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27 aprile 1945: tutta la provincia di Apuania è libera!

“Il comando tedesco ci ha incaricato di rintracciarvi e riaccompagnarvi in città. In caso contrario distruggerà le abitazioni, i viveri; metterà Pontremoli a ferro e a fuoco. Siamo pronti ad accompagnarvi, ad intercedere per voi”. A parlare è il vescovo, mons. Giovanni Sismondo, rivolto a due soldati tedeschi che hanno disertato e sono fuggiti dalla città sulla quale stanno scendendo i partigiani e marciando le truppe alleate. È la sera del 26 aprile: Pontremoli è l’ultimo territorio dell’Italia centrale ad essere ancora occupato. Qui da otto mesi si è trasferito il comando provinciale tedesco assieme a questura e prefettura dopo l’ordine di sfollamento di Massa emanato il 2 settembre 1944 quando la linea del fronte era arrivata a lambire il capoluogo della provincia di Apuania. Ad arrestare l’avanzata delle truppe alleate c’è la Linea Gotica: 300 chilometri fra il mar Tirreno e l’Adriatico. Da quell’estate 1944 che aveva visto la liberazione di quasi tutta l’Italia a sud dell’Appennino, si dovrà attendere ancora a lungo perché anche quell’ultimo ostacolo possa cadere e il nemico essere vinto. Un’estate di eccidi con centinaia di civili trucidati, in prevalenza donne e bambini, facili prede delle incursioni nazifasciste nei paesi dei territori occupati. La strage di Mommio del 5 maggio 1944 era stata la prima e non certo isolata; il fronte non era ancora sulla Linea Gotica, ma i nazifascisti avevano intensificato la loro strategia del terrore. Il 13 giugno a Forno di Massa; il 12 agosto in alta Versilia, a Stazzema, nei giorni successivi nella valle fivizzanese del Bardine poi a Vinca e nei paesi a monte di Carrara. Il 10 settembre in diverse zone di Massa; una settimana dopo a Bergiola Foscalina e sempre il 16 altri morti lungo il Frigido e sepolti nei crateri scavati dalle bombe alleate. Senza dimenticare le vittime di Avenza, Castelpoggio, Gragnola, Tenerano, Regnano…  Poi c’è la lotta quotidiana contro la fame, con il razionamento e le tessere ormai inutili perché cibo non ce n’è, mentre si fanno sempre più fitte le file delle donne lungo la strada della Cisa, del Cerreto o la via Vandelli; un popolo che “emigra” alla ricerca di cibo. Prima si barattano capi di vestiario, pezzi del corredo, infine i pochi oggetti di valore; le donne di Carrara e di Massa imparano a ricavare – di nascosto dalla milizia – il sale dall’acqua di mare per barattarlo con farina al di là delle Apuane. Tra avvicendamenti di reparti e attacchi falliti si arriva al 5 aprile 1945: sono le 5 del mattino ed è quella l’ora dell’offensiva finale per lo sfondamento della Linea Gotica: quel fronte di guerra che da mesi divide le truppe tedesche (sostenute dai militari italiani della RSI) e americane (affiancate dai partigiani) sta per cadere. Nelle ore precedenti, con il favore del buio, reparti della V Armata USA hanno occupato i punti di attacco più favorevoli lungo i canaloni delle Apuane sotto il crinale tra il Monte Carchio e il Monte Folgorito, confine amministrativo tra Montignoso e Seravezza ma soprattutto tra l’Italia libera e quella ancora ferocemente occupata dai nazifascisti. Due versanti di un fronte che tuttavia non è del tutto “impermeabile”: i partigiani riescono a mantenere aperto un passaggio, uno stretto sentiero di montagna, “porta” preziosissima attraverso la quale transitano civili desiderosi di abbandonare la zona di guerra, partigiani e militari alleati in missione. Con l’inizio di gennaio 1945 il passaggio lungo la “via della libertà” è organizzato, gestito dai partigiani del Gruppo Patrioti Apuani: l’attraversamento è più sicuro e sono migliaia le persone che riescono nell’impresa, duemila nel solo mese di febbraio. Un passaggio anche “democratico”: chi può paga in base alle proprie disponibilità; chi non può è accompagnato gratuitamente. Il collegamento è ben noto ai tedeschi che cercano invano di interromperlo; alla fine tentano perfino di raggiungere un accordo: il 20 marzo viene intavolata una trattativa con una delegazione dei “Patrioti Apuani” che però rifiuta ogni compromesso: del resto l’attacco decisivo alla Linea Gotica è ormai questione di giorni. Ed ecco la notte fra il 4 e il 5 aprile: la riuscita dell’operazione non è scontata ed è decisivo il ruolo dei partigiani nella scelta dei sentieri lungo i quali accompagnare i militari alleati nelle posizioni prefissate da dove far scattare l’offensiva. I tedeschi sono colti di sorpresa e in due ore il crinale è conquistato dai Nisei, il reparto di soldati nippo-americani aggregato alla 92.ma divisione “Buffalo”, composta quasi esclusivamente da soldati americani di colore ma comandati da ufficiali bianchi. Grazie al loro coraggio lo sfondamento della Linea Gotica è iniziato, ma vanno sottolineate le fondamentali azioni svolte contro i tedeschi nelle zone a monte di Massa e di Carrara dal “Gruppo dei Patrioti Apuani” di Pietro Del Giudice e dalla Brigata Garibaldi “Gino Menconi” di Alessandro Brucellaria “Memo”. Un attacco finalmente risolutivo dopo alcuni tentativi falliti, come quello della seconda settimana di ottobre ’44 quando i reparti della “Buffalo” avevano lasciato sul campo centinaia di morti o come quello dei primi giorni di febbraio, l’operazione “Fourth Term”, che avrebbe dovuto scardinare il fronte superando il torrente Versilia al Cinquale e il crinale delle Apuane nella zona del Folgorito e che invece si era conclusa con un mezzo disastro nel campo alleato con trecento morti e mille feriti.

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Montignoso 9 aprile 1945: militari della V Armata USA, 370° rgt, entrano nel territorio apuano. (USA National Archives – Washington)

Ma ora la Linea Gotica è alle spalle. In alcune belle immagini i militari l’8 aprile sono in marcia lungo la vallata di Montignoso: il primo territorio della provincia di Apuania ad essere liberato; due giorni dopo tocca a Massa e l’11 aprile i partigiani entrano definitivamente a Carrara facendo prigionieri centinaia di soldati tedeschi che saranno poi consegnati alle autorità americane. È questa la città che si libera due volte: la prima, nel novembre 1944, era stata breve ma fondamentale per comprendere quanto fosse forte e radicato il sentimento antifascista. Ormai tutta l’Italia centrale è in mano alleata: tutta tranne la Lunigiana! L’ultimo atto richiede altri giorni: qui, dove Toscana e Liguria si incontrano c’è un nodo strategico: la via Aurelia piega verso Genova, lasciando alla statale della Cisa l’itinerario in direzione nord. Bisogna fermare la ritirata dei tedeschi senza distruggere le infrastrutture viarie che subito dopo sarebbero servite agli alleati. Il 18 aprile scattano le operazioni, le postazioni tedesche sono neutralizzate e tra il 22 e il 23 aprile la zona è libera. Nella notte del 24 i partigiani di “Giustizia e Libertà” entrano ad Aulla, mentre Fivizzano è libera da un giorno con gli alleati arrivati dalla Garfagnana attraverso il passo dei Carpinelli. Bisogna aspettare ancora fino al 27 aprile perché anche l’ultimo fazzoletto di terra a sud dell’Appennino possa vedere la ritirata dei nazifascisti. Per Pontremoli si prospettano le ore più difficili. Le opere e il lavoro politico quotidiano del vescovo Sismondo fanno sì che il numero delle vittime non sia ancora più grande e che la città non venga distrutta. Ma i timori di azioni disperate del nemico sono forti e aumentano per le ripetute incursioni aeree contro le colonne tedesche e i continui cannoneggiamenti che aprono la strada agli alleati. Infine arriva l’alba del 27 aprile. È carica di nubi, ma la città è libera: da sud entrano le truppe americane, da nord scendono i partigiani delle brigate “Beretta”. Anche gli ultimi tedeschi hanno lasciato l’abitato, facendo saltare alle loro spalle tre ponti stradali ma lasciando intatto quello ferroviario che viene subito riadattato per il transito dei mezzi alleati verso il parmense dove, nella sacca di Fornovo, sta per consumarsi uno degli ultimi sanguinosi atti della seconda guerra mondiale in terra italiana.




“Pillole di Resistenza”. Un progetto video di divulgazione storica per il 75° anniversario della Liberazione

Fare «storia», tra conoscenza e cittadinanza.

Anni fa, lo storico ed ex partigiano Claudio Pavone, invitato a parlare di Resistenza in un noto liceo milanese, raccolse tra le altre la sollecitazione di un ragazzo che così si espresse: «Lei ha perfettamente ragione, sono pienamente convinto che la Resistenza sia stata una cosa grande, nobile; però lei ci ha messo un’emozione che io non capisco. Per noi è come parlare delle cinque giornate di Milano: possiamo ben essere convinti che è una gloria dei nostri avi aver cacciato il maresciallo Radetsky, però lo leggiamo nei libri di storia e basta». Riferendo tempo dopo quell’episodio in sede di convegno, Pavone avrebbe commentato: «Rispondere soltanto “tu hai il dovere di emozionarti come me” non avrebbe avuto senso. Bisognava sforzarsi di impostare un discorso che, partendo dai problemi dei giovani di oggi, arrivasse poi a trovare un vero terreno di incontro e di colloquio»[1].

Che la Resistenza possa apparire per gli italiani, e per le giovani generazioni in particolare, un riferimento identitario sempre più sfocato e lontano è questione che oramai da tempo è sotto lo sguardo di tutti. Le cause di questo stato di cose sono molte e varie, e non è certo questo il luogo per ripercorrerle e discuterne. Sicuramente, in anni recenti vi hanno contribuito svariati fattori che chiamano in causa – tra altri – il mutamento degli attori e dei tradizionali riferimenti politici ed ideologici, il ruolo della scuola, della ricerca e degli operatori culturali, il peso dei media e dei nuovi mezzi informatici di comunicazione nell’orientare l’opinione pubblica sul tema, e così’ via. D’altro canto – come anche l’aneddoto che abbiamo riportato mette in luce – una certa quota di responsabilità la si può rintracciare anche nel ruolo e nelle interazioni, molto spesso problematiche, che «storia» e «memoria» esercitano o hanno fin qui esercitato l’un l’altra rispetto al problema della conoscenza del passato, della Seconda guerra mondiale e della Resistenza in particolare. Il tema è di quelli capitali e sarebbero molti – troppi – gli spunti di analisi.

