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Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (II°)

È doveroso soffermarci, attraverso le testimonianze raccolte, sull’11 agosto, giorno particolarmente tragico.

Il giorno 11 agosto 1944 in seguito a rastrellamenti ed arresti operati dalle SS furono radunati in Nozzano Castello nel locale scolastico varie centinaia di uomini. Di questi una parte, la maggiore, furono condotti lontano a lavorare, un’altra parte, circa 70 uomini, furono barbaramente assassinati nei dintorni di Nozzano.  Sembra che la scelta dei candidati alla morte sia stata fatta in questo semplice modo: fu domandato a quei poveretti chi voleva essere visitato e scartato dal lavoro. Tutti quelli che domandarono la visita medica furono assassinati. Un interprete chiese se vi era qualcuno che chiedesse visita. Sessantanove braccia si alzarono e firmarono così la loro condanna a morte. Infatti mentre gli altri furono fatti proseguire verso Lucca i 69 portati a scegliere la morte con atroce inganno furono rinchiusi nelle scuole di Nozzano. Molti furono torturati. Dopo tre giorni di speranze e timori la mattina dell’11 agosto a gruppi di 5 o 6 furono trucidati lungo le strade che da Nozzano portano a Lucca, Quiesa, Massaciuccoli, Massarosa. Sui corpi straziati venne posto un cartello testimoniante l’infame menzogna delle belve naziste ”uccisi per aver sparato sui tedeschi”. Sul territorio di Balbano la sera del giorno 11 vi erano 11 cadaveri crivellati di pallottole. Il giorno di poi con l’aiuto di vecchi uomini raccolti dal Pievano nel paese fu proceduto all’inumazione di questi disgraziati. Prima del seppellimento furono prese di ognuno le caratteristiche personali, l’età presunta, oggetti trovati nelle tasche e un pezzo di giacchetta di ognuno cosicché in seguito furono potuti riconoscer dai familiari e riportati nei relativi cimiteri. Quattro cadaveri furono trovati a Casanova ad occidente della casa di Giovanni Ferretti ed ivi sepolti in una fossa comune (si tratta di Pollone Oscar di Pisa, sfollato a Ripafratta, Pecori Gastone e Carissi Crocifisso maresciallo di Pisa, Dalla Croce Raulle di S.Maria in Monte.) Altri 4 cadaveri furono trovati nella cava di pietre a pochi metri dalla via che conduce a Massaciuccoli a ponente delle case, luogo detto Al Cavaliere (Giusti Guido di Ripafratta, Aladino ed Emilio Barsuglia , Pera Giuseppe di S.Angelo in Campo). Altri tre cadaveri furono trovati nel fondo detto di Bucino, fra la via di Massaciuccoli all’altezza del viottolo che sale alla casa del Giuliani al loco detto Al Cavaliere e l’imbocco del tunnel ferroviario (Sbrana Mario e Farnesi Donatello di Pisa, D’Angiolillo Aniello di Salerno, sfollato a Pisa). Con questi ultimi doveva essere assassinato un quarto, che invece riuscì a sfuggire per un puro caso e correndo nel fondo del canale si rifugiò nella casa dei Pannocchia adiacente alla linea ferrata e di qui più tardi si fece uccel di bosco. Ho saputo poi dal figlio che fu di nuovo rastrellato e condotto in Germania”. (Testimonianza del Pievano Tofani di Balbano sulla strage dell’11 agosto 1944 in Archivio Parrocchiale, Parrocchia di Balbano).

Fummo presi in 300, uomini, donne e bambini. Dopo averci inquadrati ci condussero in località Focetta. Qui ci divisero dalle donne e dai bambini. Soltanto la signora Gereschi fu costretta a seguirci. A Ripafratta un interprete ci chiese se fra noi c’era qualcuno che chiedesse visita. Molti chiesero di essere sottoposti a visita medica. Ci divisero quindi in due gruppi: uno fu fatto proseguire per Lucca, l’altro, del quale facevo parte anch’io, fu portato alle scuole di Nozzano. Passarono così 4 orribili lunghi giorni. Alcuni di noi vennero torturati. Credo che la signorina Gereschi sia stata violentata. Eravamo tutti ammassati in un’aula scolastica, sorvegliati a vista da due sentinelle armate di mitra. La mattina dell’11 agosto venne un ufficiale dell’SS. Ci disse che ci avrebbe fatto passare la visita quattro alla volta. Io fui del secondo turno. Insieme ad altri compagni mi condussero nei pressi di Filettole in località Pancone. Ci fecero scendere e subito ci fucilarono. Per meglio accertarsi della nostra morte i criminali ci spararono a bruciapelo il colpo di grazia alla nuca. Per pura combinazione anziché colpirmi alla tempia il proiettile mi prese di striscio all’orecchio sinistro. Non feci alcun movimento e forse a causa del sangue che mi usciva in grande quantità dalla ferita mi credettero morto. Infatti poco dopo si allontanarono tutti con la camionetta. Allora tentai di alzarmi ma non ci riuscii. Avevo la gamba e il braccio destro massacrati. A prezzo di atroci sofferenze, rotolandomi per terra riuscii ad avvicinarmi al Serchio. Gridai aiuto sperando che qualcuno mi sentisse. Infatti un tedesco che stava facendo il bagno nel fiume si avvicinò. Mi chiese che cosa fosse accaduto ed io gli spiegai il fatto. Dopo essersi accertato della verità delle mie parole andò via e ritornò dopo un’ora insieme a sette suoi camerati armati di mitra e due italiani che trascinavano un carretto. Vi fui caricato sopra e condotto alla Croce Rossa di Avane. Giunti a sera i soliti due italiani e due tedeschi mi portarono, sempre con il carretto, all’Ospedale di Lucca, dove verso mezzanotte mi fu fatta la prima medicazione dal momento in cui ero stato ferito. Sette giorni dopo mi amputarono la gamba sopra il ginocchio e il braccio mi fu rabberciato alla meglio, tanto è vero che ora è completamente inservibile”. (Testimonianza di Oscar Grassini (nato 01/06/1908), messo comunale di S.Giuliano Terme). (5)

Il 19 agosto 1944, dopo una prima scelta che conduce alla Pia Casa di Lucca alcuni uomini che si dichiarano abili al lavoro, 53 reclusi nella scuola di Nozzano vengono condotti fino a Bardine San Terenzo (Fivizzano) e qui legati con filo spinato e poi fucilati a colpi di mitra. Sono i rastrellati del 12 agosto a Valdicastello al termine delle operazioni di Sant’Anna di Stazzema.

Il giorno dopo, 20 agosto, parte dalla scuola di Nozzano un rastrellamento a vasto raggio nei paesi attorno a Lucca. All’alba le SS penetrano a forza nelle case e fanno scendere dal letto tutti gli uomini che, incolonnati e caricati su camion vengono portati a Lucca ed internati alla Pia Casa. Tra i rastrellati ci sono anche i fratelli Franco e Nello Orsi.

20 Agosto 1944, nelle prime ore del mattino fui svegliato da un suono di voci gutturali, incomprensibili, mi ci volle un po’ di tempo prima di poter capire la situazione, poi improvvisamente balzai dal letto scossi mio fratello Franco che dormiva poco distante da me: sveglia gli dissi, c’é il rastrellamento, saltò immediatamente dal letto e tutti e due ci precipitammo verso le scale per discendere, ma era troppo tardi, saliva verso di noi un tedesco della S.S. armato fino ai denti, che non appena ci vide, spianò il suo fucile contro di noi, e con un gesto espressivo ci fece capire di seguirlo. Nella corte dove ci condusse trovammo altri amici, i quali erano attorniati dai parenti e dai genitori in lacrime. Mi misi in fila con loro e dopo dieci minuti di sosta ci avviammo verso il centro del paese, dove ci relegarono in una stalla, in compagnia di altri sfortunati. In quell’ambiente sostammo circa un’ora, poi ci caricarono tutti su di un camion pronti per partire. Fuori vidi donne che piangevano, nel vedersi strappare così i loro cari, bambini che strillavano e chiamavano i loro papà. Ansiosamente io scrutavo tutti i volti per riconoscerne qualcuno noto, e finalmente vidi mio Padre…. Non dimenticherò mai la sua espressione, rivedo ancora i suoi occhi lucidi, lo additai a mio fratello e tutti e due gli sorridemmo per infondergli coraggio, egli ci salutò con la mano, poi fece l’atto di avvicinarsi al camion, ma proprio nello stesso momento un tedesco respingeva brutalmente una donna che si era avvicinata per dare un ultimo abbraccio al proprio marito. Pochi secondi ancora, poi il camion si mise in moto, rivolsi un ultimo sguardo a mio padre e ve lo tenni fisso finché non lo vidi rimpiccolirsi e poi sparire. Ci scaricarono come sacchi alla Casa Pia in Lucca. Indescrivibile il caos che regnava la dentro, centinaia di uomini di tutte le età si muovevano in quelle stanze, in tutti i volti notavo la disperazione ed il timore per la sorte che ci era riservata. Parlai con alcuni di loro, molti si trovavano là già da dieci o quindici giorni, e dicevano che non avevano più la forza di resistervi, altri invece, erano giunti da poco, come noi. Un’ora di aspettativa, poi la mia sorte fu segnata. Un Tedesco ci mise in fila, e scrutandoci in faccia con un cenno ci faceva uscire e ci metteva da una parte, venni scelto anch’io e con gioia anche mio fratello cadde nella scelta. Così partimmo, la destinazione ci venne detta in via eccezionale da un interprete, la meta era Diecimo Pescaglia”. (Testimonianza di Nello Orsi) (6)

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Fascisti di Nozzano della XXXVI Brigata Nera (Archivio privato)

In agosto nell’Oltreserchio si muovono anche i fascisti della XXXVI Brigata Nera, capitanata da Vittorio Marlia di Nozzano che vede tra i più attivi collaboratori: Lelio Rossi di Balbano, Giuseppe Cortopassi di S.Maria a Colle, Paolino Bertolozzi di Farneta. E’ lo squadrismo fascista ad aizzare i tedeschi contro i civili. Testimonianze del tempo affermano che i fascisti locali entravano nei locali della scuola di Nozzano per cambiarsi d’abito. Indossate le divise dell’esercito tedesco uscivano con i soldati impegnati nei rastrellamenti, violenze ed uccisioni.

Il 18 agosto un sottufficiale medico della XVI Panzergrenadier, il sergente Papuska, preleva dalla sua abitazione di S.Maria a Colle il giovane Raffaello Giannini, lo conduce in Corte Cosci a Nozzano S.Pietro e lo uccide.

Il 23 agosto lo stesso Papuska, assieme al suo interprete detto “Il bolzanino”, piomba in Corte Tenente dove massacra a sangue freddo i cugini Alberto e Cherubino Vannucci, ordinando ai genitori del primo di seppellirne i corpi.

Successivamente, nella stessa corte, rastrella altri tre giovani: Pompilio, Aurelio e Pietro Vannucci. Mentre li avvia verso la scuola di Nozzano i tre tentano la fuga così li uccide a colpi di pistola. Il mattino del giorno seguente il criminale nazista fa irruzione in Corte Treppia dove uccide il giovane Alessandro Palagi. (7)

A Lucca liberata, Diana Vannucci, 16 anni, “in seguito a fucilazione del padre avvenuta in S.Maria a Colle ad opera dei tedeschi il 23 agosto ’44 e dovendo provvedere a madre e fratellino” chiederà al CpLN di Lucca di essere assunta come stenodattilografa. Uno degli innumerevoli casi di mancata giustizia e mancato risarcimento per i lutti e le perdite subite.

