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Giorgio La Pira un Sindaco per la Solidarietà e la Pace

Della complessa e poliforme figura di Giorgio La Pira, caratterizzata dall’impegno scientifico-accademico, politico-sociale e religioso-ecclesiale, ricordiamo alcuni tratti della figura di Sindaco attento ai cittadini e ai popoli.

1934  La Messa dei poveri

La Pira stesso descrisse la nascita e le caratteristiche della Messa dei Poveri: Bisogna dirlo subito: la S. Messa dei poveri in S. Procolo e poi alla  Badia ebbe la sua radice in un desiderio profondo di «avventura» cristiana di fede e di carità che avvivava allora, ed avviva ancora, la nostra anima. Nacque da un bisogno di «sborghesimento» del nostro cristianesimo: e ci furono di sprone e di guida le parole misteriose di quella parabola misteriosa: Andate pei crocicchi delle strade e chiamate quanti trovate, poveri, ciechi, storpi, zoppi, e conduceteli qui affinché si riempia la mia casa. Prendemmo il Vangelo alla lettera: andammo al dormitorio pubblico,  ricordo le impressioni delle prime visite fra quella massa così strana di clienti del dormitorio, e negli altri «crocicchi» dove era possibile trovare gli amici che cercavamo: conventi nei quali al tòcco veniva distribuita la minestra, cucine popolari e così via.
Vinte le difficoltà immancabili di ogni cosa nuova, il nostro progetto divenne realtà: una domenica della primavera 1934 una quarantina di poveri – gli ultimi davvero: ciechi, zoppi! – erano radunati nella Chiesa di S. Procolo per partecipare alla S. Messa. Al Vangelo furono dette poche parole; poi, recitate alcune preghiere, la Messa finì. Fu portata all’Altare una cesta di pane fresco: quel pane fu benedetto, fu recitato insieme un Padre Nostro e fu fatta ordinatamente la distribuzione. Uscimmo contenti, desiderosi di ripetere l’esperimento la domenica successiva: da allora, fortemente ingrandita, quell’esperienza di fede e di carità cristiana costituisce l’attesa e la gioia domenicale di molti. Quei primi quaranta sono morti quasi tutti: ma al loro posto più di millecinquecento anime sono settimanalmente unite per celebrare insieme il Sacrificio dell’amore. Nelle S. Messe di S. Procolo e di Badia si ripete in qualche modo la prima esperienza cristiana: perché ricchi e poveri, abbienti e non abbienti formano una sola famiglia: sono come i primi cristiani, cor unum et anima una[1].

1944 Nominato dal CTLN Presidente dell’Ente Comunale di Assistenza – ECA di Firenze.

L’ECA era un organismo statale, creato appena prima della seconda guerra mondiale in sostituzione della Congregazione di carità, al quale era affidata l’assistenza sociale nel territorio comunale e l’amministrazione delle Opere Pie. A Firenze l’attività dell’ECA, nel clima resistenziale del dopoguerra, venne gestita da 22 capillari Commissioni assistenziali cui erano delegate l’erogazione dei sussidi,  composte, tra gli altri membri, dal medico di zona, dal parroco e da un’assistente sanitaria. L’amministrazione militare alleata, AMG, sostenne l’ECA sia finanziariamente che con forniture alimentari. La città era arrivata alla seconda guerra mondiale con un elevato numero di senza casa dovuto all’abbattimento di ampie parti del quartiere di Santa Croce da parte dell’amministrazione fascista che voleva espellere dal centro i ceti popolari e costruire la “via dell’Impero” (zona piazza dei Ciompi-via Verdi, distruzione narrata con dolore da Pratolini ne Il Quartiere). A questi si aggiunsero quelli che avevano perduto la casa per le mine tedesche, per la distruzione del centro operata dai nazifascisti, per i bombardamenti alleati e per gli sfollati  dalle linee del fronte. L’ECA fu così chiamata a soccorrere migliaia di sinistrati fiorentini rimasti senza casa e senza lavoro. Nell’immediato dopoguerra, sotto la guida di Giorgio la Pira – che ne fu presidente dal 1944 al 1957 – l’ECA dette un importante contributo alla ricostruzione morale e materiale della città, sostenendo con consistenti distribuzioni di indumenti, generi alimentari, pasti caldi e medicinali, il tenore di vita della popolazione. Furono istituiti i Centri sinistrati, mense per i lavoratori e ampliato l’Albergo popolare. Nel lavoro all’ECA La Pira moltiplicò l’attività di condivisione e aiuto ai poveri già iniziata con l’azione della Messa dei poveri alla Badia fiorentina e a San Procolo.  A differenza dei sindaci e degli amministratori comunali dell’epoca che svolgevano attività di sostegno sociale, ma non avevano i compiti diretti di organizzare l’assistenza sociale (i Comuni li avranno solo dagli anni ’70 inoltrati), La Pira ebbe modo sia di conoscere direttamente la grande problematicità delle situazioni popolari sia la possibilità di agire.  Legò questo suo agire sulle emergenze e sulle prime necessità, all’azione politica che lo vedeva costituente, poi parlamentare e infine sottosegretario al lavoro. Esperienze che gli fecero vedere la stretta connessione tra la dignità della persona e la tutela delle famiglie; tra il lavoro, la casa, l’assistenza e l’istruzione dei figli. Non si limitò a questo: la vita civile e la dignità individuale potevano svolgersi pienamente soltanto nella solidarietà con l’altro, con la condivisione con gli altri uomini visti tutti come figli di Dio che necessitavano finalmente della pace per realizzarsi.  Lo spazio nel quale potersi realizzare come popolo di Dio, lo individuò nella città: la città dell’uomo nella quale lavorare per il Regno.

1946 Eletto alla Costituente nella DC, si legò al piccolo gruppo creato da Dossetti, collaborò a scriverne i principi fondamentali (diede il suo apporto per: gli art 2 e 3 sulla dignità della persona, la solidarietà, l’intervento dello stato per rimuovere gli ostacoli allo sviluppo personale e la libertà di espressione; l’art.7 sul rapporto tra stato e chiesa; l’art.11 che sancisce il ripudio della guerra e il sostegno alle organizzazioni internazionali per promuovere la pace).

1948 Deputato DC.

1949-50 Sottosegretario al Lavoro (ministro Fanfani) nel V° governo De Gasperi. La sua azione tese a favorire il dialogo tra i Sindacati e la Confindustria e le altre organizzazioni padronali strette nella rigidità. Seguendo gli economisti inglesi Keynes e Beveridge, La Pira indicò, come obiettivo fondamentale dell’azione politica, la “piena occupazione”: dare lavoro a tutti non era un miraggio, ma un obiettivo possibile. La politica doveva rispondere, diceva La Pira, alle attese della povera gente: proprio questo fu il titolo di un suo famoso articolo, che suscitò un profondo dibattito: Quale è l’attesa della povera gente (disoccupati e bisognosi in genere?) La risposta è chiara: un Governo ad obiettivo, in certo modo, unico, strutturato organicamente in vista di esso, la lotta organica contro la disoccupazione e la miseria. … c’è, anzitutto, una premessa di natura squisitamente cristiana: è vano, per un Governo, parlare di valore della persona umana e di civiltà cristiana, se esso non scende organicamente in lotta al fine di sterminare la disoccupazione ed il bisogno, che sono i più temibili nemici esterni della persona. Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose! Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. Che significa, infatti, che tutta la legge ed i Profeti si riassumono nell’unico comandamento dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo? Che significa ama il prossimo tuo come te stesso? Vorrei io essere disoccupato, affamato, senza casa, senza vestito, senza medicinali? No, certo: e, quindi, questo no io lo devo anche pronunziare per i miei fratelli.
Se io sono uomo di Stato il mio no alla disoccupazione ed al bisogno non può che significare questo:  che la mia politica economica deve essere finalizzata dallo scopo dell’occupazione operaia e della eliminazione della miseria: è chiaro![2]

1951 venne eletto Sindaco di una coalizione quadripartita di centro, (DC, PLI, PRI, PSDI). Si dimise da parlamentare per incompatibilità.

Proseguì la ricostruzione e lo sviluppo della città, iniziata con l’amministrazione social-comunista del sindaco Fabiani. Per ottenere sostegni nazionali e internazionali ai nuovi progetti, si collegò strettamente all’ala progressista della DC e ai suoi esponenti al Governo insieme ai referenti dei fondi  americani per lo sviluppo. La Pira diede vita a un progetto esemplare “Il piano latte”: realizzare una Centrale del latte pubblica con la funzione sociale di sviluppare il territorio e migliorare la nutrizione dei bambini e ragazzi. Questo significava assicurare lavoro agli allevatori e al mondo contadino, occupare operai nel trattamento e la distribuzione del latte, fornire alla popolazione un alimento poco diffuso nei consumi cittadini. Lo sostennero Amintore Fanfani, ministro dell’Agricoltura, e Lodovico Montini referente del programma degli aiuti americani.

Gli aiuti permisero la costruzione della Centrale in via Circondaria (ora distrutta dai lavori per la Tav) e la condivisione sociale del finanziamento ricevuto, fornendo il latte gratuitamente in ogni scuola per ogni alunno (materne ed elementari).

Il tema della casa era centrale in città, ma l’importante inaugurazione del nuovo quartiere satellite dell’Isolotto, una città nella città sviluppata con l’INA casa,  e il programma delle case minime, non si rivelarono sufficienti. La Pira si trovò a dover sostenere un numero crescente di senza casa, di profughi  e di sfrattati e di fronte al rifiuto delle grandi proprietà di mettere a disposizione del Comune le case necessarie, utilizzò l’arma della requisizione per grave necessità pubblica: dare casa ai senza tetto.  Il provvedimento si basò su una legge del 1865 del Regno d’Italia, che dava facoltà ai sindaci di requisire qualsiasi proprietà privata in situazioni di emergenza.

1952 Se per La Pira l’incontro tra gli uomini era fondamentale, altrettanto lo era l’incontro tra i popoli.

L’inizio della sua azione internazionale, fortemente radicata nella dimensione cittadina e nel  suo fermento religioso innovativo, aperto alle riflessioni dei cristiani francesi e di Jacques Maritain, avvenne con la convocazione dei Convegni per la pace e la civiltà cristiana. Nel clima di divisione esasperata est-ovest imposto dalla guerra fredda, cercò  una conciliazione e una apertura all’incontro ripartendo dal ruolo della città di Firenze che in pieno Umanesimo, nel 1439,  ospitò il Concilio per la riunione dei cattolici e degli ortodossi. Allora l’unione era cercata all’interno del mondo cristiano, La Pira si interrogava se il messaggio cristiano non potesse essere stimolo all’incontro con altre spiritualità e religioni e i non credenti.

Nei saluti del primo Convegno del 1952 La Pira lo sottolinea: Venite a Firenze, asilo di spiritualità, di bellezza, di pace. Qui i problemi più severi e più aspri acquistano una mitezza e una duttilità quasi impreveduta. Qui si rende chiara la ragione che con tanta rapidità provocò nel 1439 l’atto di unità e di pace fra la Chiesa di Oriente e quella di Occidente. Questa è veramente la città universale della pace. Qui i valori dell’uomo si spiegano in tutta la loro ampiezza ed in tutta la loro gerarchia. Qui si rende visibile nelle cose la definizione che fa dell’uomo il valore massimo e finale dell’intera creazione.[3]

La condivisione profonda del messaggio cristiano guida l’azione di sindaco di La Pira che non può accettare di rimanere chiuso in un solo campo, occidentale ed atlantico, ma cerca i contatti con tutto il mondo  non dimenticando le diverse fedi, i popoli afflitti dal colonialismo, i perseguitati e gli esclusi. Con queste parole rivolte al corpo diplomatico presente in Italia e presso la Santa Sede, promosse la grande stagione dei convegni internazionali fiorentini che divennero quasi un alter ego culturale e religioso delle assemblee delle Nazioni Unite: A nome della città di Firenze ho l’onore e la gioia di inviarLe, in quest’alba del nuovo anno ed in questa vigilia dell’Epifania, un Messaggio che è insieme un augurio e un invito. L’augurio è, naturalmente, un augurio di pace per tutte le Nazioni. Il 1952 veda il rapido svilupparsi di quelle premesse, centrate sul valore della persona umana, che sono le condizioni indispensabili per ricomporre ad unità le parti, ancora staccate, dell’unica solidale civiltà umana e cristiana. I grandi progressi tecnici e gli sviluppi a scala mondiale della vita economica, sociale, politica e culturale, riprovano ogni giorno più chiaramente la strutturale unità del genere umano: quella strutturale unità del genere umano; quella strutturale unità così luminosamente manifestata nel Messaggio Evangelico e già posta nel Medioevo a base dell’unico, solidale edificio politico del mondo. … Lavorare per ricomporre tale unità, per fare delle Nazioni, nel rispetto dei loro inconfondibili caratteri, un’unica famiglia umana in modo da assicurare a tutti gli uomini la gioia del lavoro, della casa, della fraterna assistenza e della ricchezza culturale, spirituale e religiosa. Ecco il compito davvero grandioso affidato agli uomini del nostro tempo.[4]