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Partigiani fiorentini in piazza Beccaria (ISRT)

Vale la pena ricordare tuttavia che, anziché nel senso indicato dal giovane interlocutore di Pavone – il quale a un presunto eccesso di «memoria» contrapponeva la richiesta di una pratica e di una conoscenza storica impersonale e asettica – nella realtà dei fatti l’interesse per il passato e quindi la domanda di conoscenza della storia della Seconda guerra mondiale e del Novecento in generale si sono rivolti più spesso alla «memoria» – intesa come testimonianza – che alla «storia» – intesa come disciplina “scientifica” – e questo secondo una tendenza che a partire dal dopoguerra ha registrato un’accelerazione sensibile soprattutto negli ultimi decenni. La crescita – e quasi l’eccesso – di memoria e di «memorie» – quelle delle vittime della guerra soprattutto – cui si è assistito a partire dagli anni Novanta come conseguenza dell’entrata in crisi del «paradigma antifascista» sul quale si era costruita – talvolta con intenti olografici e non senza reticenze – la memoria pubblica della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, ha portato infatti al centro della scena il ruolo del «testimone», consentendo che, soprattutto per le nuove generazioni, la conoscenza della storia passasse anzitutto attraverso la scoperta introspettiva e la condivisione dei vissuti e delle sofferenze individuali delle vittime e quindi fosse affidata anche a pratiche emozionali. Si è trattato e si tratta di esperienze sicuramente preziose sebbene, come è stato più volte sottolineato, si corra il rischio che alla sollecitazione emozionale, soprattutto se mediaticamente sovraesposta, non corrisponda un’adeguata trasmissione di contenuti storici. La «vittimizzazione della memoria» in particolare ha recato e reca conseguenze negative rispetto alla conoscenza storica, soprattutto quando un certo abuso di memorie rischia di produrre l’appiattimento di esperienze individuali e collettive storicamente tra loro assai diverse entro la stessa categoria vittimaria. La storiografia ha da tempo messo in guardia su simili rischi; tuttavia, nonostante essa avesse contribuito all’ampliamento dello sguardo pubblico sulla pluralità delle memorie della Seconda guerra mondiale spingendo oltre la tradizionale dimensione politico-militare della Resistenza, per una serie di motivi si è rivelata sempre più in crisi nel fornire all’opinione pubblica gli strumenti necessari per una corretta conoscenza critica di quei fenomeni. La «storia» – secondo alcuni osservatori – ha appunto perso centralità nell’orientare il dibattito pubblico sulla Resistenza e la Seconda guerra mondiale (e più in generale sul Novecento), sopravanzata da attori sprovvisti di solide strumentazioni analitiche e spesso mossi da intenti più o meno velati di polemica politica o comunque interessati esclusivamente a rovesciare presunte vulgate di una Resistenza ancora egemonizzata e “taciuta”, attori che il sistema dei media e il mercato editoriale hanno spesso premiato con maggiore visibilità.

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Truppe alleate fanno il loro ingresso a Massa Marittima (ISGREC)

La sfida cui oggi la «storia» – intesa come disciplina e conoscenza critica e scientifica dei fatti storici – è chiamata risulta probabilmente tra le più difficili ma proprio per questo essa non può sottrarvisi, tanto più che l’«era del testimone», almeno per quanto riguarda la storia della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, pare avviata oramai a chiudersi. Le risposte a questa sfida possono essere di vario tipo e su più livelli. A nostro parere non si tratta tanto del grado di separazione che essa debba mantenere con la «memoria» (lo stesso Pavone avrebbe potuto replicare al giovane milanese che lo aveva sollecitato che in fondo, come avrebbe scritto più tardi, anche «la storia più asettica, nella sua volontà di essere scientifica, può talvolta stimolare la memoria, favorendo il riemergere di ricordi accantonati»[2]), ma anzi del ruolo che la «storia» possa e debba avere rispetto ai processi di costruzione della memoria pubblica in atto in un paese. Più che sul terreno ambiguo e scivoloso dell’«uso pubblico» della storia, la questione va inquadrata entro il problema annoso dell’«utilità» che la storia debba avere, non tanto e non solo nel campo dei saperi, ma in quello della vita civile e sociale: se, cioè, il sapere storico costruito su base critica debba assolvere o meno anche a un ruolo pedagogico, ricercando, come è stato proposto, «un pur difficile equilibrio tra correttezza scientifica e costruzione di un ethos per il paese»[3].

Per gli storici e per chi lavora da anni nel campo della ricerca e della divulgazione storica si tratta di un nervo sensibile. Gli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea della Rete Parri sono sicuramente tra i soggetti che per primi si sono impegnati da anni su questo fronte, promuovendo progetti di ricerca, didattica e divulgazione storica condotti con rigore scientifico e consapevolezza critica senza però perdere di vista al contempo la finalità di fornire strumenti utili non solo a una conoscenza storica rigorosa ma a una cittadinanza attiva e consapevole. Nel far ciò essi si confrontano da tempo anche con le nuove pratiche e i nuovi mezzi di comunicazione storica che provengono dall’applicazione dei più recenti strumenti digitali e informatici e che già hanno portato la disciplina storica nel mondo della public history e della digital history.

Le “Pillole di Resistenza”.

La Rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea negli ultimi anni ha promosso in tal senso nuovi progetti di divulgazione e informazione storica, inaugurati nel 2018 con la pubblicazione di una web serie in occasione del 70° Anniversario della Costituzione della Repubblica Italiana (“La Costituzione è giovane!”, link a you tube: https://www.youtube.com/watch?v=q6ieiYSJ2uI). Quest’anno, ricorrendo il 75° Anniversario della Liberazione, la rete toscana ha promosso con il contributo della Regione Toscana e il coordinamento dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze la realizzazione di un video progetto di divulgazione storica sul tema della Resistenza in Toscana dal titolo Pillole di Resistenza (link al trailer del progetto “Pillole di Resistenza”: https://www.youtube.com/watch?v=meuu1rwqVhg). Il progetto, affidato alla regia di Nicola Melloni (Rumi Produzioni), si compone di dieci episodi, ciascuno dedicato a un tema in particolare della storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale in Toscana e affidato al racconto esperto di uno storico, individuato tenendo conto sia della sua competenza sul tema che della sua esperienza nel campo della ricerca, della divulgazione e della didattica storica. Non solo storici di professione e dell’accademia, dunque, ma anche figure che oltre a una solida formazione scientifica vantano consolidate esperienze all’interno degli Istituti storici della Resistenza. Uno degli scopi del progetto, infatti, era quello di coniugare il rigore del sapere storico proprio della disciplina con le sensibilità richieste da una divulgazione storica seria ma capace di parlare al grande pubblico, e alle generazioni più giovani in primo luogo, con linguaggi chiari ma diretti, fornendo appunto delle “pillole” della durata di circa 15 minuti utili a formare non solo una maggiore conoscenza del nostro recente passato ma anche una cittadinanza più consapevole delle radici storiche del nostro presente. Da qui anche la decisione di rendere le “Pillole” liberamente accessibili a tutti sul web, pubblicandole sul canale you tube dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze con cadenza settimanale ogni martedì a partire dal 31 marzo e sino al 2 giugno prossimo, festa della Repubblica.

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Partigiani del Raggruppamento Patrioti Apuani (ISRA Pontremoli)

Poiché il progetto nasce e si muove a partire dalla conoscenza aggiornata che la ricerca scientifica e la storiografia hanno prodotto negli anni sulla storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, i dieci temi delle “Pillole” sono stati coerentemente individuati sulla base di tali acquisizioni. Con le parole e nello spirito dell’insegnamento di Pavone, possiamo dire che la scelta dei temi e dei soggetti trattati ha tenuto conto dell’ampliamento dell’«arco dell’esperienza resistenziale»[4] e del conseguente riposizionamento della storiografia dall’originaria attenzione prestata in via esclusiva alla dimensione politica e militare della Resistenza a forme di opposizione non armate, variamente definite «civili» e «non violente», atteggiamenti di rifiuto della guerra fascista, di disobbedienza non passiva che segnarono una reale «ripresa della parola dal basso» dopo decenni di oppressione. Da qui l’interesse a portare entro il perimetro resistenziale fenomeni quali quello della renitenza alla leva militare, del dissenso pagato a caro prezzo dai militari italiani internati dopo l’8 settembre nei campi di prigionia tedeschi, della difesa degli impianti industriali dalle razzie tedesche e degli scioperi nelle fabbriche, della riscoperta e della salvaguardia del valore assoluto della vita umana dimostrato da donne e uomini nel dare assistenza ai perseguitati politici e della razza, agli sbandati e agli sfollati e a chi era stato vittima di violenze ideologiche e di guerra, e molto altro ancora. Una varietà complessa di esperienze diverse accomunate però dal desiderio di resistere «alla guerra» (alla guerra fascista, all’occupazione nazifascista e alle sue biopolitiche genocidarie anzitutto) al quale poi si salda come ulteriore stadio la volontà non più e non solo di resistere «alla guerra» fascista ma di optare per «una guerra di riscatto» dal nazifascismo, scegliendo la via armata. Entrambi sono aspetti indissolubili dell’esperienza resistenziale e come tali stanno assieme anche entro il racconto che della Resistenza ci offrono le “Pillole”.

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Civili sfollati, Livorno viale Caprera (ISREC Livorno)

La varietà di queste esperienze resistenziali, d’altro canto, richiama il vissuto specifico e irripetibile di chi le sperimentò, ragione per la quale anche nelle “Pillole” si è scelto di raccontare la Resistenza nei suoi aspetti costitutivi attingendo ampiamente alle storie di vita, semplici ma esemplari, di donne e uomini toscani che tra il 1943 e il 1945 scelsero con coraggio e conseguenze spesso esiziali la via della disobbedienza e della resistenza. Un vissuto che, affidato alla voce dello storico, è ricostruito in ciascuno degli episodi con una selezione di immagini, documenti e testimonianze provenienti in larga parte dallo stesso patrimonio archivistico e documentale che la Rete degli Istituti toscani conserva e da anni mette a disposizione di storici e ricercatori. Materiale, questo, sapientemente montato nel racconto filmico delle “Pillole” e in grado di restituire il senso e lo spessore di queste voci e di queste vite, nonché di luoghi e vicende simbolo, i quali si fanno non solo «documento storico» ma «testimonianza» vera e propria.

Il primo episodio, 8 settembre 1943: L’ora delle scelte curato da Nicola Barbato, ricercatore dell’ISREC di Lucca, affronta il tema della “scelta” resistenziale all’indomani dell’armistizio e del difficile quadro che si apre con esso. L’effimera illusione di un’uscita indolore dalla guerra che l’8 settembre aveva creato è spazzata via definitivamente dallo sbando dell’esercito e dall’occupazione tedesca della penisola. Ma pur di fronte al tracollo generale, allo sfaldarsi dei tradizionali vincoli di appartenenza e persino del comune senso di identità nazionale, che per taluni segna persino la “morte della patria”, non decadono invece i presupposti di un riscatto collettivo degli italiani. Posti di fronte a una scelta di campo difficile quanto indifferibile, molti di loro danno prova di una tenace e coraggiosa volontà di rivalsa sul fascismo che, ancor prima di assumere il carattere di lotta armata, ha il volto della solidarietà spontanea prestata ai soldati sbandati, agli ex prigionieri alleati evasi dai campi fascisti, ai renitenti alla leva e ai perseguitati politici e della razza. Una solidarietà affrontata con coraggio e pagata, spesso, a caro prezzo che costituisce in verità “l’alba di una nuova patria” e che Nicola Barbato ripercorre delineando, tra le altre, le vicende cariche di significato dell’anziano colonnello Cione, di Vera Vassalle, degli IMI lucchesi Dante Uniti e Davide Massei.

