “morte che viene dal cielo”. Per la maggior parte della popolazione locale il periodo tra il ’43 e il ’44 è associato ad un profondo senso di precarietà e di smarrimento che solo lentamente, con la ricostruzione della città e del tessuto sociale al suo interno, verrà superato. Il ricordo però di queste esperienze emerge con prepotenza anche a decenni di distanza nei racconti di chi ha vissuto quei terribili giorni.




Storia di una memoria. Il settantacinquesimo anniversario dell’Eccidio del Montemaggio.

75 anni fa, il 28 marzo 1944, un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana di stanza a Siena, comandata da Renato Billi e Alessandro Rinaldi, attaccò un gruppo di partigiani a casa Giubileo (nel Comune di Monteriggioni) uccidendone uno in combattimento e fucilando, poco dopo, diciotto prigionieri; dell’episodio ci fu un unico superstite, Vittorio Meoni, che riuscì a salvarsi in modo rocambolesco.

Proprio Meoni, venuto a mancare lo scorso anno, in questo lungo periodo, è stato il testimone ma anche il custode di una memoria divenuta esemplare[1] fin dall’azione che la generò.

In particolar modo la fucilazione dei prigionieri (a parte quella del partigiano Giovanni Galli, rimasto ferito durante il conflitto a fuoco e finito sul posto dai fascisti che non tentarono in nessun modo di prestare soccorso) si rivelò un atto calcolato e pianificato a sangue freddo. Una serie di indizi, che vennero ampiamente valutati durante il processo, celebrato tra il 1947 ed il 1949, denunciò in modo inequivocabile la premeditazione dell’Eccidio. Innazitutto il lasso temporale: i partigiani vennero catturati intorno alle otto del mattino; la fucilazione avvenne alle quattordici; ci fu quindi tutto il tempo di prendere ordini dal Prefetto di Siena, Giorgio Alberto Chiurco (difficilmente l’esecuzione sarebbe avvenuta senza il suo benestare), ma anche di predisporre un eventuale trasferimento dei prigionieri in carcere in attesa di processo.

Altro ancora: l’accuratezza della scelta del luogo. Casa Giubileo venne scartata subito, lo stesso si verificò per la località di Campo ai Meli. Il motivo fu probabilmente la presenza di testimoni: entrambi questi luoghi, case coloniche, erano abitati e passare per le armi anche due intere famiglie di civili fu, probabilmente, valutato inopportuno. La scelta cadde pertanto su La Porcareccia, una radura isolata sulla strada che risaliva da est il Montemaggio partendo da Abbadia Isola.

Racconta Vittorio Meoni che, all’arrivo delle vittime, la piazzola con la mitragliatrice e un drappello di militari erano già stati predisposti: il successivo ordine di sedersi e di togliersi le scarpe non lasciò adito a dubbi[2].

Dopo la fucilazione i cadaveri vennero lasciati sul posto per più di un giorno (furono raccolti soltanto la mattina del 30) e il prefetto di Siena rifiutò il permesso, richiesto dalle famiglie per mezzo della mediazione di un sacerdote, di riesumare i corpi dalla fossa comune dove erano stati frettolosamente seppelliti. Soltanto cinque giorni dopo si procedette alla riesumazione, al riconoscimento e alla traslazione delle salme nel camposanto di Castellina Scalo[3].

Immediatamente dopo la tragedia iniziò a strutturarsi la memoria dell’evento.

IMG_1271La notizia divenne di pubblico dominio ma seguì due canali diversi, quello ufficiale delle autorità fasciste le quali, in un primo momento, dichiararono che i partigiani erano morti nel conflitto a fuoco (versione diffusa dai giornali del Regime e più volte cambiata), e quello spontaneo legato alla rete dei familiari e dei conoscenti dei caduti; quest’ultima tradizione fu considerata senz‘altro più degna di fede per una serie di ragioni, prima fra tutte quella emozionale; in secondo luogo, in un territorio come quello senese, dove la maggioranza della popolazione viveva e lavorava in campagna e dove tante famiglie  nascondenvano un parente o un amico renitente alla leva, il fatto che tutte le vittime fossero giovani nonché di umile estrazione (a parte una, le altre erano contadini e operai)  fece sì che in moltissimi considerassero particolarmente vicina la tragedia.

La condanna fu pressoché totale e già un anno dopo, a liberazione avvenuta ma ancora a guerra in corso (28 marzo 1945), un gran numero di persone, spontaneamente, si recò a Casa Giubileo e alla Porcareccia per ricordare e rendere omaggio ai caduti che nel frattempo avevano assunto una sorta di sacralità e avevano ottenuto la definizione di martiri.

Altra tappa fondamentale per la costruzione della memoria dell’Eccidio fu la celebrazione del processo che portò alla sbarra Chiurco, Rinaldi e altri ottantuno imputati. Le testimonianze degli accusati furono incongruenti, contrastanti e chiaramente finalizzate a dimostrare l’estraneità dei singoli rispetto al gruppo dei carnefici[4], mentre il testimone chiave dell’accusa, Vittorio Meoni, si dimostrò preciso ed esauriente, riconoscendo, tra l’altro, molti militi del plotone d’esecuzione. La ricostruzione puntuale, la chiarificazione delle dinamiche e l’individuazione dei protagonisti fornì una grande mole di dettagli nuovi, fino a quel momento sconosciuti, che si saldarono nell’immaginario della popolazione locale dell’epoca.

Il processo, alla lunga, si concluse con un nulla di fatto (come del resto tutti gli analoghi procedimenti intentati in quegli anni contro i criminali di guerra italiani); in primo grado  per trentaquattro imputati si aprirono le porte del carcere con pene variabili dall’ergastolo ai dodici anni di reclusione, ma in seguito all’amnistia e al successo delle istanze presentate in cassazione, ben presto tutti i protagonisti dell’eccidio della Porcareccia vennero scarcerati[5].

Nonostante l’impunità, la memoria si era tuttavia istituzionalizzata: la neonata Repubblica, dopo il ventennio fascista, aveva bisogno di nuove radici morali e queste passavano anche attraverso gli eccidi e i massacri commessi dai nazifascisti sul nostro territorio[6]; per tale ragione l’anniversario dei fatti del Montemaggio, a partire dalle prime manifestazioni spontanee della primavera 1945, divenne un appuntamento fisso con i propri simboli (il tronco d’albero tagliato a metà, emblema delle vite giovani stroncate con la violenza, i gonfaloni dei comuni di provenienza dei martiri), un inno (O bella ciao!) un cerimoniale e un cerimoniere di indiscusso prestigio (lo stesso Vittorio Meoni).

Parallelamente alla fine della generazione che aveva vissuto e subito il drammatico periodo degli eventi dittatoriali e bellici  si ebbe l’avvento della Seconda Repubblica e, con questo, le radici morali e memoriali dell’età precedente vennero rimesse in discussione da una parte dei protagonisti della nuova classe dirigente. Anche la memoria periferica non fu immune da questa sorta di revisione che ai nostri giorni sta investendo, in modo indiretto, anche il ricordo della tragedia del Montemaggio. Mi riferisco in particolar modo al tentativo di riabilitare  il principale responsabile, ossia il Prefetto fascista di Siena, Giorgio Alberto Chiurco.

L’operazione  è visibilmente campata per aria poiché va contro decenni di ricerche senza presentare alcuna prova né nuova né tantameno decisiva, pertanto non è finalizzata in alcun modo a influenzare la comunità scientifica. L’obiettivo è un altro, ossia riscrivere la storia del fascismo italiano  trasformandolo, da dittatura violenta e sanguinaria che fu, a vittima degna di rispetto; ma tale operazione, oltre che contro la storia, intesa come disciplina legata a una rigorosa  metodologia scientifica è, con tutta evidenza, una mina vagante contro quella forma di memoria che costitusce il fondamento stesso della nostra Democrazia.

 

[1]Sul concetto di memoria esemplare cfr TODOROV T., Gli abusi della memoria, Miliano, Meltemi, 2018, p.63 e ss.
[2]MEONI V., Memoria su Montemaggio, Siena, Pistolesi, 2003, pp.29 e ss.
[3]ELIA D.F.A., Montemaggio. Dall’Eccidio al processo, Bari, Laterza, 2007, pp.142-143.
[4]Archivio I.S.R.S.E.C. Vittorio Meoni, Processo Chiurco, Verbali di dibattimento novembre 1947.
[5]ORLANDINI A. – VENTURINI G., I Giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Milano, La Pietra, 1983, pp.43-46.
[6]Cfr TODOROV T., Gli abusi …, op. cit., p.71




La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento

A distanza di 72 anni dal 10 febbraio 1947, trattato di pace (1) scelto quale data simbolo per ricordare le tragedie del “confine difficile”, a 15 dalla legge che ha inserito nel nostro calendario civile il “giorno del ricordo”, torna la denuncia di un silenzio troppo lungo. Eppure, scriveva un decennio fa Enzo Collotti, la storiografia italiana avrebbe potuto raccogliere stimoli importanti da studi rimasti circoscritti all’ambito locale, ma che già negli anni Sessanta avevano cominciato ad inscrivere «con rigore […] il problema della Venezia Giulia nell’orizzonte europeo e nella proiezione balcanica della politica italiana»(2). Rimane il vulnus di un ritardo, da cui ereditiamo ancora le tracce di un grumo di rimpianti e amarezze, malgrado l’ultimo ventennio ci consegni una fioritura di opere importanti, e la possibilità di un approccio capace di impedire alle memorie di coltivare rancori.