La Pira non era solo, il cardinale Dalla Costa condivideva in pieno le sue aspirazioni e l’intera città era percorsa da un profondo rinnovamento e fermento religioso, che gli forniva una solida base nell’affermare: Firenze ha titolo a farsi stimolatrice per lo sviluppo e il coronamento di quest’opera. Essa, infatti si onora di essere stata consacrata dai suoi grandi reggitori medioevali, il 9 febbraio 1527, al Divino Rilevatore e Creatore di questa unità degli uomini, a Cristo ‘Rex florentini popoli’.[5]

I Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana furono un grande momento di speranza nel duro confronto della guerra fredda e investirono, dopo i cristiani, le altre religioni e, attraverso l’incontro delle città, il mondo comunista. Centrale in questo sviluppo dei contatti e dell’amicizia fu il ruolo della città elaborato da La Pira che vedeva Firenze appartenere: a tutte le nazioni, essendo, sotto certi aspetti, il centro artistico e culturale della civiltà cristiana ed umana. Proprio a questo fine la Città di Firenze si fa promotrice di un incontro fra insigni rappresentanti della cultura di vari paesi. Incontro destinato a uno scambio di idee sulle attuali condizioni della civiltà cristiana nel mondo e sulle permanenti capacità che essa possiede per essere valido strumento di pace e unificazione dei popoli.[6]

1954 Ginevra, La Pira pronunciò alla Croce Rossa Internazionale un discorso che teorizzò il ruolo delle città per la ri-costruzione di un mondo nuovo “L’epoca storica delle città”: La cultura e la metafisica della città sono diventate il centro nuovo di orientamento dì tutta la meditazione umana. Siamo ad una nuova ‘misura ‘ dei valori: la storia presente, ma ancora più quella futura, si serviranno sempre più di questo metro destinato a fornire la misura umana a tutta la scala dei valori. … Che sarebbe dell’umanità senza questi, centri essenziali del mondo civile e che diritto hanno gli Stati di distruggere queste ‘unità viventi’ in cui si concentrano ì valori essenziali della storia passata e futura?[7]

La città è quindi indispensabile per dare all’uomo un respiro di spiritualità e una salvaguardia di dignità: per questo il ruolo dei Sindaci deve assumere sempre di più, una caratteristica di grande spessore per tutelare la persona di fronte all’anonimato schiacciante della globalizzazione. Il diritto all’esistenza delle città nel loro, valore storico, artistico, culturale, politico e religioso si fa più grande a mano a mano che si chiarisce il significato profondo delle città stesse come orizzonte di riferimento della vita e delle esigenze primarie della persona e della famiglia.

 1955 Convegno dei Sindaci delle capitali. Arrivarono a Firenze i sindaci da tutto il mondo: dall’Occidente, dall’URSS e dai paesi dell’Est, dai nuovi paesi decolonizzati e anche dalla Cina. La Pira aprì così il convegno: La minaccia della guerra atomica ha appunto operato questo effetto: fece scoprire, a quanti ne hanno la responsabilità e l’amore, il valore misterioso ed in certo modo infinito della città umana. …come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. … daremo vita, per così dire, ad uno strumento diplomatico nuovo: uno strumento che esprime la volontà di pace delle città del mondo intero e che tesse un patto di fraternità alla base stessa della vita delle Nazioni.[8]

Se la visione internazionale di La Pira era sostenuta da vari esponenti DC (Fanfani, Gronchi e Mattei), la sua spinta sociale e l’attenzione alla questione operaia insospettiva il mondo tradizionalista e capitalista. La crisi della fabbrica del Pignone, una fonderia di altissima qualità, nel 1953, vide il sindaco e la Chiesa fiorentina schierati contro il licenziamento di quasi duemila operai e impegnarsi fattivamente per il salvataggio dei lavoratori fiorentini insieme all’Eni di Mattei. Il successo ottenuto invece di mettere a tacere le critiche, moltiplicò gli attacchi alla sua azione.

Persino don Luigi Sturzo si fece interprete delle spinte liberiste, contrarie ad ogni intervento regolatore nell’economia, e criticò l’attività di sindaco di La Pira in un articolo dal titolo significativo: “Statalista La Pira?”

La Pira rispose, a colui che considerava una guida, con una lettera serena e esplicita nel motivare il suo impegno: Reverendo don Sturzo, bisognerebbe che lei facesse l’esperienza – ma quella vera! – che tocca fare al sindaco di una città di 400.000 abitanti, avente la seguente cartella clinica: 10.000 disoccupati (esattamente in marzo 9.740, di cui .5.686 di prima categoria, -cioè disoccupati, per effetto dei licenziamenti, e 2.971 di seconda categoria, cioè giovani in cerca di lavoro!): una glande azienda da quattro mesi crollata (Richard Ginori con 950 licenziamenti); non parliamo per fortuna della Pignone; altre aziende con licenziamenti in atto (Manetti e Roberts) o con ‘tentazioni’ di licenziamenti (non faccio nomi, per non turbare!), grosse crisi industriali nella periferia (tutto il Valdarno con migliaia di licenziati); 3.000 sfratti, (sfratti, autentici, sa!), 17.000 libretti di povertà con un totale di. 37.000 persone assistite dal Comune e dall’E.C.A. Scusi, davanti, a tutti questi ‘feriti ‘, buttati a terra dai ‘ladroni ‘ – come dice la parabola del Samaritano – cosa deve fare il sindaco, cioè il capo e in certo modo il padre ed il responsabile della comune famiglia cittadina? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: scusate, non posso interessarmi dì voi perché non sono statalista ma un interclassista? La parabola del Samaritano, sola norma umana, non dice questo: dice anzi che il Samaritano scese da cavallo, prese il ferito (un nemico: giudeo), gli somministrò le prime cure, lo portò dal farmacista al quale disse: curalo, tornerò domani a pagare le spese.

Stia tranquillo: siamo stati ben vaccinati, lei è contro lo Stato totalitario soprattutto per persuasione; noi lo siamo in virtù di una persuasione autenticata da una terrificante esperienza che ci brucia ancora.

Non vorrei che con la scusa di non volere lo Stato totalitario non si voglia in realtà lo Stato che interviene per sanare le strutturali iniquità del sistema finanziario, economico e sociale, del cosiddetto ‘Stato liberista’ (che sta ‘a vedere’ con olimpica contemplazione la dolorosa zuffa che la privazione del pane quotidiano procura fra deboli e potenti).

Caro Don Sturzo, dovrebbe essere lei ad incitare noi più giovani alla meditazione più seria ed alla attuazione più decisa dei principi contenuti in una pagina poco letta ma molto luminosa della Quadragesima anno (paragrafo 37): ‘Principio direttivo dell’ economia’, dove è scritto: ‘Come l’unità della società umana non può fondarsi nella opposizione di classe, così il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze’.[9]

1956 venne rieletto nel Consiglio comunale con decine di migliaia di preferenze. È di nuovo sindaco, ma la giunta viene fatta cadere dai Liberali. Non si ritrovò una maggioranza e per Firenze sarà l’era del Commissario prefettizio.

 1961 venne nuovamente eletto sindaco di Firenze e formò una delle prime giunte di centro-sinistra. In questo terzo mandato la sua azione trovò forza dal rinnovato rapporto della Chiesa con la società e con la storia, sulla base delle novità che stavano affiorando nel pontificato di Giovanni XXIII e nel Concilio.

La visione internazionale si concentrò sul superamento dei conflitti coloniali e l’incontro delle diverse spiritualità religiose a partire dalle religioni di Abramo. Condivise lo spirito della conferenza di Bandung e della grande novità dei paesi Non allineati, pose centrale il sostegno all’azione delle Nazioni Unite, in una visione politica di neo-atlantismo e di riconoscimento delle nazioni emergenti.

“I Colloqui del Mediterraneo” (1958-1964) a cui diede vita, riuscirono persino a far incontrare francesi e algerini in guerra. I colloqui per la pace in Algeria si apriranno a Evian nello stesso giorno del terzo colloquio. Si stabilirono contatti tra israeliani, palestinesi e arabi e si stilarono patti di sviluppo culturale. Da quei colloqui, nonostante la morte mai chiarita di Mattei nel 1962, scaturirono importanti legami con i popoli del Nord Africa e fruttuosi rapporti commerciali.

Amministrativamente, con l’apporto dell’architetto Edoardo Detti, diede vita a un importante piano regolatore della città; sviluppò un nuovo quartiere a Sorgane e completò, seppur con prefabbricati, lo sviluppo dell’edilizia scolastica.

1962 Conferenza per la pace con padre Jean Daniéleou  s.j e padre Ernesto Balducci.

1963 Conferimento della cittadinanza onoraria al Segretario delle Nazioni Unite (ONU) U Thant.

1964 La Pira venne eletto come capolista DC nelle elezioni comunali, ma le divisioni interne al suo partito lo costrinsero a ritirare la candidatura a sindaco e a lasciare questa carica definitivamente.

1965 La missione per la pace non era certo esaurita. In collaborazione con il Ministero degli Esteri si fece promotore di una vasta azione diplomatica per una soluzione politica della guerra del Vietnam. Tenne a Firenze un incontro internazionale per la pace in Vietnam. La Pira si recò poi ad Hanoi, per incontrare Ho Chi Minh e Pham Van Dong, da dove formulò una articolata proposta di pace. La proposta di pace venne trasmessa al governo americano dal Presidente dell’Assemblea generale dell’ONU, l’italiano e amico Amintore Fanfani.

L’iniziativa, contestata da violenti quanto insulsi attacchi giornalistici, fallì.

La guerra in Vietnam proseguì per quasi un decennio infliggendo incredibili sofferenze e causando quasi 4 milioni di morti nella popolazione e quando finalmente si giunse a un accordo di pace questo riprese sostanzialmente le proposte formulate da La Pira.

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Convegni per la pace e la civiltà cristiana

1° Convegno: dal 23 al 28 giugno 1952, «Civiltà e Pace»

2° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1953, «Preghiera e Poesia»

3° Convegno: dal 20 al 26 giugno 1954, «Cultura e Rivelazione»

4° Convegno: dal 19 al 25 giugno 1955, «Speranza teologale e

speranze umane»

5° Convegno: dal 21 al 27 giugno 1956, «Storia e Profezia»

Convegno a Firenze dei Sindaci delle capitali: 2-6 ottobre 1955

Colloqui del Mediterraneo

1° Colloquio:  dal 3 al 6 ottobre 1958

2° Colloquio:  dal 1 al 5 ottobre 1960

3° Colloquio:  dal 19 al 25 maggio 1961

4° Colloquio:  dal 19 al 24 giugno 1964

Conferenza per la pace 28 e 29 settembre 1962

Tra i relatori:  padre Jean Daniéleou  s.j. e padre Ernesto Balducci

Colloquio mediterraneo della cultura 21-25 giugno 1963

Tavola Rotonda Est-Ovest  IX Sessione a Firenze dal 4 al 7 Luglio 1964

 

[1] Vedi https://giorgiolapira.org/messa-di-san-procolo/
[2] G. La Pira, L’attesa della povera gente in «Cronache sociali», 15.04.1950   poi  Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1951
[3]  Civiltà e pace, Atti del primo Convegno internazionale per la civiltà e la pace cristiana, Firenze 23-28 giugno 1952, Firenze, Tip. L’impronta, 1953
[4] ibidem
[5] ibidem
[6] ibidem
[7]  L’epoca storica delle città, discorso al Comitato della Croce Rossa, Ginevra 1954 in Giorgio La Pira Sindaco, I, Firenze, Cultura Nuova Editrice, 1988
[8] Vedi https://giorgiolapira.org/il-colloquio-dei-sindaci-delle-capitali-2/
[9] G. La Pira, Lettera a don Luigi Sturzo, 20 maggio 1954




Una “storia modello”: la lunga guerra di Siro Rosi

Dal momento in cui sono state pubblicate le biografie dei toscani volontari in Spagna, grazie a una ricerca iniziata nel 2008, l’archivio dell’Istituto che l’ha promossa si è arricchito di documenti di varia natura. L’ultimo arrivo è un nucleo di carte su una figura di rilievo non solo locale, il grossetano Siro Rosi. A consegnarli la figlia, così come era stato il figlio dell’empolese Aureliano Santini, qualche anno prima, a depositare le copie dei quaderni di cronaca della guerra di Spagna del miliziano “Silvio”. Dai figli di Angelo Rossi, grossetano, nome di battaglia Trueba, è arrivata documentazione utile a ricostruire con esattezza le tappe di una lunga persecuzione e della militanza politica, tra guerra di Spagna, Resistenza e dopoguerra: carte di Questura, appunti di memoria, collezioni di giornali spagnoli di anni successivi alla fine della guerra civile, testimonianze dell’attività di partito in Italia, dopo la Liberazione.