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La partigiana viareggina Vera Vassalle (ISREC Lucca)

Il secondo episodio, RSI. La Repubblica Sociale in Toscana, curato da Francesca Cavarocchi ricercatrice dell’Università di Firenze e dell’ISRT di Firenze, ricostruisce la fisionomia e le politiche di controllo che interessarono in Toscana l’apparato della Repubblica Sociale Italiana. Ricostituitosi nel settembre del 1943 come governo collaborazionista e fiancheggiatore dell’occupante tedesco, il fascismo repubblicano vide assurgere a ruoli apicali numerosi toscani, spesso vecchi fascisti o squadristi della prima ora – tra i quali il fiorentino Alessandro Pavolini o Guido Buffarini Guidi – secondo una continuità ideale con il ruolo che la regione aveva svolto in passato come una delle “culle” del fascismo delle origini. E di quel fascismo originario – squadrista, violento e predatorio – la RSI raccolse l’eredità nei mesi di guerra. Allora, piuttosto che mitigare i pesanti effetti del sistema di occupazione tedesco sulla popolazione civile, i fascisti repubblicani si resero protagonisti di un inasprimento delle politiche di controllo sulle risorse e la forza lavoro locali oltre che degli strumenti di repressione del dissenso politico. Sebbene contrassegnate da una maggior brevità e instabilità rispetto alle regioni del Nord Italia, le strutture della RSI in Toscana svolsero un ruolo diretto nella persecuzione e deportazione degli ebrei e nella repressione antipartigiana, con gravi responsabilità.

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Francesca Cavarocchi durante le riprese del secondo episodio “RSI. La Repubblica Sociale in Toscana”

Il terzo episodio, Vivere la guerra totale, curato da Matteo Grasso giovane storico e direttore dell’ISRPT di Pistoia, pone al centro del racconto le difficili e drammatiche condizioni di vita patite dalla popolazione civile toscana nel contesto della “guerra totale”. Partendo anzitutto dal simbolo più caratteristico della guerra totale, l’esperienza dei bombardamenti alleati sulle citta e sulla popolazione civile, e con un focus particolare su Pistoia, Grasso tocca tutti i principali aspetti, materiali e psicologici, di una vita scandita continuamente dalla minaccia della guerra aerea e sconvolta dalle gravi conseguenze che essa ebbe in termini di distruzioni, morti e patimenti. Lo sgombero e lo sfollamento forzato dei centri abitati disposti nel tentativo di porre al sicuro i civili ma anche di sottrarre il prezioso patrimonio artistico culturale di molte città toscane ai rischi connessi ai bombardamenti e all’avanzare del fronte, il drastico peggioramento della situazione alimentare e sanitaria a seguito dell’entrata in crisi del sistema di razionamento e approvvigionamento e l’incapacità delle autorità di far fronte all’emergenza, sono aspetti generalizzati della crisi che la popolazione toscana vive negli anni di guerra e poi, con nuova intensità, nei mesi dell’occupazione tedesca, quando le razzie e le sistematiche requisizioni nazifasciste conducono ancor più allo stremo la regione.

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Manifesto della RSI contro la renitenza alla leva di Salò (ISRA Pontremoli)

Il quarto episodio, curato da Catia Sonetti storica e direttrice dell’ISTORECO di Livorno, tratta il tema de La persecuzione degli ebrei. Partendo dalla vicenda dell’arresto nel dicembre 1943 al Gabbro, piccola frazione di Rosignano Marittimo, delle famiglie ebraiche dei Bayona, dei Baruch e dei Modiano e della loro successiva deportazione ad Auschwitz, Sonetti fa luce, risalendo a ritroso, sugli antefatti e sulle premesse storiche della persecuzione antisemita. Delineando nei suoi tratti costitutivi il profilo sociale, culturale ed economico delle tre principali comunità israelitiche toscane e delle altre presenze ebraiche disseminate nella regione, si ripercorrono i processi di emancipazione e il grado di integrazione di tali comunità e di tali presenze entro il tessuto civile toscano, tra Unità, Grande Guerra e Fascismo per poi meglio cogliere su di esse gli effetti generati dall’introduzione della legislazione razziale fascista. Le conseguenze delle politiche discriminatorie del Fascismo con la progressiva messa al margine e poi con l’espulsione dalla vita pubblica dei cittadini ebrei sono indagate tramite le dolorose vicende di vita di coloro che cercarono di porsi in salvo, tentando l’espatrio, come nel caso della famiglia del medico fiorentino Giulio Levi, o di chi, invece, subì la radiazione dal pubblico impiego come accadde a Enrica Calabresi, professoressa universitaria, più tardi suicida di fronte a sicura deportazione. Nel ricostruire il passaggio dalla “persecuzione dei diritti” alla “persecuzione delle vite” sono poste al centro le responsabilità degli italiani e delle autorità fasciste repubblicane e le figure di coloro che, come nel caso di Giovanni Martelloni e Mario Carità, risultarono tra i maggiori responsabili dell’arresto e della deportazione di centinaia di ebrei fiorentini e toscani; ma è altresì ricordato anche il ruolo di protezione che svolsero allora esponenti e organizzazioni della Chiesa toscana o semplici cittadini. A chi tra i perseguitati cercò di opporsi alla deportazione, anche scegliendo la via della resistenza armata come nel caso della famiglia degli Orefice, si contrappongono le vicende tremende di chi invece non fece ritorno e le poche ma preziose voci dei salvati che al rientro dai campi ebbero il coraggio di testimoniare.

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La vecchia Sinagoga di Livorno parzialmente distrutta dai bombardamenti (ISTORECO Livorno)

Al tema degli Scioperi e delle deportazioni politiche è invece dedicato il quinto episodio, curato da Camilla Brunelli, direttrice del Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza (Figline di Prato). Una delle pagine al contempo più gloriose e terribili della Resistenza civile, lo sciopero generale indetto ai primi di marzo del 1944 dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia in Toscana interessò principalmente le aree più industrializzate tra Firenze, Prato ed Empoli, ma si diffuse comunque anche in altre zone manifatturiere della regione. Oltre che a Prato, nella sua diffusa industria tessile, a Firenze si mobilitarono, tra gli altri, gli operai e le operaie delle Officine Galileo, della Pignone, della Cipriani e Baccani, della Richard-Ginori, della Manetti & Roberts, oltre alle sigaraie della Manifattura Tabacchi. Nell’empolese entrarono in sciopero gli operai delle vetrerie; ad Abbadia San Salvatore, sul Monte Amiata, i minatori; ma si scioperò anche a Cavriglia, nel Pistoiese, nel Pisano, a Livorno e Piombino, a Santa Croce sull’Arno e nel Mugello. Si trattò di proteste che generavano per lo più da un radicato e diffuso sentimento di rifiuto e di resistenza civile alla guerra, motivato dall’insofferenza per le privazioni causate dal conflitto e dal malcontento per la continua e sistematica azione di depredazione delle risorse produttive e umane condotta dall’occupante nazifascista. Di fatto si trattò della prima opposizione esplicita di massa al fascismo, ragion per cui la reazione delle autorità fasciste e naziste fu repentina e muscolare, traducendosi in una dura repressione che portò a rastrellamenti generalizzati e indiscriminati della forza lavoro, per la verità non solo di quella scioperante. Arrestati e poi concentrati in luoghi di smistamento quali la Fortezza di Prato o le ex scuole delle Leopoldine in Piazza S. Maria Novella, centinaia di scioperanti furono da lì deportati verso il lager di Mauthausen e quindi trasferiti in vari sottocampi: Gusen, Melk e soprattutto Ebensee. La gran parte di loro, come l’antifascista pratese Diego Biagini, non fece mai ritorno.

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Matteo Grasso durante le riprese del terzo episodio “Vivere la guerra totale”

Resistere con o senza armi, è il tema del sesto episodio delle Pillole, curato da Pietro Clemente, già docente di antropologia culturale e Presidente dell’ISRSEC di Siena. Resistenza in armi e resistenza civile si incontrano idealmente nel racconto di Clemente e trovano quasi una sintesi nel piccolo borgo contadino di Monticchiello, nel comune di Pienza, luogo di ambientazione nell’aprile 1944 di una fiera e vittoriosa battaglia partigiana; un episodio, se si vuole minore, della resistenza armata in Toscana ma cionondimeno significativo in quanto non solo rilancia e infonde nuovo spirito al movimento di liberazione senese dopo l’eccidio di Montemaggio ma segnala il raggiungimento di una certa maturità militare del movimento di liberazione tutto, una crescita organizzativa complessa che denota anche il contributo determinante dei civili: dietro e attorno alle mura medioevali del piccolo paese dove i partigiani della formazione Mencatelli si trincerano e respingono l’assalto delle truppe fasciste ci sono infatti e prestano aiuto molti giovanissimi (studenti, operai ma soprattutto contadini) e diverse donne (che collaborano dall’esterno); c’è in definitiva la solidarietà e l’aiuto della popolazione civile tutta a dimostrazione che senza di questa la lotta armata difficilmente avrebbe potuto sopravvivere e prosperare. Ma oltre ai civili e ai contadini, e ai mezzadri toscani soprattutto senza i quali le bande partigiane non avrebbero potuto sopravvivere alla macchia, vi sono anche i sacerdoti, schierati apertamente come don Paoli a Lucca e don Angeli a Livorno contro la guerra e dalla parte di chi la soffre e decisi a immolare se stessi nel salvataggio di ebrei e perseguitati e nella protezione delle popolazioni civili dalle violenze degli occupanti.