Le voci raccolte nel documentario appena prodotto La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento (3) ne danno testimonianza. È l’ultimo esito di un progetto che ha avuto come momento-chiave un viaggio sui luoghi, ma raccoglie l’eredità di un lavoro lungo un quindicennio, passato attraverso l’esplorazione di fonti documentarie, testimonianze ed esperienza diretta dei segni di memoria o di oblio, rimasti tra Istria e Venezia Giulia (4). A questa intersezione di storie diverse e di lungo periodo è universalmente attribuito il carattere di “complessità”, proprio di ogni segmento di storia, ma qui con qualche ragione in più. In un breve arco cronologico, in uno spazio limitato, si sono addensati gli esiti di fenomeni spiegabili solo recuperandone le radici plurisecolari e con il filtro di uno sguardo sullo scenario del Novecento europeo.

Con la conoscenza storica, si ripete con insistenza, è possibile dare una spiegazione alle ragioni di una geografia politica, che registra le infinite variazioni del “confine mobile”. Se ne può raccontare la storia con i documenti della diplomazia che stabilisce chi sta di qua e chi di là del confine, verificando su carte storico-geografiche le linee che separano, comparandole ai mutamenti di altre frontiere fra Stati dell’Europa del Novecento. Sulle carte i nomi sono un altro indizio: nell’Istria ora italiana ora jugoslava, oggi italiana, croata e slovena, una città è Albona o Labin, Pisino o Pazin, Parenzo o Porec. Si fa storia anche con opere della grande letteratura di confine, che dà voce con un altro linguaggio al vissuto delle popolazioni, al sostrato di sofferenze che le verità della diplomazia e della geografia non registrano. È particolarmente attuale un libricino di Guido Crainz, storico, precoce contributo all’iniziale lavoro di uscita dalla stagione delle rimozioni. Nel 2005 mise Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa nelle mani di lettori comuni e di insegnanti, dal 2005 chiamati per legge a introdurre nei curricoli il “laboratorio della storia del Novecento”, violenze di guerra fra Stati e guerra civile, un sistema concentrazionario plurale, le foibe e l’esodo, non come “libro di storia, [ma] quaderno di suggerimenti, di consigli di lettura”. Crainz proponeva testi della letteratura europea che spezzava “vecchie incrostazioni”, rischiando di generare la “insicurezza che può nascere quando si devono abbattere i muri di dentro”, scommettendo sul superamento della “paura della storia” (5).

Tante di queste fonti sono state un viatico al lavoro nella scuola, per incoraggiare la conoscenza e la coscienza di una storia indispensabile a formare cittadini italiani ed europei. Nel corso del tempo, si è aggiunta l’esperienza dei luoghi, tentativo di arricchire una pedagogia della memoria attraverso l’abbondanza o l’assenza di segni rimasti. Nelle città della Venezia Giulia e dell’Istria, gli studenti hanno scoperto monumenti e lapidi, segni della memoria collettiva, nel tempo mutevoli. Gonars, in Friuli Venezia Giulia, campo di concentramento per slavi, rastrellati a partire dal 1942 nella Slovenia, occupata dal regime fascista, è un ologramma della storia della memoria: un vuoto nella memoria dell’Italia, responsabile non come popolo ma come Stato invasore, riempito da pochissimi anni da una monumentalizzazione dell’area del campo; poco distanti, nel cimitero, tre memoriali: jugoslavo il primo, seguito, dopo l’esplosione delle nazioni, dal tributo sloveno e croato alle vittime. Questi campi sono solo un episodio delle violenze italiane nei Balcani, da tempo uscite anch’esse dall’elenco delle storie rimosse (6).

A Goli Otok, l’Isola calva, né Jugoslavia né Croazia hanno ancora riconosciuto il dovere della memoria per le violenze subite dai prigionieri, in maggioranza italiani, di un campo, voluto per isolare e punire la dissidenza dalla Repubblica jugoslava di Tito (7). A Basovizza, è in memoria delle foibe il monumento, grandioso nelle dimensioni e nella forma – un enorme patibolo –, destinato ad evocare simbolicamente il riconoscimento tardivo delle violenze subite da italiani (8).

Le pietre monumentali di Redipuglia, rappresentando generali e soldati dell’esercito italiano, schierati come sul campo di battaglia, sono la tappa che può iniziare o concludere il viaggio sui luoghi. A guidare visitatori abbagliati dalla spettacolarità, è uno storico, Franco Cecotti. Racconta di due monumenti: il primo, più sobrio ricordo consegnato alle famiglie dei soldati morti, il secondo, retorica esaltazione del morire in guerra, per offuscare i lutti privati con l’orgoglio delle morti eroiche. Tappa indispensabile, dice l’taliano d’Istria Livio Dorigo, per capire (e sentire) l’inutile strage: «per andare un po’ avanti e un po’ indietro nella linea del confine […] quanti uomini morti per niente» (9).

Dorigo nel 2009, anno del primo viaggio di studio per insegnanti, a Padriciano offrì una prova involontaria di quanto possano essere diverse e conflittuali le stesse memorie delle vittime. Due opposte narrazioni della profuganza non impedirono ai visitatori di percepire l’offesa subita dai profughi, privati di case e mobili, oggetti e spazi, per una promiscuità imposta dall’affollamento di tante famiglie. Vi aggiunsero una riflessione sulla memoria, trattata quasi sempre come grimaldello per forzare l’ingresso nel passato, come se bastasse ricordare per fare i conti con la storia (10).

Padriciano (foto di L. Zannetti)

Campo profughi di Padriciano (foto di L. Zannetti)

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a Trieste, quando ha cominciato a prendere forma l’idea di un documentario diverso dal primo (La nostra storia e la storia degli altri. Il confine orientale nel Novecento), in cui il nostro testimone privilegiato racconta il tempo lungo della sua vita. Profugo nel 1947 da Pola, parla del viaggio della sua famiglia verso il Villaggio giuliano di Roma, fino al ritorno, a Trieste. Ma il tempo del racconto va oltre il suo vissuto sul confine: inizia dal Risorgimento, dal bisnonno democratico, volontario nel 1848 per la Repubblica di Venezia, e arriva alla descrizione di un’associazione istriana, dal logo che ha colori dell’arcobaleno. L’adolescenza nella Pola fascista, la rivelazione della vera natura del fascismo l’8 settembre, il battesimo dell’orrore della guerra con l’impiccagione di un italiano (la eseguono giovanissimi soldati tedeschi), lo spaesamento della famiglia, sbattuta fra le violenze nazifasciste e la prepotenza di capi partigiani slavi. Alle foibe, il suo discorso arriva con fatica: un tutt’uno con la profuganza, scelta dolorosa come può esserlo l’abbandono di tutto, compresa l’identità. Sono sue le parole scelte per il titolo del documentario. Livio Dorigo le ha pronunciate a margine della sua idea dell’Istria omogenea per cultura, oltre l’artificio di frontiere, e dell’immagine del Mediterraneo, “mare che unisce”, mentre spiega le ragioni di un rigoroso antinazionalismo. Di famiglia italianissima da quasi due secoli nell’area, lui stesso si dichiara fino in fondo italiano, per tradizione, lingua e scelte culturali. Ma il dolore dell’esilio, forte nel ricordo e mai scomparso, ha un suo stile, diverso da quello che affiora in altre testimonianze raccolte nel viaggio, distinguendosi soprattutto perché esprime con una convinzione contagiosa la speranza nel futuro di un’Europa solidale. Stessa proiezione su un futuro di dialogo fra culture scopre chi cerchi a Fiume i segni delle relazioni tra la minoranza italiana e maggioranza croata.

Quella di Dorigo è come altre una memoria individuale. Quella collettiva si è espressa quest’anno con rituali identici, ma accenti nuovi, rimodellata dall’attualità, carica di pericolose tensioni. Sono tornate memorie rancorose, fratture che sembrano voler riportare indietro, all’epoca dello scontro, e “mettere in secondo piano” gli storici. Un commento sulla stampa dello storico Giovanni De Luna conclude amaramente la ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’istituzione e alla celebrazione del Giorno del Ricordo fino a quest’anno:

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così ora: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti (11).

Colpisce il dualismo fra la dimensione culturale di questo appuntamento civile e la liturgia celebrativa, quasi che la lunga strada percorsa dal gran lavoro sulla storia del confine difficile – scientifico, divulgativo, di pedagogia della memoria – non sia stata capace di incidere abbastanza da impedire un ritorno alla pericolosa semplificazione dello scontro su carnefici e vittime di foibe ed esodo.