Avvicinarsi al lungo periodo della storia dell’antifascismo – emigrazione politica, guerra di Spagna e un impegno fino alla Resistenza e oltre – mette di fronte al problema delle fonti. Il corpo del materiale documentario indispensabile richiede l’esplorazione di molti archivi, da quelli locali a quelli dei paesi che hanno visto il passaggio di donne e uomini dalle esperienze multiformi. Nel lungo tempo trascorso dagli eventi tanto è stato il lavoro di storici, dentro o fuori dalle università, di associazioni di reduci come l’AICVAS (ex-volontari antifranchisti), della rete degli istituti storici della Resistenza, di altre realtà associative, come l’Istituto Salvemini e altre che sarebbe lungo elencare. Così materiale documentario importante è stato raccolto, ordinato e studiato. In altri paesi europei la ricerca ha incluso storie e memorie riguardanti il rapporto tra gli antifascisti italiani ed eventi e fenomeni europei, in una successione di tempi che va dall’affermazione del fascismo in Italia al secondo dopoguerra. In alcuni casi progetti transfrontalieri hanno unito risorse e aperto spazi a nuove ricerche.

siro moglie

Siro Rosi e la moglie a Tolosa, 1947

Tra gli esempi, La memoria delle Alpi/La mémoire des Alpes, relativo agli anni della guerra e della Resistenza, (http://www.memoiredesalpes.net/index.php), da cui, come si legge nel sito dell’Istituto storico regionale piemontese della rete INSMLI che ne è promotore, insieme alla rete degli istituti della regione, «nel 2009 è partito un nuovo progetto regionale, dal titolo ”La memoria delle Alpi – Dalle Alpi all’Europa” che considera le Alpi occidentali come “laboratorio storico” dei complessi processi che hanno condotto le nazioni europee dalla II guerra mondiale, ai primi passi nella costruzione dell’unità, fino ai Trattati di Roma (marzo 1957)».

Si tratta di territori di ricerca, divulgazione e didattica utili nel contesto delle traversie di un’unione europea ancora allo stato embrionale, attualmente in grande affanno. Da qui l’importanza anche di piccoli contributi, anche poche carte che entrano nei nostri archivi e arricchiscono ricerche fondate inizialmente sull’esplorazione di grandi archivi pubblici. Come quello di cui si dà conto qui, che giunge mentre ancora il lavoro è in corso, anch’esso frutto di progetti internazionali dell’istituto grossetano, per tre anni sostenuti da risorse del governo spagnolo. Gli esiti per ora sono in un database presente in questo portale, in uno spazio dedicato nel sito dell’ISGREC, nel volume e nel documentario visibili in questa pagina.

Nel database la biografia di Siro Rosi è un poco più ampia delle 408 pubblicate: il profilo sintetico di un antifascista di lungo corso. Oggi le nuove carte subito digitalizzate consentono un incrocio tra vecchie e nuove fonti e mettono bene a fuoco proprio il carattere di esperienza europea comune a molti dei nostri antifascisti. In questo caso, si è in presenza delle vicende di una figura particolarmente rappresentativa. Memorie scritte, in versioni diverse, tra 1945 e 1971, lettere anche successive, fotografie con note autografe e data e luogo ci consegnano la sua narrazione. Carte via via sommatesi anche in seguito alle sue necessità di documentazione da esibire chiariscono passaggi complicati, ancora tutti da studiare, per trarne un esito storiograficamente significativo.

Rosi, nato a Sticciano, in provincia di Grosseto, classe 1915, è tra i sovversivi grossetani messi sotto controllo dalla Questura nei primi anni Trenta. Va in Spagna nel 1937 con il rischioso espediente dell’arruolamento tra i volontari filo franchisti, per passare non senza difficoltà al 3^Battaglione, 2^compagnia, Brigata Garibaldi. Combatte, è ferito, entra in Francia dopo la sconfitta dei repubblicani ed è costretto a una peregrinazione tra i campi di concentramento della Francia del Sud. Dall’ultimo, il Vernet, fugge nel 1941 e da lì comincia un’altra storia, di Resistenze prima in Francia, dove combatte e resta mutilato, poi in Italia, con ruoli di comando nelle formazioni partigiane della Lombardia. Finita la guerra, comincia l’ultima, lunghissima peregrinazione, sino al 1957. In Francia e Italia, in Polonia, in fuga per la condanna a morte per diserzione nel 1938, ancora non annullata, anche se commutata in carcere, cui si era aggiunta un’accusa relativa alla notissima questione dell’oro di Dongo. Il processo si tenne nel 1957 a Padova, la sua riabilitazione fu pronunciata dalla Corte d’appello di Roma il 18 dicembre 1962.

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Il retro della foto di Tolosa: autografo della moglie “in ricordo di una delle nostre ultime passeggiate a Tolosa. Baci” 18-7-1947

I tanti frammenti da cucire insieme a quel che già è noto di una vita non comune si completano con la testimonianza della figlia Liliana, nata a Varsavia, ma poi lontana dai genitori fino al loro rientro. Lo descrive cupo e solitario, grande affabulatore, ma solo in rarissime occasioni, le sue giornate a dipingere ritratti dei familiari e paesaggi di Maremma: insistente, quasi ossessivo il paesaggio della Fiumara, un tratto della costa maremmana, tra le tele che sono state donate all’istituto. Anche questa è una fonte. Liliana ci spiega quanto poco l’immagine del padre da lei conosciuto, affettuosissimo – “ogni mattina metteva nella mia camera una rosa” – corrispondesse al racconto della madre, che l’aveva conosciuto estroverso, pieno di energia positiva. La madre, sempre Liliana a raccontarlo, non lasciava mai, neanche quando era in casa, la borsa dei documenti. Lezione appresa dall’emigrazione in Francia con la famiglia e dalla vita accanto a Siro, in Europa, in gran parte da clandestini.

Le carte sono ancora da studiare, lo farà chi ha lavorato finora alle ricerche citate. Tuttavia meritano un richiamo alcuni pezzi, utili alla ricostruzione della singolarità di un’esperienza biografica, utili a suggerire piste di ricerca, indizi di un clima e di un’esperienza collettiva. Nel 1958, a poca distanza dal definitivo ritorno in Italia, una lettera dal Comitato nazionale francese dell’Association républicaine des anciens combattants lo ringrazia del contributo versato. La Francia è il paese del suo internamento e della prima Resistenza. In una lettera del 1976 risponde alla richiesta di notizie sulla “Resistenza attiva nel mezzogiorno della Francia”. “Il lungo tempo trascorso ha reso opachi i ricordi”, scrive. Ma cita Sereni, Dozza, Scotti, dirigenti del PCI che organizzano il “lavoro militare” nei dintorni di Tolosa, squadre di azione patriottica protette da famiglie di contadini italiani.

Nell’intervallo fra il processo e gli anni Settanta, arrivano pubblici riconoscimenti con croce di guerra, medaglie e diplomi, lettere attestanti il suo passato eroico con la firma di vecchi antifascisti, divenuti parlamentari e protagonisti di primo piano della politica. Citano il suo impegno politico e militare fra 1937 e 1945; in nessun documento compare la spinosa questione dell’oro di Dongo, legata all’uccisione di Mussolini, documentata da una minuziosa raccolta della rassegna stampa del dibattimento processuale. Nei resoconti giornalistici, gli argomenti di accusa e difesa, su una vicenda che poi ha conosciuto notorietà per presunti scoop giornalistici e un uso politico della storia.

A ricostruire il caleidoscopio di identità, ruoli e spostamenti che precedono il rifugio nell’Europa dell’est, serve una cartella di carte d’identità e lasciapassare, di Siro Rosi, Mario Marini, Juan Medinas, rilasciati da autorità italiane, spagnole, francesi, tedesche. La maggiore curiosità suscitano due quadernetti di appunti 10×15 dalle copertine consunte: pochi fogli, grafia piccolissima e molte sigle, quasi tutto scritto a lapis; uno con certezza appartiene al periodo delle Resistenze, in Italia o in Francia.

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Carta d’identità di Siro Rosi, rilasciata a Tolosa nel 1946, valida fino al 1949

È naturale che ci sia un gran desiderio e una prevedibile utilità marginale nel passare dal repertorio delle fonti a un lavoro di elaborazione critica. Non mancano studi importanti, ma ancora tanto potrà essere indagato sulla lunga parabola del nostro antifascismo tra Italia ed Europa. Come quelle di tanti altri, le carte di Siro Rosi aggiungono conoscenze, mentre avvicinano al «cono d’ombra che ancora copre eventi estremi della complicata storia del Novecento». Nelle sue memorie è la guerra di Spagna che vuole ricordare; né lui né l’amatissima moglie parlavano del passato comune. L’ultima avventura fu il duro esilio polacco. Il suo avvocato difensore, Emilio Rosini, lo trovò a Varsavia nel 1956 ««un appartamento squallido[che si affacciava] sulle rovine del ghetto, una vasta spianata di macerie». Solo in seguito sembra che Rosi abbia compreso di aver vissuto un decennio di inutile esilio.

L’esperienza che raccontano le carte, gli oggetti, anche i dipinti di Siro Rosi può apparire oggi abbastanza straordinaria, ma è tutt’altro che unica.È un frammento minimo della condivisione di quelle che Carlo Rosselli nel 1937 aveva definite “tutte le speranze di un’epoca”, divenuta in ultimo condivisione del troppo parziale esito di quelle speranze, nell’Italia postfascista, nell’Europa della guerra fredda.




Le sigaraie della Manifattura Tabacchi di Lucca

La storia della Manifattura Tabacchi lucchese inizia nel 1809, quando, in conseguenza ad un accordo stipulato tra Napoleone Bonaparte e il cognato Felice Baciocchi venne istituita una Regia Imperiale, alla quale venne affidata la gestione del tabacco. Con la caduta di Napoleone la Regia fu soppressa e la dominazione austriaca, subentrata dopo la caduta, prese importanti provvedimenti riguardanti la lavorazione del tabacco. In particolare il tenente colonnello Werkelein, istituì nel luglio 1815 l’Amministrazione dei Sali e dei Tabacchi facendo trasferire la Manifattura negli edifici della Cittadella, un luogo strategico perché punto di passaggio ma soprattutto zona ben fornita di acqua molto utile all’opificio per la lavorazione del tabacco.
Per ben due secoli la Cittadella rimase la sede della Manifattura. Durante il governo ducale borbonico, la Regalia del sale e del tabacco venne data in appalto per nove anni (dal 1838 al 1847) alla Società Bandini Levi & C. Prima della scadenza la concessione passò nel 1843 alla Società Bandini Piatti & Marianelli che la conservò fino al 1847. In quell’anno il Ducato di Lucca fu annesso al Granducato di Toscana e con un trattato tra i due governi l’azienda lucchese confluì con quella granducale finché gradualmente la lavorazione del tabacco non venne definitivamente spostata a Lucca. Nell’ottobre del 1858 la Regalia fu attribuita per altri nove anni alla Società Fenzi; anche in questo caso la concessione Fenzi cessò in anticipo perché già nel 1860 si stabilì una nuova gestione per mezzo di un accordo tra il regio governo piemontese e il governo toscano. Nel 1861 la Manifattura di Lucca era una delle quattro attive in Toscana con quelle di Firenze, di Massa Carrara e di Capraia (le ultime due cessate nel 1865). Nel 1865 la Regia Azienda della Manifattura dei Tabacchi entrò nella sfera di controllo del Ministero delle Finanze.

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Fronte della Manifattura Tabacchi sul piazzale Verdi, Lucca 1924 (Archivio Fotografico Lucchese)

Il processo produttivo in gran parte manuale richiedeva un notevole impiego di manodopera. Già all’indomani dell’Unità d’Italia l’organico della Manifattura era composto da ben 500 sigaraie cottimanti [1]. Nel contesto economico lucchese di fine Ottocento stavano gradualmente prendendo forma modeste iniziative industriali e imprenditoriali, soprattutto nel settore tessile e cartario [2], ma la fabbrica più importante del comune era senza dubbio la Manifattura Tabacchi che già da tempo era una realtà avviata e in netta espansione. Nel 1878 la massa operaia contava in totale 1490 operai di cui 1380 donne e 110 uomini [3]. Ben presto si rese dunque necessario ampliare gli spazi; nel 1892 infatti l’opificio venne accorpato al vicino convento di San Domenico, acquistato dal Ministero delle Finanze [4]: “all’interno dell’ex monastero furono realizzati gli uffici, il refettorio e i servizi generali e, contestualmente, l’ingresso principale della manifattura fu dislocata da via dei Tabacchi a via Vittorio Emanuele [5].” Con la cessione completa del convento la massa operaia aumentò ulteriormente: “a cavallo del nuovo secolo conterà oltre il 10% degli addetti del settore Tabacchi di tutta Italia. […] Nel 1911, raggiunse le 3.050 unità”[6]. A seguito dell’ultimo ampliamento su Piazzale Verdi avvenuto nel 1924 [7], la Manifattura assunse il suo assetto definitivo.

Quella della Manifattura Tabacchi è anche e soprattutto una storia di donne, infatti il cuore pulsante della forza lavoro era costituito dalle sigaraie. La lavorazione del sigaro era un’abilità tutta manuale; le mani delle donne si prestavano meglio alle due operazioni principali del processo produttivo: la scostolatura e la formazione vera e propria del sigaro. La scostolatura era un’operazione eseguita da sigaraie esperte e che consisteva nel privare la foglia della nervatura centrale distinguendo i lembi integri da usare come fasce esterne del sigaro dai lembi laceri e grossolani da utilizzare come ripieni. Le sigaraie incaricate della formazione del sigaro partivano invece dalla foglia da fascia che rappresentava la parte esterna del sigaro. Bagnavano le dita nella ciotola contenente la colla di mais, stendevano la foglia sulla tavoletta di legno e con il coltello delineavano la forma della fascia del sigaro. Poi prendevano i filamenti di tabacco fermentato (ovvero il ripieno), verificavano che il quantitativo fosse giusto, lo “pettinavano” e lo mettevano sulla tavoletta. A questo punto cominciavano ad arrotolare il sigaro in modo da dargli la giusta forma e consistenza. La grande abilità della sigaraia stava proprio nello scegliere il quantitativo giusto di ripieno e nell’arrotolare il tutto con perfetta precisione. Il sigaro finito veniva spuntato alle estremità e allineato con gli altri su una misurina di controllo, che serviva appunto per conferirgli la giusta misura.