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Luciana Rocchi durante le riprese del settimo episodio “Donne, tra guerra e Resistenza”

Donne, fra guerra e Resistenza è l’altro grande tema al centro del settimo episodio curato da Luciana Rocchi, storica dell’ISGREC di Grosseto del quale è stata fondatrice e per molti anni direttrice.  Attraverso le biografie e il vissuto tormentato di una selezione significativa di donne toscane passate attraverso la guerra ci si pone la domanda di quanto delle condizioni di partenza, culturali, morali, sociali rimanga e di quanto invece muti drasticamente nella Toscana del dopoguerra. La risposta non è univoca e deve confrontarsi con le molte e spesso contrastanti esperienze vissute dalle donne negli anni del conflitto. Certo, le difficoltà e le privazioni del tempo di guerra, comuni a tutte, le gettano in uno stato di emergenza costante e di estrema durezza di vita, spesso sradicandole dai propri luoghi vitali di riferimento (le case, le famiglie), mentre lo stereotipo dell’etica del sacrificio per la patria che aveva caratterizzato il linguaggio delle autorità fasciste verso le donne perde ormai ogni aderenza con il loro vissuto. Da qui, un nuovo protagonismo, conquistato duramente e a prezzi altissimi. Al di là del tradizionale ruolo di maternage e di cura per chi ha bisogno – siano i propri figli minacciati dai bandi di chiamata alle armi di Salò contro cui si rivoltano le madri di Massa Marittima, oppure gli ebrei, gli sfollati e i partigiani che Iris Origo accoglie nella sua villa in Val d’Orcia – vi sono donne che si mettono in gioco direttamente entro il movimento di Resistenza per le quali il rifiuto della guerra non è in conflitto con l’accettare la necessità della violenza. Non solo staffette, dunque, ma anche donne in armi, che trovano in ogni caso le ragioni della propria scelta o nel desiderio di rivalsa dalla cultura dell’obbedienza in cui erano cresciute o perché spinte dagli affetti e dagli amori a seguire i propri cari e i propri amati in clandestinità. Il prezzo da loro pagato è altissimo, come emblematicamente racconta la vicenda della medaglia d’oro Norma Parenti, trucidata a un passo dalla Liberazione del proprio paese. Il dopoguerra che si apre tra tristezza e orrori vede ancora profonde ferite da sanare, mentre per alcune lascia un senso amaro di disillusione. Ma l’eredità delle donne in armi e senz’armi che hanno vissuto la Resistenza, benché assuma l’andamento di un cammino carsico, riaffiora e la si ritrova nell’etica di responsabilità di molte donne che saranno attive in politica e nelle rivendicazioni sociali del dopoguerra.

GR_Norma Pratelli Parenti di Massa Marittima, Medaglia d'Oro (in memoria)_ASMassaMarittima

Norma Parenti, medaglia d’oro al valor militare (ISGREC Grosseto)

L’ottavo episodio della serie, curato da Gianluca Fulvetti, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e membro del CdA dell’Istituto nazionale Ferruccio  Parri e del direttivo dell’ISREC di Lucca, è dedicato al tema delle Stragi in Toscana. La «guerra ai civili», come da tempo messo in luce da un filone storiografico attento a cogliere le implicazioni e gli effetti delle politiche di occupazione nazifasciste sulle popolazioni locali, raggiunge in Toscana uno dei massimi gradi di intensità e di efferatezza registrando tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 più di 4.400 vittime in oltre 800 episodi, tra stragi, eccidi e uccisioni singole. È soprattutto l’estate di sangue del 1944 a segnare il picco quantitativo e qualitativo della guerra ai civili in Toscana. Allora, alle necessità della guerra antipartigiana e del controllo del territorio che già nei mesi precedenti avevano animato l’impiego spesso indiscriminato della violenza sulle popolazioni locali si somma l’urgenza militare di rallentare a tutti i costi l’avanzata alleata; urgenza che porta i reparti della Wermacht e delle Waffen SS, non senza l’appoggio di fascisti e collaborazionisti, a scatenare a ridosso della linea del fronte grandi operazioni di bonifica del territorio, rastrellamenti e massacri di civili, ma anche uno stillicidio sparso di uccisioni che la ritirata tedesca si lascia dietro. Non solo le grandi stragi, come S. Anna di Stazzema e Civitella Val di Chiana, popolano la mesta cartina dell’estate di sangue toscana, ma altre meno note, ma non meno atroci, come nel caso della strage della Certosa di Farneta che Fulvetti tratteggia. È un salto di qualità quello che si compie nell’estate del 1944 che d’altro canto era già stato preannunciato con i grandi cicli antipartigiani che nella primavera del 1944 avevano colpito molte comunità toscane dell’Appennino e che avevano registrato la volontà delle autorità tedesche di gestire il dissenso non più con soluzioni politiche, ma con il ricorso alla violenza militare. L’eredità, materiale e morale, dei lutti che dilaniano la Toscana del 1944 lascia aperta e a lungo insoluta nel dopoguerra la domanda di giustizia dei familiari e delle comunità colpite, il cui dolore cade in un oblio di cui si rendono colpevoli le autorità politiche e giudiziarie italiane e alleate mentre il tentativo di dare un senso o un volto ai “presunti” colpevoli finisce per sedimentare memorie “divise” e conflittuali destinate a mantenersi tali ancora a lungo.

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Gianluca Fulvetti durante le riprese dell’ottavo episodio “Le stragi in Toscana”

Il nono episodio è dedicato invece a Liberazioni e insurrezione ed è curato da Matteo Mazzoni, storico e direttore dell’ISRT di Firenze. Al centro del racconto è l’andamento del quadro militare della guerra di Liberazione e il ruolo che, a partire dal giugno 1944 in avanti, svolgono in Toscana gli eserciti alleati, da un lato, e dall’altro il movimento partigiano, il quale, dopo aver animato la lotta a tedeschi e fascisti nei mesi precedenti, punta adesso a precedere gli Alleati nella liberazione delle città. Se l’imparità con il nemico ostacola la volontà delle formazioni partigiane di svolgere entro la lotta di Liberazione un ruolo veramente autonomo dall’apporto delle forze alleate, la posta in gioco rimane comunque alta e il tentativo di evidenziare il proprio contributo, oltreché sul piano militare, assume un significato politico di enorme rilevanza per le forze dell’antifascismo toscano.  Pur nella dialettica delle posizioni e delle prospettive, l’obiettivo comune della sconfitta dei nazifascisti consente  forme di collaborazione tra Alleati e partigiani e persino il reciproco riconoscimento dei ruoli. Tra gli altri casi richiamati, la battaglia di Firenze e l’insurrezione dell’11 agosto ne sono il principale esempio, con gli Alleati che, giunti alle propaggini meridionali della città, riconoscono sia le nomine del governo della città espresse dal CTLN quale organo rappresentante delle forze resistenziali che il ruolo svolto dalle Brigate partigiane calate sulla città dai colli circostanti nei duri combattimenti che si protraggono fino alla fine del mese lungo la linea del Mugnone. È, come noto, quello fiorentino uno snodo centrale nella storia della Resistenza italiana che lascia un’eredità politica e un esempio prezioso per le successive insurrezioni delle città del Nord Italia.

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Sepolture di vittime di stragi nazifasciste (ISRA Pontremoli)

L’ultimo episodio, curato da Andrea Ventura, giovane storico dell’ateneo pisano e direttore dell’ISREC di Lucca (a cui in particolare è affidato il racconto storico), assieme a Luca Baldissarra, docente di Storia presso l’Università di Pisa, ha come tema La Linea Gotica in Toscana. Con attenzione particolare al settore apuano – oggetto di un tardivo sfondamento alleato e quindi di un’occupazione tedesca che nei territori di Massa, Carrara e Pontremoli si prolunga sino all’aprile inoltrato del 1945 – Ventura ripercorre i presupposti strategici e militari che con l’avvio della campagna alleata in Italia avevano spinto le autorità tedesche a realizzare una grande linea di fortificazioni tra Massa (sul Tireno) e Pesaro (sull’Adriatico) che si inerpicava per centinaia di chilometri tra le Alpi Apuane e l’Appennino. La Gotica – spiega Ventura –  è nello stesso tempo una linea del fronte e di confine che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud), due sistemi di occupazione (tedesco e alleato), due opposte esperienze politiche e di guerra. Ma al contempo la Gotica rappresenta anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano nella costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati provenienti da cinque continenti diversi si insediano e si preparano al combattimento, dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono anche autonomamente stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano intensamente, dove le popolazioni vivono una quotidianità totalmente stravolta dalla guerra. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della Seconda guerra mondiale: non solo linea militare, ma anche demarcazione politica, ideologica e mentale, aspetti questi che Ventura ricostruisce puntualmente anche con l’ausilio della preziosa documentazione fotografica e documentale messa a disposizione, tra altri, dall’ISRA di Pontremoli.

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Camilla Brunelli durante le riprese del quinto episodio “Scioperi e deportazioni politiche”.

In sintesi un progetto video, complesso e articolato, nato dalla solerte e sentita collaborazione tra tutti gli Istituti della Resistenza della Rete toscana, sotto il coordinamento del dott. Matteo Mazzoni, la segreteria scientifica e la ricerca d’archivio di Giada Kogovsek e Francesco Fusi, che si spera possa dare un piccolo ma significativo contributo affinché la «storia», oltre a formare conoscenza critica e rigorosa dei fatti, possa ancora esprimere la propria utilità nella società di oggi, magari fornendo «quel terreno di incontro e di colloquio» necessario alla costruzione di un ethos per il paese di cui parlava anche Pavone.

 

[1] Intervento di Pavone in Passato e presente della Resistenza. 50° Anniversario della Resistenza e della Guerra di Liberazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1995, p. 113.

[2] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 67-68.

[3] Mirco Carrattieri, La Resistenza tra memoria e storiografia, «Italia contemporanea», XXXIII (2015), n. 95, p. 18.

[4] Claudio Pavone, Un Guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 31.




La persecuzione degli ebrei senesi (1938-1944).