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Ha stupito gli storici l’uso della categoria di “pulizia etnica” (12), come spiegazione delle violenze e degli infoibamenti senza distinguo o sfumature, in discorsi istituzionali di alto livello. Alcuni toni hanno quasi raggiunto lo stadio dell’incidente diplomatico con gli Stati balcanici, mentre alcune istituzioni locali in qualche caso si sono lasciate andare ad una politicizzazione esplicita. Sarebbe interessante oltrepassare la citazione di episodi e raccogliere dati, utili a capire il tempo presente, se e come stanno cambiando culture della memoria e strategie, quanto fecondo o più complicato è diventato il rapporto storia-memoria, se le attuali politiche memoriali hanno una reale funzione civile…

Guardando le cronache toscane, si trova grande varietà di forme nelle celebrazioni istituzionali. Ha prevalso l’invito a testimoni, nelle sale consiliari; è fatto normale, comune alla Giornata della Memoria, la presenza – residuale oggi, per la scomparsa dei testimoni – di ex deportati, politici o razziali. Per il Giorno del Ricordo, non sempre le istituzioni hanno badato a scegliere in modo da garantire rispetto per la solennità implicita nei luoghi delle cerimonie. A Pistoia, un’esperienza positiva: è stato l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea a proporre ed avere accolta dall’Ente locale una targa in ricordo dell’esodo. Il Comune di Siena ha fatto una scelta inedita e funzionale ad accrescere l’inquinamento delle ricostruzioni storiche, facendo prevalere altre, diverse ragioni: volendo unire memoria e ricordo, si sono mescolati deportazione ed esodo, Shoah e foibe, affidando per il 10 febbraio una lectio magistralis a Franco Cardini, storico noto per altri studi, non specialista dell’uno o dell’altro argomento. I consiglieri hanno ascoltato, dentro la lunga lezione, una (forse inattesa) severa contestazione verso chi ha usato la categoria di pulizia etnica.

Anche la Toscana ha accolto profughi (13), conserva segni di questo e di altri fatti, noti e studiati o da approfondire. La memoria dei luoghi è come altrove specchio di un complicato intreccio. Meno fitta che altrove è la mappa dei campi di internamento per slavi, allestiti dall’Italia durante la guerra fascista; più tardi, furono i campi di raccolta ad ospitare esuli giuliani e istriano-dalmati, talvolta in spazi già utilizzati come campi di prigionia, talvolta nel centro delle città, come a Lucca.

Si è molto arricchita la bibliografia sulla Toscana negli anni. La disseminazione degli esiti dei progetti rivolti alla scuola ha dimensioni importanti. Il documentario, ultimo strumento per la didattica, ha già avviato il suo cammino.

NOTE
1 Firmato a Parigi, conclude la seconda guerra mondiale ridisegnando il confine orientale. Sarà definitivo l’abbandono di terre istriane e dalmate, provvisoria l’istituzione del territorio libero di Trieste, zona A con amministrazione anglo-americana, zona B jugoslava. Definitivo nel 1975, con gli accordi di Osimo, il passaggio della zona B alla Repubblica di Jugoslavia.
2 E. Collotti, Introduzione, in T. Sala, Il fascismo italiano e gli slavi del sud, Tipografia Adriatica, Trieste 2008, p.11.
3 Regia di L. Zannetti, consulenza storica di L. Bravi e L. Rocchi, produzione Regione Toscana, ISGREC e ISRT, 2019.
4 Dal progetto Per la storia di un confine difficile: l’alto Adriatico nel Novecento (Regione Toscana-rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea) sono nate la summer school per insegnanti nel 2017, altre iniziative sul territorio e, nel febbraio 2018, il viaggio di studio per 50 studenti e 25 insegnanti toscani.
5 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, pp. 3-5.
6 Cfr. C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte, Verona 2005; E: Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Carocci, Roma 2007.
7 Cfr. C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra in Jugoslavia, Ombre corte, Verona 2007.
8 Troppo ampia la bibliografia sulle foibe per una scelta. Si rinvia al documentatissimo sito dell’Istituto storico del Friuli-Venezia Giulia https://www.irsml.eu.
9 Intervista a Livio Dorigo di Luca Bravi e Luigi Zannetti, Trieste, 9 febbraio 2018.
10 C’è una letteratura ricca di riflessioni su memoria individuale-collettiva e su costi e benefici delle politiche della memoria della Repubblica italiana, prodiga negli ultimi decenni di date per un calendario civile giudicato utile, ma troppo fitto. Non pochi storici si sono cimentati su questi argomenti tirandone conclusioni diverse. Non è il più recente, ma quello che appare a chi scrive più interessato a scavare sulla data di cui si tratta qui è G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
11 G. De Luna, La storia utilizzata come un randello nel confronto politico, “La Stampa”, 10 febbraio 2019.
12 Nel sito web dell’Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia associato al Parri nazionale una sintetica spiegazione delle ragioni per cui sarebbe errato parlare di pulizia etnica. In Istria fu la categoria di “nemico del popolo” a guidare le violenze ordinate dai comandi delle brigate titine, mentre per le foibe giuliane “… l’obiettivo del governo jugoslavo non era quello di cacciare gli italiani dalla Venezia Giulia, ma di mobilitarli a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo perché Stalin aveva esplicitamente chiesto ai rappresentati jugoslavi di corroborare le loro rivendicazioni territoriali con il consenso della popolazione, anche italiana. Naturalmente, non occorreva che tale consenso fosse spontaneo. Le stragi quindi, oltre all’intento punitivo, ne avevano altri due: decapitare la società della sua classe dirigente, fedele all’Italia, ed intimidire la popolazione italiana, affinché non si opponesse all’annessione”.
13 C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri di raccolta profughi in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011.



Dispersi sì, dimenticati mai.

Ricostruire le vicende del Piroscafo Oria e dei soldati italiani che vi morirono durante la seconda guerra mondiale. È di prossima pubblicazione un’inedita ricerca sulle vicende del Piroscafo Oria, partito da Rodi e affondato il 12 febbraio 1944 presso l’isola di Patroklos in Grecia con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania. A firma di Luisa Ciardi, Michele Ghirardelli e Matteo Grasso, il libro, frutto di un progetto regionale che vede dal 2013 la collaborazione di più enti e istituzioni (Fondazione CDSE, Regione Toscana, Istituto storico per la Resistenza di Pistoia e la Rete dei Parenti delle Vittime del Piroscafo Oria) pone ulteriori sviluppi nella ricostruzione storica e nella ricerca dei singoli caduti del naufragio.

Il progetto nel corso degli anni si è arricchito di nuovi tasselli che hanno portato il Comune di Monsummano Terme a strutturare una collaborazione che portasse le vicende dell’Oria nelle scuole, attraverso progetti didattici, e all’attenzione della cittadinanza, grazie agli studi storici e all’intitolazione di un giardino. Questa fase è incominciata nel 2016, quando il monsummanese Renato Mazzei, nipote del disperso Righetto Pierattini, è entrato in contatto con Elena Sinimberghi, assessore alla cultura di Monsummano Terme; l’incontro ha poi trovato compimento fra il 2017 e il 2019 nell’ambito di un progetto triennale di ricerca.

Righetto Pierattini era un giovane di 21 anni quando, dopo l’Armistizio del settembre 1943, fu fatto prigioniero dalle forze naziste, rifiutando in seguito l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana. Un atto di Resistenza e di fedeltà ai propri ideali: da un lato un giuramento fatto al Re d’Italia, dall’altro un’avversione verso il nuovo regime fascista. Fece parte della schiera di internati militari italiani, ma non riuscì a giungere in un campo di concentramento nazista: trovò la morte all’interno di una nave – appunto, il Piroscafo Oria – che lo stava trasferendo sulle coste greche per la deportazione in Germania.

Partendo da questo episodio, la ricerca ha dato vita ad un volume a più mani, curato dal docente universitario Michele Ghirardelli (nipote del disperso Ugo Moretto, fra i fautori delle prime ricerche sull’argomento una decina di anni fa e fra i sostenitori della nascita della Rete dei parenti delle vittime dell’Oria), dalla storica Luisa Ciardi (Fondazione CDSE, coordinatrice del primo progetto regionale sull’Oria) e dal sottoscritto (direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e autore delle indagini sui dispersi nella provincia pistoiese).

Nell’introduzione, Luisa Ciardi traccia un bilancio del percorso che in questi anni ha coinvolto l’Oria, partendo dalla sua memoria collettiva e giungendo al riconoscimento pubblico. La prima ricerca è affidata a Ghirardelli che si sofferma su alcuni aspetti fondamentali, nei quali fornisce un quadro storico molto approfondito e passa in rassegna la bibliografia sulla vicenda. Il suo testo non si limita a considerazioni di carattere generale e a pure riflessioni storiografiche, ha il merito di entrare nel dettaglio delle singole memorie e di intrecciare microstoria e macrostoria.

La seconda parte della ricerca interessa i caduti pistoiesi ed è strutturata su tre livelli, secondo il metodo scientifico dell’incrocio fra fonti diverse: archivistica, orale e bibliografica. Partendo dall’indagine a cura della Fondazione CDSE iniziata nel 2013, ho ripreso i nominativi riconducibili alla Provincia di Pistoia e li ho confrontati prima con i fogli matricolari conservati all’Archivio di Stato di Firenze, dove è possibile consultare le carriere militari dei soldati, poi con gli atti di nascita e di morte registrati presso gli archivi comunali. Solamente in una seconda fase e con queste informazioni in possesso, sono riuscito a rintracciare i familiari. Alcuni di loro erano già a conoscenza dell’Oria ed erano entrati a far parte della Rete delle famiglie dei dispersi. Altri, invece, non avevano avuto informazioni sufficienti riguardo il proprio caro, né in passato né di recente: le dichiarazioni di irreperibilità, quando arrivarono, nel caso pistoiese furono emesse fra il 1946 e il 1953, quindi con un ritardo minimo di due anni e massimo di nove rispetto alla tragedia, dati che confermano la tendenza nazionale. Vennero tutti liquidati dal distretto militare di Pistoia con la dichiarazione di irreperibilità e una frase rituale generica e ripetitiva che non rendeva giustizia alle loro storie: “Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra”.