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Immagine esemplificativa di sigaraie al banco di lavoro, Lucca 1928

Grazie alle fonti conservate in Archivio di Stato di Lucca e in particolare alle schede matricolari, sono riuscita ad analizzare più approfonditamente la carriera lavorativa delle operaie. Nello specifico ho consultato 1000 schede delle operaie cottimanti e 500 schede delle operaie temporanee. Con i dati ricavati dalle 1000 schede ho creato un database che mi ha permesso di ottenere numerose considerazioni. Ad esempio che nel periodo 1849-1884 l’età media di entrata in Manifattura era pari a 19,2 anni. Ho rilevato che la durata media del rapporto lavorativo era pari a 28,2 anni e l’età media della fine del rapporto lavorativo pari invece a 48 anni. Per quanto riguarda il luogo di nascita la maggioranza delle donne proveniva da Lucca. Abitando in centro erano ovviamente più facilitate a raggiungere in breve tempo il posto di lavoro, sono presenti però anche donne nate nelle frazioni di Lucca, nate in comuni vicini, in altre città toscane o addirittura fuori regione [8]. Può sembrare strana la presenza di donne nate in luoghi così lontani da Lucca, ma il motivo principale è da ritrovare nel trasferimento avvenuto durante la carriera lavorativa. Tra le cause del trasferimento, oltre ai motivi familiari, probabilmente vi erano anche motivazioni legate ad esigenze produttive; quindi laddove era necessario aumentare la produzione e mancava manodopera si trasferivano operaie di altre Manifatture dove se ne aveva più bisogno. Tra i motivi ricorrenti per la fine del rapporto lavorativo troviamo il collocamento a riposo, il decesso, la radiazione, il pensionamento, il passaggio allo stato di valetudinarietà, il trasferimento, il licenziamento e il cancellamento dai ruoli [9].

Per l’indagine sulle schede matricolari delle operaie temporanee ho attuato la stessa strategia del database per raccogliere più informazioni possibili. In totale le schede catalogate sono 500 e ricoprono un periodo compreso tra il 1925 e il 1937. Anche in questo caso ho calcolato l’età media di entrata che era pari 21,9 anni.
Ho analizzato poi la provenienza [10], a quante operaie veniva rinnovato il contratto e per quante volte nel corso della carriera lavorativa. Quando non veniva rinnovato il contratto i motivi potevano essere vari: il cancellamento dai ruoli, il licenziamento, la radiazione, il collocamento a riposo, il trasferimento o il decesso [11]. Con la data di assunzione e la data di fine rapporto riportata sulle schede ho calcolato la durata dei rapporti lavorativi delle operaie e la media che ne è venuta fuori è di 4,21 anni. Una volta ricavata la durata del rapporto lavorativo di ogni operaia l’ho sommata all’età al momento dell’assunzione per ricavarne l’età di uscita dalla Manifattura, la cui media era di 29,7 anni. Un’altra motivazione per il mancato rinnovo del contratto era il passaggio alla categoria delle operaie permanenti. Le operaie passate a tale categoria sono in totale 386 e l’età media al momento del passaggio è di 27,3 anni.

Entrando nel vivo della vita fabbrica è necessario mettere in evidenza gli aspetti negativi del lavoro in Manifattura, ovvero la disciplina, il problema delle malattie e delle condizioni igienico-sanitarie dell’opificio.

L’essere dipendenti dello Stato si traduceva per le sigaraie in una rigida disciplina e controlli particolarmente severi. Ad assicurare questo sistema di regole, vi era all’interno delle Manifatture un complesso sistema di sorveglianza strutturato gerarchicamente. [12] Per esaminare l’aspetto disciplinare mi sono avvalsa principalmente della sezione relativa alle punizioni delle 1000 schede matricolari delle operaie cottimanti. In questa parte venivano riportati i provvedimenti disciplinari a carico dell’operaia, le date, i periodi di sospensione e le motivazioni dei provvedimenti. Per organizzare al meglio il mio lavoro ho inserito tutti i provvedimenti disciplinari di ogni scheda su un database per poi suddividerli in base alle motivazioni e vedere in termini numerici quanti provvedimenti ha avuto ogni operaia nel corso della carriera lavorativa. La sospensione per frazioni di giornate aveva ovviamente come effetto immediato la sospensione della paga. Ho distinto tra motivazioni riguardanti errori commessi sul lavoro e motivazioni legate alla cattiva disciplina delle operaie. Nei primi casi si ritrovano ad esempio le sospensioni per “reperimento di un capello in un sigaro”, per “cattivo lavoro”, per “consegna sigari in meno”, “per presenza di scarti, ritagli e spuntature nel sigaro” “per sigari mal confezionati”, “per aver bagnato la foglia”. Nei secondi casi invece sono comuni le sospensioni per “insubordinazione”, “discussione con una compagna”, “turpiloquio”, “mancanza di rispetto ad un superiore”, “commercio illecito”, aver “lavorato oltre l’orario”, aver “mangiato al proprio posto”, “poca pulizia del posto di lavoro”, “cattiva condotta”, “assenza arbitraria,” “appropriazione illecita di materiale”, aver “introdotto bevande in laboratorio” (spesso infatti si introducevano anche sostanze alcoliche a scopo di lucro).
Riguardo alla questione delle malattie, la vita in fabbrica sia per i ritmi lavorativi sia per l’ambiente malsano aveva sulle operaie gravi conseguenze fisiche. L’esposizione continua per un tempo prolungato alle esalazioni del tabacco causava alterazioni della funzione respiratoria e, come hanno messo in evidenza alcuni studiosi, effetti dannosi sull’apparato genitale femminile, provocando alterazioni del ciclo mestruale, disturbi durante la gravidanza ed anche un alto numero di aborti. Un lavoro dunque non privo di rischi e a preoccupare di più erano sicuramente le condizioni igieniche degli stabilimenti: ambienti chiusi, mal areati e pieni di esalazioni tossiche delle foglie di tabacco. Infatti le foglie dovevano essere mantenute umide, ma fermentando emettevano nicotina che andava direttamente sugli occhi e nei polmoni, producendo così indebolimento alla vista e malattie polmonari di ogni genere. Sul problema della nocività, nel 1904, fu avviata un’inchiesta in tutte le Manifatture di Italia, diretta da Angelo Celli, uno dei più illustri patologi e studiosi di igiene sociale dell’epoca. L’obiettivo dell’indagine statistica era quello di raccogliere più notizie possibili per giudicare la salubrità o meno degli opifici e le condizioni sanitarie del personale operaio. Proprio nella Manifattura Tabacchi di Lucca si registravano le punte più alte di malattie alle vie respiratorie. Nonostante l’inchiesta mettesse in luce moltissime malattie riscontrate nelle lavoratrici, queste non venivano collegate al lavoro stesso, ma riferite ad una serie di fattori esterni come le abitazioni malsane, la scarsa igiene e l’alimentazione insufficiente, arrivando dunque alla conclusione che la lavorazione del tabacco così come veniva svolta nelle Manifatture dello Stato non era dannosa né per le operaie né per la loro prole [13]. La realtà era ben diversa e benché l’inchiesta rimanga la principale fonte di informazioni sulle condizioni di salute delle operaie non è molto oggettiva, visto che si cerca in tutti modi di trovare giustificazioni per mettere lo Stato al sicuro da ogni responsabilità.
Tra gli aspetti positivi del lavoro in Manifattura troviamo invece l’orario di lavoro, i salari elevati e l’introduzione della sala di allattamento.
Il regolamento statale del 1904 stabiliva l’orario di lavoro a 7 ore con ben un’ora di riposo. Nelle industrie private la giornata lavorativa era di 12 ore o più al giorno. Per una manodopera prevalentemente femminile questo era un privilegio, l’orario breve permetteva alle donne di poter dedicare più tempo alla casa e alla famiglia, un’opportunità sconosciuta alle operaie delle industrie private. A questo proposito, grazie ai dati forniti dalla Prefettura di Lucca al Direttore della Manifattura Tabacchi e conservati in Archivio di Stato, ho potuto confrontare gli orari dei più importanti stabilimenti della Provincia e osservare che effettivamente, nonostante l’introduzione dal 1908 di un’ora aggiuntiva straordinaria, l’orario di lavoro delle sigaraie era comunque inferiore rispetto alle operaie tessili della zona [14]. Anche per quanto riguarda la questione delle retribuzioni emerge chiaramente la condizione privilegiata di questa classe operaia, sicuramente favorita rispetto alla manodopera femminile dell’industria privata ma comunque pur sempre sfavorita rispetto al guadagno medio degli operai uomini impiegati negli stessi stabilimenti. Infatti nel periodo 1908-1914 la media di guadagno per le sigaraie era pari a £2,47 mentre per gli operai era pari a £5 [15].
Tenendo presente appunto che il salario di una sigaraia era a cottimo e che per raggiungerlo era necessario produrre dagli 800 ai 1200 sigari al giorno, è facile comprendere come la qualità della foglia del tabacco influenzasse la retribuzione: se la foglia era scadente, il lavoro era rallentato e di conseguenza il salario diminuiva. I cottimi poi si diversificano da manifattura a manifattura, perché il Ministero riteneva che il costo della vita fosse diverso da città a città. Proprio il tema della parificazione dei cottimi sarà alla base dello scoppio dello sciopero nazionale del 1914.
Il guadagno medio delle operaie, per quanto misero ed inferiore al salario maschile, era comunque superiore alla maggior parte delle fabbriche private della provincia. Dalle Riservate del Direttore del 1908 conservate in Archivio di Stato, emergono informazioni circa i salari delle più importanti fabbriche della zona. Furono richieste direttamente dalla Direzione Generale con lo scopo di dimostrare alle operaie della Manifattura che la loro fosse una condizione privilegiata e le rimostranze per l’aumento salariale fossero del tutto illegittime [16].
Nel 1915 venne inaugurata una sala di allattamento, con lo scopo di agevolare le madri che lavoravano in Manifattura. Il personale femminile addetto alla sala era composto da una Sopraintendente, inservienti e custodi che si occupavano dei bambini e avvertivano l’operaia ogni volta che il bambino necessitava di essere allattato. Furono dunque le operaie delle Manifatture Tabacchi che per prime si fecero portavoce dei problemi legati alla maternità. Avevano ottenuto la possibilità di tenere vicini a sé i propri figli in un luogo sicuro mentre erano impegnate al lavoro. Si rispettava il fatto che fossero lavoratrici ma anche madri, dando loro il diritto ad assentarsi dal lavoro per recarsi nelle sale ed allattare i propri bambini senza nessuna diminuzione dello stipendio.
Non mancarono le rimostranze ed episodi di conflittualità. Le giovani operaie della Manifattura Tabacchi di Lucca costituivano il nucleo più combattivo della fabbrica e furono sempre in prima linea nelle lotte contro la Direzione. Grazie alle fonti provenienti dall’Archivio storico comunale ho potuto ripercorrere i primi malcontenti del periodo 1878-1897. Sul finire dell’Ottocento le sigaraie erano ormai una parte importante della classe operaia organizzata, si presentavano dotate di una lunga esperienza e di una crescente capacità nell’affrontare i loro problemi per la soluzione dei quali avrebbero dovuto negli anni successivi affrontare lunghe lotte. I numerosi ritagli di giornali, come il giornale socialista “La Sementa” e il quotidiano di ispirazione cattolica “L’Esare” conservati tra le Riservate del Direttore sono stati utili per ricostruire gli scontri del 1906-1907, lo sciopero del 1909, lo sciopero del 1912 e lo sciopero generale del 1914. Le motivazioni alla base delle lamentele delle operaie si ripresentavano nel corso degli anni senza trovare mai una vera risoluzione; tra queste troviamo la disciplina rigida, la cattiva qualità della foglia, la nocività del lavoro e la richiesta di un aumento salariale. Quello che ne viene fuori è dunque una classe lavoratrice capace di protestare contro la Direzione quando l’esasperazione del ritmo lavorativo diventava inaccettabile e quando le promesse di un miglioramento non venivano mantenute. Ecco perché anche nello sciopero nazionale delle Manifatture Tabacchi del 1914 furono proprio le sigaraie di Lucca ad essere numericamente le più coinvolte (circa 2500) e le ultime ad arrendersi.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà intitolata “Vita di fabbrica delle sigaraie lucchesi tra ‘800 e ‘900” discussa nell’a.a 2020/2021 presso l’Università di Pisa




Pietra su pietra. Storie d’inciampo

Ci sono forme di arte che aiutano a fare memoria in maniera discreta e informale. Attivano la memoria quando le incontri, quando le scorgi, quando ci inciampi. Le “pietre d’inciampo” racchiudono, nel termine tedesco “stolpern”, questo doppio significato di “inciampare” e “attivare la memoria”. Sono pietre, “stein”, impiantate ormai sulle vie di molte città europee. Misurano 10x10cm, recano inciso sulla loro superficie di ottone i nomi dei deportati nei campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Vengono collocati da Gunter Demnig, l’artista tedesco che li ha ideati, sul marciapiede davanti all’abitazione del deportato o al luogo di deportazione[1].