Mario Misan, insieme alla sorella gemella Lia, nacque a Siena nel 1933. Il padre Giuseppe, di religione ebraica, era originario di Livorno[2] e, insieme al fratello Roberto, gestiva un negozio di tessuti in via di Città. La madre Silvia Tognazzi, non era ebrea, bensì figlia di un mezzadro della Val d’Orcia; la donna si era trasferita a Siena all’età di vent’anni per andare a lavorare, come infermiera, presso l’ospedale psichiatrico, e proprio in città, dopo essersi convertita all’ebraismo, era convolata a nozze presso la sinagoga locale.
Il giovane Mario conobbe prestissimo l’umiliazione delle leggi razziali in quanto a sei anni (nel 1939) presentandosi a scuola insieme alla sorella, fu costretto a iscriversi alla pluriclasse riservata ai bambini ebrei. La scuola si trovava in località “La Lizza” e il locale riservato agli israeliti (circa 15 studenti, per i quali l’insegnante era la maestra Giustina Del Monte, originaria di Firenze, anch’ella di religione ebraica) era fatto in modo che non ci fossero contatti con i bambini “ariani” e persino i bagni erano separati.
Racconta Mario Misan che il membro della famiglia che soffrì di più per le discriminazioni scolastiche fu suo cugino Giulio[3], figlio di Roberto; il giovane amava gli studi ed era particolarmente portato ma quando si trovò a passare dal ginnasio al liceo, ciò gli venne impedito a causa delle leggi razziali. I problemi più gravi per la famiglia Misan arrivarono tuttavia dopo l’8 settembre 1943. Con l’occupazione tedesca, prudentemente, la madre di Mario, portò lui, la sorella Lia e il fratello Aldo presso il podere “La Macina”, a mezza strada tra Montalcino e Buonconvento presso gli zii materni Nello e Quirino Tognazzi che diedero loro ospitalità nonostante i gravissimi rischi che questo comportava. La situazione era particolarmente dura, ricorda Misan, la madre andava «a Montalcino e si arrangiava a vendere pannina[4] casa per casa, trascinandosi dietro una grossa valigia. I proventi erano magri ma tutto serviva. Questa donna era incinta al quinto mese di gravidanza, Laura [l’ultima sorella di Mario n.d.r.] nascerà infatti nel gennaio del 1944, periodo tristissimo, pieno di angosce e paure».
Giuseppe Misan, con il figlio maggiore, Manrico, per tutelare in qualche modo quello che rimaneva delle magre risorse della famiglia, nonostante le esortazioni dei familiari a lasciare la città (la notizia del rastrellamento degli ebrei romani, avvenuto il 16 d’ottobre del 1943, era trapelata e aveva scatenato forti apprensioni), avevano preso la pericolosissima decisione di rimanere a Siena, nel proprio appartamento di via Girolamo Gigli e rischiarono di pagare a caro prezzo questa scelta. La notte del 5 novembre dello stesso anno, una pattuglia di fascisti repubblicani, insieme a un militare tedesco[5] si presentarono a casa Misan e arrestarono Giuseppe e Manrico; contemporaneamente, due zie di Mario, Adriana e Isolina, con le loro famiglie, venivano prelevate dalla loro casa nella zona di Belvedere.
Tutti gli ebrei catturati vennero portati alla caserma “Lamarmora” e il padre di Mario raccontò al figlio di aver visto «i Valech, quasi tutta la famiglia, i Nissim, i Belgrado, i Sadun e altri»[6].
Il viaggio degli sventurati proseguì in camion alla volta di Firenze, da dove, dopo una sosta di un giorno, vennero spediti per mezzo di un carro bestiame a Bologna e portati presso un comando delle SS tedesche. Fortunatamente l’intera famiglia Misan, comprese Adriana e Isolina, venne considerata di “matrimonio misto” e quindi rilasciata[7] tuttavia, da quel momento in poi, considerato il rischio corso e i continui giri di vite alle normative razziali «i fascisti e le SS tedesche prendevano tutti i sospetti per ½ per ¼ di sangue ed altri» anche coloro che erano rimasti a Siena decisero di riparare presso il podere “La macina”.
Nonostante il numero dei rifugiati presso la famiglia Tognazzi fosse particolarmente elevato («eravamo un branco di persone nascosti fino alla liberazione» scrive Mario Misan) e pertanto facilmente individuabile (era anche noto il fatto per cui si nascondevano), nessuno dei vicini rivelò alle autorità la presenza di ebrei in quella casa. Lo stessa solidarietà venne trovava dai Misan al ritorno a Siena, alcune famiglie che avevano prestato loro aiuto in città durante le tristi vicissitudini della dittatura e della guerra, i Monciatti, i Tortorelli e i Vannini, non fecero mancare il loro appoggio e pian piano la vita tornò alla normalità.

[1]La testimonianza è stata incisa e scritta dallo stesso Mario Misan il 5 ottobre 2018 e successivamente consegnata all’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “Vittorio Meoni”.
[2]Riferiva il cugino di Mario, Giulio, che la famiglia Misan si trasferì a Siena da Livorno per sfuggire all’epidemia di colera che colpì quella città nel 1911, cfr. Giulio Misan – Intervista a Giulio Misan [consultato il 17 marzo 2020].
[3]Anche Giulio riuscì a scampare all’Olocausto. Tra l’8 settembre 1943 e il giugno 1944, fu ospite di famiglie contadine nella zona tra Montalcino, Buonconvento e Torrenieri, mentre la famiglia del fratello venne nascosta nella zona di Dievole nel Chianti dal parroco di Vignano, don Luigi Rosadini. Al termine della guerra, dopo essere stato per qualche tempo venditore ambulante, Giulio Misan riuscì, nel 1946, a riaprire, insieme alle sorelle, un negozio di stoffe che gestì fino al 1970.
[4]Nel dialetto senese dell’epoca, per ‘pannine’ si intendeva la biancheria e altri prodotti tessili di modesto valore.
[5]Alba Valech, nella sua testimonianza, riferì che i fascisti erano accompagnati da un militare italiano delle SS, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, Novembre 1943: accadde anche a Siena [consultato il 17 marzo 2020].
Cfr. Alba Valech Capozzi, A 24029, Siena, Soc. An. Poligrafica, 1946.
[6]Gli ebrei rastrellati a Siena quella notte furono una ventina, di costoro alcuni, come i Misan, vennero rilasciati, Alba Valech, arrestata successivamente, si salverà dall’inferno di Auschwitz, ma Adele Ajò (di anni 64), Gino Sadun (di anni 71) Ubaldo Belgrado (di anni 52), Ernesta Brandes (di anni 85), Giacomo Augusto Hasdà (rabbino, di anni 74), Ermelinda Segre (di anni 68), Achille Millul (di anni 40), Gina Sadun (di anni 47), Marcella Nissim (di anni 20), Graziella Nissim (di anni 14), Livia Forti (di anni 55), Davide Valech (di anni 64), Michele Valech (di anni 68), Morosina Valech (di anni 21) e Ferruccio Valech (di anni 13) non tornarono più alle loro case, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, cit.
[7]Cfr. Archivio di Stato di Siena, Pref. Uff. Gab. 1935-1957, b. 4, f. 3, elenco degli ebrei nati da famiglia mista residenti a Siena.




Febbraio 1920: Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta

«Tombolo! Lo ricordiamo più? Nitti tentò il colpo. Ma dovette rendere gorge. Fu nel febbraio del 1920. Erano appena due mesi che era in Italia. Quella piccola borgata presso Livorno, dove un commissario con qualche poliziotto lo dichiarò in arresto divenne presto celebre. Tombolo! Le maggiori città della Toscana scioperarono in segno di protesta» (Armando Borghi)

L’importante sciopero a Livorno del 2 e 3 febbraio 1920 – cento anni fa – attuato per reclamare la liberazione dell’anarchico Errico Malatesta, difficilmente si trova ricordato nei libri di storia locale; ma soprattutto è scomparso dalla memoria cittadina, nonostante la rilevanza della figura di Malatesta nella storia del movimento operaio. Le prime, e probabilmente uniche, ricostruzioni di tale sciopero risalgono al 1990, con il saggio di Paolo Finzi (La nota persona), dedicato alla biografia di Malatesta in Italia tra il dicembre 1919 e il luglio 1920, e il fondamentale lavoro di Tobias Abse,“Sovversivi” e fascisti a Livorno, 1918-1922.

Per cui, oltre a questi due libri e alle informazioni contenute nel fascicolo del Casellario politico centrale intestato a Malatesta, per scrivere le seguenti note sono state utilizzate soprattutto le notizie estrapolate dalla stampa dell’epoca, in particolare dalla testata cittadina «La Gazzetta Livornese» e dai giornali «Avanti!», «L’Avvenire anarchico» e «Il Libertario».

«La Gazzetta Livornese», con classico spirito liberale, racconta i fatti persino con un certo rispetto nei confronti di Malatesta, allora sessantasettenne, definito «vecchio rivoluzionario», «irriducibile ribelle» e «noto agitatore», ma altresì tendendo a mettere in cattiva luce lo sciopero e a ridicolizzare gli scioperanti.

Errico Malatesta, rientrato clandestinamente dall’esilio londinese sul finire del 1919, aveva iniziato un impegnativo tour di propaganda e agitazione in mezza Italia, accolto da una grande partecipazione popolare.

A Livorno giunse in treno alle 9,20 di domenica 1° febbraio 1920, proveniente da Pisa dove il giorno precedente aveva  partecipato ad una manifestazione organizzata dalla locale Camera del lavoro sindacale (aderente all’USI) e conclusasi con un comizio in Piazza dei Cavalieri, dalla scalinata della Scuola Normale. Il prefetto di Pisa aveva informato della partenza il Ministero dell’Interno, precisando che «è partito per Livorno seguito funzionario Ps e segnalato quella questura e quella Sicurezza ferrovia».

Alla stazione di Livorno, oltre agli agenti, ad accoglierlo trovò  un centinaio di amici e compagni informati da poche ore del suo arrivo. Le ultime sue visite nella città labronica risalivano al 1913 e al 1914, prima del suo esilio in Inghilterra, quando era stato ospite del noto anarchico ardenzino Adolfo – anche se da tutti conosciuto come Amedeo – Boschi col quale aveva condiviso il soggiorno coatto a Lampedusa nel 1898 .

Dopo avergli offerta una colazione al Caffè della Posta (poi Teatro Lazzeri), i compagni livornesi accompagnarono Malatesta al Teatro S. Marco. «Già intanto si era propagata – riportava il cronista de «La Gazzetta Livornese – la voce del suo arrivo e di un comizio popolare nel quale  Malatesta avrebbe parlato al pubblico», tanto che molta folla fu costretta a rimaner fuori del Teatro.

Il comizio iniziò attorno alle 10,30 con la partecipazione di lavoratori e oratori anarchici, socialisti repubblicani e sindacalisti. Seguì infine, «salutato da clamorose acclamazioni», l’atteso intervento di Malatesta: «La borghesia non sa più come risolvere le cose e gli eventi che precipitano ed il governo, il quale si trova a difesa di questa borghesia ormai pericolante sui piedistalli corrosi non è più sicuro della propria forza: neppure di quella dell’esercito che al momento della lotta decisiva, certamente non rivolgerebbe le armi contro la forza soverchiante rivoluzionaria […] il proletariato produttore sente che è l’ora di sovvertire il sistema capitalistico borghese: l’unica  forza che sostiene la borghesia è basata sulla disgregazione delle forze proletarie: occorre perciò la concordia. Anarchici, socialisti, repubblicani tendono ad un fine unico, sebbene per vie diverse: l’intendimento è unico […] È quindi necessaria la collaborazione sincera e concorde delle varie tendenze al fine unico: la rivoluzione […] La Rivoluzione non si fa però coi rosari…(a questo punto il cannone annunzia mezzogiorno. Tra le risa generali, per la conferma del cannone intelligente, dal pubblico, un ignoto, dal basso, grida di rimando: «Si fa col cannone!»). Ora la Rivoluzione è possibile. Soltanto bisogna prepararvisi militarmente e economicamente. Nitti dice agli operai: “Producete! Producete!…”. Gli operai hanno ragione di produrre poco e male, oggi, in regime capitalista, e di esigere salari più alti […] Così per le abitazioni. Ci son cave, pietre, sabbia, cemento, muratori e tecnici, e non ci son case e abitazioni. Il male è nel regime capitalista, che bisogna abbattere…».