Il contatto con i parenti ha permesso di attingere a un’ampia parte di patrimonio documentario, costituito da fotografie, lettere dal fronte, documenti e oggetti personali. In questa maniera la memoria privata delle singole persone si lega indissolubilmente –e contribuisce- alla grande storia dell’Oria. L’indagine locale ha una caratteristica determinante che può essere punto di forza: nonostante temi, fonti e metodi restino sostanzialmente quelli della storia generale, essa vive di ricerca, più che di letteratura, e perlustra fondi archivistici inediti e talvolta sconosciuti, come quelli comunali e familiari.

Sono state così ricostruite le biografie militari di 16 pistoiesi dispersi nella tragedia, corredate di lettere, immagini e testimonianze che andranno ad arricchire i caduti già rintracciati dalla grande famiglia dell’Oria.




I profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto

Il progetto “Per la storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento” della Regione Toscana (2017-2018)

Dalla prima applicazione della legge istitutiva del Giorno del Ricordo, avvenuta nel 2004, la Regione Toscana fu tra le prime in Italia a prendere a cuore il diritto a una cultura storica per la scuola su temi che entrarono da allora nel calendario civile nazionale. Così hanno cominciato ad entrare in classe le storie e le memorie dolorose del confine più difficile del Novecento italiano, a lungo rimaste patrimonio quasi esclusivamente locale. Gli insegnanti e gli studenti delle nostre scuole hanno insegnato gli uni, imparato gli altri la complessa storia del confine orientale “laboratorio della storia del Novecento”; si sono avviati verso la conoscenza dei luoghi delle foibe istriane e giuliane, di un sistema concentcover_summerrazionario ologramma delle violenze del Novecento, del lungo esodo delle popolazioni istriano-dalmate. Hanno intravisto gli spostamenti di un “confine mobile” e il lungo periodo di gestazione delle violenze, partorite da nazionalismi, guerre, forme di razzismo.

Nel 2017 un progetto sperimentale, frutto della collaborazione tra Regione Toscana, rete degli istituti storici toscani della Resistenza e dell’età contemporanea e Ufficio scolastico regionale, ha promosso un intervento sistematico: Summer school per insegnanti di scuola superiore, selezionati tramite bando, in preparazione del viaggio di un piccolo gruppo di studenti nei luoghi di memoria dell’area giuliana e istriana, preceduto e seguito da altre iniziative di formazione. La conoscenza storica ha un duplice valore, quando si trattano temi di tale delicatezza: è sapere ed educazione alla cittadinanza. Il programma della Summer school ha posto al centro eventi solo in apparenza racchiusi in un tempo breve e in un territorio limitato, ma appartenenti a una storia europea di lungo periodo. Un sovrappiù di valore è dato a questa iniziativa dal rilievo che hanno assunto, tra la fine del secolo scorso e il tempo presente, la riproposizione di violenze nell’area balcanica e, più recente, la questione dei confini tra popoli, Stati, culture.

Un ulteriore seminario formativo si è avuto a Siena (novembre 2017), nel corso del quale sono intervenuti il Presidente Antonio Ballarin ed esponenti della Federazione italiana degli esuli istriano-fiumano-dalmati. fra cui Marino Micich, Direttore dell’Archivio museo storico di Fiume. Altri ne seguiranno nei prossimi mesi.cover viaggio

Dal 12 al 16 febbraio 25 insegnanti e 52 studenti, accompagnati da rappresentanti della regione Toscana e della rete degli istituti storici toscani della resistenza, saranno sui luoghi del Confine. Redipuglia, Trieste, Gonars, Basovizza, Padriciano, Fiume, Albona e Fossoli saranno le importanti tappe di un viaggio durante il quale studenti e docenti avranno modo di incontrare studiosi e testimoni e di confrontarsi con studenti italo sloveni.

L’Istituto storico di Grosseto lavora sul Confine orientale da 14 anni. A una prima pubblicazione di materiali didattici sono seguiti convegni, eventi, ricerca. Ha organizzato, sempre per conto della Regione Toscana, un primo viaggio per un piccolo gruppo di insegnanti toscani nel 2009, narrato nel documentario “La nostra storia e la storia degli altri. Viaggio intorno al confine orientale“, e una mostra con lo stesso titolo che è stata esposta in tutta Italia (a Grosseto per ben due volte nei locali della Prefettura) e che si avvale dal febbraio 2017 di un catalogo bilingue, curato da Luciana Rocchi. Ultima pubblicazione, l’ebook del 2017 liberamente consultabile con gli esiti della ricerca pluriennale di Laura Benedettelli sui profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto.

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L’esodo dalle terre di confine.

L’esodo dei giuliani, istriani, fiumani e dalmati, a differenza di quanto accadde per altre popolazioni di confine al termine del secondo conflitto mondiale, non fu la conseguenza di formali provvedimenti di espulsione, ma il frutto di una scelta, talvolta compiuta in forma ufficiale ricorrendo all’esercizio del diritto di opzione, previsto prima dal Trattato di Pace del 1947 e poi dal Memorandum di Londra del 1954, tal altra sul piano di fatto mediante il ricorso all’espatrio clandestino. Quello che avvenne nell’area dell’alto Adriatico fu comunque un fenomeno di espulsione di massa dovuto non a precise leggi, ma a forti pressioni ambientali che si erano venute a creare verso gli italiani e che ebbero di fatto la stessa efficacia di un decreto di espulsione.images

Le partenze dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia iniziarono prima della fine del II conflitto mondiale e della firma del Trattato di pace: da Zara avvennero quando la guerra era ancora in corso, sotto la spinta dei bombardamenti alleati; da Albona, Cherso, Veglia, Lussino e, in genere, dalle località dell’Istria meridionale, dove l’annessione alla Jugoslavia apparve più probabile, i profughi partirono con mezzi di fortuna sin dall’estate 1945. Fu però proprio in seguito alla firma del Trattato di pace che il fenomeno assunse carattere di massa.

fdr12gL’abbandono di questi territori, inoltre, non avvenne in un periodo di tempo limitato, ma si presentò come un fenomeno di portata temporale abbastanza lunga, superiore ai dieci anni, che ha portato a parlare di un “lungo esodo” e, secondo alcuni storici, di “esodi”, per distinguere le diverse fasi di uno stesso fenomeno migratorio, le cui varie ondate sono riconducibili a eventi precisi.

Un primo spostamento di popolazione si ebbe infatti a partire dal 1943, cioè nel momento in cui si verificò la prima ondata di infoibamenti nel centro dell’Istria, per poi riprendere nel 1945, quando, dopo che la IV Armata jugoslava nel mese di maggio aveva occupato Trieste, Gorizia e Fiume, si verificò una seconda ondata di infoibamenti, che spinse molte altre persone ad abbandonare le città.

La firma dell’accordo di Belgrado, che stabilì la linea Morgan fu un ulteriore momento in cui molti italiani decisero di abbandonare le località temporaneamente assegnate alla Jugoslavia, che in pratica considerava tali territori come annessi di fatto. Vi era comunque chi nutriva ancora la speranza che, con la definizione del Trattato di pace, queste terre tornassero a tutti gli effetti sotto l’Italia, ma quando tali speranze vennero definitivamente annientate si verificò una ripresa dell’esodo che si protrasse per più anni.image_gallery

L’esodo, come spiega anche Guido Crainz, fu dunque in stretto rapporto con questo alternarsi di speranze e delusioni che accompagnarono gli anni in cui le potenze definirono a tavolino i confini e quando i confini furono definitivamente decisi e impressi sulla carta, nero su bianco, l’esodo non ebbe più freni.

Furono migliaia i profughi che, partiti dalle tante località poste al di là del confine, vennero ospitati nei Centri di Smistamento, per poi approdare, per uno o più anni, nei Centri di Raccolta Profughi, prima di trovare una sistemazione definitiva.

Un problema con il quale dovettero confrontarsi i profughi a fine guerra fu quello molto complesso del riconoscimento delle cittadinanze, per cui si rese necessario inserire nel testo del Trattato di pace delle norme che riguardavano proprio la “gestione delle cittadinanze”.

0007179L’Articolo 19 del Trattato riguardava espressamente i cittadini italiani e prevedeva che sarebbero diventati automaticamente cittadini jugoslavi tutti coloro che, al 10 giugno 1940, fossero stati domiciliati nel territorio ceduto dall’Italia alla Jugoslavia, clausola che valeva anche per i figli nati dopo quella data. Essi avrebbero pertanto perso la cittadinanza italiana e sarebbero diventati a tutti gli effetti cittadini dello Stato subentrante, cioè della Jugoslavia. La cosa interessò le migliaia di italiani che erano nati e che vivevano da sempre in queste zone o che vi si erano recati per motivi di lavoro.