Il 28 agosto le truppe alleate varcano l’Arno, liberano Pisa (2 settembre) e si dirigono verso la lucchesia. Nozzano Castello non costituisce più un luogo sicuro per la Reichsführer-SS, che lo abbandona tra il 28 e 29 agosto trascinando a nord molti civili e dei sacerdoti incarcerati nella scuola elementare. Prima di abbandonare la scuola i soldati tedeschi la fanno saltare in aria facendo uso di cariche esplosive. Non tutti i camion partono verso nord. Un paio si dirigono verso Filettole e qui, in località Laiano, i soldati del tenente Gerhard Walter fanno scendere i 37 prigionieri, tra cui Don Libero Raglianti. Dopo averli fatti allineare lungo una fossa scavata da una bomba alleata, li fucilano.

E’ bene qui ricordare anche il grave episodio avvenuto nella Certosa di Farneta. Il 2 settembre i soldati tedeschi entrano con un inganno nel monastero: tutti i presenti vengono arrestati e portati in un capannone fuori dal convento. Dodici certosini – 6 monaci, tra cui un vescovo, e 6 conversi (cioè laici con l’abito religioso) – vengono fucilati nei giorni seguenti, tra Pioppeti, Camaiore, Massa, mentre gli altri vengono in parte tenuti in carcere e in parte trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli, in attesa del trasferimento in Germania. Vengono uccisi anche 32 civili che avevano trovato rifugio nel monastero. (8)

L’8 settembre 1944 Nozzano viene cannoneggiata dalle truppe alleate. Secondo la testimonianza di Don Giovanni Galli, allora parroco di Nozzano Castello, con circa ottanta cannonate viene distrutta la torre campanaria e vengono gravemente danneggiate sia le case vicine sia la stessa chiesa.  “La Guerra che già da anni seminava morte e rovina in tutto il mondo ha cominciato a farsi violenta anche in Italia e nei nostri paesi. Nozzano è stato uno dei più provati del Comune di Lucca. Abbiamo sopportati numerosi e violenti bombardamenti quando si cercava di colpire il ponte di ferro della ferrovia e gli automezzi tedeschi che ritirandosi da Pisa passavano per le nostre vie.

Il dieci agosto ebbero inizio i rastrellamenti e le aule delle scuole in breve tempo si riempirono di uomini di ogni età portati via anche da altri paesi.  Anch’io fui rastrellato e dopo essere rimasto chiuso nella scuola fui condotto a Lucca. Feci il viaggio a piedi con una colonna lunghissima di uomini sotto la guardia delle S.S. Tedesche.

A Lucca per intercezione dell’Arcivescovo venni liberato subito e potetti rientrare in parrocchia. In paese si erano istallati gruppi di soldati tedeschi. In brevissimo tempo derubarono quasi tutto il bestiame: buoi, mucche, suini, pollame. Non contenti iniziarono la demolizione delle case e ne furono distrutte varie sia dentro il Castello come fuori. Il ventuno fui nuovamente rastrellato. Era le 6 ½ della Domenica. Stavo confessando, quando un gruppo di S.S. armate penetrarono in Chiesa e spianandomi il mitra mi costrinsero a seguirle. Anche questa volta la Madonna mi aiutò e riuscii a raggiungere il Vescovato dove rimasi fino alla liberazione da parte degli Alleati che avvenne il 9-IX-1944.

Nella notte dell’otto settembre Nozzano fu violentemente cannoneggiata dagli Alleati. Fu colpita la Torre con circa ottanta cannonate. La Cella fu semidistrutta e la campana superstite andò in frantumi. Fu colpita anche la Chiesa. Un danno immenso sia alla Torre come alla Chiesa. Delle case possiamo dire che furono poche quelle rimaste illese. I Tedeschi prima di lasciare il paese minarono e fecero saltare le scuole dove erano state chiuse e martoriate migliaia e migliaia di persone tra cui donne e sacerdoti. (9)

Lo stesso Don Giovanni Galli, a guerra finita, ricorda quei giorni:  “L’inizio del nostro calvario avvenne con l’incendio pauroso che distrusse molteplici capanne murate, ricolme del raccolto del grano ancora in manne. Era il frutto di tanti sudori, e su questo ponevamo tante speranze. I colpevoli? Stentiamo a credere alla realtà. “Se si ripeterà un fatto simile mi disse con cipiglio severo il comandante della gendarmeria tedesca che mi aveva fatto chiamare- farò delle gravi repressioni in paese. Riferisca questo ai suoi parrocchiani” Dopo il danno dovemmo prendere anche la colpa. L’incubo era così cominciato e la scuola già rigurgitava di uomini rapiti nei paesi del pisano. Di qui la maggioranza di essi era trasportata a Lucca alla Pia Casa, altri venivano falciati col mitra nei dintorni. Avete potuto vedere coi propri occhi quanti cadaveri contenesse la sola fossa di Filettole. Gli alleati sono ancora al di là dell’Arno, nel paese contiamo pochi tedeschi ma bastano per incutere terrore di morte. Una squadra sale il Castello armata di picconi. Cosa hanno intenzione di fare? Tutti ci dicono che le mine iniziano la temuta demolizione del Castello. Le case sbrecciate e smantellate cominciano a cadere. Il Castello non si riconosce più. Quale sarà la sorte della Chiesa? Se l’opera di distruzione dovesse continuare, finirebbe anch’essa in un cumulo di macerie. I vetri sono andati tutti in frantumi per lo spostamento dell’aria e pezzi di pietra gettati in alto sono poi venuti a sfondare il tetto precipitando sul pavimento. E’ doveroso salvare le suppellettili prima che sia troppo tardi; e così come dalle case si porta via ogni cosa, anche la chiesa viene spogliata. Solo nel vuoto si eleva il grande Crocifisso posto sull’altare maggiore. Alla sera di questo giorno fatale avviene un fatto inaspettato. La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto. Quale la causa? Per noi sarà sempre un enigma. Alcuni hanno voluto vedervi una punizione per la inutile e disumana distruzione delle case. Il fatto certo è questo che da quella sera non si udirono più scoppi di mine. Era appena cessato questo incubo, quando ebbero inizio i rastrellamenti: anche il sottoscritto va a finire alla scuola, divenuta centro di raccolta, e di qui incolonnati ci indirizzano alla Pia Casa. Appena a Lucca il sottoscritto fu liberato e dopo tre giorni mandato di nuovo in paese. Alla domenica, nuovo rastrellamento. Come molti paesani furono portati via dalle loro case, così il Parroco fu portato via dalla chiesa. Erano le sei e tre quarti del mattino e stava ascoltando le confessioni. Questa volta dovetti rimanere assente fino alla venuta degli alleati. Intanto Nozzano continua la sua ascesa nella via sanguinosa. Gli alleati sono a poca distanza da noi, quando ha inizio un violento cannoneggiamento. I proiettili cadono violentemente l’uno dopo l’altro sul paese. Il primo bersaglio è la Torre vetusta. Ha sfidato tanti secoli, è rimasta intatta mentre l’ira del tempo e degli elementi ha fatto crollare tante sue sorelle ed ora sembra divenuta debole e fiacca. Ogni colpo è un pezzo di muro che si stacca. La Torre campanaria non si riconosce più e la campana unica superstite colpita in pieno cade. Il tiro si sposta ed è la volta delle case. Quasi tutte sono state più o meno colpite, ed anche attualmente si vedono le stigmate degli squarci…..anche la Chiesa viene colpita. Prima di abbandonare il paese le S.S. tedesche demolirono alcune case in basso. Anche la frazione di Corte Pardi, oltre ai gravissimi danni al palazzo dei conti Bargagli, vide incendiate tutte le sue stalle e le sue capanne.” (10)

Nel 1948 iniziano i lavori di costruzione della nuova scuola elementare, inaugurata l’11 dicembre 1949 ed ancora intitolata ad Ermenegildo Pistelli.

E’ bene infine ricordare come il responsabile per grado delle atrocità commesse sopra descritte, il generale Max Simon, al termine della guerra, dopo essere stato rinchiuso con Reder nel Campo di Wolfsberg, venga processato a Padova davanti a un tribunale militare inglese. Il suo è l’ultimo celebrato di una serie di processi tenuti nella stessa città contro presunti criminali di guerra nazisti. Il criminale nazista viene condannato a morte, ma la sentenza è quasi immediatamente commutata con il carcere. L’ex generale viene trasferito in Germania per scontarvi la pena. Come molti altri prima di lui, è libero nel 1954 anche per intercessione dell’arcivescovo di Colonia Frings e grazie alla campagna per il perdono e la riabilitazione dei criminali di guerra che coinvolge in particolare la Germania negli anni della Guerra fredda, volta a rilegittimare l’esercito tedesco come elemento centrale nello schieramento europeo della NATO.  Durante il processo non si mostra mai pentito, affermando “rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto”. Max Simon muore d’infarto nel 1961.

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Note:

(6)  Nello Orsi, Da rastrellati a partigiani – Diario 1944, Tra le Righe Libri 2014

(7)  Don Pio Serafini, De Tempore Belli, Istituto Storico della Resistenza

(8)   Michele Battini, Paolo Pezzino, Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro: Toscana 1944, Marsilio 1997

(9)  Archivio Parrocchiale Nozzano Castello 1944

(10) Bollettino Parrocchiale di Nozzano Castello n.1 in Regnum Christi, maggio 194

 

 

 




Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (I°)

Nei primi anni del ‘900 a Nozzano Castello i bambini in età scolare seguono le lezioni in abitazioni private che vengono affittate dal Comune per questo scopo. A partire dagli anni ’20 il Comune di Lucca acquisisce un edificio che sorge proprio al centro della piazza del paese per adibirlo a scuola elementare: una palazzina a due piani. Le classi sono al pianterreno e l’abitazione della maestra al piano superiore, come d’uso in quel tempo, quando le maestre avevano l’obbligo di residenza nel luogo dove insegnavano.

foto 3In un primo momento la scuola deve essere intitolata a Salvatore Bongi (Lucca 1825 – Lucca 1899), storico e bibliografo, responsabile dell’Archivio di Stato di Lucca dal 1859 fino alla sua morte, ma nel 1928, anche per la volontà dell’allora segretario federale di Lucca del partito fascista, Carlo Scorza, dal 1942 segretario nazionale del Pnf, la scuola di Nozzano viene intitolata a Ermenegildo Pistelli.

Ermenegildo Pistelli (Camaiore 1862 – Firenze 1927) è un sacerdote scolopio, filologo e glottologo, di aperte simpatie per il fascismo. In polemica con Benedetto Croce, che rifiuta sempre l’iscrizione al Partito Fascista, scrive vari articoli sul giornale “Battaglie Fasciste”, organo del fascio fiorentino. Nel 1927 viene pubblicato il suo libro “Eroi Uomini e Ragazzi”. Nella prefazione di Benito Mussolini, Ermenegildo Pistelli viene definito “fascista fedele e appassionato”. Va ricordato che proprio in quell’anno il regime fascista impone il libro unico per l’insegnamento elementare “Patria” scritto da Adele e Maria Zanetti, seguìto nel 1934 dal “Libro fascista del Balilla” di Vincenzo Meletti. (1)

La scuola sorge nella piazza dedicata ai Martiri della guerra fascista, separata dalla Casa del Fascio dal Fosso Dogaia. Oltre la scuola sorge il Campo della Rimembranza dei caduti della Prima Guerra Mondiale, cinto da una inferriata poi tolta e utilizzata come materiale bellico durante la Seconda Guerra Mondiale. Già all’inizio la scuola è insufficiente a contenere tutti gli alunni, per cui ancora si deve ricorrere a succursali dislocate presso privati, come Villa Febbrini, situata nella parte opposta della piazza, ma la scuola della piazza è quella ufficiale.