Terminato il comizio, continua la cronaca su «La Gazzetta Livornese», un folto gruppo di anarchici e socialisti con le bandiere in testa si avviarono verso il centro della città e per via del Porticciolo e Piazza Vittorio Emanuele, cantando l’«Internazionale» e altre canzoni… affini, si diressero alla Camera del Lavoro, e deposti i vessilli rossi e neri subito si sciolsero.

Intanto Malatesta, assieme ad alcuni compagni, si diresse in carrozza ad Ardenza Terra, a casa dell’amico Boschi, in attesa del comizio che tenne nel pomeriggio. In quella che «L’Avvenire anarchico» ebbe a definire «cittadella dell’Anarchia», il secondo comizio iniziò alle ore 16 in un vasto cortile in via del Litorale, alla presenza di un migliaio di persone (lo afferma «La Gazzetta Livornese»).

Dopo l’introduzione di Natale Moretti, seguito dagli interventi di Renato Siglich, Primo Petracchini e Dante Nardi per i giovani socialisti di Ardenza, Malatesta, si rivolse infine ai convenuti, dichiarandosi contrario ad ogni azione di parlamentarismo e chiamando a raccolta anarchici, socialisti e repubblicani e tutte le masse del proletariato, ormai insofferenti di ogni sfruttamento economico e politico. Il comizio terminò senza il minimo incidente e un corteo attraversò via del Litorale al canto di inni rivoluzionari.

Dopo una breve visita a casa di Boschi, secondo la minuziosa cronaca de «La Gazzetta Livornese», Malatesta «e i maggiorenti prendono posto in due vetture che fiancheggiate da agenti ciclisti riprendono alle 18 la via della città». Dopo le fatiche dell’intensa giornata, i compagni offrirono una cena conviviale a Malatesta.

All’indomani, lunedì 2 febbraio, alle ore 5 circa Malatesta, accompagnato dall’anarchico ardenzino Ferdinando Bacci  prendeva il treno per Milano, ma poco dopo la partenza – attorno alle 5,25 – mentre era in sosta presso la piccola stazione di Tombolo, tra Livorno e Pisa, alcuni carabinieri e funzionari in borghese della Questura di Livorno guidati dal commissario di Ps, dott. Dino Fabbris, salivano sul treno e traevano in arresto l’anarchico. Prima di essere fatto salire su un’auto che l’attendeva nei pressi, Malatesta – mostrando la massima calma – nel salutare l’anarchico Bacci gli chiedeva di avvertire i compagni dell’accaduto.

Quindi l’auto partì alla volta di Firenze; secondo una successiva testimonianza dello stesso Malatesta, durante il tragitto, al passaggio d’ogni paese, i questurini gli coprivano il viso, affinché qualcuno non lo riconoscesse e l’auto fosse bloccata a furor di popolo. Giunti nel capoluogo toscano, entrando da Porta S. Frediano, dopo un breve interrogatorio in Questura, Malatesta venne rinchiuso nel carcere delle Murate nella cella n. 32 destinata normalmente ai detenuti per reati comuni dove, attorno alle ore 14, venne interrogato dal giudice istruttore cav. Casentino.

Su Malatesta, infatti, pendeva una denuncia «per eccitamento all’odio di classe e all’insurrezione armata» presentata dal deputato liberale Dino Philipson presso l’autorità giudiziaria fiorentina, con riferimento al comizio tenuto da Malatesta a Firenze, in piazza Cavour, il 19 gennaio che aveva visto la partecipazione di circa temila persone, ma conclusosi con  incidenti in cui era stati ucciso un manifestante.

Appreso della denuncia dello zelante parlamentare, il governo aveva perentoriamente telegrafato al Prefetto di Firenze: «Pregasi far conoscere massima urgenza se Malatesta fu denunciato autorità giudiziaria per parole pronunciate comizio ieri costituenti reato. Se non ancora denunciato dovrà esserlo subito sollecitando autorità giudiziaria emettere immediatamente mandato cattura che vorrà comunicarmi».

Per motivi di ordine pubblico – dato che la situazione sociale era già estremamente tesa per lo sciopero dei ferrovieri – il mandato era rimasto chiuso in qualche cassetto per una decina di giorni, tanto da indispettire l’assai poco liberale on. Philipson che peraltro, pochi anni dopo, avrebbe ammesso di aver finanziato lo squadrismo fascista con «varie centinaia di migliaia di lire».

Conclusosi lo sciopero dei ferrovieri che lo aveva bloccato a Roma, il  31 gennaio Malatesta aveva ripreso il suo giro di propaganda anarchica e agitazione sociale, partecipando alla citata manifestazione a Pisa.

Il 1° febbraio il governo giunse quindi alla decisione d’arrestarlo e tramite il Ministero dell’Interno l’aveva comunicata con telegrammi ai prefetti di Livorno e Firenze, non senza preoccupazione per le prevedibili reazioni.

A quello di Livorno veniva consigliato di procedere al fermo in una  «piccola stazione intermedia lungo tragitto», mentre a quello di Firenze si raccomandava «vivamente» di interrogarlo e scarcerarlo in giornata. Così infatti avvenne e il giudice istruttore incaricato dispose la libertà provvisoria, con l’obbligo di rimanere «a disposizione dell’autorità giudiziaria di Firenze».

Appena uscito dalle Murate, Malatesta incontrava gli anarchici fiorentini coi quali si intrattenne in un caffè di piazza Santa Maria Novella per festeggiare la liberazione ma anche per fare il punto della situazione; la sera stessa parlò presso la Camera del Lavoro sul tema «Il proletariato nel momento attuale».

Di certo, anche se la sua scarcerazione era stata decisa in anticipo, il governo aveva dovuto registrare una risposta istantanea e di massa: nel giro di poche ore scioperi e manifestazioni si erano allargati da Livorno a Piombino, a Pisa, alla provincia di Massa-Carrara e alla Versilia, a La Spezia, sino a Perugia dove i lavoratori senza attendere la riunione serale della Camera del Lavoro confederale erano entrati in sciopero.

A Livorno, la notizia dell’arresto di Malatesta si sparse velocemente, diffusa sia dall’anarchico Bacci che dai ferrovieri. La prima notizia era stata data al mattino dal quotidiano «Il Telegrafo», ma i particolari  dell’arresto furono forniti da «La Gazzetta Livornese» che «andò a ruba». Fin dalla tarda mattinata, riferisce quest’ultima: «Gli elementi anarcoidi erano in gran fermento […] Buona parte dei lavoratori del Porto, che non sono ascritti alla Camera del Lavoro, volle disertare subito il lavoro. Nelle officine e negli stabilimenti corse la parola d’ordine e  le staffette ebbero in gran da fare». In pratica lo sciopero generale era già stato deciso, ma la Camera del lavoro convocò il Consiglio generale delle Leghe per la sera stessa, in cui prevalse la linea più combattiva sostenuta da massimalisti e anarchici.

Attorno alle 22, i vice-commissari della Questura Ruggero e D’Ambrosio si recarono nei pressi della Camera del lavoro portando la notizia della scarcerazione e quindi accompagnarono una commissione, capeggiata dall’anarchico Bacci e seguita dai giornalisti della stampa locale, dal Prefetto Gasperini che confermò ufficialmente la notizia. La commissione fece quindi ritorno alla Camera del lavoro, mentre fuori, in via Vittorio Emanuele, sostava una folla impaziente di lavoratori; da una finestra della sede sindacale intanto un giovane sventolando una bandiera «inneggiò allo sciopero generale, a Errico Malatesta e gridò abbasso alla polizia e al Niccoletti» funzionario della squadra politica presente sul luogo.

La notizia della liberazione non fu ritenuta abbastanza credibile, d’altra la maggioranza (e non certo una «minoranza turbolenta» come ebbe a scrivere «La Gazzetta Livornese») del Consiglio evidentemente ritenne necessario dare comunque un segnale politico forte al governo, quale monito contro la sua politica repressiva. Quando il segretario della Camera del lavoro Zaverio Dalberto annunciò la proclamazione per l’indomani dello sciopero «suscitò tra la folla molto entusiasmo e gran clamore di applausi».

Il 3 febbraio lo sciopero risultò compatto e la città apparve pressoché paralizzata: «niente trams, niente carrozze, botteghe aperte nelle strade secondarie e botteghe e negozi sprangati nelle vie del centro», registrava «La Gazzetta Livornese». Nel pomeriggio si tenne un comizio nella piazza davanti al Palazzo Comunale, dalla cui scalinata parlarono Dalberto, l’anarchico Augusto Consani – particolarmente applaudito – e il repubblicano Gualtiero Corsi.

La manifestazione e lo sciopero si conclusero alle 17. Il giorno seguente, 4 febbraio, Malatesta decise di tornare a Livorno, per sottolineare l’importanza della mobilitazione dei lavoratori  livornesi a favore della sua libertà. Partito da Firenze in automobile – la stessa con cui la polizia l’aveva sequestrato – e accompagnato da alcuni compagni, si diresse alla volta del porto tirrenico; lungo la strada dovette fermarsi a Signa, Empoli, Santa Croce sull’Arno, Pontedera e Fornacette per tenere, in piedi sull’auto, brevi discorsi a quanti lo stavano aspettando per festeggiarlo.

GazzettaLivorneseFinalmente giunto nel pomeriggio a Livorno, accolto dal segretario camerale Dalberto, da Bacci e da altri compagni, dopo una breve visita a Boschi e un “ponce” presso il Caffè della Posta, verso le 17,30 uscendo dal Caffè su via del Fante s’incamminò verso piazza Goldoni, seguito da numerosi manifestanti e poliziotti, dove era previsto un suo comizio presso la palestra “Sebastiano Fenzi”. Dato che i presenti nella piazza erano migliaia, il comizio fu tenuto sotto il loggiato del Regio Teatro Goldoni; il commissario di Ps presente, da parte sua, ritenne saggio non impedire tale manifestazione pubblica.

In piedi su un tavolo accanto a una delle colonne del loggiato, l’anarchico livornese Natale Moretti aprì il comizio sottolineando che il proletariato livornese aveva mantenuto «l’impegno manifestato domenica al teatro S. Marco di opporsi con ogni mezzo all’arresto di Malatesta». Toccò quindi a Malatesta salire sul tavolo, salutato da intensi applausi e da grida d’entusiasmo; l’anarchico esordì quindi dicendo «Non viva Malatesta, ma viva Livorno, viva l’Unione Sindacale anarchica».

Il suo discorso – annotato in modo sommario nei rapporti di polizia  – risulta attendibilmente riportato su «La Gazzetta Livornese»: «Ed il Malatesta entra in argomento sostenendo che la sua scarcerazione fu grande vittoria non per lui ma per l’idea. Vittoria di grande importanza,  poiché gli anarchici premendo collo sciopero salvarono – come i ferrovieri –  la libertà di propaganda ed ogni volta che si arresterà qualcuno reo solo sia pure di propaganda, il proletariato lo appoggerà […] Certo che Modigliani con tutto il suo parlamentarismo non avrebbe ottenuto quello che in poche ore collo sciopero immediato il proletariato ottenne». Malatesta soggiunse che però, per quanto animato da idealità anarchiche, simpatizza pure per le masse dei socialisti che sono lavoratori, ma non per i deputati che seggono a Montecitorio.