Proprio per ovviare a questo problema e concedere una libertà di scelta, il Trattato prevedeva che lo Stato al quale il territorio era stato trasferito, la Jugoslavia, avrebbe dovuto predisporre, entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato stesso, perché tutte le persone di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, sia al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua d’uso fosse l’italiano, avessero la facoltà di optare per la cittadinanza italiana, entro il termine di un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso. Le persone che avessero optato in tal senso avrebb2h3v5hvero potuto così conservare la cittadinanza italiana. La Jugoslavia, alla quale il territorio era stato ceduto, poteva esigere, come di fatto avvenne, che coloro che si avvalevano del diritto di opzione si trasferissero in Italia entro un anno dalla data in cui questo era stato esercitato.

Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva dunque il diritto di opzione: optare significava scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significava di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significava in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo.

L’arrivo dei profughi a Grosseto.

Come riportato da Amedeo Colella in L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, in Toscana, dove erano stati organizzati 10 tra campi profughi e Centri di accoglienza, arrivarono 6.074 profughi, di questi 252 giunsero nella provincia di Grosseto.

Qui, dove non era stata allestita nessuna struttura, l‘arrivo dei profughi avvenne nel corso di un periodo abbastanza lungo che andò dal 1943 al 1975, due gli anni che registrarono la maggiore affluenza: il 1946, con 41 arrivi, e il 1955 quando si registrarono 57 arrivi. Molti di loro erano transitati dal Centro Smistamento di Udine e dai Centri di Raccolta di Servigliano (allora in provincia di Ascoli Piceno, oggi di Fermo) e di Laterina, in provincia di Arezzo.

Centro Raccolta Profughi di PadricianoDei profughi arrivati nella nostra provincia 110 abitarono, per periodi più o meno lunghi, a Grosseto, dove molti profughi di seconda generazione risiedono ancora, a cui andarono ad aggiungersi altri 14 che, inizialmente residenti in altri comuni della provincia, dopo pochi anni si trasferirono nel capoluogo. Contemporaneamente avvennero anche alcuni trasferimenti in senso inverso, cioè dal capoluogo verso le varie località della provincia. Dopo Grosseto, le località verso le quali si indirizzarono in misura maggiore furono Massa Marittima, Ribolla, Follonica, Orbetello e Roccastrada.

Lo Stato si preoccupò abbastanza presto di precisare chi dovesse essere definito “profugo”.

Una delle prime circolari che vennero inviate ai Sindaci dei vari Comuni fu la n.892 del 28 novembre 1944 che riassumeva le disposizioni che erano state emanate dall’Alto Commissariato per i Profughi di Guerra e che erano state indirizzate ai Prefetti delle varie Province. In essa si faceva espresso riferimento alla qualifica di profugo di guerra che al momento doveva essere attribuita solamente a coloro che in seguito ad orrendi eventi bellici si sono trovati nella necessità di doversi trasferire in luoghi diversi dalla loro abituale residenza o che per ragioni contingenti non possono farvi ritorno. A questa data pertanto ricevettero la qualifica di profugo di guerra tanto gli italiani che iniziarono ad abbandonare le zone del Confine orientale, sottoposte in questo momento alla pressione tedesca, quanto gli italiani costretti ad abbandonare le zone che dopo l’8 settembre 1943 e dopo gli sbarchi alleati nel sud Italia diventarono zone di operazioni di guerra.

Per quanto riguardava l’Assistenza a favore dei profughi, tra le varie disposizioni in materia, il 4 marzo 1952 venne promulgata la Legge n.137, che prevedeva, tra le altre cose, la riserva del 15% degli appartamenti costruiti dagli IACP ai profughi, dando la precedenza a quelli ricoverati nei Centri di Raccolta dipendenti dal Ministero dell’Interno e, successivamente, agli assistiti fuori Campo. In base a tale legge, a Grosseto vennero costruiti vari alloggi, tra questi il lavoro più significativo riguardò l’edificazione, in quella che oggi è Piazza Albegna, di un palazzo ancora presente nella piazza.1441878909-esulegiuliana

Il 22 luglio 1952, e quindi a quattro mesi dalla emanazione della Legge n.137, il Sindaco della città Renato Pollini (1951-1970) venne informato dal Prefetto che il Ministero dell’Interno aveva disposto la costruzione a Grosseto di un gruppo di abitazioni per la sistemazione dei profughi, per un totale di 100 appartamenti di varia ampiezza, pregava quindi di sottoporre al successivo Consiglio comunale la possibilità di cedere gratuitamente l’area necessaria. Non disponendo il Comune di terreni propri, questi dovevano essere necessariamente acquistati mentre, per quanto riguardava i servizi pubblici, il Comune poteva e doveva impegnarsi ad assicurarli. Venne costituito un Comitato cittadino che dette vita ad una sottoscrizione per raccogliere la somma occorrente per l’acquisto del terreno e il 12 ottobre il “Comitato cittadino pro-case profughi giuliani” fece pubblicare sulla Cronaca locale del “Tirreno” un primo elenco di sottoscrittori con le cifre donate, per un totale che al momento ammontava a £. 268.400. Venne individuato il terreno per la costruzione del palazzo in una zona allora lontana dal centro, posta tra la Chiesa di San Giuseppe Cottolengo e il Villaggio Curiel, sul prolungamento di Via della Pace, quella che in seguito avrebbe preso il nome di Piazza Albegna. La zona, allora del tutto incolta e caratterizzata da campi, era di proprietà dell’Ingegner Benedetto Pallini, che al tempo era consigliere comunale.

Il Ministero dei Lavori Pubblici inviò direttamente all’IACP di Grosseto una Circolare riguardante la costruzione degli alloggi che definiva anche la somma preventivata per la loro realizzazione: £ 48.000.000. Fu affidato all’IACP l’incarico di progettazione, esecuzione e contabilizzazione dei lavori occorrenti per la realizzazione del programma e vennero comunicate alcune “istruzioni” per dare uniforme e rapido corso all’attuazione del programma stesso.

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Pianta originale di una delle case del “Palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Il Progetto del fabbricato venne realizzato e firmato dall’Ingegner Gastone Saletti e porta la data del 28 febbraio 1953. Nel Fondo IACP sono conservati tutti i disegni del progetto, tra cui il prospetto principale e la pianta di un piano tipo. I 40 appartamenti, come si ricava dai disegni, erano formati dall’ingresso, il soggiorno con un terrazzino, una cucina ricavata in una rientranza del soggiorno (con lavello e cappa aspirante), una camera, un bagno (con lavandino, water e piccola vasca da bagno) ed erano di circa 60 – 65 metri quadrati.

I lavori principali per la realizzazone del fabbricato si svolsero dal novembre 1953 al novembre 1954 e la prima consegna degli alloggi avvenne il 24 maggio 1955.

Tali alloggi vennero destinati sia ai profughi che provenivano dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, ma anche a quelli arrivati dall’Albania e dalla Libia, tutti comunque assistiti nei Campi di Raccolta, ad eccezione di tre famiglie che arrivarono direttamente dalla zona B del territorio di Trieste.

Se quella di Piazza Albegna fu la costruzione che accolse contemporaneamente il numero maggiore di profughi, va ricordato che negli stessi anni vennero costruiti a Grosseto, dall’IACP e dall’INCIS, altri alloggi di edilizia popolare il cui 15%, in base alla Legge 137/1952, venne riservato ai profughi.

Il “palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Analogamente a quello che avveniva a Grosseto anche in altre località della provincia vennero realizzati degli appartamenti, in tutto 165, il cui 15% venne destinato ai profughi.

Queste le località interessate dagli interventi di edilizia popolare: Arcidosso, Casteldelpiano, Cinigiano, Follonica, Gavorrano, Manciano, Monterotondo Marittimo, Orbetello, Paganico, Pitigliano, Porto S. Stefano, Potassa, Puntone, Roselle, Santa Fiora, Selvena, Sorano.

Complessivamente, nel periodo 1953 – 1964, a Grosseto e in provincia vennero assegnati ai profughi più di 140 alloggi.




Primo Levi e l’arte

La più importante opera di Primo Levi non è quella legata alla letteratura bensì quella legata all’arte” sostiene il professor Paolo Coen della Università di Teramo.

Comunque, si dice che non sono molte le citazioni di opere d’arte nelle opere di Levi, né che lo scrittore sembri troppo attratto dal mondo artistico; tuttavia due cose smentiscono tale affermazione: 1) a un certo punto, per passatempo – Levi ha sempre lavorato con le mani, aggiustando ad esempio i giocattoli dei figli – ha cominciato a costruire con i fili di rame ricoperti di vernice, provenienti dalla Siva, l’azienda chimica per cui lavorava, degli animali – una farfalla, un gufo, un coccodrillo – che poi regalava agli amici o teneva in casa. Questo passatempo, nella raffigurazione della farfalla, può presentare analogia con la raccolta L’angelica farfalla (1966) di straordinaria elevatezza e, al tempo stesso, profondità.