 

Manifesto con la dichiarazione dello stato di emergenza dopo l’8 settembre

Manifesto con la dichiarazione dello stato
di emergenza dopo l’8 settembre

Dopo l’11 settembre 1943 assume il comando su tutte le autorità militari e civili di Lucca e Provincia il comandante Randolf che, dichiarato lo stato di emergenza, avverte: “coloro che tentassero delittuosamente di nuocere al Reich tedesco o ai suoi soldati, devono attendersi le più severe punizioni senza alcun riguardo”.

Il 18 maggio 1944 la Circolare n.781 gab. riservata ai Podestà e Commissari Prefettizi della Provincia, al Questore e al Comandante provinciale GNR, prevede l’eventualità, in caso di Stato di Emergenza, di sfollamento nel giro di poche ore di popolazione e bestiame verso Pistoia. I Podestà, d’accordo con i Segretari del Fascio Comunale, nominano: i Capi Ammasso, che devono radunare il bestiame e i conducenti; i Capi Colonna, che guidano distintamente bestiame e persone alla località di sfollamento.

E’ previsto l’impiego della Polizia per sostenere i Capi Ammasso e i Capi Colonna per garantire l’ordine pubblico e prevenire o reprimere ogni eventuale incidente. I nominati possono anche non essere iscritti al Partito Fascista, ma devono godere di largo prestigio fra la popolazione.

Per la Zona dell’Oltreserchio vengono nominati: per Nozzano Castello, Capo Frazione Boggioni Amleto; Capo Ammasso Simi Fausto, Capo Colonna Benetti Orlando. Per Nozzano S.Pietro, Capo Frazione Barsotti Alfredo; Capo Ammasso Micheli Giovanni; Capo Colonna Michelucci Vittorio.

Il 24 luglio 1944 la Scuola Elementare di Nozzano Castello viene requisita dalla XVI Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS”, comandata dal generale Max Simon. La scuola diventa la sede del carcere divisionale. Nei pressi della scuola, in località Bordogna, viene istituito il tribunale che si occupa di processare e condannare a morte gli elementi sospetti. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter.

 

Le testimonianze di chi è sopravvissuto al soggiorno nella scuola di Nozzano e al trattamento del tenente Walter sono agghiaccianti. Si dorme su pagliericci che al mattino vanno risistemati, pena le ingiurie e le percosse delle guardie. Il cibo è quasi inesistente. Le finestre sono sbarrate e in quella torrida estate l’aria è irrespirabile. Dormire è praticamente impossibile, ci si può recare alle latrine solo al mattino e alla sera. Le SS praticano ai danni dei reclusi un vero e proprio campionario di esercizi di tortura. (2)

Si legge nella testimonianza del maestro Mario Bigongiari arrestato con il fratello don Giorgio, Cappellano di Lunata (Lucca):

Il giorno 16 agosto 1944, dietro denunzia anonima di fascisti, fui arrestato insieme col fratello don Giorgio, cappellano di Lunata, col pievano don Angelo Unti e con altri uomini del paese, in tutto dieci persone, e condotto direttamente a mezzo camion nelle scuole elementari di Nozzano Castello. Arrivati, ci condussero in un’aula del secondo piano, dove trovammo altri due di Lucca, certi Ninci e Vannini; erano circa le sette del mattino. Dalle condizioni dei primi internati veduti, capimmo che ci trovavamo in carcere e fra persone su cui pesavano gravi accuse. In una prima stanza, tutto intorno alla parete c’erano dei  giovani in ginocchio di cui alcuni bendati. Nel mezzo c’era una sentinella tedesca armata di mitra che sorvegliava ogni movimento, percuotendo brutalmente chi, per stanchezza o insofferenza, cambiava posizione. Sempre al piano superiore in comunicazione con la nostra stanza, vi erano i rastrellati di Valdicastello. Tra loro in seguito conoscemmo il pievano don Libero Raglianti, un carmelitano Padre Marcello e uno studente di teologia salesiano Tognetti. Anche le condizioni di questi erano dolorose. L’aspetto lo dimostrava: barba lunga, vestiti strappati, volti cadaverici. Restammo in quella stanza, priva di qualsiasi mobile, tutta la mattina, senza subire alcun interrogatorio e senza  uscire nemmeno per i più elementari bisogni. Alle quattro del pomeriggio ci portarono in un solo coperchio di gavetta militare del grano cotto, che doveva servire insieme ad un pezzo di pane per 12 persone. La sera stessa ci fecero scendere al primo piano, in una stanza più grande con della paglia e delle panche, la quale comunicava con la stanza più terribile perché qui le sofferenze erano continue (…) Dopo due giorni cominciarono gli interrogatori. Ogniqualvolta ci interrogavano, venivamo separati l’uno dall’altro. Quando le interrogazioni non li soddisfacevano, si sfogavano brutalmente. Continuamente pesava su di noi l’incubo di una fine tragica, perché questa giornalmente era la sorte di tanti disgraziati che si vedevano partire sopra una camionetta con alcuni tedeschi armati. Poco dopo tornava la camionetta con i soli tedeschi. Ogni giorno eravamo spettatori di atrocità raffinate: troppo ci vorrebbe a raccontarle tutte. Un giorno portarono una donna di circa 30 anni. Fu messa nella stanza superiore, poi perché per i maltrattamenti subiti gridava aiuto dalla finestra, fu condotta in un piccolo gabinetto al piano superiore, sporco da non dirsi. Ve la tennero in un fetore insopportabile, senza avvicinarsi nessuno, senza bere e senza mangiare due giorni e due notti. Impazzita, fu fucilata in una fossa a poca distanza dalla scuola. Era di Camaiore, si chiamava Leila Farnocchia”.

foto 4 La scuola è separata dalle case circostanti dalla strada comunale, eppure la paura e l’istinto di sopravvivenza domina gli abitanti rimasti in paese, prevalentemente donne, bambini e anziani, inerti di fronte a ciò che accade nell’edificio. Gli uomini quasi tutti sono sfollati da Nozzano per rifugiarsi soprattutto nei locali dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano. Fra le memorie raccolte dalla loro viva voce c’è il ricordo dei camioncini che si allontanano pieni e ritornano vuoti e della donna di Camaiore sopra citata. Leila Farnocchia è una maestra, imprigionata perché sorpresa con volantini contro i tedeschi, secondo alcuni raccolti per terra, secondo altri da lei stessa distribuiti.

Qualche anziano, testimone del tempo, dice che sia stata sorpresa con un canestrino di viveri che sta portando al marito nei campi e accusata di portare cibo ai partigiani. Di fatto i tedeschi la trattano come una partigiana. Dalla finestra della scuola grida il suo nome e si raccomanda che venga avvertita la sua famiglia a Camaiore. Dopo il martirio nella latrina viene fucilata in un campo vicino alla scuola, lungo la strada che porta alla Chiesa di Nozzano S.Pietro. Il suo corpo viene gettato in una fossa di confine. Li rimane diversi giorni, ben visibile e nessuno osa darle sepoltura e perfino guardarla temendo rappresaglie.

Una ordinanza del comando della XVI Divisione vieta comunque la sepoltura delle vittime.

Il periodo che va dall’agosto al settembre ’44 è il più terribile per tutto il territorio, sul quale si sfoga la barbarie dei tedeschi. Lo ripercorriamo attraverso le testimonianze di persone che l’hanno sofferto e che documentano dal vivo in modo tragicamente essenziale le vicende di quei giorni.

Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio con il bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944… Circa la chiamata e l’avvertimento dato al parroco dalla gendarmeria altro nonera che lo scopo preciso di crearsi un alibi per commettere più agevolmente i loro delitti sulle persone e sulle proprietà, Infatti veniva razziato tutto il bestiame, ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi venivano rastrellati e portati a lavorare. In questo periodo di tempo veniva minato e distrutto il ponte di ferro sul Serchio, minata e divelta la ferrovia che conduce a Viareggio, minata e fatta saltare la galleria di Balbano”. (Testimonianza di Giuseppe Vecci di Nozzano Castello).

Tra il quattro e il cinque agosto una squadra di guastatori demolisce diverse abitazioni in Castello. Il giorno sei hanno inizio distruzioni in grande stile con un cinismo ed una ferocia impareggiabili, poiché il vero scopo di queste distruzioni non viene compreso dalla gente del luogo. In realtà la distruzione degli edifici sul lato sud della cerchia del Castello deve servire ai tedeschi per posizionare cannoni ed artiglieria pesante per colpire in direzione di Pisa gli alleati e frenarne così l’avanzata verso Lucca. Tra gli edifici distrutti, senza dare agli abitanti nemmeno il tempo di raccogliere le loro masserizie, c’è anche la sede della Croce Rossa Italiana, depredata di tutti i medicinali in essa riposti.

La notte tra il 6 e il 7 agosto 1944 i soldati della “Reichsführer-SS”, guidati da spie fasciste, organizzano il rastrellamento della “Romagna” nei Monti Pisani, vicino al Santuario di Rupecava. Oltre 300 uomini vengono catturati e condotti nella scuola di Nozzano. Tra i rastrellati c’è anche una donna, Livia Gereschi, giovane insegnante che conosce il tedesco e che è intervenuta spontaneamente in difesa degli sfollati, spiegando al comandante delle SS che non sono partigiani, bensì famiglie che si sono rifugiate sui monti per sfuggire ai bombardamenti degli Alleati. Ottiene così di far rilasciare donne e bambini, ma non gli uomini e lei stessa viene incolonnata insieme a loro e portata via.

A Ripafratta i prigionieri vengono divisi in due gruppi: uno di “abili al lavoro” che viene condotto alla Pia Casa di Lucca, l’altro, costituito da 69 persone tra le quali si trova anche Livia Gereschi, viene costretto a proseguire a piedi fino alla scuola elementare di Nozzano Castello. Qui i prigionieri trascorrono quattro lunghi orribili giorni, durante i quali molti di loro vengono torturati. La mattina dell’11 Agosto alcuni di loro sono portati in località Pancone, altri, tra cui Livia Gereschi, in località Sassaia nel comune di Massarosa, dove vengono uccisi a colpi di mitragliatrice.  (4)

 

Note:

(1)  Sabrina Fava, Percorsi critici di letteratura per l’infanzia tra le due guerre, Vita e Pensiero 2004

(2)  Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’ancora del mediterraneo 2006

(3)  Mons.Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945) Tip. Artigianelli

(4)  Carla Forti, Dopoguerra in provincia: microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli 2007

 




Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Una campagna elettorale fiorentina ad “alta conflittualità”.

La parte clerico-moderata si prepara con alacrità all’assalto di Palazzo Vecchio. L’«Unione Liberale», che ne è l’organo, sta per essere sollecitamente battezzata e per entrare in guerra aperta. Tra le forze reazionarie si serrano le file, e non v’è dubbio che la lotta elettorale imminente sarà tra le più vivaci che si ricordino in Firenze: sarà anche altrettanto grave nelle sue conseguenze, e decisiva per la fisionomia politica della città.

Noi sentiamo di non esagerare affatto la portata di questa battaglia (…) Sin che sulla torre di Palazzo Vecchio sventola la bandiera della Democrazia, il fermento di vita nuova per cui le forze democratiche si risollevano in ogni angolo della Regione non può spegnersi e ritornare nella quiete mortale, che la democrazia fiorentina ha tanto cooperato a interrompere col suo esempio e col suo richiamo. Una democrazia stabilmente insediata al governo di Firenze irraggia il calore della sua energia sino ad ognuna delle nostre terre.[1] 

 

Il 5 maggio 1910, anticipando l’imminente convocazione dei comizi per il rinnovo parziale del Consiglio comunale fiorentino, «L’Opinione Democratica», quotidiano fondato e diretto dal futuro Gran Maestro della Massoneria, Domizio Torrigiani, chiamava a raccolta contro il probabile assalto dei clerico-liberali le forze della Democrazia fiorentina, le quali da tre anni governavano Palazzo Vecchio. L’Unione dei Partiti Popolari, un’alleanza bloccarda stipulata tra socialisti, repubblicani, radicali e demo-sociali, aveva infatti clamorosamente vinto le elezioni amministrative generali fiorentine del 1907, spezzando l’intramontabile egemonia dei liberali moderati fiorentini e mandando al governo della città due giunte di sinistra guidate, la prima (1907-1909), dall’avvocato Francesco Sangiorgi – primo Sindaco popolare della città – e la seconda (1909-1910) dal medico anatomista Giulio Chiarugi, entrambi appartenenti al piccolo gruppo dei demo-sociali.