Cessati gli applausi, intervenne il segretario camerale Dalberto, che si scagliò «ferocemente contro la stampa borghese, di quella borghesia pavida che da quando Malatesta rientrò in Italia fu invasa dalla tremarella». Aggiunse pure che Malatesta era «di tutta la gente che lavora» e «disopra di ogni partito» in quanto era «il campione della emancipazione del popolo».

Parlarono quindi Pratali dell’Unione anarchica fiorentina, e Gentili a nome dei comunisti fiorentini. Dopo un applauso accompagnato dal canto di «Bandiera rossa», il comizio si andò sciogliendo, mentre Malatesta tornò in carrozza ad Ardenza a casa Boschi; «più tardi rientrava in città per una bicchierata al Circolo repubblicano in via Pellegrini».

L’indomani mattina Malatesta riprendeva il suo giro di propaganda, partendo alla volta di Bologna, dove lo attendevano Armando Borghi e gli anarchici bolognesi. Nella stessa serata tenne un comizio presso la Vecchia Camera del lavoro di Porta Lame durante il quale, riferendosi a quanto avvenuto, affermò che l’articolo 246 del Codice Penale, all’origine del suo arresto a Tombolo, era stato di fatto cancellato grazie all’azione diretta del proletariato e alla forza dimostrata dalle forze sindacaliste. In tale valutazione apparentemente trionfalistica, c’era invece molta più verità di quanto potrebbe apparire; lo dimostrano le motivazioni del Direttore generale della Ps in una comunicazione del 7 febbraio al Sottosegretario degli Interni, attorno al ritardo di dieci giorni con cui era stato effettuato l’arresto di Malatesta. L’alto funzionario di polizia sostenne infatti che ciò era stato determinato dalle «continue peregrinazioni» di Malatesta, quando questi invece, a causa dello sciopero ferroviario, in tale periodo era sempre rimasto a Roma, partecipando a una festa di finanziamento per il giornale «Umanità Nova» il 25 gennaio e ad altre iniziative pubbliche, tra le quali un grande comizio presso la Casa del Popolo alla presenza di settemila persone.

Evidentemente quindi, le autorità di governo e di polizia, anche se non potevano ammetterlo, prima avevano rimandato e poi deciso di procedere all’arresto prevedendo già un rapido rilascio, nel timore delle conseguenze per l’ordine pubblico che tale provvedimento avrebbe innescato.

A distanza di un anno, nel 1921, davanti alla Corte di Assise di Milano, Malatesta, nuovamente accusato di istigazione all’odio di classe, avrebbe risposto ironicamente: «Ora, signori giurati e signori della corte, dirvi che io ammetto la lotta di classe, è come dirvi che io ammetto il terremoto o l’aurora boreale».




La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it




Memorie del ’73: Livorno a fianco del popolo cileno

Il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, che portò alla tragica morte del presidente Salvador Allende e all’instaurazione del regime militare del generale Augusto Pinochet, attivò una delle più straordinarie mobilitazioni di solidarietà per un fatto di politica estera nel mondo, con l’Italia in primo piano nell’accoglienza dei rifugiati cileni. Secondo i dati dell’Istituto Cattolico per le Migrazioni su una popolazione di 13 milioni, circa un milione di cileni fu costretto ad abbandonare il paese per ragioni politiche a causa della dura e massiccia repressione inaugurata dal regime. L’interessamento italiano agli affari cileni fu, ancor prima del golpe, di carattere eminentemente politico e ad esso contribuirono in maniera rilevante gli intensi rapporti fra i partiti della sinistra cilena e di quella italiana. Per questo appare interessante l’atteggiamento tenuto in quella vicenda da una “città rossa” per antonomasia come Livorno.

La raccolta di alcune testimonianze orali di ex militanti e amministratori comunisti e i ricordi personali di uno degli esuli cileni che furono accolti a Livorno all’indomani del colpo di stato hanno consentito di mettere in luce aspetti dell’opera svolta dalla società civile e dal Pci nell’organizzare pratiche di solidarietà in favore dei rifugiati cileni.

Il punto di partenza di questa ricerca è un ex cinema di Livorno dove il nostro testimone cileno, Rafael Aguirre, si ritrova ogni settimana insieme ai suoi compagni del coro per provare.

Dopo poco i coristi decidono di preparare per la prossima esibizione “El pueblo unido jamás será vencido”, una delle più note canzoni legate alla presidenza di Salvador Allende (1970-1973) e al movimento di Unidad Popular.

IntiQuesta canzone è più attuale che mai: recentemente la tensione tra la popolazione civile cilena e le forze armate è sfociata in violenze che ricordano il passato e in migliaia sono scesi in strada a Santiago in segno di protesta intonando questo inno alla resistenza. Perché l’impatto emotivo suscitato da questo brano è ancora così forte? Cosa ha rappresentato per la generazione di cileni che ha vissuto il ‘73? E dalla prospettiva dei comunisti italiani cosa ha significato?

Come ricorda Mauro Nocchi, storico militante comunista di Livorno, l’esperienza della «via cilena al socialismo», sperimentata per la prima volta nella storia dal presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, fu salutata dai comunisti italiani con grande entusiasmo:

Era un’esperienza importantissima, per noi rappresentava l’applicazione concreta di quello che già Togliatti aveva teorizzato nell’VIII Congresso (del Pci) fino alla morte, che era la «via italiana al socialismo». L’unità popolare era il fulcro di questo tentativo di trasformazione della società.

Tra i vari provvedimenti previsti dal progetto di riforma di stampo socialista cileno vi era anche il proseguimento della riforma agraria, che era già stata avviata dal governo precedente, guidato dal democristiano Eduardo Frei Montalva e che aveva portato alla nazionalizzazione di numerosi latifondi e a svariate occupazioni di terreno (“tome”). Il 3 novembre 1970, in un clima di fermento popolare, anche la famiglia di Rafael Aguirre, ottenne un piccolo appezzamento di terreno; da quel momento la sua vita inizierà ad intrecciarsi in modo indissolubile con l’esperienza allendista.

Dal 23 giugno 1973, data in cui avviene il primo tentativo fallito di golpe conosciuto come il “Tanquetazo”, si profila una minaccia concreta all’assetto democratico del paese. Successivamente a questo evento Aguirre (insieme ad altri cinque compagni che faranno parte del gruppo di rifugiati politici a Livorno) entra in contatto con le milizie di protezione di Allende, il cosiddetto «Grupo de amigos del Presidente» (Gap) e viene portato in incognito alla scuola di addestramento paramilitare presso la località montana di Cañaveral:

Noi eravamo lì da circa dieci giorni quando è iniziato il golpe. Quella mattina (11 settembre ‘73) ci hanno avvisato che i militari si erano sollevati a Valparaiso, di Santiago ancora non sapevamo niente; ci hanno dato delle armi e ci hanno mandati alla casa privata di Allende, in Tomás Moro. Quando siamo arrivati lì Allende era già partito per la Moneda, era rimasta la moglie, “la Tencha”, con le figlie. Quando iniziarono i bombardamenti, alcuni compagni del Gap portarono via i familiari del Presidente. Circa a quattro o cinquecento metri dalla casa c’erano i militari. Noi eravamo disposti a difendere il governo. Il combattimento non è durato molto, ma abbiamo resistito, i militari provarono ad entrare, ma non ci riuscirono. Io sono stato colpito da alcune schegge alla testa, il taglio più grande era quello al costato, senza conseguenze per fortuna. Abbiamo dovuto lasciare le armi e siamo scappati […] Bisognerebbe cominciare a prepararsi prima e non all’ultimo momento quando le cose precipitano. Forse è stato quello lo sbaglio dell’Unidad Popular e dei partiti di sinistra.

Una delle prime zone che perquisirono [i golpisti] fu il quartiere dove abitavamo noi, Lo Hermida, con un dispiego di forze enorme, c’erano i carri armati in strada […] Per più di una settimana non ho visto i miei compagni, cambiavo sempre casa e cercavo di evitare le pattuglie dei militari […] Durante quel periodo, durato almeno un mesetto, ci vedevamo sporadicamente e scappavamo per salvarci la pelle. Non sapevamo se i nostri nomi erano caduti nelle mani dei militari o no, di quelli che avevano occupato il Cañaveral, non sapevamo se i dirigenti erano riusciti a salvare i nostri documenti.

E aggiunge che negli anni seguenti:

a mano a mano venne pubblicato l’elenco con i nomi delle persone che non erano più ricercate [dalla Junta Militar]. Il mio nome faceva parte della lista. Era una lista enorme.

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“Il Telegrafo” di Livorno, 13 settembre 1973

Il golpe cileno segnò profondamente la società civile italiana, già di per sé inquieta e profondamente politicizzata, ma resa ancor più ricettiva dai timori di un’involuzione autoritaria del paese. Furono organizzate sin dai primi giorni in diverse città italiane, tra cui Livorno, numerose manifestazioni a sostegno del popolo cileno. Il quotidiano di Livorno “Il Telegrafo” in data 13 settembre ’73 riporta la notizia di reazioni di ferma protesta per il golpe cileno in tutti gli ambienti politici e sindacali cittadini, ma anche di astensioni al lavoro in segno di solidarietà con il popolo cileno e di una manifestazione unitaria presso il teatro “4 Mori”. Anche le parole di Mauro Nocchi ritraggono una città profondamente solidale:

Alcuni giorni dopo il golpe si organizzò al Goldoni un concerto con gli Inti-illimani (gruppo musicale andino n.d.a.). Questa fu la prima cosa che si fece. Con le canzoni che cantavano avevano già la linea politica.

Queste azioni di solidarietà si fondavano su valori condivisi da una parte consistente della società italiana, di giustizia sociale e antifascismo, proprio come testimonia il sindacalista della Cgil, Bruno Picchi:

I lavoratori si ritrovarono in Piazza della Repubblica […] C’era la consapevolezza di cosa significasse quel gesto. C’era tensione, nel senso di dover difendere i valori che ci avevano lasciato i nostri padri.

Intanto si diffondono le prime notizie delle terribili violenze subite dagli oppositori politici del regime di Pinochet. A livello istituzionale, l’Italia non riconosce il nuovo governo cileno.

Sempre Nocchi ci fornisce un’importante testimonianza riguardo alle azioni di protesta contro il regime:

Venne fuori l’idea di non far giocare la coppa Davis in Cile come atto di protesta. Io mi ricordo feci un manifesto, c’era lo stadio di Santiago con i prigionieri e la polizia che li sorvegliava con scritto sotto: “non si gioca nei lager”

Il Pci si impegnò in una mobilitazione organizzativa e propagandistica senza precedenti per un fatto di politica estera. La stampa di partito fu letteralmente tappezzata da notizie provenienti dall’America Latina a partire dall’autunno del 1973, in modo da fare del golpe che aveva affossato la democrazia cilena un motivo di discussione con l’intento esplicito di creare un clima utile al rilancio del Pci e della sua strategia.