Il tema che sta alla base di questa raccolta è quello della «permutazione delle specie e delle forme» L’«angelica farfalla» è una citazione da Dante: «O superbi cristiani, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ ritrosi passi, / non v’accorgete che noi siam vermi, / usati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?». Siamo in Purgatorio X, 121-26, nella cornice in cui i superbi purgano il loro peccato per ascendere al premio eterno. Ora su questa possibile duplicità si costruisce la raccolta di racconti di cui stiamo parlando: si può andare verso il basso o verso l’alto, a seconda della scelta che si è fatta. E l’umano e il bestiale, in questo accidentato percorso, si corrispondono e talvolta si fondono, creando ircocervi difficilmente distinguibili.

paolo-coen-arte-e-musei-della-shoah-per-imt-alti-studi-lucca-1-638il gufo è il mio autoritratto” diceva scherzosamente Levi. E in effetti con quegli occhiali enormi, i capelli un po’ a punta e la barbetta, nell’ultimo periodo della sua vita, Levi un po’ assomigliava a un gufo. Doveva trovarlo divertente, visto che i gufi ricorrono spesso nella sua opera. Andando a cercare immagini per il lavoro su Una stella tranquilla se ne trovano diversi, a partire da quelli che Levi disegnava al computer. Levi si paragona a un gufo anche quando racconta del periodo in cui scrisse Se questo è un uomo. Era il 1946 e Levi lavorava ad Avigliana, un po’ fuori Torino, in una fabbrica di vernici. Scrisse il libro in treno, nelle pause dal lavoro e soprattutto di notte, nella foresteria della fabbrica, dove il suo ticchettare alla macchina da scrivere veniva considerato parecchio strano dai colleghi. «Ero il gufo notturno che batteva alla macchina da scrivere», disse Levi. E per un bel po’ di tempo la sua scrittura sarebbe rimasta così, un’attività notturna (o almeno serale), a cui si dedicava dopo il lavoro, dopo che aveva “cambiato pelle”, passando da chimico a scrittore. Ma il gufo più importante e è un altro, è una specie di maschera.

Appartiene a una serie di “sculture” che Levi fabbricava con il filo di rame. Questo era la materia prima del suo lavoro di chimico: il filo di rame, infatti, è un conduttore elettrico, ma per essere usato deve prima essere trattato con una vernice isolante, quella che appunto si produceva alla Siva, la fabbrica in cui lavorava Levi. Più o meno come succede in molti suoi racconti, anche qui la materia prima è fornita dal lavoro di chimico e dalle esperienze vissute in quella veste per poi trasformarsi in arte, in libri o, in questo caso, in strani manufatti.

C’é una foto in cui Levi “indossa” la maschera da gufo che è diventata piuttosto simbolica. Così pare acquisire valore allegorico, un buon modo per rappresentare la complessità della figura di Primo Levi, e in particolare la differenza tra il Levi pubblico e il Levi privato, tra il Levi a cui abbiamo accesso noi tramite i suoi libri e quello che invece rimane intimo e nascosto. Nel 1986, Mario Monge, suo concittadino, l’ha fotografato mentre «indossa» una di questi animali di fronte all’obiettivo, proprio un anno prima della morte.

Una di queste foto è diventata la copertina del saggio, di ben 700 pagine, Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda) di Marco Belpoliti. Il libro presenta un titolo suggestivo che richiama le foto segnaletiche e in copertina ha una foto di Levi che mostra una maschera in filo di rame a forma di gufo. Belpoliti non nasconde la struttura che sostiene la sua opera ma anzi la ostenta, come l’architettura del Centre Pompidou a Parigi.

 Ma l’opera d’ arte più famosa di Levi è il Memoriale italiano  del Blocco 21 di Auschwitz1,

Progettato dallo Studio architetti: BBPR (Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers) voluto dall’’A.N.E.D. del quale è tuttora proprietà. Inaugurato anni ’80 e arricchito di significato dagli affreschi di Mario Samonà, dai testi di Primo Levi, dalle musiche di Luigi Nono, con la regia di Nello Risi

Il gruppo degli architetti progettisti è lo stesso del Museo al Deportato  di Carpi, inaugurato nel 1973, una struttura frutto dell’impegno civile di artisti che furono anche testimoni degli avvenimenti che rappresentavano. Essi si sono avvalsi della collaborazione di  Renato Guttuso. Nel museo sono conservati suggestivi graffiti di alcuni grandi pittori come Picasso Longoni Léger, e ovviamente Guttuso che hanno commentato a loro modo la deportazione sulle pareti del museo.

 Il Memoriale 21, voluto realizzato all’interno della camerata in una baracca del campo, è dedicato ai deportati italiani nei Lager nazisti.

Originariamente il blocco 21 fu il reparto chirurgico, dove i deportati furono sottoposti a operazioni sommarie e raccapriccianti esperimenti. Poi quelle mura furono affidate all’Italia, perché vi allestisse il suo padiglione della memoria: Auschwitz, Blocco 21. Esso ha la forma di un tunnel di tela e armatura di metallo, sollevata da un impalcato e tesa attraverso i vuoti spazi della baracca.  Assume la forma di una ossessiva spirale a elica che avvolge il cammino del visitatore in un percorso unitario e ossessivo lungo ottanta metri che rappresenta e rievoca la spirale di violenza nella quale i deportati furono travolti. Attraversandola, come in un brutto sogno, si rivivono i momenti della disperazione, della presa di coscienza, della volontà di sopravvivenza e della vittoria sul male.

Mediante un’armatura lignea la spirale tende una banda continua di tela, sulla quale sono rappresentate le immagini del fascismo, dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione e dello sterminio, dipinte da Samonà e commentate dalle parole di Primo Levi.

Dilatata nelle tre dimensioni, scandita dalle viste alterne della baracca e dei dipinti, la spirale ricompone l’incubo doloroso, coniugando spazio architettonico e pittura per trovare una comunicazione immediata e universale.

Si tratta inoltre della prima opera d’arte vivente in cui i testimoni potevano mettersi a sedere.

E sono alcune di queste immagini, come ad esempio la falce e martello o il volto di Antonio Gramsci, elementi comunisti insopportabili nella Polonia post patto di Varsavia post Solidarnosc, tornata fortemente cattolica e nazionalista, che sono stata la prima fonte dello smantellamento del Blocco 21. A tanti anni di distanza, la vicenda ricorda Tilted Arc, il capolavoro di Richard Serra distrutto per ragioni politiche. Tilted Arc  era una controversa opera d’arte minimalista, creata sotto forma di istallazione pubblica da Richard Serra e collocata in Foley Federal Plaza in Manhattan dall’1981 al  1989. Essa era lunga 120 piedi e alta 12, con una superficie non finita ricoperta di acciaio COR-TEN. I critici ne contestarono la bruttezza, ritenendo che essa deturpasse quel sito della città. Dopo un acceso dibattito pubblico, la scultura fu rimossas per volere della corte federale e non è stata mai più esposta.

Distrutto, in qualche senso lo è anche il blocco 21, perché spostare un’opera d’arte dal suo contesto originale, dal contesto di Primo Levi, significa appunto sottrarne ogni alito di vita e, insieme, ogni possibilità di lettura.

Gli elementi rappresentati facevano parte di un tutt’uno storico dall’ omicidio Matteotti alla Shoah.

image003Il blocco 21 è un’opera site specific, che non potrebbe né dovrebbe avere una collocazione in un altro luogo. Invece è stata sbarrata. Dal 2011, una porta chiusa, anche nel giorno del settantesimo anniversario della Shoah, sbarrata anche per gli storici e gli studiosi, impedisce di vedere “il «Memoriale ai deportati caduti nei campi di sterminio nazisti”. La parte italiana è stata chiusa d’ imperio con una decisione unilaterale dalla direzione del museo, per divergenze, per così dire, di filosofia: ritengono che un’opera di quel tipo – artistica e figlia del tempo – gli anni Settanta – in cui è stata concepita, non sia compatibile con l’approccio didascalico che hanno inteso dare al museo. Dopo il crollo del Muro, infatti, alcuni dei padiglioni di Auschwitz, affidati alle varie nazioni, iniziano ad essere ripensati, anche in base a nuove prospettive storiografiche. In Italia, qualcosa si muove a fine 2007, quando il governo Prodi stanzia 900 mila euro per il restauro del Blocco 21 mentre gli intellettuali si interrogano se il Memoriale sia o non sia troppo figlio degli anni Settanta, se puntando di più sull’antifascismo non finisca per trascurare la Shoah. L’A.N.E.D. lo difende. Ma chiude il discorso il Museo di Auschwitz: l’arte non basta, serve un allestimento didattico. Un esempio, il padiglione francese, rinnovato nel 2005. Tra rinvii e ricorsi si arriva al 2011, quando il Museo chiude il Blocco dell’Italia, che rischia di essere sostituita da un altro Paese.

 «Davanti al pericolo di smantellamento, anche se non siamo d’accordo, abbiamo accettato di riportare il Memoriale in Italia», racconta Dario Venegoni, presidente dell’A.N.E.D. .

Fino all’annuncio che l’opera andrà a Firenze, in base alla Risposta all’interrogazione scritta presso il Senato n. 4-05184 Fascicolo n. 123.

Resta da capire cosa ne sarà del Blocco ancora chiuso. Firenze ha individuato la sede della sua nuova esposizione negli spazi di EX3, centro d’arte attualmente vuoto.