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Domizio Torrigiani, futuro Gran Maestro della Massoneria. Fu candidato nella lista popolare alle elezioni amministrative fiorentine del 1910 quando diresse il quotidiano elettorale “L’Opinione Democratica” (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Salite al potere con un programma in undici punti nel quale erano state richieste fra le altre cose la municipalizzazione dei servizi pubblici, una riforma tributaria a base progressiva, la laicizzazione delle opere pie, la refezione scolastica gratuita e l’insegnamento laico, le forze popolari avevano dato vita nei tre anni di loro governo a un’esperienza amministrativa di grandi novità in campo sociale e culturale. Tra le principali realizzazioni delle due giunte bloccarde si potevano annoverare: il rilancio dell’edilizia popolare, l’organizzazione di inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche, una larga opera di risanamento igienico-sanitario (che vide la costituzione dell’Istituto di igiene del comune, la costruzione di un nuovo impianto per il servizio di nettezza urbana e il progetto per il nuovo ospedale di Careggi), la laicizzazione dell’istruzione e dei nosocomi (l’insegnamento religioso nelle scuole fu reso facoltativo e negli ospedali si sostituirono le suore-infermiere con del personale laico appositamente formato), infine misure straordinarie volte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico cittadino (fu istituito l’Ufficio comunale di Belle Arti e Antichità, il Museo del Risorgimento e la Galleria d’arte moderna, nonché avviati i lavori di restauro di Palazzo Vecchio). Queste ed altre misure più propriamente “politiche”, quali il sussidio annuo concesso alla Camera del Lavoro cittadina o l’intitolazione nel 1909 della via dell’Arcivescovado al pedagogista libertario spagnolo Francisco Ferrer Guardia, avevano contribuito a segnare una profonda discontinuità nel governo cittadino rispetto alle precedenti amministrazioni rette dai liberali fiorentini.

Il sorteggio di venti consiglieri su sessanta – tredici popolari (tra cui l’avvocato Giuseppe Pescetti, primo deputato socialista toscano, e Sebastiano Del Buono segretario della Camera del Lavoro di Firenze) e sette monarchici (più due dimissionari) – da rinnovarsi con la convocazione dei comizi fissata per il 19 giugno 1910 rappresentò per l’amministrazione popolare la prima effettiva prova elettorale dopo il successo del 1907. Considerazioni politiche e opposte progettualità municipali si intrecciavano in vista delle urne, riaccendendo la tradizionale conflittualità tra “liberali” e “popolari”, i primi ansiosi di modificare gli equilibri municipali nella speranza di poter rientrare in possesso del governo della città e i secondi decisi invece a consolidare la loro esperienza amministrativa. La giunta Chiarugi a quell’appuntamento aveva cercato di giungere mettendo al sicuro alcuni importanti provvedimenti, quali un progetto di riscatto dei ponti di ferro cittadini e la costruzione di alcuni edifici scolastici, ottenendo però per tutta risposta l’intervento della Giunta Provinciale Amministrativa, controllata dai liberali, la quale bloccò e poi rigettò il progetto di bilancio preventivo per il 1910, agendo, a detta dei popolari, con finalità elettorali. Già in precedenza, la portata finanziaria dei progetti varati dalla giunta Sangiorgi avevano prodotto evidenti difficoltà per l’amministrazione bloccarda, sollevando persino contrasti e dissidi entro i tre partiti popolari alleati.

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L’avvocato Francesco Sangiorgi, primo sindaco popolare di Firenze eletto nel 1907 (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Nonostante alcune incertezze inziali, alle elezioni parziali del giugno 1910, l’alleanza popolare tra socialisti, repubblicani e demo-sociali venne riconfermata. Il 26 maggio presso la Fratellanza Artigiana d’Italia si tenne l’assemblea delle commissioni elettorali dei tre partiti popolari nella quale si sancì la suddivisione dei seggi all’interno della lista comune, assegnandone 11 ai socialisti, 6 ai repubblicani e 3 ai demosociali. Tra i nomi in lizza, oltre a quelli del Pescetti e di Del Buono, vi erano anche quelli del già citato Domizio Torrigiani (presentato contemporaneamente candidato alle provinciali per il mandamento di Santa Maria Novella), dell’avvocato Michele Terzaghi, direttore del settimanale della federazione socialista fiorentina «La Difesa», del libraio Oreste Gozzini e dell’ex radicale Alfredo Brogi, entrambi candidati repubblicani. Più tardi vennero diffusi un manifesto unico nel quale si difendevano le posizioni conquistate durante la gestione popolare del comune in «fede al programma» del 1907.

Sul fronte opposto, i liberali si presentavano alle urne con una formazione inedita, esito di una profonda e radicale rifondazione delle strutture organizzative del partito avviatasi all’indomani del pesante fallimento subito in occasione delle elezioni politiche del 1909, quando essi avevano perduto contro i candidati dei popolari in tre dei quattro collegi cittadini. Il 30 gennaio 1910 era stata infatti costituita l’Unione Liberale affidata alla presidenza del marchese trentasettenne Filippo Corsini che veniva a raccogliere, rifondendole, tutte le vecchie gradazioni monarchie fiorentine: dai moderati appartenuti alla Patria, Re, Libertà e Progresso (la vecchia associazione dei consorti toscani creata nel 1882) ai democratici della Federazione Democratica Costituzionale, dai giovani liberali borelliani al gruppo degli ex-radicali riuniti attorno alla figura di Lorenzo Piccioli-Poggiali, l’ex ferroviere passato dall’internazionalismo delle origini a posizioni di liberalismo progressista. Si trattava in sostanza di un soggetto nuovo cui corrispondeva una politica di rottura col vecchio moderatismo toscano e di opposizione tanto ai clericali quanto al socialismo. Tra le linee programmatiche del neocostituito sodalizio liberale si trovavano alcune aperture a ipotesi di intervento pubblico nella vita economica, l’ammissione di alcune forme di municipalizzazione dei servizi, un potenziamento dell’istruzione e dell’educazione nazionale e laica intesa anche come base di accesso a una cittadinanza politica più consapevole funzionale a una prossima introduzione del suffragio universale maschile. Sul piano tattico elettorale, invece, veniva dichiarata la piena indipendenza d’azione del sodalizio, che lo poneva perciò a netta distanza dai «partiti che in politica si fanno sgabello della fede e dell’organizzazione religiosa»[2].

Filippo Corsini

Il marchese Filippo Corsini, presidente dell’Unione Liberale ed eletto sindaco di Firenze alle elezioni del novembre 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, “Firenze fra l’800 e ‘900: da Porta Pia all’età giolittiana”, Le Monnier, Firenze, 1984)

Si trattava di una dichiarazione importante, in quanto per la prima volta veniva espressamente negata la volontà di proseguire sulla strada delle intese clerico-moderate che invece in precedenza avevano spesso caratterizzato la condotta elettorale dei liberali. Simili dichiarazioni urtarono però i clericali del Comitato Cattolico Elettorale cittadino i quali votarono in risposta un ordine del giorno di condanna, salvo poi proporre una propria lista di venti candidati, nove dei quali erano in comune con la lista presentata dall’Unione Liberale. Coincidenza questa che spinse i popolari a rivolgere ai liberali le consuete accuse di clerico-moderatismo. Tra i candidati dell’Unione, al posto dei tradizionali esponenti del patriziato fiorentino che da decenni fornivano i quadri del partito liberale, si trovavano invece per lo più esercenti, commercianti, imprenditori, come gli industriali Giovanni Berta e il fotografo Vittorio Alinari, e persino impiegati subalterni come Giuseppe Mariotti o il ferroviere Virgilio Fontebuoni.

La montante campagna elettorale si dimostrò subito tesa, dando corso nei giorni immediatamente precedenti le elezioni a una serie di tafferugli e incidenti. Dopo che a favore dei popolari erano giunte adesioni da parte degli impiegati postelegrafonici e dell’Associazione del personale dipendente del Comune, una rappresentanza dissidente di quest’ultima organizzò una riunione elettorale presso il Gambrinus nella quale intervennero circa trecento tra impiegati e salariati comunali e al termine della quale fu votato a maggioranza un ordine del giorno di adesione alla lista dell’Unione Liberale. Una serie di disordini scoppiò prima e dopo la riunione nell’adiacente piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza della Repubblica). Qui

[…] Alcuni giovani della Unione Liberale si sono soffermati sotto i portici, ed i numerosi popolari che facevano aia dalla parte del Paskowski hanno intonato il Miserere e l’Ave Maria. Gli altri hanno risposto con grida di abbasso ed i popolari hanno cominciato allora a cantate l’Inno dei lavoratori e l’Inno repubblicano.[3]

Poco dopo altri gruppi di sostenitori delle opposte fazioni, direttisi in Piazza del Duomo, si azzuffavano in Piazza dell’Olio facendo intervenire la pubblica forza.

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Gaetano Pieraccini, medico e deputato socialista eletto nelle file dei popolari alle elezioni amministrative fiorentine del 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, cit.)

Negli stessi giorni, l’affissione dei manifesti elettorali nelle vie del centro e specialmente in Piazza Duomo e intorno al Palazzo Arcivescovile diviene spesso occasione per il formarsi di manifestazioni spontanee che procedendo incalzate dalla polizia terminano solitamente o in via Martelli (quelle popolari) sotto la redazione dell’«Opinione Democratica» o in via Ricasoli (quelle liberali) sotto la sede dell’Unione Liberale. Quasi ogni volta scoppiano nei cortei tumulti, tafferugli e persino episodi di scontri armati, come accade ad esempio il 19 giugno in via Ricasoli, quando a seguito di alcuni colpi di pistola esplosi nella folla rimangono feriti alcuni manifestanti e vengono di conseguenza effettuati alcuni arresti.

Preannunciatesi con tali segni di conflittualità, quelle del 19 giugno 1910 furono tra le elezioni municipali fiorentine più partecipate dei precedenti due decenni, registrando un’affluenza alle urne del 64%. Il voto assegnò una netta vittoria alla lista dell’Unione Liberale, che vide eleggere tutti e venti i propri candidati. I quattro posti di minoranza vennero occupati invece da candidati popolari: due socialisti uscenti vennero riconfermati (il Pescetti e il ferroviere Alessandro Alessandrini) e due repubblicani (Gozzini e Brogi).