Un progetto ambizioso e “diffuso”, che parte da Colonia nel 1993 quando durante una cerimonia, organizzata per ricordare la deportazione di cittadini rom e sinti, una signora obiettò che in città non avevano mai abitato rom. Demnig, presente alla cerimonia, in segno di provocazione verso chi negava la deportazione e lo sterminio, decise l’installazione delle pietre, oggi presenti in ben 17 paesi europei. Oltre 73.000 pietre, 73.000 nomi di uomini, donne, bambini deportati, che compongono le tessere di un mosaico, ancora “in costruzione”. Un monumento “in progress”, potremmo definirlo. Un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di rendere visibili i nomi dei 10.000.000 di deportati, ebrei, militari, perseguitati politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili in tutta Europa.

Un monumento che “difetta” di monumentalità e di effettiva visibilità, non si erge e non emerge, ma ha il pregio di restituire dignità e identità a quanti, a causa delle persecuzioni nazifasciste, ne sono stati violentemente privati[2].

Dignità e identità che sono racchiusi nel nome. Recita il Talmud che “una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”.

Ogni nome inciso su un sanpietrino, è anticipato dalla scritta “qui abitava”, seguito da nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte nel campo di sterminio, quando nota o in alcuni, rari casi, la scritta “sopravvissuto”[3].

adaIl ritorno simbolico, alla propria dimora, nella propria città, è l’uscita definitiva per i deportati dall’anonimato, dall’oblio cui la follia umana dei campi di sterminio li avrebbe costretti. La pietra restituisce con sé la storia, una storia che costringe a riattivare la memoria, a fermarsi, a riflettere, a conoscere.

Il 26 gennaio a Livorno sono state installate altre due pietre d’inciampo. Sono le ultime di una serie di 18 che dal 2013 sono diventate parte del tessuto urbano cittadino[4].

Le pietre ricordano Ada Attal e Benito Attal. Rispettivamente madre e figlio ebrei. Nel censimento del 1938 risultano registrati e residenti in via San Francesco 32, in pieno centro storico, a pochi passi dall’antico tempio, il più bello e il più grande d’Europa, insieme ad altri componenti della famiglia. Ada, ragazza madre, vive insieme al padre David, venditore ambulante, alla madre, alle sorelle Irma, Renata e Dina[5] e altri componenti della famiglia. Una famiglia numerosa gli Attal, un’altra sorella, sposata con Mario Bueno, proprietario di un negozio in via del Giglio e di un banco di merceria al mercato, sostengono con il loro lavoro anche Ada e il figlio Benito di 10 anni[6].

La loro storia si inserisce nella più ampia cornice della storia della Comunità ebraica livornese. Una comunità importante, anche numericamente. Negli anni Trenta risulta essere la terza in Italia in termini relativi alla popolazione complessiva, comprendente anche quella provinciale[7]. Gli ebrei livornesi risultano essere residenti nel territorio urbano e al loro interno spicca una forte dicotomia sociale che vede nel ceto popolare, più povero, non una minoranza, ma più della metà della Comunità locale, diversamente da quanto è possibile registrare nelle altre comunità italiane.

Ada e Benito Attal, sono tra i pochi livornesi ad essere arrestati e deportati dalla città nell’aprile del 1944[8].

La città di Livorno era stata pesantemente bombardata nel 1943 e sotto la minaccia di ulteriori incursioni, la popolazione era sfollata quasi interamente trovando ospitalità nelle campagne dei comuni e delle province vicine[9]. Molte delle catture di ebrei, sono infatti avvenute nei luoghi di sfollamento, a seguito della recrudescenza delle persecuzioni dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. La persecuzione delle vite raggiunge gli ebrei dispersi nelle campagne, raggruppati per nuclei familiari, in cerca di salvezza dai bombardamenti, nel tentativo di sopravvivere comunque anche alla fame e alle condizioni eccezionali dovute allo stato di guerra.

Il 13,6% degli ebrei livornesi, 204 in tutto, su un totale di 1500 (tanti risultano registrati al censimento del 1938), viene arrestato e deportato nei campi di sterminio nazisti, per lo più passando attraverso i campi di concentramento di Fossoli e in qualche raro caso di Milano, Bolzano o Trieste[10].

Furono solo sei gli arresti, oltre a quello di Frida Misul, che vennero effettuati in città. Tra questi anche Ada e il figlio Benito.

Senz’altro la povertà e, forse, il pericolo e le necessità sopraggiunte a causa della guerra, avevano spinto Ada ad affidare il figlio all’orfanotrofio Israelitico che aveva sede in Via Paoli 36 a Livorno[11]. Sede che l’orfanotrofio mantenne almeno fino allo sfollamento, probabilmente avvenuto fra gli ultimi giorni del 1942 e il gennaio del 1943, per motivi di sicurezza. Con la direttrice Olga Coen, le inservienti Palmira Finzi e Stefania Molinari, la maestra Liliana Archivolti, i bambini e i ragazzi[12] dell’orfanotrofio soggiornarono presso Villa Biasci (di proprietà del locale segretario fascista signor Biasci) a Sassetta, a sud della provincia di Livorno, sulle colline della Val di Cornia, fino a quando il 5 aprile del 1944 fu comunicato loro l’ordine di lasciare la villa per dirigersi, l’indomani mattina, verso la stazione di Vada. Da qui avrebbero raggiunto, in treno, il campo di concentramento di Fossoli.

Il 6 aprile vennero caricati su un treno, ma dopo aver percorso poche centinaia di metri il convoglio, colpito da cinque caccia inglesi, si arrestò e grazie a don Antonio Vellutini, parroco di Vada, sopraggiunto a seguito dell’attacco per prestare soccorso ai passeggeri, i bambini e i ragazzi, trovarono rifugio in paese presso le famiglie locali. Per procedere all’esecuzione dell’ordine di deportazione, dopo qualche giorno, furono nuovamente raccolti dai carabinieri, e trasferiti su di un camion nelle aule della Scuola “Carducci”, situata ad Ardenza, una frazione a sud della città di Livorno. Qui rimasero per circa una settimana.

benito Alcuni, più grandi, riuscirono comunque a scappare, data la scarsa sorveglianza, altri, circa una decina, nati da matrimoni  misti, come Luciana e Ugo Bassano, furono riconsegnati alle famiglie. Altri bambini, insieme alla direttrice Coen, furono riportati dai carabinieri, su insistenza di don Antonio Vellutini, a Sassetta e qui affidati al parroco don Carlo Bartolozzi che se ne prese cura fino all’arrivo degli Alleati[13].

Solo Benito Attal rimase presso la scuola. Qui la madre si era recata per prelevarlo personalmente rischiando la vita in quanto “ebrea pura”. Forse a causa di una delazione[14], entrambi furono arrestati e trasferiti a Fossoli con il convoglio n. 10 partito il 16 maggio 1944. Da qui proseguirono per Auschwitz dove Benito fu subito selezionato all’arrivo e dove morì il 23 maggio 1944. Anche la madre divise con il figlio la stessa sorte e non fece più ritorno.

Una storia di povertà e di persecuzione, di ebrei su cui pesò la “purezza del sangue”. Benito, ricorda Ugo Bassano, era un bambino taciturno, divenuto incontinente nell’orfanotrofio, il più fragile e il più esposto anche perché figlio di una ragazza madre[15].

Una storia “d’inciampo”, che oggi due pietre in via San Francesco a Livorno, ci ricordano. Inciampo alla nostra coscienza, alla nostra memoria, alla nostra storia.

[1] In alcuni casi tali abitazioni non esistono più, perché abbattute o demolite nell’immediato dopoguerra, o come nel caso di città come Livorno, distrutte dai bombardamenti. Le pietre vengono allora poste presso il numero civico corrispondente al luogo di abitazione precedente la guerra.

[2] Per un inquadramento storico-artistico delle “Stolpersteine”, si veda il saggio di A. Zevi, Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, ed. Donzelli, 2016, pp. 171-197.

[3] La ricostruzione topografica e toponomastica viene svolta in collaborazione con gli uffici dei municipi coinvolti, su segnalazione di amici, conoscenti e parenti delle persone deportate.

[4] Le pietre sono state installate per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Le prime quattro sono state impiantate nel 2013 e dedicate a due bambine ebree Franca Baruch e Perla Beniacar, un ragazzo, Enrico Menasci, e suo padre Raffaello. Altre due sono state impiantate nel 2014 e dedicate a Isacco Bayona e Frida Misul, testimoni dell’orrore della Shoah per almeno due generazioni di studenti livornesi. Le stolpersteine del 2015 sono state dedicate a Dina e Dino Bueno, quelle del 2017 a Ivo Rabà e Nissim Levi, nel 2018 a Matilde Beniacar, ultima sopravvissuta livornese ai campi di sterminio. Nel 2020 sono state impiantate nelle strade livornesi sei pietre di inciampo, quattro in via Strozzi e due in via del Mare: le prime sono dedicate a Rosa Adut, Abramo Levi e ai loro due figli Mario Mosè e Selma, Nissim il terzo figlio fu ricordato nel 2017; le altre sono dedicate a Piera Galletti e a sua figlia Lia Genazzani. Nel 2021 in via Verdi è stata posta la pietra d’inciampo in ricordo di Gigliola Finzi nata il 19 marzo 1943, uccisa a soli tre mesi all’arrivo ad Auschwitz il 23 maggio del 1943.

[5] Archivio di Stato di Livorno (ASLI), busta Comune di Livorno, Censimento degli ebrei al 22 agosto 1938.

[6] Testimonianza di Edi Bueno rilasciata il 20 gennaio 2022 presso la Comunità di Sant’Egidio. Durante la guerra le famiglie Attal e Bueno sfollano a Marlia in provincia di Lucca. Qui verranno arrestati e poi deportati la madre, il fratello, il nonno Davide gli zii e i cugini di Edi. Solo Edi e il fratello Luciano si salvano: Il padre Mario riesce a salvarli dalla deportazione, nascondendoli dentro una piccola stanza, per poi scappare subito dopo. I tre si rivedranno molto tempo dopo.

[7] P.L. Orsi, La comunità ebraica di Livorno dal censimento del 1938 alla persecuzione, pp. 203-223 in Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938) memoria e identità familiare a cura di M. Luzzati, Belforte editore, 1990

[8] Vedi L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), p. 123.

[9] Si calcola che furono almeno 90.000 su una popolazione di 130.000 a sfollare dalla città. Vedi E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ed. ETS, pp. 69-70.

[10] Tra i 204 si contano 82 donne e 17 bambini. Solo 16 tornarono dai campi. Per questa e altre notizie si rimanda agli studi di C. Sonetti, tra gli altri vedi: La vicenda di Frida Misul nel quadro della deportazione dei livornesi, pp. 42-45 in Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz a cura di F. Franceschini, Livorno Salomone Belforte, 2019

[11] Sulle vicende dei bambini dell’orfanotrofio israelitico vedi: S. Trovato e T. Arrigoni, Dalla casa nel bosco al grande mondo. Storie di bambini ebrei tra la Toscana e Israele, La bancarella Editrice, 2014

[12] Di età compresa tra i 7 e i 16 anni, risultavano essere in numero di 22 nel maggio del 1943, vedi documento n. 10, “Orfanotrofio Israelitico – maggio 1943. Movimento personale e ricoverati” elenco trascritto in L. Bientinesi, Don Antonio Vellutini: un prete con i cattolici nell’Antifascismo e nella resistenza livornese, Benvenuti e Cavaciocchi, 2006, p. 151. Tra questi è compreso anche Benito Attal, insieme a Luciana e Ugo Bassano, sopravvissuti e testimoni ancora della vicenda.

[13] Su don Carlo Bartolozzi vedi L. Bientinesi, Un prete alla macchia: don Ivon Martelli. Il ruolo dl clero e dei cattolici nel livornese, Comune di San Vincenzo, 1995

[14] Luciana Bassano riferisce che fu la delazione di un’insegnante di musica, forse la stessa che denunciò Frida Misul, a segnare la loro fine. S. Trovato e T. Arrigoni, op. cit., p. 50

[15] Ibidem




150 ore

Nel 1973, con l’art. 28 del Ccnl Metalmeccanici venne riconosciuto ai lavoratori il diritto a permessi retribuiti per frequentare, presso istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio al fine di migliorare la propria cultura. La conquista di questo monte ore retribuito, noto come “150 ore”,  fu utilizzato per ottenere il diploma di terza media, frequentare seminari o insegnamenti monografici nella scuola secondaria superiore e all’Università configurandosi come un vero e proprio laboratorio collettivo di innovazioni didattiche per l’ educazione degli adulti:  la struttura seminariale delle attività invitava infatti gli studenti alla ricerca-apprendimento autonoma e  alla ricerca-azione su tematiche e questioni che concernevano la vita quotidiana e le condizioni di lavoro degli operai. Una scommessa da parte del movimento operaio e sindacale riguardo alla democratizzazione di una scuola ancora selettiva ed elitaria, che traeva vigore dall’influenza del movimento studentesco, dall’esperienza di Don Milani a Barbiana, come da altri fermenti innovatori che si erano delineati ad inizio degli anni ‘60.