 Qui il Memoriale del blocco 31 troverà collocazione all’interno dell’EX3 proprio accanto a piazza Bartali, quasi a ricongiungere in questo progetto di memoria collettiva anche l’impegno del grande ciclista, riconosciuto “giusto tra le nazioni” da Yad Vashem. I

Il luogo non è di certo il massimo, perché a ricordare l’olocausto c’e’ solo il nome della Piazza. L’edificio, uno strano parallelepipedo grigio antracite, più adatto ad un hangar di aviazione che a un museo della memoria, è lo spazio Ex3 del quartiere Gavinana, area semiperiferica e non troppo valorizzata, piena di centri commerciali.

Non è dato sapersi come, nell’interno ancora vuoto, la spirale del fu Blocco 21 troverà collocazione, ma di certo la location è del tutto decontestualizzata e la migliore opera d’arte di Primo Levi non si meritava una fine così.

Contenti saranno forse gli studenti, costretti dai docenti a visitare questo luogo della memoria, che poi potranno pranzare al Mc Donald’s e fare un po’ di shopping, dimentichi di cultura, arte, passato e perciò anche del loro futuro. A meno che istituzioni ed enti culturali interessati riescano a costituire un ampio (lo spazio c’è) e strutturato centro di documentazione, didattica e ricerca, capace di dare contestualizzazione al nuovo museo del Blocco 21, restituendo, per quanto possibile fuori dal suo contesto, la forza del messaggio artistico e culturale di Levi, pur lontano dall’ambiente era stato pensato.




Europa: dal passato al futuro. Il Treno della Memoria 2019

23 gennaio: questa mattina inizia la nostra visita di Cracovia sotto la neve a meno 7 gradi, ma ci stiamo quasi abituando al freddo. Ironia della sorte si è invece ammalata la nostra guida con 39 di febbre! Trovata poi una nuova, comincia la nostra escursione. Cracovia, inserita nel patrimonio dell’Unesco (accoglie infatti 10 milioni di turisti all’anno) era stata la capitale della Polonia prima di Varsavia. Contando la popolazione studentesca, ha circa un milione di abitanti. È una città ricca di cultura, con ben 29 università. Durante l’occupazione nazista, Cracovia fu sede del governatorato tedesco, che si installò nel Wavel fino alla liberazione da parte dell’armata rossa il 18 gennaio 1945, anche se la nostra guida (cosa che nella Polonia attuale non stupisce) dice “siamo caduti dalla padella alla brace”, aggiungendo addirittura che si stava meglio sotto i nazisti! Poi inneggia a Papa Wojtyla, e a Solidarnosch che hanno portato la libertà e al governo attuale che ha ridotto la disoccupazione al 2%.
La nostra visita inizia sulla Vistola sotto la Fortezza del Wavel. Il fiume è stato frutto della ricchezza della città perché, sfociando presso Danzica, era mezzo di comunicazione commerciale : da qui partiva l’oro bianco, cioè il sale, e qui arrivava l’oro giallo, cioè l’ambra.
Il primo castello del Wavel è stato fondato alla fine del XI secolo e poi è stato ampliato dopo il 1320, quando Cracovia è diventata capitale, subendo ulteriori trasformazioni in epoca rinascimentale. Adesso è sede museale, che conserva anche la celeberrima Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci. Purtroppo non c’è tempo per visitarlo, così come non visitiamo neppure la cattedrale, che sorge su quella stessa collina.
Percorriamo la “via canonica”, e, come spesso accade visitando Cracovia con una guida, ci tocca una sorta di pellegrinaggio tra una foto del papa e l’altra che costeggiano la strada. Imbocchiamo poi una parte della Via Reale, chiamata via del Castello peri congiunge esdo con la piazza principale. Questa via è detta anche strada delle chiese, perché ve ne sorgono ben 10, la maggior parte costruite per volere dei gesuiti nel 1600, utilizzando anche architetti italiani. La guida ci tiene a farci vedere la chiesa dei Santi Pietro e Paolo dove si sono sposati i genitori del Papa! In tutta la città sono ben 130 chiese. Arriviamo nella piazza principale, la Piazza del mercato, grande ben 4 ettari, divisa a metà dal palazzo loggiato chiamato Palazzo dei tessuti (adesso pieno solo di souvenir). Tutti i monumenti di questa Piazza sono stati fatti saltare in aria dai nazisti che non volevano che si conservassero le vestigia della grandezza polacca. La nostra visita si conclude sotto la torre, l’unica traccia dell’ex municipio abbattuto dagli Asburgo nel 1800 per poter creare qui una piazza d’armi.

Quindi, presso l’università Jagellonica, la più antica della Polonia, si tiene il dialogo fra studenti italiani e polacchi e i testimoni sopravvissuti ad Auschwitz.
Partecipano il Magnifico Rettore dell’università, il vice sindaco di Cracovia, il direttore della commissione europea in Polonia, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ambasciatori e consoli dei due paesi e il vicepresidente della commissione europea, Frans Timmermanns.
Coordina l’incontro con i testimoni, due italiane -le sorelle Bucci- e una polacca – Lidia Maksymowicz- il professore Gozzini.
La prima parte dell’incontro verte sulle loro testimonianze.
Andra questa volta racconta anche ciò che accadde loro alla liberazione del campo: una jeep con un uomo che, in una lingua diversa, offre loro del cioccolato. Dopo un breve soggiorno in ospedale, vengono trasferite in una scuola di Praga, dove ricevono cure ma non amore. La loro rinascita avviene in un collegio inglese, nel Surrey, dove vengono trasferite dalla croce rossa insieme ad altri bambini ebrei. Tatiana si sofferma invece sul ricongiungimento con i genitori, iniziato con una fotografia che li ritrae nel giorno del matrimonio e terminato con un viaggio in treno, percepito da loro come noioso, da Roma a Trieste.
Oggi le sorelle parlano con voce limpida, con la consueta complicità, quella che ha contribuito a salvare loro la vita. È la volta di Lidia, una delle ultime testimoni polacche, anche lei deportata bambina. In comune con le sorelle Bucci sente il silenzio delle baracche, il dover imparare presto il tedesco, e l’interesse sadico del Dottor Mengele.
Lidia racconta l’estenuante viaggio in treno, alla fine del ’43, dalla Bielorussia ad Auschwitz, la selezione: il nonno e la nonna sono indirizzati verso le ciminiere, mentre lei e la mamma vengono mandate verso “la vita”. E fa effetto sentir questa parola, così come il fatto che lei non abbia riconosciuto la madre, vestita con il pigiama a righe e rasata. Con voce ferma racconta la vita nella baracca, fra insetti e diarrea, imparando a convivere con la morte. Pallida e trasparente, cercava di nascondersi quando veniva chiamata da Mengele, che utilizzava loro come cavie per creare “l’uomo nuovo”, il prefetto ariano. È bello sentire della solidarietà da parte di certi abitanti dei paesi limitrofi, che alla madre, che lavorava schiava lungo la Vistola, davano un po’di cibo. Già da bambina Lidia impara la lotta per la sopravvivenza e la mancanza di solidarietà: perfino fra bambini non si parlava.
Un altro dettaglio che la unisce ad Andra e Tatiana è il ricordo dell’arrivo di un soldato con la stella rossa, che le dà pane e margarina. Portata per qualche mese in una casa di Oswiecim, riscopre la normalità, anche se i segni del male assoluto sa che sono rimasti dentro di lei.
Adesso son gli alunni a fare domande: “quali pensieri vi hanno aiutato nel campo a sopravvivere?” Le Bucci rispondono il fatto di essere in due; Lidia cambia argomento e narra invece il ricongiungimento dopo anni, in Russia, con la madre, che ella credeva morta. Alla domanda “perché il male assoluto non è riuscito a cambiare l’umanità?” Tatiana sospira a lungo, poi dice di non capirne la ragione, perché gli uomini sono tutti uguali; secondo Lidia dipende dai giovani come sarà il mondo in futuro.
La seconda parte dell’incontro verte su quel grande guscio protettivo che è l’ Europa. Timmermanns asserisce che essa è nata sulle ceneri dei campi di concentramento nazisti. Invita poi i giovani a votare alle prossime elezioni europee, a maggio, in maniera consapevole.
Iniziano poi le domande del Citizen Dialogue. La prima verte sulla Brexit, che Timmermanns definisce la più grande ferita nella sua carriera politica. Una studentessa polacca domanda se si stanno prendendo provvedimenti a livello europeo contro le fake news che condizionano gli esiti elettorali. Timmermanns risponde che c’è stata una conferenza a Bruxelles su questo argomento e anche sulla propaganda alla violenza via internet. Ma la legislazione non sarà l’unica risposta, la principale sarà il pensiero critico. Uno studente polacco invita polemicamente Timmermanns a persuaderlo di seguire questo modello obsoleto di Europa. La risposta tuona energica e un po’ adirata: “non sopporto chi si lamenta senza agire. Fate voi in modo che l’Europa assomigli all’idea che avete di essa, plasmatela, cercate strumenti per combattere le recrudescenza di fascismo, l’aumento dei nazionalismi -bravi a paralizzare e distruggere, mai a costituire-, l’ascesa della Cina, la crisi nell’Europa meridionale”. Prende poi la parola il presidente del Parlamento giovanile toscano, che inneggia all’accoglienza e chiede come si fa per far tornare l’ Europa un valore, per far capire che la mescolanza etnica è una risorsa. Rossi risponde che la Toscana è già multietnica, con 100.000 rumeni, che si sono integrati e fanno in gran parte i muratori, altri 100.000 dall’Albania, la maggior parte dei quali fanno i vivaisti. E poi molti altri dall’est Europa, dalla Cina e dal Nord Africa. Bisogna combattere il razzismo, già concedendo a tutti i bambini nati sul suolo italiano la cittadinanza italiana. Ma figuriamoci se questo governo discuterà dello ius soli, penso fra me e me. “Dobbiamo combattere l’indifferenza e l’ignavia e non permettere che muoiano altre persone, ad esempio in mare, senza aiuto”. Timmermanns, grande conoscitore del nostro paese, dice che sa che l’Italia, così come la Grecia, si sono sentite abbandonate dalla Unione Europea di fronte al problema dei flussi migratori. L’UE, invece, deve fare sentire che i problemi del vicino sono i tuoi. La questione successiva verte sulle posizioni euroscettiche, sulla percezione che l’UE non sia più un’unione fra popoli ma fra banche. “L’Europa non è un’istituzione del passato, diciamolo con determinazione, non con aggressività.
È in gioco il futuro dell’Europa! parliamone. La commissione europea non è che un piccolo strumento nelle mani dei cittadini”. Con questa esortazione di Timmermanns si conclude il Citizen Dialogue sul futuro dell’Europa: imparare dal passato, capire il futuro.