L’allora segretario di partito Enrico Berlinguer, assieme ad altri dirigenti, aveva compreso già da tempo che l’«immobilismo dignitoso» in cui stagnava il partito non poteva più continuare. Il golpe cileno fece da catalizzatore, infatti a un mese da questo tragico evento Berlinguer decise di pubblicare una serie di articoli sulla rivista «Rinascita», nei quali espose l’idea del «compromesso storico» fra i principali partiti di sinistra: Pci, Dc e Psi, per impedire che l’Italia fosse colpita dallo stesso destino.

Dal punto di vista di Picchi la proposta di Berlinguer significava:

Ricercare nell’avversario di sempre le migliori forze, le migliori energie, per rafforzare la democrazia e una politica che fosse utile ai più deboli.

Per Daniela Bertelli (militante del Pci di Livorno):

Fu un fenomeno che portò ad un ripensamento sulla linea del Pci e non ebbe scarsa influenza sulla nostra politica […] Io ho creduto nel compromesso storico. Il discorso della differenza, che è un punto forte del femminismo italiano, per me era molto presente come modo di stare nel mondo. Questo perciò mi faceva anche essere aderente ad un tipo di impostazione come quella del compromesso storico.

Nel frattempo Rafael Aguirre, insieme ai suoi cinque compagni (e a molti altri oppositori di sinistra), decide di mettersi in salvo saltando il muro dell’Ambasciata italiana a Santiago, in modo da sfuggire alla spietata “caccia all’uomo” che si stava svolgendo all’esterno.

Quando eravamo all’Ambasciata i familiari passavano di fronte al cancello, noi li vedevamo, ma non potevamo dire niente, perché c’era sempre una pattuglia di militari; potevamo solamente mandare delle lettere alla famiglia tramite i funzionari del Consolato.

Dopo alcune settimane, Aguirre ed altri rifugiati ottengono il salvacondotto ed hanno circa 24 ore di tempo per abbandonare definitivamente il paese; grazie ai voli umanitari organizzati dall’ONU raggiungono Roma il 23 dicembre 1973 dove vengono in un primo momento accolti presso l’hotel Imperator, che era uno degli alloggi messi a disposizione dalla città capitolina per ospitare gli esuli cileni.

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La scheda di un esule cileno (Archivio Istoreco, Livorno)

Il palazzo romano di largo Torre Argentina diviene la sede dell’associazione “Italia-Cile” e dell’organizzazione internazionale “Chile Democratico”; in poco tempo Roma si trasforma nel maggiore centro propulsore, su scala internazionale, della massiccia azione di sostegno alla causa cilena.

Nel marzo del 1974 ad Aguirre e ad altri cinque compagni viene assegnata come città ospitante Livorno, partono quello stesso mese alla volta della città toscana. Solo nell’agosto del 1974 viene raggiunto dalla moglie Lina e dai figli, il ricongiungimento familiare era stato possibile grazie alla richiesta avanzata da Aguirre alla Croce Rossa internazionale presso l’Ambasciata italiana a Santiago.

Come testimonia Nocchi:

Alcuni cileni vennero anche a Livorno. Noi li aiutavamo come potevamo, alcuni trovarono lavoro nelle cooperative, poi piano piano si sono dispersi, c’è chi si è sposato, chi è tornato in Cile; poi nel tempo non li conosci più come cileni, sono livornesi […]

Inoltre, ci tiene ad evidenziare che:

Tutti i cileni che venivano stavano zitti. Erano talmente allibiti, addolorati da quello che era successo in Cile, che non se la sentivano di parlare. Sembra un po’ quello che accadde agli ebrei che tornarono dai lager nazisti.

Questo silenzio durato ben 46 anni che viene interpretato da Nocchi come reazione ad un sentimento di vergogna e sdegno per quanto accaduto, a mio avviso, può essere letto in parte anche come la conseguenza del sentimento di paura che, come affermato in un suo intervento dall’ex ambasciatore italiano Enrico Calamai dopo le sue esperienze in Argentina e in Cile durante gli anni Settanta, lascia tracce profonde anche a distanza di anni.

Questa testimonianza, come molte altre raccolte in questi anni da altri studiosi, è una memoria traumatica; un indicatore di questa sofferenza è il documento rilasciato dall’Ambasciata italiana a Santiago al nostro testimone, il quale successivamente deciderà di strapparlo. Oggi più che mai, è necessario rimettere insieme i pezzi di quel documento e ricomporre quella storia fatta di violenza e di nostalgia, ma anche di solidarietà e vicinanza.




Il movimento anarchico pratese nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra la massiccia adesione degli operai pratesi al Partito comunista ridusse praticamente a zero lo spazio politico occupato dagli anarchici. Morto nel 1957 Anchise Ciulli – una delle figure “storiche” del movimento libertario locale, che non aveva mai cessato del tutto l’attività politica e sindacale – l’anarchismo  attraversò in città un periodo di crisi, per rianimarsi sull’onda del Sessantotto e conoscere poi una nuova fase di riflusso insieme con tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria. Su questi temi abbiamo realizzato un’intervista con Federico Sarti, attivo nel movimento anarchico pratese negli anni Settanta. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

  

Nel secondo dopoguerra il movimento anarchico attraversò in Italia una fase di crisi che durò almeno fino al Sessantotto. Ciò vale anche per Prato?

Sì, sicuramente. Senza il Sessantotto con tutti i suoi fermenti, con la sua carica contestataria e, in fondo, libertaria, non ci sarebbe stata, neanche qui, una ripresa del movimento.

Che cosa puoi dirci a proposito di tale ripresa?

So che verso la fine degli anni Sessanta si costituì in città un gruppo anarchico che portava il nome di Gaetano Bresci. Io non ne ho fatto parte e non posso dire nulla di preciso sulla sua attività, ma il gruppo è esistito con certezza, tanto è vero che ne conoscevo all’epoca tre componenti.

E poi? In città si formarono altri gruppi?

Sì. Successivamente, nell’inverno del 1975, dall’incontro di alcune persone che si dichiaravano anarchiche, nacque un secondo gruppo a cui sono appartenuto anch’io (detto per inciso, io mi sono avvicinato all’anarchismo partendo da posizioni marxiste-leniniste). Questo gruppo, che non ebbe mai un nome, arrivò a contare una dozzina di membri, studenti ed operai, tutti intorno ai vent’anni (e anche meno). Molto rilevante era la presenza femminile: tra i componenti del gruppo figuravano infatti ben sei compagne. Il nucleo – che era vicino alle posizioni della Federazione comunista anarchica (FCA) ed esplicava la sua attività solo sul piano teorico – ebbe contatti con i compagni di Firenze (Crescita politica), Pistoia, Arezzo ed altre città toscane e decise di sciogliersi in seguito ad una consultazione interna perché la maggioranza (solo io votai contro lo scioglimento) riteneva che non ci fosse la possibilità di un inserimento proficuo nel tessuto sociale cittadino. Questo accadde nella prima metà del 1977, ma poco dopo in città si formò un terzo gruppo.

scansione0004Ce ne vuoi parlare?

La riunione costitutiva di questo nuovo gruppo, che assunse il nome di Coordinamento lavoratori comunisti anarchici, si svolse il 23 giugno 1977. Gli aderenti erano in tutto una dozzina, fra cui due donne. Nel corso della riunione costitutiva fu deciso di articolare l’organizzazione in tre gruppi di studio: uno sul decentramento produttivo (formato da tre persone), uno su ambiente e lavoro ( quattro persone) ed uno che si occupava di equo canone (quattro persone). Nell’occasione fu deciso di tenere un’assemblea di gruppo nei giorni di lunedì, mercoledì e venerdì e un’assemblea generale il martedì. I membri dovevano versare una quota mensile di cinquemila lire. Il gruppo disponeva anche di un cassiere per redigere i bilanci trimestrali.

Il Coordinamento fu particolarmente attivo sul fronte della lotta contro il nucleare ed ebbe quindi il merito di sollevare in ambito cittadino dei problemi che solo in seguito sarebbero stati ripresi da altre organizzazioni. Nel dicembre del 1977, nei locali del circolo culturale Il Ponte (che si trovava al di là del Ponte Mercatale, in via Matteotti 7) si tenne un convegno antinucleare regionale. Nel corso del convegno si costituì un comitato antinucleare locale ed in città venne diffuso un volantino che metteva in guardia contro i rischi legati alla costruzione delle centrali atomiche.

Il gruppo produsse anche un bollettino ciclostilato (che non sono purtroppo riuscito a rintracciare). Il bollettino venne distribuito in occasione del 1° maggio 1978: le copie erano in vendita ad offerta libera e rammento che vennero vendute tutte per un ricavato complessivo di ventiduemila lire.

Va poi detto che il Coordinamento stilò un volantino, molto critico nei confronti dei partiti della sinistra tradizionale: noi eravamo infatti convinti che, tramite la propaganda (dibattiti, filmati, mostre e così via), esistesse la possibilità di spostare su posizioni radicali i lavoratori che seguivano tali partiti, facendo maturare in loro una coscienza rivoluzionaria e rendendoli capaci di gestire da soli le loro lotte.

Il gruppo cessò l’attività verso la fine del 1978, ma continuò la campagna antinucleare per tutto l’anno successivo.

In quegli anni vi furono due appuntamenti elettorali molto importanti: le elezioni regionali del 15 giugno 1975 e quelle nazionali del 20 giugno 1976. Come vi comportaste in quelle occasioni?

La maggioranza di noi, coerentemente con i principi anarchici, era astensionista e quindi non si recò alle urne.

In voi c’era coscienza dell’esistenza di una tradizione anarchica a Prato oppure l’unico nome noto era quello di Gaetano Bresci?

No, almeno io non sapevo nulla dell’esistenza di una tradizione anarchica in città. L’unico nome conosciuto era quello di Bresci.

Quali furono le cause del riflusso successivo?

Furono le stesse che portarono prima alla crisi e poi all’esaurirsi dell’esperienza della sinistra rivoluzionaria.

 

Sai niente a proposito dell’approdo politico dei militanti anarchici di allora?

No, non lo so perché non ho mantenuto rapporti con la maggior parte di loro, e dei pochissimi che ancora vedo non conosco l’attuale tendenza politica.

 

Qual è oggi la situazione a Prato? Non vi è più nemmeno una parvenza di organizzazione? Vi sono solo degli elementi isolati e l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza?

Sì, a Prato l’anarchismo è ridotto a pura testimonianza. Gruppi organizzati, che io sappia, non ce ne sono. Gli abbonati a Umanità nova  sono tre in tutto, me compreso (lo so perché il giornale pubblica l’elenco degli abbonati). Ad una manifestazione ho visto un compagno con una bandiera anarchica, ma non l’ho avvicinato e non so neppure chi sia…

 

Intervista a cura di Alessandro Affortunati.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.