Le 150 ore non potevano pertanto rappresentare per i lavoratori un ritorno nella stessa scuola con voti, insegnanti autoritari, compiti a casa, dai contenuti astratti e lontani dalla loro esperienza di vita. Tra gli argomenti specifici possiamo ricordare l’analisi della busta paga e della contingenza, il ruolo della fabbrica, la situazione dell’agricoltura, l’ambiente di lavoro, mentre in merito alla riflessione storica i filoni più diffusi furono la storia dell’industrializzazione, del fascismo, dell’immigrazione.  Tematiche affrontate con metodologie didattiche nuove alternative  al libro di testo (il lavoro di gruppo, l’inchiesta, l’uso della statistica, il teatro) che aprivano orizzonti e percorsi inediti, superando l’atteggiamento passivo nei confronti dello studio e proponendosi di conoscere la realtà per cambiarla ed intervenire anche sulla propria situazione.Orizzonti e percorsi inediti che si concretizzarono soprattutto nell’utilizzo conoscitivo e relazionale del metodo autobiografico in direzione di un apprendimento basato sulla propria quotidianità e con la volontà di proporre una sorta di controcultura operaia antagonista a quella dell’impresa e alla “scienza dei padroni”.

Uno dei temi più ricorrenti che vide impegnati anche in Toscana corsisti, insegnanti e sindacalisti fu quello della nocività e salute nei luoghi di lavoro. L’attenzione a tale problematiche non era casuale dato che si trattava non solo di mantenere certe conquiste sul tema della sicurezza ottenute con le lotte del ‘68-‘74 ma anche di esprimere al meglio le nuove opportunità derivanti dall’ Inquadramento unico[1]: era impensabile migliorare la professionalità e la qualità del lavoro se non miglioravano le condizioni in cui esso veniva esercitato[2]. La monetizzazione del rischio, ossia l’indennizzo per un lavoro nocivo, pericoloso, eccessivamente faticoso, incorporata nel salario, era una strada ormai del tutto impraticabile come ricordano queste emblematiche parole di un operaio empolese: “La salute del lavoratore è più importante delle 5.000 lire di aumento mensile” (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976,  Archivio Cisl fondo Flm, b.13844 fasc.1).Di pari passo con lo sviluppo della Medicina del lavoro in materia di salute e sicurezza, il movimento dei delegati di fabbrica fece proprio il modello sindacale della prevenzione fondato sull’azione diretta dei lavoratori: elaborato già nella metà degli anni ‘60 in alcune esperienze torinesi, lo socializzò fra gli operai, facendolo circolare e sperimentandolo attraverso una capillare attività di formazione nei corsi delle 150 ore [3].

A Firenze, nel 1975-’76, si tennero diversi corsi nella scuola media inferiore sul tema “Ambiente di lavoro e salute in fabbrica”, cui parteciparono i delegati delle più grandi fabbriche dell’area urbana. I filoni principali seguiti nei corsi furono: l’analisi delle officine e dei reparti (inquinamento, incidenti e infortuni, rischi in generale); la prevenzione sanitaria (malattie professionali, regole e standard); la promozione di un sistema sanitario pubblico e la storia dell’ambiente di lavoro industriale[4]. “Per Siena come primo momento per l’utilizzo delle ore di studio pagate per i lavoratori può essere visto come epicentro l’Istituto di Medicina del Lavoro”, recita una proposta di discussione per l’utilizzo delle 150 ore dove si elencano anche le possibili discipline di studio: Medicina sociale, del lavoro, farmacologia, malattie mentali ma anche collegamenti interdisciplinari con economia, lettere e diritto[5].  Ugualmente a Follonica si affrontarono le malattie professionali nelle miniere con preliminari cenni di anatomia[6]. Nel 1974, a Prato, uno dei maggiori distretti industriali tessili italiani, a conclusione di un corso da 120 ore (la quantità di ore contrattuali previste per il diritto allo studio retribuito di questo comparto) venne pubblicato in forma ciclostilata un volume-dispensa, dedicato all’organizzazione del lavoro e all’ambiente nelle piccole e piccolissime imprese, comprese quelle familiari (120 ore, Fondo Flm,  b.13845, fasc. 2).

Nel 1975 ad Empoli presso la Scuola Media Statale Fucini, in un contesto di distretto industriale e di piccole e medie imprese diffuse, si svolse un corso avente per oggetto “il problema della salute in fabbrica e nella società” attraverso lavori di gruppo e “verifiche assembleari”. Il programma, raccolto in un’antologia, si strutturò attorno alle storie di vita dei lavoratori con un particolare accento riservato ai problemi della fabbrica.  Quelli “ di sopra”, “gli altri”, “quelli che comandano” che stabiliscono turni,  ritmi, che tarano le macchine, che decidono  il salario, che assumono o licenziano, che valutano la malattia o l’invalidità,  sono quelli “che hanno studiato”, che sono rimasti dentro la scuola, cosicché la fuga dal ripetitivo e stressante lavoro manuale e la distribuzione ingiusta del sapere si fondono nelle motivazioni a riprendere a studiare: “mi piace soprattutto che a scuola ognuno di noi, operaio, casalinga etc. si esprime come può ed insieme possiamo parlare, discutere di tanti problemi di cui siamo vittime” [7]. Molte le testimonianze riguardo all’ ambiente lavorativo e la sua nocività, ne riportiamo alcune tratte dal Fondo Flm dell’Archivio Cisl (b. 13844 fasc.1):

Ogni lavoratore deve essere tutelato prima che si ammali perché quando l’operaio di fabbrica si ammala può essere solo curato ma non guarito. I nostri datori di lavoro dicono sempre che c’è troppo assenteismo, ma se ogni operaio lavorasse con più sicurezza per la sua salute, con meno nocività in fabbrica, e con più garanzie da parte dello Stato o degli organi competenti, si avrebbe tutti più salute e maggiore benessere.

Sono un operaio metalmeccanico, ed ho sempre lavorato continuamente da circa 12 anni. Cosicché penso di avere acquistato una certa conoscenza di quello che può essere il rapporto di lavoro e la salute nella fabbrica. Io credo che si debbano affrontare in questo corso i problemi che ci aspettano quotidianamente. Il rapporto di lavoro si sta dimostrando col passare del tempo sempre più difficile perché aumentano le difficoltà del lavoratore all’interno della fabbrica. Il ritmo di produzione è sempre più elevato e richiede maggiore logorio fisico, senza contare lo stato d’animo, sospesi come siamo, fra licenziamenti e cassa integrazione. La salute è una cosa indispensabile per tutti, ma soprattutto per noi operai, che tutte le mattine dobbiamo lavorare senza tante attenuanti, perciò l’ambiente deve essere non sano, ma sanissimo.

Altri corsisti sottolineano la pesantezza della linea di montaggio, il difficile adattamento del corpo ai tempi e ai modi di funzionamento delle macchine, la dura disciplina della “fabbrica orologio”:

Lavoro da circa 6 anni, prima ero alla catena con ritmi elevati, durante il giorno non potevo neanche andare in bagno altrimenti rimanevo indietro, ora sono alla mazzetta. Circa 3 anni fa ebbi una colica renale, il mio medico mi disse che dipendeva tutto dallo stare sempre seduta, chiesi se mi potevano cambiare posto. Ma non fu possibile neanche col certificato medico, che poi lo chiedevo soltanto per qualche mese. Così sono andata avanti fino ad oggi.

Spesso con un ammodernamento degli impianti, l’operaio vede arrivare in fabbrica una macchina che fa, magari più velocemente, quello che faceva lui, tale e quale. E vede bene che se lui non può decidere niente, la semplice forza delle sue braccia non vale molto. Lui diventa un semplice accessorio da adattare alla macchina, un ingranaggio e non il più importante. Il padrone ha molta più cura della macchina che di lui. Se si guasta la macchina si ferma tutto, se si guasta un operaio il padrone ce ne mette un altro e non è successo niente di grave. Tutto ciò è umiliante per un uomo.

Io sono una confezionista, lavoro alla Lebole, che comprende 7.000 dipendenti ed è divisa in succursali. Io lavoro alla succursale di Empoli, che impiega circa 500 lavoratori e, come in genere in tutte le fabbriche, i problemi non mancano. Il ritmo molto elevato causa tensione, sensazione di paura, ansietà, fatica, nervosismo, depressione, per questo ogni giorno ci sono delle crisi isteriche e assenze dal posto di lavoro. Il padrone reagisce chiamandoci massa di vagabondi, ma non fa niente per trovare una soluzione a questi problemi. La ripetitività della mansione è un avvilimento continuo. Pensare di avere un cervello e non poterlo utilizzare in quanto l’uomo è al servizio della macchina e non la macchina al servizio dell’uomo.

In molti operai matura così la consapevolezza e l’importanza di trattare la Medicina preventiva, “dopo anni che sono assente dagli studi per motivi economici, mi ritrovo di nuovo in aula non come scolaretto ma per capire qual è il male che nuoce alla salute di noi lavoratori”:

Mi rendo conto di quanto è importante studiare a fondo la medicina preventiva, nelle fabbriche ci sono moltissime cose dannose per la salute; alcune mie colleghe sono ammalate di nervi e questo per tante cose ingiuste, il ritmo di lavoro e tante altre.

Sono contento che questo corso studi il problema della salute. Lavoro in vetreria e quello è senza dubbio uno dei posti dove la salute va curata in tempo perché se si aspetta i sintomi della malattia la maggior parte delle volte è troppo tardi. Sono contento anche di imparare l’italiano e le altre materie, per avere una maggiore cultura che mi serve nella società e anche nell’ambiente di lavoro, dove spero di poter parlare meglio soprattutto con il datore di lavoro che crede di sapere sempre tutto lui.

Per quanto riguarda i rischi che corriamo, si potrebbe parlare di tantissime cose, in quanto la mia fabbrica è un calzaturificio e, come è noto, in questo tipo di lavorazioni i fattori di nocività non si contano. Finalmente è entrato nella nostra fabbrica l’ispettorato della Medicina Preventiva; così abbiamo avuto la possibilità di farci vigilare di più.

Abbiamo lavorato con assoluta mancanza di controlli sanitari periodici, abbandonati quindi dalla scienza medica, ognuno pensava per proprio conto alla salute, se stava attento altrimenti quando si manifestava un malessere questo era già cronico.  Finalmente viene istituito un servizio di Medicina Preventiva.

Come si evince da queste testimonianze, la consapevolezza che “lavorare in fabbrica fa male alla salute”[8] indirizzò gli operai più o meno scolarizzati verso un nuovo atteggiamento nei confronti del lavoro e ad una maggior percezione del rischio. E in questa presa di coscienza operaia, a livello di massa, la socializzazione educativa delle 150 ore giocò un ruolo fondamentale: i lavoratori, analizzando le loro esperienze, anche attraverso le storie di vita, contribuirono infatti in modo del tutto originale ad approfondire alle conoscenze di medici, tecnici e sindacati[9] e la prospettiva finale fu quella di utilizzare le ricerche svolte nei corsi per definire le strategie di azione sindacale e  le piattaforme rivendicative dei Consigli di fabbrica.

Avendo come oggetto di studio e di indagine le condizioni di lavoro e l’organizzazione produttiva, anche sul piano della salute e della sicurezza, le 150 ore rappresentarono per molti aspetti “un vero e proprio caso di auto-educazione di massa attraverso la ricerca-azione” [10] la cui ricostruzione storica consente di riflettere su sfide ancora assolutamente attuali: alcune di esse purtroppo rimandano ad episodi di cronaca ed immagini tragicamente note.

Un suono che si distingue dagli altri numerosi rumori della fabbrica; la sirena dell’ambulanza che a tutta velocità percorre per l’ennesima volta la strada verso l’ospedale. E’ un altro incidente sul lavoro: un altro lavoratore vittima di un macchinario. (corsista 150 ore, Scuola media Fucini- Empoli 1975-1976)

 

Monica Dati è dottoranda presso il corso di “Scienze della Formazione e Psicologia” dell’Università degli studi di Firenze. Collabora con il Comune di Lucca e con la Biblioteca Agorà con cui ha inaugurato il progetto “Madeleine in biblioteca”.

[1]Sistema di classificazione che viene introdotto in seguito alla lotta contrattuale dei Metalmeccanici del 1972-73 che porta al superamento della distinzione tra operai ed impiegati.

[2]P. Causarano, Unire la classe, valorizzare la persona. L’inquadramento unico operai-impiegati e le 150 ore per il diritto allo studio, Italia contemporanea, 278, pp. 224-46, 2015.

[3] Questo modello operaio fu reso noto in migliaia di fabbriche grazie alla dispensa L’ambiente di lavoro, edita prima dalla Fiom nel 1969 e poi dalla Flm nel 1971. Scaturita dall’opera di Ivar Oddone, medico e psicologo del lavoro, fu il frutto di un’elaborazione collettiva pluriennale che raccolse l’esperienza di alcuni lavoratori metalmeccanici della 5a Lega di Mirafiori.