Per i popolari si trattò di un duro colpo che spinse il sindaco Chiarugi, la sua Giunta e tutta la vecchia maggioranza popolare a presentare in tronco le proprie dimissioni come atto di responsabilità morale di fronte alla sconfitta. Con il governo municipale dimissionario, Palazzo Vecchio fu affidato al commissario prefettizio Alfredo Ferrara a cui spettò traghettare l’amministrazione verso nuove elezioni, stavolta generali, fissate per il novembre del 1910. Il rinnovo di tutti e sessanta i consiglieri costituiva per i liberali una grande occasione per mettere in mora l’esperienza delle due giunte popolari e ambire così a riprendere il controllo di Palazzo Vecchio dopo tre anni di assenza. La battaglia elettorale venne inaugurata nella sostanza dallo stesso commissario prefettizio Ferrara con la pubblicazione del bilancio di previsione per il 1911 del Comune nel quale veniva indicato un deficit di un milione e duecentomila lire, stimato a incrementare fino a due milioni e mezzo; con questo documento, tacciato subito dai popolari come un “bilancio elettorale”, si metteva sostanzialmente all’indice la gestione finanziaria delle due precedenti giunte popolari. Per concentrare il fuoco contro il presunto malgoverno dei popolari, l’Unione Liberale, oltreché continuare a fare affidamento su «La Nazione», il vecchio foglio dei moderati toscani, stampò e fece uscire per tutto il periodo elettorale un proprio quotidiano, «La Gazzetta Liberale».

Il nuovo giornale 16 giugno

Un articolo de “Il Nuovo Giornale” del 16 giugno 1910 riporta la notizia di scontri e disordini verificatisi tra elettori popolari e liberali.

Riconfermando nel proprio manifesto il suo programma di «democrazia liberale», l’Unione presentava una lista di maggioranza di 48 candidati con nomi rappresentativi delle più varie tendenze (liberali di destra come Paolo Guicciardini, Alessandro Chiappelli o il nazionalista Enrico Corradini, liberali di sinistra come Mario Aglietti, il futuro sindaco di Firenze Orazio Bacci, Piccioli-Poggiali, Guido Mazzoni e borelliani quali Ademiro Campdonico) che per il loro assortimento non mancarono di suscitare da parte degli avversari l’accusa di costituire una sorta di «arcobaleno che va dal violetto cupo» per non dire «nero», «fino al giallo chiaro e al roseo tendente invano al rosso»[4]. Seguivano poi da parte dei popolari le solite accuse di taciti accordi stabiliti dai liberali con i cattolici e mantenute anche dopo che questi ultimi ebbero dichiarato la loro formale estraneità dalla contesa elettorale.

Entro il fronte popolare, nel frattempo, la situazione si era particolarmente complicata, facendosi strada tra i tre partiti la tentazione di rompere l’unità bloccarda in nome di una linea di intransigenza elettorale. La rottura si ebbe a seguito dell’XI Congresso socialista svoltosi a Milano tra il 21 e il 25 ottobre 1910, dove venne sanzionata la responsabilità dei repubblicani per aver scisso durante le vertenze agrarie scoppiate in Romagna «le forze dell’organizzazione operaia a vantaggio della reazione capitalistica». In ragione del rifiuto delle accuse mosse dai socialisti, la sezione repubblicana fiorentina decise di rinunciare a qualunque trattativa elettorale con i “partiti affini”, maturando pertanto la decisione di uscire dall’alleanza popolare. La defezione dei repubblicani ridusse perciò i contraenti dell’unione popolare a due, dopo che socialisti e demo-sociali ebbero riconfermata la decisione di presentarsi alle elezioni assieme. Mentre perciò i repubblicani presentarono una propria scheda di minoranza, socialisti e demosociali votarono una lista comune di maggioranza di 48 candidati.

Gazzetta 12 nov

“La Gazzetta Liberale”, il foglio dell’Unione Liberale, attacca la gestione popolare del comune di Firenze (12 novembre 1910)

Come già nel turno precedente di giugno, anche stavolta la campagna elettorale raggiunse un’intensità inedita. Senza riguardi fu la lotta per la diffusione delle schede elettorali, l’affissione di manifesti e la mobilitazione degli elettori organizzata quest’ultima ciascuno secondo le proprie possibilità. L’Unione Liberale – riportava sarcasticamente un giornale avverso – aveva disposto ad esempio

che tutti gli elettori unionisti vadano domani mattina a votare in veicolo. Sono stati mobilitati molti fiacres e un grandissimo numero di automobili. Per accedere a questi veicoli vari sono state stampate tessere speciali, di diversa forma e di diverso colore, classificando gli elettori a seconda della loro importanza.[5]

Un gran numero di comizi ed assemblee si susseguirono le une alle altre nei giorni e nelle settimane precedenti il voto, registrando una partecipazione massiva senza precedenti. La sera del 24 novembre, ad esempio, furono circa settemila i sostenitori che si riunirono alla Palestra Ginnastica Fiorentina per assistere alla grande adunanza elettorale dei popolari inaugurata dal segretario della Camera del Lavoro Sebastiano Del Buono. Non da meno i sostenitori dei liberali che in circa cinquemila la sera precedente avevano preso d’assalto il Salone della Pergola per assistere alla manifestazione organizzata dall’Unione Liberale. Numerosi anche i contraddittori organizzati tra sfidanti, come quello tenutosi nella sede dell’Associazione Aurelio Saffi tra il socialista Gaetano Pieraccini e il repubblicano Gino Meschiari. Decisamente in grande stile il “confronto all’americana” che, sotto lo sguardo vigile di poliziotti in borghese infiltrati nel pubblico, si svolge il 25 novembre presso il Teatro della Pergola tra “popolari” e “liberali” nel quale prendono parola e si affrontano sui rispettivi programmi i principali candidati dei due partiti in lotta. Senza precedenti, sono anche però gli incidenti e gli episodi di violenza registratisi al margine di alcuni assembramenti elettorali. Il più eclatante è sicuramente l’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini, per la quale la stampa di partito fece ricostruzioni del tutto contraddittorie, scatenando una raffica di accuse da ambo le parti. Secondo il racconto offerto dalla stampa popolare, il medico e deputato socialista, recatosi ad assistere con regolare invito all’adunanza dell’Unione Liberale, sarebbe stato bastonato all’ingresso della sala da alcuni liberali riportando lesioni alla testa e venendo ricoverato a Santa Maria Nuova. Per la stampa liberale, invece, il Pieraccini sarebbe stato erroneamente colpito da alcuni suoi stessi compagni di partito durante il tentativo di entrare senza invito all’adunanza organizzata dagli avversari col celato intento di recare disturbo.

Fieramosca 25 nov Pieraccini

Si riporta la notizia dell’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini all’ingresso del salone della Pergola in occasione di un’adunanza elettorale dell’Unione Liberale (“Il Fieramosca”, 25 novembre 1910)

Il 27 novembre, con una percentuale di affluenza del 62,5%, il voto riconfermò ampiamente la vittoria della lista dell’Unione Liberale, i cui candidati ottennero tutti i 48 seggi di maggioranza. Di questi, 26 facevano ingresso per la prima volta in Consiglio. Tra di loro vi erano: il figlio del deputato Francesco Guicciardini, Paolo, tra i fondatori assieme al senatore Guido Mazzoni (altro eletto) dell’Unione Liberale; il letterato Alessandro Chiappelli; il medico igienista e fotografo Giorgio Roster; lo storico e museologo Giovanni Poggi; i già citati Orazio Bacci ed Enrico Corradini; Giotto Dainelli, figlio del generale ed ex consigliere comunale Luigi e altri ancora. Seguivano quindi i dodici consiglieri di minoranza eletti nella lista dell’Unione dei Partiti Popolari il primo dei quali in ordine di elezione era staccato dall’ultimo dei liberali di circa tremila voti. Tre di questi erano eletti per la prima volta (i socialisti Giuseppe Del Bene, Vincenzo Pugliese e Giovanni Fantechi) a cui si aggiungevano i demosociali Francesco Sangiorgi, Giulio Chiarugi e Vittorio Tarchiani e i socialisti Diego Garoglio, Carlo Corsi, Alessandro Alessandrini, Giovanni Pescetti, Adolfo Capaccioli e Gaetano Pieraccini.

L difesa 12 nov

I socialisti fiorentini rinnovano l’alleanza elettorale dei partiti popolari per le elezioni amministrative del novembre 1910 (“La Difesa” 12 novembre 1910)

Proclamati i nuovi eletti, a capo della nuova amministrazione fu designato dalla maggioranza consiliare il presidente dell’Unione Liberale Filippo Corsini, eletto nuovo sindaco di Firenze nella adunanza del 12 dicembre 1910. Dopo tre anni di gestione popolare del comune, i liberali tornavano così alla guida della città. I propositi del nuovo corso municipale dichiarati in un apposito manifesto affisso alla cittadinanza nel quale ci si augurava che da quelle elezioni potesse avere inizio per l’amministrazione cittadina «un’era nuova di lavoro fecondo, al quale tutti gli eletti, così quelli della maggioranza come quelli della minoranza portino senza ire, senza rancori, il contributo della loro assidua e diligente operosità»[6], sarebbero però stati presto smentiti. A fronte dell’aggravarsi della situazione sociale e politica del paese si sarebbe assistito negli ultimi anni dell’età giolittiana all’approfondirsi della crisi di rappresentatività della classe liberale italiana e della sua incapacità di tenere il passo con le trasformazioni sociali ed economiche del paese. Il protrarsi del conflitto politico tra liberali e popolari (socialisti soprattutto), sarebbe infatti divenuta di lì in poi, e almeno sino all’avvento del fascismo al potere, una costante anche della scena fiorentina.

 

[1] Si serrano le file, «L’Opinione Democratica», 5 maggio 1910.

[2] All’Unione Liberale, «Fieramosca», 26 maggio 1910.

[3] Tafferugli, colluttazioni e squilli di tromba per un’adunanza al Gambrinus, «Il Nuovo Giornale», 16 giugno 1910.

[4] La lista dell’Unione e “la vecchia minoranza”, «Fieramosca», 20 novembre 1910.

[5] Caste elettorali, «Fieramosca», 26 novembre 1910.

[6] L’adunanza del gruppo consigliare dell’Unione Liberale, «L’Unità Cattolica», 2 dicembre 1910.




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Nato a Pescia nel 1901, Zamponi si era distinto dopo la Grande Guerra come attivo propagandista tra la Lucchesia e la Valdinievole: fu qui che, con ogni probabilità, conobbe la futura moglie. Dopo l’adesione al PCd’I seguì un peregrinare tra Pescia e Asti, prima di tornare a Monsummano, reduce da due importanti esperienze a Torino (dove collaborò all’Ordine Nuovo) e a Milano (esponente del Comitato sindacale nazionale comunista). In Valdinievole, tuttavia, la situazione iniziava a farsi sempre più complessa: la cultura contadina aveva fornito alla politica fascista ampi spazi di movimento, guardando con sospetto ai primi processi di sviluppo industriale e promuovendo istanze di economia morale legate alle forme di sussistenza garantite dai ceti localmente dominanti. Il 30 marzo 1921, una spedizione di camice nere a Monsummano aveva imposto ai carabinieri il rilascio di tre fascisti in arresto. In aprile si registrò invece un nuovo tentativo di aggressione ai danni di due cittadini, mentre il 22 luglio dello stesso anno una trentina di squadristi partirono dalla città termale per distruggere il circolo socialista di Pieve a Nievole. Il culmine della tensione fu poi raggiunto a novembre, quando il deputato socialista Lorenzo Ventavoli venne aggredito nella sua abitazione da quattro carabinieri che avrebbero dovuto garantirne la sicurezza15. Braccato dalla polizia fascista e senza lavoro, alla fine del 1922 Zamponi decise così di emigrare a Marsiglia, soluzione comune a molti antifascisti per sfuggire al crescendo di arresti e proseguire il proprio impegno politico: cinque mesi dopo, sulla costa francese, fu raggiunto dalla compagna.