Dialogare con la memoria: gli ultimi testimoni. Il Treno della Memoria 2019

Dopo le visite ai campi, il viaggio prosegue in un cinema di Cracovia con un denso pomeriggio di formazione centrato sull’incontro con i testimoni, organizzato, come tutto il viaggio, impeccabilmente dal Museo della deportazione. Apre il pomeriggio al cinema Krilov, l’instancabile Ugo Caffaz, che con tono allarmato, afferma che stiamo attraversando di nuovo un periodo in cui l’Europa -la sua Unione- va a pezzi, in cui (notizia di oggi) si afferma che i protocolli dei Savi di Sion siano veri e che la banca degli Ebrei, cioè i Rothschild, stiano di nuovo mandando in crisi il sistema finanziario mondiale. Seguono i saluti istituzionali, che citano le parole di Liliana Segre contro l’indifferenza. Il Professor Gozzini  cita, invece, la lettera scritta da Hoess la notte prima di essere giustiziato nel 1947 “il mio errore è stato quello di credere ciecamente in ciò che mi è stato detto”. Poi invita a riconoscersi negli occhi degli altri -questa è l’humanitas- e conclude dicendo che come abbiamo il “librone” dei nomi dei morti di Auschwitz, oggi noi dovremmo prendere un librone bianco e raccoglievi i nomi di coloro che sono scomparsi nel Mediterraneo.

Poi salgono sul palco fra gli applausi Andra e Tatiana, figlie di famiglia mista, ebrea da parte di madre, la quale con la nonna era fuggita da un pogrom nell’est Europa a Fiume, città che, alla loro nascita, era Italiana. Nel ’38, per le leggi razziali, parte dei parenti perde il lavoro e il padre italianizza per sicurezza il cognome da Bucich a Bucci. Allo scoppio della seconda guerra, egli, che navigava per il Lloyd Adriatico, viene imprigionato in Sud Africa. Nell’estate del ’43 il resto della famiglia viene raggiunto dalla zia Gisella con il figlio Sergio con il quale loro, bambine, vivono una infanzia normale, fino a una notte del ’44 in cui delle SS e dei fascisti, in seguito a una delazione, si presentano alla loro porta e tutta la famiglia viene arrestata e deportata alla Risiera di San Sabba. Da lì inizia il lungo e doloroso viaggio in treno verso Auschwitz, dove arrivano il 4/4/44 Di esso Tatiana ricorda il secchio con gli escrementi. L’arrivo alla Judenrampe lo racconta Andra, così come la prima selezione, in cui nonna e zia vengono fatte salire su dei camion e scompaiono per sempre. Il suo ricordo di sposta poi nella sauna, dove vengono tatuate. Ma il racconto è interrotto dal pianto, coperto dagli applausi. Andra si riprende e narra la divisione dalla mamma e la collocazione nel Kinder Block. Così inizia una nuova vita, caratterizzata da un grande spirito di adattamento. Ciò che più ricorda è la ciminiera che sputa fumo e fiamma ed il freddo, la neve. Di giorno erano abbastanza liberi e vagavano nel campo fra cumuli di cadaveri. La loro blokowa un giorno le avverte di non fare un passo in avanti, qualora venisse loro chiesto di rivedere le loro mamme. Ma Sergio fa quel passo e, deportato a Neuengamme, muore da cavia di esperimenti medici.

Poi viene proiettato un video di Slomo Venezia,  che racconta la sua terribile esperienza nel sonderkommando. A seguire quello di Hugo Hoellnreiner, la cui storia si è tramandata grazie al prigioniero politico Tadeusz Joachimowski che ha nascosto in un secchio il nome dei deportati Sinti.

Sale poi sul palco Silvia Rusich, in memoria del padre deportato perché oppositore politico. Il babbo le raccontava della lotta  partigiana in modo gioioso, non nascondendosi. In pensione il padre, maestro elementare,  ha iniziato a scrivere ma lei non volle leggere i suoi scritti se non dopo la sua morte. Infatti, andando all’Arena di Pola,   per la quale lui scriveva, Silvia legge alcune parole del padre, che raccontano di Flossenbürg e delle marce della morte.

È la volta di Luca Bravi che ci introduce la testimonianza di Marcelli Martini, il più giovane deportato politico di Italia, a 14 anni. Dapprima incarcerato alle Murate, fu portato a Mauthausen, dal quale si chiede come abbia fatto a sopravvivere. Ricorda una decimazione durante un appello, poi esorta i giovani ad imparare “Perché quello che tu sai o che sai fare non te lo può levare nessuno”.

Sempre Bravi introduce, citando il paragrafo 175 che condannava gli omosessuali, la testimonianza di Hans F.,  che, intervistato nel 2000, non sa o ha ancora paura di dire il suo cognome. Hans racconta del suo arresto senza processo e dell’internamento prima a Dachau, poi a Buchenwald, e infine a Mauthausen. Complessivamente restò  nei campi per 8 anni e 4 mesi. Al ritorno non ne ha parlato con nessuno, neppure con la madre o il fratello, per vergogna.

Torna sul palco Caffaz, che introduce il tema degli IMI, gli internati militari italiani: 650.000, di cui solo 40.000 dalla Toscana, deportati per aver rifiutato di servire Hitler e Mussolini. Viene poi trasmessa la testimonianza di Antonio Ceseri, salvatosi per essere rimasto sepolto vivo sotto non una montagna di cadaveri. Dopo un anno dalla sua deportazione, tornato, deve rifare 8 mesi di servizio militare in marina, a sminare l’Adriatico e dice ironicamente con il suo accento toscano “sta’ a vede’ che so’ sopravvissuto a Hitler e ora muoi in Italia dopo che la guerra è finita”. Quando gli viene chiesto se lo rifarebbe, risponde “assolutamente sì”. Grande esempio di coraggio e di coerenza.

Infine sale sul palco Vera Vigevani Jarach, 90 anni, che con il suo incrollabile sorriso e fiducia nella vita, inizia dicendo “mai più il silenzio”. Poi racconta che due settimane fa le è stata recapitata una lettera del 1943 di suo padre, che dichiara di volersi arruolare per l’Italia libera e per salvaguardare la dignità degli uomini. Ciò dimostra il patriottismo ebraico. Dopo racconta un altro episodio accadutole qualche mese fa: a Venezia le è stata consegnata la pagella di suo marito. Il voto più alto era la condotta! Ciò richiama come contrappasso per opposizione la pagella di sua figlia Franca, che nella sua ultima pagella, aveva tutti 10 ma “male” a condotta, perché in Argentina c’era già la dittatura e lei, da studente, vi si opponeva, cosa che la porterà alla morte. Quando ci sono i sintomi, i prolegomeni della crisi della democrazia, dice Vera, bisogna prendere parte, cioè diventare partigiani. Definendosi un’ottimista, anche se non assoluta, dice che per farlo ci vogliono volontà (e qui cita Gramsci), speranza e testa, cioè il pensiero critico. E rammenta che ora bisogna ancora lottare contro la fame (dovuta al colonialismo), le guerre, il femminicidio. Conclude citando Dante, il terzo canto dell’inferno: mai per viltade fare il gran rifiuto!

La nostra serata è conclusa con la musica particolare e trascinante di Enrico Fink, attore, cantante, musicista, che fa una sorta di teatro canzone, fondendo correnti diverse e recuperando cultura ebraica e storia familiare. [Sullo spettacolo di Fink vedi file allegato]

Senza che si accendano le luci per non rovinare l’atmosfera, defluiamo lenti, dopo un lunghissimo applauso ad Enrico e a tutti coloro che hanno contribuito a questo memorabile incontro.