[4]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, Giornale di Storia Contemporanea, 2016, n. 2 p. 70

[5]  Proposta di discussione per l’utilizzo a Siena delle ore di studio pagate per i lavoratori. Materiale per le 150 ore a Siena 1976-1977, a cura della Commissione Sindacale 150 ore di Siena, Archivio storico del movimento operaio e contadino in provincia di Siena (Amoc), Fondo zona sindacale Amiata b. VIII Fasc. 1

[6]  Documenti sui corsi 150 ore. Malattie professionali e ambiente di lavoro in miniera, Fondo CGIL, 1 (b. 85), Archivio della Camera del Lavoro di Grosseto

[7]Antologia del Corso 150 ore, Scuola Media Fucini R., Empoli, 1975 ciclostilato, Archivio Cisl, Fondo Flm, b. 13844 fasc.1

[8]Come titola il famoso libro di medicina del lavoro di Jeanne Stellman e Susan Daum (Feltrinelli, 1975)

[9]Sul rapporto tra formazione e sicurezza sui luoghi di lavoro si veda anche P. Federighi, G. Campanile, C. Grassi (a cura di), Il circolo di studio per la formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro, ETS, Pisa, 2010

[10]P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori. Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, op. cit., p. 67




Sulla pelle degli operai: Pignone 1953.

La mattina del 5 gennaio 1953 la direzione delle Officine Meccaniche e Fonderia del Pignone di Firenze presentò alla Commissione Interna un piano di riduzione del personale di oltre 300 lavoratori, fra operai, tecnici e impiegati. I licenziamenti, che riguardavano inizialmente un sesto degli addetti occupati, raggiunsero in seguito progressivamente quote più alte, fino a prevedere la totale chiusura dell’impianto. A motivare l’operazione, la SNIA Viscosa, proprietaria del Pignone, riportava deficit di bilancio nel biennio precedente dovuti all’insufficienza delle commesse e agli elevati costi di produzione.

La vertenza, dopo un intero anno di lotta condotta su diversi fronti con inedite modalità politico-sindacali, si concluse tra il 5 e il 13 gennaio 1954 con la rilevazione da parte di ENI dell’azienda e il reintegro di una parte dell’organico, con un minor numero di addetti rispetto al primo piano di esuberi del gennaio ‘53. Più in generale, la parabola dello stabilimento fiorentino s’inseriva nel vasto quadro di licenziamenti e smobilitazioni che la ristrutturazione del tessuto industriale italiano comportò tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà del decennio successivo, che a Firenze ebbe pesanti conseguenze, ma ne rappresentava al contempo un caso paradigmatico.

La vicenda del Pignone passò alla cronaca per l’estensione temporale e qualitativa della protesta operaia, condotta unitariamente dai sindacati per la prima volta dalla scissione del 1948, che coinvolse larga parte della cittadinanza fiorentina: i commercianti e le famiglie operaie, i lavoratori degli altri stabilimenti e una parte del clero locale sostennero in diverse occasioni le proteste e la lunga occupazione della fabbrica. Soprattutto, però, la vertenza ottenne una grande risonanza nel dibattito politico grazie all’intervento diretto e deciso del sindaco democristiano Giorgio La Pira, poi della corrente che faceva capo a Fanfani e che proprio in quel periodo stava diventando maggioritaria nel partito.

Tutto ciò, ovviamente, fu oggetto della massima attenzione da parte dell’Ufficio Politico della Questura di Firenze. Tra gli elementi più interessanti riportati dalle fonti di polizia vi è certamente quello relativo all’atteggiamento tenuto nel corso della lunga vertenza da Zenone Benini e Franco Marinotti, gli amministratori delegati rispettivamente del Pignone e della SNIA.

Ciò che qui interessa sottolineare è la discrepanza tra le motivazioni alla base del ridimensionamento e poi della liquidazione del Pignone e la reale situazione economico-finanziaria in cui si trovava lo stabilimento. Per Marinotti e Benini al Pignone mancavano le ordinazioni e i costi produttivi erano insostenibili, mentre  le indagini dell’Ufficio Politico, le analisi delle rappresentanze operaie e la Relazione dei liquidatori della Società concordavano invece nell’attestare la buona salute dell’azienda.

Su un bilancio di oltre 7 miliardi di lire il passivo dell’azienda alla fine del 1952 si attestava intorno a 240 milioni, di cui la quasi totalità riscontrabile nel nuovo ramo produttivo meccanotessile imposto dalla riconversione targata SNIA. Anzi, secondo il parere dei liquidatori i reparti tradizionali su cui si fondava la vecchia come la recente storia del Pignone, compressori, carpenteria e caldareria, avevano addirittura fatto registrare negli ultimi anni un’espansione del fatturato. In merito al “mantra” ripetuto dal padronato della carenza di ordinazioni, le indagini avevano rilevato che gli aiuti ERP non solo avevano finanziato una parte del rinnovamento del parco macchine fra 1949 e 1950, ma avevano anche assicurato fino a quel momento sostanziose commesse offshore. Inoltre alcune ordinazioni erano state gestite in maniera pessima dalla Direzione, come delle lavorazioni per trapani radiali, costate al Pignone tra interruzioni e scarti produttivi un centinaio di milioni di lire.

Dalle parti della Questura dunque, come del resto anche nella CCdL, con il passare delle settimane andava accumulandosi una certa perplessità sulla buona fede delle scelte aziendali, dato che Benini non solo chiudeva sistematicamente qualsiasi spiraglio di trattativa con la Commissione Interna e confermava la necessità di ridimensionare l’azienda – anzi la rilanciava portando a 400 il numero delle sospensioni -, ma allo stesso tempo stava imponendo ore di lavoro straordinario obbligatorio a una consistente fetta di tecnici, disegnatori e operai.

Le perplessità dei funzionari di polizia si fecero più consistenti quando, poco prima delle elezioni politiche del giugno 1953, la stima delle riduzioni di organico  era praticamente triplicata rispetto alle sospensioni avviate a gennaio, attorno alle «900 persone su 1800 dipendenti». L’Ufficio Politico riteneva:

«Urgentissimo provvedere acciocché la direzione dell’azienda non vada a questi estremi che porteranno al fallimento. Infatti il costo/ora commerciale, che prima delle sospensioni era circa 1400-1500 lire, è salito a oltre 1800 lire, come anche un qualunque essere ragionevole aveva capito e detto fino da quando furono minacciate le sospensioni: le persone che producono  diminuiscono e le spese generali rimangono le stesse. È perciò da considerare:

1) Il completo fallimento della politica dei vari Benini, Gerla e Torrini.

2) Il prossimo tracollo della Società (le azioni vanno scendendo di nuovo rapidamente), dato che sarà impossibile vendere anche un solo spillo, anche perché l’ora produttiva del Pignone costa il triplo di quelle della concorrenza.

3) La necessità di un forte intervento governativo presso la SNIA Viscosa e la Direzione del Pignone per impedire in ogni modo la rovina della Società, eventualmente assegnando del lavoro per un importo della consistenza tale da salvare alcune centinaia di operai».

Qualche mese più tardi gli investigatori informavano che Benini, «alla luce di una voce raccolta in qualche ambiente interno delle officine del Pignone, solitamente bene informato, […] avrebbe più che raddoppiato il suo capitale in seno all’azienda, giuocando al ribasso quando le azioni, alcuni mesi or sono, ebbero un apparente fortissimo tracollo; da un lato, faceva sapere a tutti ufficialmente che si era giunti al disastro dell’azienda, mentre dall’altro, comprava a tutto spiano le azioni che medi e piccoli azionisti gettavano sul mercato, vendendo a qualunque prezzo pur di disfarsene».

Nel novembre 1953 infine, quando ormai la vertenza entrava nelle sue fasi più acute a seguito della decisione aziendale di liquidare la Società, gli indizi si facevano più chiari per i questurini, che consideravano ormai «buona parte della mancanza di lavoro» dovuta «all’atteggiamento della SNIA Viscosa nei riguardi del Pignone». Nei mesi precedenti il colosso lombardo aveva richiesto la progettazione e la realizzazione di «due prototipi di macchine TPS, poi, dopo averle testate e valutate positivamente, si faceva consegnare progetti tecnici per commissionare la produzione di un centinaio di questi macchinari, per l’importo di oltre un miliardo di lire, ad un altro impianto, lo Stabilimento Meccanico che essa stessa possiede in Torino».

Così, a nove mesi di distanza dall’apertura della vertenza, i funzionari di polizia  erano portati a «supporre che la crisi di lavoro in cui l’azienda si dibatte [fosse] stata creata ad arte».

Effettivamente l’attività speculativa emersa dalle carte della Questura sul caso Pignone conferma non solo, e non tanto, «il fallimento di una classe imprenditoriale culturalmente arretrata e dotata di scarsa “coscienza industriale”»; indica piuttosto una scelta preordinata, una strategia imprenditoriale sostenuta dalla proprietà in quella fase di ristrutturazione complessiva del tessuto industriale italiano. Una volta presa coscienza dell’errata scelta di riconversione al tessile a scapito invece della  tradizione produttiva della fabbrica fiorentina, la gestione Benini-Marinotti già tra il 1948 e il ’50 aveva optato per il definanziamento delle produzioni di casa Pignone, incentrando il proprio indirizzo strategico nel taglio dei costi e alimentando di conseguenza il conflitto interno allo stabilimento.

Nel 1953 però, a differenza delle precedenti dismissioni di manodopera, la Direzione non dovette fronteggiare solo una decisa e determinata protesta sindacale unitaria, ma anche un mutato assetto del contesto politico generale e territoriale, in cui le istanze sociali rappresentate dalla corrente di Fanfani e La Pira si stavano imponendo sulle linee di governo. In altre parole la dirigenza si trovava di fronte un doppio ostacolo: la combattiva resistenza operaia (tanto alle scelte contingenti di licenziamento quanto più compiutamente a tutto l’indirizzo produttivo imposto nel ’46); la volontà del sindaco e di una parte della DC di sostenere la lotta del Pignone.

Per questa via, già a ridosso delle elezioni del 7 giugno, e poi più realisticamente con il progressivo emergere del protagonismo di La Pira e le voci di un intervento governativo, Benini e Marinotti maturarono la scelta di disfarsi dell’azienda, tanto più che dopo la salita di Fanfani al Viminale trovarono nella disponibilità istituzionale alla mediazione la sponda idonea per superare l’empasse a proprio favore.

Concretizzatesi finalmente le iniziative governative per salvare il Pignone con il coinvolgimento della neonata ENI guidata da Mattei, e una volta accentrate il più possibile le azioni, la SNIA e il vecchio patron Benini riuscirono a ricavare profitto da una fabbrica estremamente politicizzata e conflittuale, che versava in buona salute finanziaria ma risultava da anni in crisi nel ramo produttivo che più interessava alla SNIA.




Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. 1919-1921

L’articolo costituisce un’anteprima del nuovo volume sui fatti di Montespertoli a firma di Francesco Catastini, Paolo Gennai, Andrea Pestelli, Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. Concentrazione di potere, gruppi familiari e politica (1919-1921), Pisa, Pacini, 2021 

Nel giugno del 1914 si tennero in tutta Italia le elezioni amministrative. Anche a Montespertoli vinsero le forze liberali ma il risultato della vicina Firenze agì da ‘lento’ detonatore per una serie di drammatici eventi che maturarono alcuni anni dopo e che coinvolsero non solo la città fiorentina ma anche alcuni comuni del suo circondario che avevano con Firenze intensi rapporti commerciali, politici ed economici. Montespertoli era appunto uno di questi centri.

Sindaco Bini Augusto

Augusto Bini, primo sindaco socialista di Montespertoli eletto alle amministrative del 1920

Le elezioni del giugno 1914 avevano riportato nel Consiglio comunale di Montespertoli una schiera di persone che ormai da decenni guidavano l’Amministrazione comunale (il barone Sidney Sonnino, i marchesi Lamberto Frescobaldi e Alessandro Bartolini Salimbeni, i conti Lorenzo e Lodovico Guicciardini, i cavalieri Alceste Salvadori, Gustavo Pacchiani e Ubaldino Baldi, il notaio Giulio Peruzzi, gli avvocati Giulio Rapi e Gino Giani) tanto che si può affermare che la cosa pubblica si era col tempo strutturata a loro immagine e somiglianza. Insieme a questa categoria di personaggi certamente molto influenti, avevano fatto la loro comparsa anche i rappresentanti di quel ceto di piccoli e medi borghesi originari del territorio, che con il passare del tempo si dimostrarono sempre più in grado di condizionare la vita pubblica e la gestione del potere locale, grazie al fatto che potevano vantare alleanze economiche con i grandi possidenti, sfruttando in modo utilitaristico e a proprio vantaggio i rapporti gerarchici che intrattenevano con essi. Questi “nuovi borghesi” si dimostrarono, peraltro, sempre più in grado di tessere una ragnatela affaristica che travalicava i confini della singola Amministrazione locale per insinuarsi nei gangli vitali anche di quelle confinanti, giocando in questo modo su più tavoli e volgendo a loro favore le occasioni che si presentavano via via nella gestione della cosa pubblica. A Montespertoli era soprattutto il settore del commercio che pesava sulla realtà economica e produttiva locale attraverso un prodotto come il vino che aveva un effervescente mercato non solo nella realtà del luogo, ma anche nelle maggiori piazze della Valdelsa, della Valdipesa e, soprattutto, di Firenze. Il vino infatti dava adito ad un circuito economico che dal possedimento di terreni adibiti a vigneti passava poi per gli impianti di trasformazione e coinvolgeva anche figure essenziali per il suo commercio come i «mediatori», gli «agenti di campagna», i trasportatori, i commercianti (al dettaglio e grossisti), i gestori di bettole, locande e fiaschetterie e anche una schiera di personaggi che dal commercio del vino ricavavano in modo ‘occulto’ piccoli introiti (ad esempio i «vetturali»).