Da quel momento, la Faldi iniziò ad essere seguita. Venne interrogato il padre, anziano e ritenuto poco pericoloso per «non essersi mai allontanato da Monsummano». Date le difficoltà nel rintracciare gli spostamenti della coppia, il 4 ottobre 1925 la polizia arrivò persino a fare irruzione nella casa di famiglia e a perquisire ogni stanza. Dopo aver trovato supporto nella rete del Soccorso Rosso, Zamponi (con il falso nome di Luciano Fabbri) si era intanto iscritto alla sezione del Partito comunista francese di Rue Sambre et Meuse e aveva proseguito la sua attività politica nei circoli parigini legati al fuoriuscitismo italiano: i suoi spostamenti proseguirono ininterrottamente, soprattutto dopo l’iscrizione alla Confédération générale du travail. Nel frattempo Giulia era rientrata in Italia per alcuni mesi (il 3 aprile 1927) e, una volta ottenuto il passaporto per l’America del Sud, aveva segretamente fatto rotta verso Parigi. Nella capitale la Faldi ritrovò il marito – segretario regionale a Nancy – e ne affiancò l’attività politica, anche dopo le forti tensioni che quest’ultimo ebbe con il partito, scambiato per una potenziale spia nel corso del 1926-1927: stando ad un rapporto del Regio console d’Italia a Nizza, ella era ritenuta «anche in Francia una pericolosa propagandista comunista, capace di organizzare riunioni per i nostri connazionali e di coadiuvare lo Zamponi nelle sue funzioni di segretario regionale dei gruppi italiani di lavoro».

Abili nel muoversi all’interno della rete antifascista, i due continuarono ad eludere la sorveglianza. Dopo una segnalazione – giustificata con motivi occupazionali – nella zona mineraria tra il Belgio (con passaggi documentati a Bruxelles e Marchienne-au-Pont) e il Lussemburgo, sulla scia di ulteriori avvistamenti la polizia fascista tentò di agganciare contatti con le ambasciate di Berlino (28 gennaio 1928), Lione e Ginevra, ma sempre senza successo: come recitava una velina firmata il 14 giugno 1929 dal prefetto di Pistoia, Mauro Di Sanza, «malgrado le diligenti indagini esperite con il massimo impegno, non [era] stato possibile accertare il comportamento politico dei coniugi Zamponi, né il loro preciso recapito». Con ogni probabilità, la coppia – che nel frattempo aveva avuto un figlio, Bruno – si trovò a vivere separata per un lungo periodo. Dopo l’arresto di Zamponi nel ristorante parigino del comunista Lazzaro Raffuzzi (1928) e la successiva fuga, peraltro, la casa della Faldi venne nuovamente perquisita dall’arma di Monsummano. Ciononostante, malgrado dalla scoperta di una lettera clandestina fosse emersa l’esistenza di un punto di appoggio a Villerubane-Lione a nome di Antonietta Radeschi (forse pseudonimo della stessa Faldi), per il regime fu ancora una volta complesso intercettare una rete di spostamenti sempre più fitta. L’ipotesi di una residenza a Ginevra, ad esempio, venne presto scartata nel timore che la Faldi avesse deciso di indirizzare le proprie corrispondenze in Svizzera per poi farle ritirare da una persona di fiducia; cadde nel vuoto anche la soffiata di una sosta a Berlino, constatato – il 16 giugno 1931 – che in città «non erano mai stati presenti Zamboni (o Zambon) di nome Fulvio» e che «la Faldi Giulia non [era] stata rintracciata né conosciuta presso il locale presidio di Polizia Ufficio Anagrafe».

Ad ogni modo, le problematiche della latitanza cominciavano a farsi sentire. Pressati dalla polizia fascista e segnati da una situazione occupazionale resa ancora più gravosa dell’onda lunga della crisi economica del 1929, dopo una nuova tappa a Parigi i due coniugi decisero così di presentarsi al consolato di Lione per chiedere il rimpatrio (12 settembre 1933). Nelle settimane successive, Zamboni – che dopo il fermo si era mosso sotto un’altra falsa identità, quella di Piovani – fu munito di certificato di nazionalità, mentre la prefettura di Pistoia chiese di mutare lo status della Faldi da «comunista da fermare» in «comunista da perquisire e segnalare». Ciò che i funzionari fascisti non avevano capito, in realtà, era che quella soluzione costituiva solo un nuovo tentativo di depistaggio. Alla frontiera, infatti, i due si erano improvvisamente separati: rientrata in Italia dal valico di Bardonecchia e subito fermata, la Faldi provò a convincere la polizia che il marito non si era dato alla fuga, ma che, dopo averla accompagnata alla frontiera, si era recato a Ginevra da un amico – il pisano Filippo Falaschi – che si era offerto di trovargli un lavoro. Una versione supportata anche dalla nota rilasciata il 22 novembre 1933 alla questura di Bologna dall’ispettore generale di Pubblica Sicurezza, il commendator D’Andrea:

Con riferimento alla nota a margine, ho il pregio di comunicare all’E.V. quanto mi riferisce in proposito il Commissario Capo Cav. Aloisio dirigente la sotto-zona di Firenze: “Il sovversivo in oggetto [Zamponi] non risulta sia rientrato nel Regno. Ha rimpatriato invece il 14 settembre u.s. dal valico di Bardonecchia proveniente dal Belgio la moglie Faldi Giulia, la quale ha dichiarato che il marito l’ha accompagnata fino a Lione da dove si sarebbe recato a Ginevra presso un suo amico, certo Foloschi Filippo da Pisa, che gli avrebbe trovato colà del lavoro. Successivamente, e, cioè, il 28 ottobre decorso, lo Zamponi inviava da Lione un telegramma alla moglie chiedendo sua notizie e il 5 novembre le scriveva dandole il seguente indirizzo: Rita Gambotto, Rue Roposte 16 Lione. Comunico, infine che il nome dello Zamponi figura nel noto elenco degli espulsi del P.C. sequestrato all’emissario Fontana Angelo.16

Eppure, il 19 dicembre dello stesso anno Zamponi fu arrestato a Ventimiglia e ricondotto a Pistoia. Interrogato a lungo, riuscì a convincere il questore di non voler «esplicare in nessun modo attività politica contraria al regime», fornendo alle autorità solo le informazioni meno compromettenti. Il 10 aprile 1938, poche settimane prima della visita di Adolf Hitler a Roma, sia Zamponi che la Faldi vennero comunque inseriti nell’elenco delle «persone che, pur non ritenendosi opportuno comprendere tra quelle da arrestarsi in determinate contingenze», si riteneva potessero «costituire un pericolo in occasione del viaggio del Führer in Italia».

Da lì in poi, su quella donna di «statura media, pallida, con capelli castani folti, corporatura piccola, fronte alta, viso lungo, occhi castani e naso rettilineo» e sul marito cadde il silenzio. Sappiamo però che, dopo l’8 settembre 1943, quest’ultimo riallacciò i contatti con il partito e che, assieme alla moglie, prese parte all’attività del Cln. Non a caso, il 9 settembre 1944 venne eletto dallo stesso organo sindaco di Monsummano, partecipando alla rinascita democratica della vita provinciale con il ruolo di segretario della Federazione pistoiese del Pci: nel 1946, dopo le dimissioni di Pieruccioni, le sue capacità dirigenziali gli valsero inoltre una chiamata alla guida di una delle federazioni comuniste più deboli della Toscana, quella lucchese, prima di essere eletto deputato nelle fila “togliattiane” dal 1953 al 1958.

In tutto questo, Giulia Faldi non giocò mai il mero ruolo di spalla attribuitole dal fascismo. La sua biografia, capace di intrecciare gran parte dei nodi storiografici accennati nell’introduzione di questa breve disamina, mostra a tutti gli effetti le forme e le istanze di un impegno diretto che – nelle pieghe dell’antifascismo storico – vide protagonista un numero di donne ben superiore rispetto a quello estraibile dal Cpc. Quello della Faldi fu un percorso segnato da un forte impeto politico e ideologico, costruito attraverso le fitte trame della rete antifascista europea e caratterizzato da una contrapposizione costante e solidaristica al regime.

Una storia che, passando da un’analisi ermeneutica della carte del CPC, riesce a  fornire uno sguardo più dettagliato sui processi politici e sociali – collettivi, individuali e di genere – che animarono la provincia di Pistoia nella prima metà del Novecento, oltre a creare nuovi margini di dialogo tra la dimensione locale dell’antifascismo e quella internazionale.

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Le carte del Casellario Politico Centrale rappresentano una fonte imprescindibile per lo studio delle norme e delle modalità fasciste di sorveglianza politica. Inaugurato in piena età crispina con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, l’allora Servizio Schedario nacque come strumento di controllo e di repressione del sovversivismo anarchico e socialista. Un’istituzione coercitiva che, con l’avvento del regime, si avvalse di un inquadramento sempre più rigido e strutturato, passando da mero archivio ad ufficio autonomo sotto le dipendenze della I sezione della Divisione affari generali e riservati della P.S. Come recentemente osservato da Gianluca Fulvetti, fu durante la fase di costruzione dello “stato totalitario” che «questo sistema venne integrato dal fascismo con gli strumenti repressivi previsti dalla sua legislazione eccezionale»1; di conseguenza – riprendendo le parole di Andrea Ventura – ai «rapporti prettamente descrittivi delle prime segnalazioni si aggiunsero delle informative standardizzate e un sistema di controllo periodico capace di abbracciare l’intera vita del sorvegliato e di arrivare […] in ogni angolo del pianeta»2.

Dal punto di vista della ricerca, tuttavia, l’esame della dimensione repressiva costituisce solo una faccia della medaglia. Un’importanza analoga, se non superiore, è relegabile a due campi d’indagine distinti ma convergenti: quello degli antifascismi e quello degli antifascisti. Certo, sarebbe impossibile riassumere in poche righe un dibattito storiografico complesso e di lunga durata. Ciononostante, nel tentativo di ricostruire le molteplici forme di opposizione al regime, è doveroso sottolineare quanto e come una lettura critica dei fascicoli del CPC (che si chiudono con il 1943) possa consegnare agli studiosi importanti indicazioni al riguardo. In questa sede ne evidenzierò due, le più significative al fine di problematizzare la vicenda posta al centro della disamina.

Anzitutto, l’importanza della relazione tra spazio (inteso come spazio di controllo politico) e luogo (inteso come perimetro geografico)3. Negli ultimi anni è stata sottolineata la necessità di un confronto più attento fra la dimensione locale del fascismo e quella del regime a livello nazionale4. Un’indicazione volta a comprendere meglio le vicendevoli influenze tra centro e periferia, analizzando in chiave bilaterale l’eterogeneità delle dinamiche provinciali e le specificità del controllo sociale. Le carte del CPC, da questo punto di vista, assumono le vesti di un duplice osservatorio privilegiato: da un lato, se integrate con i fascicoli delle questure locali o con gli interrogatori, le sentenze e i rapporti provenienti dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dai tribunali penali, possono aiutare a scavare nelle continuità e nelle rotture dei fascismi locali5; dall’altro, attraverso le inedite angolature socio-economiche, politiche e conflittuali rinvenibili dalla documentazione, forniscono un mezzo rilevante per esaminare da vicino gli sviluppi territoriali – non sempre omogenei – dell’antifascismo.

Si colloca qui la seconda linea di ricerca, quella relativa agli antifascisti. Un universo complesso nel quale i fascicoli del CPC divengono una bussola in grado di svelare, oltreché il «profilo e la mentalità delle istituzioni e dei dipendenti pubblici preposti alla sorveglianza e alla repressione del dissenso, […] le voci dirette, e dal basso»6  del sovversivismo. Certo, non si può attribuire alle carte una completezza che, in alcuni casi, si smarrì nella fitta rete intrecciata dalle sacche d’opposizione. È comunque possibile cogliervi la trasversalità dell’antifascismo, le differenze tra «antifascismo popolare» e «antifascismo politico», le traiettorie e le forme del fuoriuscitismo antifascista e occupazionale (soprattutto verso la Francia e il Belgio, ma anche verso il Sud America e i richiami della Guerra civile spagnola), fino a ricostruire vicende talvolta lacunose e incomplete, ma in grado di fornire preziosi dettagli sui percorsi di uomini e donne sovente destinati a giocare un ruolo di primo piano anche nella Resistenza e nella costruzione dell’edificio repubblicano7.

Nelle pieghe di un sistema capillare e sterminato, però, a risaltare è soprattutto la latenza (per diversi motivi) di due corpi socio-politici: quello degli antifascisti cattolici e quello delle antifasciste8. Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, inerente alle donne marginalizzate dalle attenzioni poliziesche e relegate dal regime al ruolo di «angeli del focolare domestico». Scendendo repentinamente nel contesto pistoiese, nel database del CPC ne troviamo infatti sole 45 su un totale di 1.468 schedati9. Tra queste, c’è Giulia Faldi. Nata a Monsummano10  il 30 luglio 1899 dal padre Giulio e da Guglielma Bartoletti, fin dall’adolescenza si trovò a vivere una realtà animata da forti tensioni conflittuali. Nella cornice di un’area segnata dalla piccola proprietà terriera, dove a poderi parcellizzati e spesso concessi a mezzadria si sommavano fattorie di piccole-medie dimensioni (non di rado di proprietà nobiliare) collocate nella zona tra Tizzana e Monsummano11, prese parte attiva alle manifestazioni organizzate dal movimento socialista bracciantile. A confermalo era un’accurata relazione rilasciata il 28 ottobre 1926 dalla prefettura di Lucca, nella quale la Faldi – attraverso un lessico fortemente ideologizzato – veniva definita una «attiva comunista»:

La predetta è cresciuta in una famiglia di sovversivi. Il padre fu per vari anni acceso socialista e tuttora professa false idee. Il fratello è tuttora un sovversivo irriducibile per cui la Faldi Giulia sin da giovinetta si dette al sovversivismo. Essa organizzò e presiedette comizi e riunioni; benché abbia poca cultura (avendo frequentato solo la scuola elementare) è abbastanza intelligenze e loquace, ed è stata una assidua propagandista specie nelle campagne fra le masse di contadini. In ogni agitazione e manifestazione sovversiva che veniva organizzata in paese essa era sempre presente e fra le persone più accese. Non risulta sia stata mai arrestata o denunciata all’autorità giudiziaria, però è stata più volte richiamata al dovere dai vari comandanti della stazione di Monsummano e da funzionari […] dell’ordine pubblico. Dopo l’avvento del fascismo fu costretta a troncare la sua propaganda sovversiva e a rimanere in casa molto riservata12.

Nelle carte del CPC, tuttavia, non c’è traccia del padre. Si trovano invece pochissime informazioni sul fratello Gino, muratore di undici anni più grande. Esponente di zona e militante «nella parte estremista del partito socialista», egli prese «parte attiva a tutte le manifestazioni sovversive del secondo dopoguerra» quando fu «candidato al Consiglio comunale e provinciale».

Denunciato nel 1921 e poi prosciolto in Camera di consiglio dalle accuse di tentato omicidio, bancarotta fraudolenta e «apologia di reato e di delitto contro i poteri dello Stato per professe idee comuniste», con l’avvento del fascismo fu sottoposto ad un controllo sempre meno stringente, frutto di un «contegno riservato» e di rari richiami13. Un trattamento ben diverso rispetto a quello riservato alla sorella, assieme alla quale – in seguito alla scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 – aveva aderito al Partito comunista d’Italia. Il motivo non era da ricercare solo nella febbrile attività politica della Faldi, ma piuttosto in una delle poche circostanze ritenute inderogabili dal regime per sorvegliare una donna: il suo legame affettivo con un antifascista di spicco. Non era un caso che, nonostante i precedenti, la prima segnalazione su Giulia Faldi fosse arrivata solo nel 1923, indicata come «assidua propagandista […] fra le donne» . E non era un caso che il vasto fascicolo a lei riservato riportasse spesso informazioni sul marito: il comunista Fulvio Zamponi14.

 

[continua]

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




La Storia lo grida.. indietro Savoia!!

I Savoia regnarono in Italia dopo il 1860 essendo riusciti, specie per abilità di uomini politici come Cavour, ad affiancare e sfruttare gli sforzi di tutto il Risorgimento, a cominciare da quelli dei repubblicani Mazzini e Garibaldi. In quanto all’immaturità del popolo italiano che sarebbe dimostrata dal ventennio fascista, sarà facile rispondere che una delle cause e  dei sostegni principali di esso fu proprio la Monarchia.  […] Venuta l’ora tragica della disfatta il Re tentò di salvarsi con il colpo di stato di Badoglio e non di salvare il paese. La politica badogliana fu infatti nettamente ostile  alle forze democratiche  antifasciste, con il suo governo di funzionari. E nell’ora decisiva, l’8 settembre del 1943 non seppe fra altro che fuggire. Era ancora una volta lo stesso gioco, salvare la propria dinastia e i propri privilegi anche a danno dell’interesse comune. Le sofferenze inaudite che ancora sopportiamo sono il solenne monito che bisogna farla finita una volta per sempre con l’equivoco la sciatoci in eredità dal Risorgimento.”.

Con queste parole Giovanni Pieraccini attaccava con nettezza e in profondità la Monarchia sul supplemento de “La Nazione del Popolo”, giornale del Comitato toscano di liberazione nazionale, a cura del Partito socialista di unità proletaria del 22 aprile 1945. Siamo nei giorni dell’insurrezione nazionale delle città del nord, la guerra deve ancora finire, eppure da Firenze liberata già da vari mesi, si leva con forza la volontà di rinnovamento profondo del Paese emanato dalle forze antifasciste. I diversi partiti, che animano in quei mesi dialetticamente i CLN e le prime amministrazioni comunali, hanno programmi e prospettive diverse, ma l’ostilità a Casa Savoia li accomuna nella stragrande maggioranza e si manifesterà pienamente la primavera successiva nella campagna elettorale per il referendum del 2 giugno 1946.

Voce di questa determinazione politica sono i giornali che, dopo la liberazione non svolgono solo una “tradizionale” azione di informazione, pur preziosa dopo gli anni della dittatura e della censura, ma acquisiscono una funzione essenziale nella formazione di un nuovo senso comune di cittadinanza e di una necessaria educazione alla democrazia, arricchita proprio dalla pluralità delle voci e delle tendenze. Basti citare, solo per rimanere nell’ambito fiorentino:  l’”Azione comunista”, “La difesa” socialista, l’azionista “Non mollare!”, “La voce del popolo”, repubblicano, “L’opinione” liberale, “Il popolo libero” democratico cristiano, “La Nazione del popolo” che, con i supplementi affidati ai partiti del CTLN, dal gennaio del ’45, amplifica ulteriormente il proprio ruolo di fonte di riflessione ed occasione di confronto, insieme, dal giugno del ’45 a “Il nuovo corriere”.

Sfogliandoli appare evidente come l’ostilità alla Casa reale non sia riconducibile semplicemente ad giudizio negativo sul sovrano, Vittorio Emanuele III, e, più in generale sulla condotta assunta negli ultimi anni di guerra, anche se certamente il trauma della fuga dell’8 settembre assume un rilievo imprescindibile: “il popolo italiano non dimenticherà certamente che ciò che è stato fatto il 25 luglio 1943, quando purtroppo l’Italia era già in pezzi, poteva e doveva essere fatto nel lontano 1922, all’epoca della mancata firma dello stato d’assedio” (Camaleontismo monarchico, “Il corriere dell’Arno”, 17-18 ottobre 1945).

Ma il giudizio si estende inevitabilmente sul lungo periodo, coinvolgendo il rapporto complessivo fra Monarchia e Paese nella storia d’Italia. L’ironia non sminuisce ma piuttosto accentua la gravità della denuncia di Arturo Bruni su “la Nazione del popolo”: “Progresso..monarchico s’è avuto davvero come tutti hanno visto. Abbiamo “progredito” dagli stati d’assedio dei Bava Beccarsi in Lombardia, degli Heusch in Toscana e Lunigiana, dei Morra di Lariano in Sicilia, fino alla congiura fascista, ordita e compiuta all’ombra e con la protezione e la partecipazione diretta attiva di preminenti membri di Casa Savoia; e poi la dedizione sempre più stretta, totale, senza riserve né pudore, quasi servile alla iniqua dittatura e alla dissennata politica interna ed estera dello sciagurato e folle avventuriero di Predappio” (Arturo Bruni, Invito alla sincerità, “La Nazione del popolo”, 4 marzo 1945, supplemento a cura del PSIUP). In quanto “posta contro la volontà della Nazione tutta, con atavica cocciutaggine, con insensibilità tutta straniera, con un cinismo che urta contro anche il più tiepido senso morale”. (La repubblica ci unisce, la monarchia ci divide, “Il seme”, 5 febbraio 1946). Una condanna esito della valutazione del passato e frutto della constatazione che il cambio istituzionale, con la scelta della Repubblica, è aspetto essenziale per la (ri)costruzione della nuova Italia, come si legge con nettezza anche sul giornale della Democrazia cristiana di Firenze “Il popolo libero” (Rodolfo Turco, Per una Repubblica libera e democratica, “il popolo libero”, 8 febbraio 1946). La scelta di Vittorio Emanuele III di abdicare a poche settimane dal referendum del 2 giugno del ’46, violando il “compromesso istituzionale” siglato nei mesi precedenti, non fa che rafforzare il giudizio di condanna. Del resto, come chiosa il “Non mollare!” “un sovrano che fugge per schivare il giudizio popolare costituisce un motivo di più fra i tanti per condannare il massimo responsabile del fascismo e della guerra” (Se né andato, “Non mollare”, 11 maggio 1946).

Sono poche, ma non mancano le voci che esprimono opinioni diverse. Spicca in particolare “La Patria” giornale del PLI, espressione delle sua anima più conservatrice (L’ultimo atto, “la Patria” 10 maggio 1946). Più articolata e cauta la posizione de “L’Osservatore toscano” settimanale diocesano voluto alla fine del ’45 dal cardinale di Firenze Elia Dalla Costa, certamente attento alle varie posizioni presenti nel mondo cattolico. Sul periodico prevale infatti una linea di agnosticismo istituzionale: “Monarchia e Repubblica sono nient’altro che forme istituzionali; ma come suggerisce la parola stessa è evidente che ogni forma presuppone una sostanza, ed è questa che deve interessare” (Piero Monaci, Monarchia o repubblica?, “L’Osservatore toscano”, 14 aprile 1946). Ma non mancano neppure interventi a favore di Casa Savoia o piuttosto rispetto all’indifendibile condotta della Casa reale sabauda, una difesa dell’istituzionale in quanto tale in quanto “La monarchia veramente costituzionale può dare ancora al popolo italiano garanzia di unità e di salvaguardia della costituzione stessa.” (P. Hodie, Il problema istituzionale, “L’Osservatore toscano”, 21 aprile 1946). Voci minoritarie, ma significative, indicatrici di tendenze presenti nella società toscana, come verrà poi attestato dal voto del 2 giugno 1946 (con la netta vittoria della Repubblica con oltre il 71% a livello regionale, ma con affermazioni comunque significative della monarchia con il oltre il 43% nella provincia lucchese).

La tendenza antimonarchica attestata dalla grande maggioranza della stampa fiorentina e toscana è, peraltro, manifestazione del più ampio processo di mutamento radicale delle classi dirigenti e trasformazione politica e sociale della Regione ben delineato da Mario G. Rossi in suoi importanti contributi. La crisi della guerra totale, il coinvolgimento delle masse contadine nella lotta di liberazione, la guida unitaria del CTLN pur nelle diversità di posizioni delle forze antifasciste sono i fattori che segnano una svolta profonda nella storia della Toscana e che non potevano che esprimersi anche nella rischieta di netto cambiamento istituzionale. “Il rinnovamento dello Stato e delle istituzioni si pone quindi come obiettivo prioritario per garantire le condizioni di qualsiasi riforma della vita politica e della società: decentramento, autonomie locali, riforma amministrativa, regionalismo diventano i cardini di un dibattito cui partecipano molti degli esponenti più rappresentativi della Resistenza toscana, come Paolo Barile, Attilio Piccioni, Mario Augusto Martini, Tristano Codignola” [Mario G. Rossi, Dalla Resistenza alla Costituzione: la formazione della nuova classe dirigente nella Toscana postfascista, in Massimo Cervelli e Claudia De Venuto, La Toscana nella costruzione dello stato nazionale dallo Statuto toscano alla Costituzione della Repubblica 1848-1948, Olschki, 2013, pp. 327-328].




Livorno 1920: maggio di sangue

I primi giorni del maggio 1920, cento anni fa, Livorno fu teatro di un episodio a carattere insurrezionale che, seppur di breve durata e di relativa intensità, fu comunque sintomatico di una situazione di elevata tensione politica e sociale, tanto che, come annotò il console inglese, “la città era stata per due giorni quasi completamente in mano ai rivoltosi”. La prima, circostanziata e puntuale, ricostruzione di quei fatti la dobbiamo, ancora una volta, al fondamentale saggio di Tobias Abse.

    A differenza di Torino, Pola e Vicenza dove le forze dell’ordine avevano ucciso sette lavoratori, la giornata del Primo Maggio in città era appena trascorsa senza incidenti, tanto che «Il Telegrafo» aveva parlato di “Esempio luminoso di calma e moderazione”, esaltando “l’istintivo buon senso” e “l’innata avversione per tutto ciò che è ingiustificato disordine e inutile violenza” degli operai livornesi.

   Partito da Piazza Vittorio Emanuele  – l’attuale Piazza Grande – il corteo sindacale di 1.500 persone (secondo la stima non benevola de «Il Telegrafo»), con una quindicina di vessilli, aveva percorso le vie del centro e si era concluso con un comizio al teatro Politeama, “con grande sfoggio di bandiere rosse e nere e di garofani fiammanti”. Oltre ai rappresentanti delle diverse categorie, erano quindi intervenuti il socialista mas­simalista Nicola Bombacci, appena “reduce dalla Russia”, e il segretario della Camera del Lavoro, Zave­rio Dalberto.

   All’Ardenza invece era stato tenuto il comizio indetto dagli anarchici con la partecipazione del sindacalista valdarnese Attilio Sassi dell’Unione Sindacale Italiana. Inoltre, nel pomeriggio, un’altra adunata sindacale, con i mede­simi oratori della mattinata, si era pacificamente svolta a Colline.

   Dietro a tale apparente calma però, la tensione sociale in quel perio­do era già molto alta in città a seguito delle agitazioni dei disoccupati e degli scioperi dei lavoratori portuali contro il potere padronale e la poli­tica governativa; bastò infatti la notizia degli imprevisti fatti di Viareggio a far sfociare tale tensione in aperta rivolta.

   A Viareggio una banale rissa sportiva, seguita alla partita di calcio tra la Lucchese e la squadra di casa, era degenerata in gravi disordini e quindi aveva assun­to i caratteri di uno sciopero generale e di una sollevazione popolare che è possibile ricostruire attraverso le cronache pubblicate sui quotidiani: «Il Telegrafo» del 4 maggio; «La Gazzetta Livornese» del 7-8 maggio; «Umanità Nova» del 6, 7, 8 maggio 1920.

  Tutto era iniziato il 2 maggio quando, durante una zuffa scoppiata dopo il derby calcistico, i carabinieri avevano sparato e ucciso Augusto Morganti, un guardalinee con un passato di ex-tenente degli arditi di guerra che si era messo a capo della tifoseria viareggina.

    Di fronte a tale uccisione, la rabbia dei proletari viareggini tra i quali era forte la presenza anarchica dette vita ad un vero e proprio moto insurrezionale, tale da costringere i riottosi riformisti della Camera del lavoro e del Parti­to socialista a dichiarare lo sciopero generale cittadino, mentre venivano disarmati i carabinieri ed assaltate le caserme dell’Arma. In particolare, secondo quanto riferito dal corrispondente de «Il Telegrafo»: “Le donne, non tutte, si capisce, sono le più agitate, le più infuriate. Ne vedo a frotte, scarmigliate e discinte presso la Camera del lavoro, ove sono esposti due vessilli, uno nero e l’altro rosso”.

   Una volta che l’eco dei moti viareggini giunse a Livorno, immedia­tamente accese e fece dilagare il risentimento popolare, tanto da indurre la Camera del lavoro a indire uno sciopero di protesta per il 4 maggio, aderendo all’invito del Sindacato ferrovieri e vedendo la convergenza del segretario, massimalista, Dalberto, con le consistenti componenti anar­chica e repubblicana della Camera del lavoro.

    La città, intanto, era già attraversata da pattuglie armate delle forze dell’ordine, dopo che la Questura aveva ordinato il divieto di circolazione per ogni mezzo – biciclette comprese – nonché la vendita della benzina.

    Lo sciopero risultò esteso e compatto e, nel pomeriggio, una folla di lavoratori e sovversivi si radunò sotto la Camera del lavoro in via Vitto­rio Emanuele (oggi via Grande), nei pressi di piazza Colonnella, in attesa di notizie dalla Versilia e delle conseguenti decisioni del Consiglio delle Leghe ivi riunito. Nonostante la comunicazione che a Viareggio era stata decisa la cessazione del movimento, peraltro rimasto circoscritto, i di­mostranti continuarono a rimanere in strada, mentre dalle finestre della Camera confederale, gli esponenti socialisti invitavano a tornare a casa, contraddetti dagli anarchici – presenti in circa trecento – che sollecitavano i presenti a non fidarsi del governo e a continuare l’agitazione contro le continue violenze poliziesche.

La situazione era ancora relativamente calma, con capannelli di gente impegnata a discutere sul da farsi; fin quando carabinieri e militari pre­senti in forze circondarono la zona effettuando diversi fermi e bloccando le vie adiacenti, anche se la motivazione poi addotta dalla Questura, e riportata su «Il Telegrafo», fu che venne deciso di inviare un plotone di soldati (presumibilmente bersaglieri), al comando del commissario Ruggiero, per difendere la Camera del lavoro “dai facinorosi” e “dalla teppa”.

A quel punto i presenti reagirono inveendo contro la presenza della “sbirraglia”, mentre sconosciuti assaltavano l’antistante armeria Soldaini e l’armeria Bertelli in via della Tazza (l’odierna via Piave), pur facendo uno scarso bottino consistente in rivoltelle per lo più inservibili, qualche fucile da caccia e alcuni coltelli.

Recatisi nella vicina Regia Questura in piazza Vittorio Emanuele, i sindaca­listi socialisti Dalberto e Capocchi riuscirono, faticosamente, a ottenere il rilascio degli arrestati, ma la tensione rimase alta, alimentata dall’atteggiamento aggressivo della forza pubblica.

Un drappello di carabinieri – una cinquantina – continuarono nella provoca­zione e in via Vittorio Emanuele alle sassate dei manifestanti risposero sparando – ginocchio a terra – coi moschetti e le rivoltelle sui manifestanti. Presi tra due fuochi, le vittime furono numerose: il socialista Flaminio Mazzantini, operaio ebanista di 48 anni e padre di otto figli, fu mortal­mente colpito da due proiettili e Vittorio Volpini venne ferito in modo grave tanto da rimanere a lungo in pericolo di vita, ma si contarono al­meno altri 14 lavoratori feriti dal piombo regio.

Telegrafo7maggio20Seguì una prima, immediata, reazione che vide alcuni dimostranti sparare alcune rivoltellate e lanciare un piccolo ordigno verso la Questura dove, dietro ai cancelli, “si trovavano reparti in pieno assetto di guerra”, ferendo alcuni carabinieri. Quasi con­temporaneamente al porto, nei pressi del “Ponte dei sospiri” sbarrato con cavalli di frisia e reticolati, venne tirata una bomba a ma­no “Sipe” all’indirizzo del presidio composto da carabinieri e soldati che difendevano la caserma “Malenchini” e quella della Guardia di Finanza, ferendo un carabiniere.

Ancora, attorno le ore 21, nonostante la pioggia, un folto gruppo di sovver­sivi provenienti da via dei Cavalieri (probabilmente attraverso via del Traforo) lanciò altri tre ordigni esplosivi contro la Questura.

A seguito dell’eccidio (così sarà definito anche su «Il Telegrafo»), la giunta esecutiva della Camera del lavoro decideva, a tarda notte, la ripresa dello sciopero per l’indomani, mentre le forze di polizia eseguivano molti arresti, soprattutto tra gli anarchici ritenuti, senza alcuna prova, responsabili dell’assalto alla Questura. Così come a Viareggio, nel porto mediceo entrava un cacciatorpediniere della marina militare, mentre venivano fatti affluire, via mare, circa un migliaio di carabinieri e guardie regie.

I funerali di Mazzantini si trasformarono in un’enorme manifesta­zione proletaria di almeno diecimila persone, con la partecipazione di tutte le organizzazioni di classe, oltre a socialisti, repubblicani e anarchi­ci. Molti negozi avevano esposto la scritta “Chiuso per lutto proletario”. Il feretro era fiancheggiato da aderenti alla Lega proletaria dei reduci di guerra, con fascia rossa al braccio, e seguito anche dai “Ciclisti rossi” di cui Mazzantini era caposquadra.

Nel nutrito spezzone libertario, «La Gazzetta Livornese» riferì della presenza del gruppo di Ardenza, della se­zione femminile anarchica, del Fascio operaio di via dei Cavalieri e dell’asso­ciazione anticlericale “I nemici di Dio”. Alcuni incidenti si registrarono durante il corteo, soprattutto al passaggio davanti alla Questura, tanto che al termine della giornata si contò un’altra quindicina di feriti, tra i quali otto donne.

Alla luce degli eventi e dei diffusi sentimenti di riscossa, sul piano politico e sindacale, l’esito della sollevazione, come sottolineato dallo storico Luigi Tomassini, determinò “una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista […] dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti”, tanto che nei mesi seguenti si andò rafforzando il progetto di dare vita a una Camera del lavoro d’impronta sindacalista rivoluzionaria. Questa infatti sarebbe nata nell’autunno seguente, dopo l’Occupazione delle fabbriche, con sede in viale Caprera, coinvolgendo oltre al “vecchio” Fascio operaio la cui fondazione risaliva alla prima Internazionale e i lavoratori già aderenti all’Unione Sindacale Italiana, anche settori intransigenti repubblicani e socialisti, più inclini all’azione diretta che alla mediazione.

Post scriptum
Un aspetto significativo di quelle settimane è il coinvolgimento diretto dei ferrovieri organizzati nel SFI nell’opposizione concreta alla repressione statale. Il 17 aprile 1920, i ferrovieri a Livorno si erano rifiutati di far partire un treno carico di Guardie Regie che dovevano raggiungere Torino per contrastare lo sciopero generale. Nei giorni della rivolta a Livorno, furono invece i ferrovieri di Genova a bloccare un treno di Guardie Regie dirette a Livorno, tanto che si rese necessario far affluire via mare le forze dell’ordine (circa un migliaio tra Guardie Regie e Carabinieri) nel porto labronico, e un altro contingente di circa cinquanta Guardie Regie giunse in città ai primi di giugno su camion militari da Firenze, onde evitare ulteriori problemi ferroviari.