A fianco del vino si collocava la paglia, altro settore produttivo molto attivo a Montespertoli sin dal tardo Settecento, intorno al quale si era strutturata una ramificata economia che coinvolgeva in maniera trasversale sia la fascia dei grandi possidenti e dei “nuovi borghesi” visti sopra, ma anche tutto un sottobosco di figure (piccoli commercianti, trasportatori al dettaglio, braccianti, piccolissimi possidenti) dedite a più lavori contemporaneamente che si insinuavano nelle maglie della lavorazione di questo prodotto poi esportato nell’area fiorentina, signese e campigiana.

Assessore Razzolini Severino

Severino Razzolini, assessore nella giunta del Bini. I fascisti fiorentini cercarono di far irruzione nel caffè da lui gestino per provocare violenze

E’ di fondamentale importanza tenere in considerazione questi aspetti di economia locale, oltre agli stretti legami politici ed economici con Firenze, quando si prenda in considerazione il caso di Montespertoli nel biennio 1919-1921, sia durante la presenza del Commissario prefettizio Umberto Patella (novembre 1919-ottobre 1920), che durante il governo della Giunta socialista di Augusto Bini (ottobre 1920-aprile 1921).

Il governo del Commissario Patella si basò quattro tipologie di imposte (quella sui terreni, sui bestiami, sui pianoforti e biliardi e la compartecipazione a quella governativa sul vino) alle quali affiancò voci di spesa (rifacimento della fognatura e dei marciapiedi nel Capoluogo, servizio sanitario per i poveri, spedalità in genere, estensione delle rete elettrica alle frazioni) più consone ad un’Amministrazione socialista che ad un Commissario prefettizio. Costui durante il suo operato si impegnò anche nel settore dell’edilizia popolare strettamente connesso, nella realtà economica di Montespertoli, a quello della paglia per il fatto che i proprietari di piccoli ambienti e magazzini che potevano essere adibiti ad abitazioni, preferivano invece riservarli alla lavorazione della paglia piuttosto che all’affitto perché più remunerativi, data l’importanza che questo prodotto aveva a Montespertoli. Tanto che lo stesso Patella lo inserì come voce specifica nel dazio di consumo, provocando un’amplissima protesta (trasversale) fra gli abitanti del paese.

Fu proprio l’abolizione di questa voce dalla tabella del dazio uno dei primi provvedimenti presi dalla Giunta socialista di Augusto Bini (possidente terriero locale e industriale della paglia) salita al potere con le elezioni amministrative del 19 settembre 1920, con una vittoria nettissima. Il clamore che il risultato delle votazioni dovette suscitare negli avversari, ma anche in tutta la popolazione di Montespertoli e delle sue frazioni, con una differenza eclatante in termini di voti, dovette essere enorme. Un manipolo di 24 persone di cui, tranne una, tutte le altre di estrazione e/o di professione contadina, andavano ad occupare gli scranni dove fino a pochi giorni prima sedevano baroni, conti, marchesi, cavalieri, notai e avvocati. Si ribaltavano i concetti fondamentali di una società che durava da tempo immemore e che sembrava, fino a pochissimi anni prima, non dovesse mai cadere.

Assessore Verdiani Angiolo

Angiolo Verniani, assessore nella giunta socialista di Augusto Bini

Il 10 e 11 ottobre 1920 a Montespertoli si sperimentò il primo tentativo dei fascisti fiorentini di ribaltare il risultato delle libere elezioni in una Amministrazione comunale; tentativo non riuscito grazie al concorso della popolazione che si pose a difesa del Palazzo comunale, ma che gettò lunghe ombre sul futuro prossimo delle Amministrazioni socialiste toscane.

Lo sforzo messo in campo dalla Giunta Bini per cercare di attuare un piano fiscale che fosse il più possibile aderente alla realtà locale e che quindi praticasse quella giustizia fiscale e distributiva cavallo di battaglia del partito socialista, si scontrò con la difficoltà ad individuare i cespiti di entrata delle famiglie di Montespertoli e quindi della loro effettiva ricchezza nel momento in cui affrontò il delicatissimo problema della «revisione delle matricole delle tasse comunali». Quanto fosse infida e piena di conseguenze imprevedibili questa operazione fiscale, lo dimostra l’analisi delle lettere inviate nel 1921 all’Amministrazione comunale da chi si sentì ingiustamente penalizzato dalla nuova ripartizione fiscale. Le lettere mostrano con esemplare chiarezza il risentimento diffuso, ma in certi casi anche il livore e la rabbia a stento trattenuti, che la Giunta socialista provocò fra molti suoi amministrati con la nuova matricola fiscale. Si trattava di un fronte esteso ed eterogeneo che andava dai parroci ai dipendenti comunali, dai grandi possidenti dai cognomi altisonanti agli anonimi piccoli proprietari, ai commercianti e bottegai; dai fattori ai piccoli possidenti inseriti anche nel commercio della paglia e/o del vino. Un aspetto questo che ebbe il suo peso quando nella primavera seguente lo sforzo congiunto delle autorità centrali, della Prefettura e delle squadre di azione fasciste riuscirono a far cadere la Giunta socialista di Augusto Bini.

Assessore Del Terra Savino

Savino Del Terra, assessore nella giunta del Bini

Troppo esiguo fu il margine di tempo che questa Giunta ebbe a disposizione per poter dispiegare la sua politica socialista sul territorio di Montespertoli (quattro mesi e dieci giorni). Inoltre, oltre ad essere breve fu anche particolarmente difficile per il manipolo di nuovi Consiglieri che si trovarono a svolgere per la prima volta nella loro vita un’attività politico-amministrativa del tutto sconosciuta nelle sue articolazioni interne. Oltre a queste ve ne furono altre di difficoltà legate proprio alla contingenza (ricorsi della minoranza, dazio di consumo, situazione finanziaria e approvvigionamento acqua) e all’operato della Prefettura.

I fatti accaduti a Certaldo e ad Empoli fra il 28 febbraio ed il 3 marzo 1921 costituirono l’occasione per dare la spallata finale a molte Amministrazioni socialiste della Valdelsa, fra le quali anche Montespertoli. Anche a Montespertoli infatti fu indetto lo sciopero che secondo le autorità assunse la forma di un’insurrezione contro i poteri dello Stato e su questa ‘insurrezione’ fu montato un processo celebrato presso il Tribunale di Firenze, che portò sul banco degli imputati un centinaio di cittadini, compresa l’intera Giunta municipale (escluso un solo assessore). Le accuse andarono da «insurrezione contro i poteri dello Stato», «costituzione di bande armate», «sequestri di persona», «interruzione delle comunicazioni», «assedio alla caserma dei carabinieri» e «violenza privata».

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La coperta del fascicolo processuale relativo al procedimento intentato per volere delle autorità fasciste contro lo sciopero indetto a Montespertoli nel marzo 1921 per cui furono incriminati un centinaio di cittadini e l’intera giunta  Bini (Archivio di Stato di Firenze, Processi Penali 1923, b. 73)

Così, il 4 marzo vennero arrestati i primi tre Consiglieri di maggioranza, mentre due dei quattro assessori si erano resi latitanti e lo sarebbero rimasti a lungo. Ma l’obiettivo principale della controffensiva di marca reazionaria e fascista era rappresentato dal Sindaco Bini, contro cui si passò a forme di intimidazione ben più gravi e violente fra le quali un agguato. Il 4 aprile, verso le 11 del mattino si presentarono nel suo ufficio in Comune Sergio Codeluppi ed altri due compari minacciandolo con una pistola, ed insultandolo gli intimarono di firmare una dichiarazione di dimissioni da sindaco. Il giorno seguente Augusto Bini fu convocato in comune dal Segretario Bastianini per rispondere ad un telegramma del Prefetto inerente le sue dimissioni; firmato il telegramma Augusto Bini lasciò per sempre il Palazzo comunale.

Il 31 marzo 1923 la Corte d’Assise emise la sentenza che confermò il movente politico alla base degli episodi di violenza verificatisi durante i fatti di Montespertoli, condannando 47 dei 66 imputati a pene variabili fra i tre mesi ed i cinque anni di reclusione.

Il 23 settembre Augusto Bini venne arrestato a Firenze con l’accusa di aver commesso atti volti a far sorgere in armi gli abitanti di Montespertoli contro i poteri dello Stato e di aver organizzato bande armate di fucili e bastoni, esercitando su di esse un’azione di comando.

Bibliografia:

– M.C. Dentoni, Annona e consenso in Italia (1914-1919), Milano, Franco Angeli, 1995;

– F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Torino, UTET, 2009;

– M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista (1919-1922), Milano, Mondadori, 2003;

– L. Guerrini, La provocazione fascista per giustificare la repressione del movimento operaio e la repressione titolo preminente e permanente del carrierismo, in La Toscana nel regime fascista (1922-1930), Firenze, Olschki Editore, 1971, vol. I, pp. 621-634

– P. Pezzino, Empoli antifascista. I fatti del 1° marzo 1921, la clandestinità e la resistenza, Firenze, Pacini Editore, 2007;

– R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1991.




Gennaio 1922, fuoco a Serravalle

All’inizio del 1922 l’infittirsi delle spedizioni squadriste nel pistoiese registrava ormai numeri da bollettino di guerra. Nel corso del 1921 il neonato fascismo locale aveva devastato la Camera del Lavoro a Pistoia e sequestrato due volte il suo segretario Onorato Damen, rapito il parroco – animatore del movimento delle casse rurali – Don Ceccarelli, aggrediti numerosi militanti sindacalisti, socialisti, comunisti, anarchici e antifascisti, compiuto una sanguinosa spedizione a San Marcello, assaltato circoli, occupato interi paesi come Agliana e Casalguidi, incendiato sulla pubblica piazza copie dei giornali avversari, colpito leghe contadine e si era scontrato con la breve esperienza degli Arditi del popolo locali. Il tutto senza trovare un’attiva opposizione delle autorità statali, che si delineava sempre più come un’aperta connivenza. In questo contesto matura un’azione, svoltasi sulla falsariga delle altre, della quale disponiamo di preziosi resoconti, che mette ben in risalto il modus operandi delle squadre ed il ruolo della forza pubblica.

Il 10 di gennaio infatti una spedizione punitiva colpì il circolo comunista di Serravalle. Le modalità con cui venne portata a termine svelano un’accurata preparazione e la connivenza delle autorità del luogo. Il comando dei Carabinieri di Pistoia era venuto a conoscenza della possibilità di un’azione simile, prendendo per una volta immediati provvedimenti. Erano stati inviati a Serravalle quattro Carabinieri a cavallo per informare il comandante di quella stazione di intensificare la vigilanza in paese ed allo sbarramento istituito da tempo per impedire, senza grandi risultati, il passaggio delle squadre da e per la Valdinievole. Un altro sbarramento fu predisposto a Pontelungo ed infine veniva inviato un camion di Carabinieri di rinforzo. Tutte queste precauzioni furono inutili. Nella sua relazione il Sottoprefetto dichiarava che «è risultato che elementi giovanili fascisti eransi recati per tempo alla spicciolata per sentieri reconditi a Serravalle ove avrebbero dovuto essere assolutamente fronteggiati da quel Comandante di Stazione dell’Arma il quale aveva a disposizione mezzi più che sufficienti alla bisogna. Senonché il Comandante di quella Stazione il quale, come sovra è detto, era stato debitamente avvertito dalla pattuglia di CC. RR. a cavallo ed aveva disposto servizio sorveglianza dinanzi al circolo comunista, per ragioni assolutamente inesplicabili aveva sospeso il servizio stesso alla mezzanotte. I fascisti di Serravalle e quelli giunti alla spicciolata da fuori colsero tale momento per compiere l’azione» (sottolineature nell’originale).
Il camion dei carabinieri proveniente da Pistoia aveva arrestato sulla strada per Serravalle tre fascisti, di cui uno armato di pistola, e ne aveva avvistati altri diretti a Serravalle che però erano riusciti a fuggire per le vie laterali. Arrivato in paese verso le una di notte l’ufficiale dei Carabinieri al comando dei rinforzi, tenente Simula, constatava l’avvenuta «devastazione del circolo, sulla soglia del quale trovavansi ancora i residui in fiamme delle sedie dei tavoli delle porte e delle finestre». Il tenente constatò «la inesplicabile imprevidenza del servizio disposto dal maresciallo Vannini Umberto, comandante di quella stazione, il quale nel disporre il servizio quella notte non aveva ordinato che il servizio stesso avesse il cambio sul posto». Il capitano Mazzone stabilì che «la devastazione del circolo di Serravalle era stata opera di un gruppo di una ventina di individui i quali giunti verso le ore 23 per un sentiero erto di campagna dal fondo valle ed evitando ogni controllo lungo la strada maestra e quello dello sbarramento, avevano potuto riunirsi non visti da alcuno alle spalle del piccolo fabbricato adibito a circolo comunisti e socialisti del luogo, in località assolutamente deserta», qui aspettarono la fine del turno di guardia dei Carabinieri e «attesa una diecina di minuti circa per dar tempo a questi di far ritorno in caserma, irruppero contro la porta del circolo facendo tutta prima contro di essa una scarica di una ventina di colpi di rivoltella. Quindi abbattuta la porta poco resistente, entrarono nei locali tutto devastando e distruggendo e riunendo poscia i rottami innanzi l’ingresso, appiccandovi il fuoco e dileguandosi poscia per la stessa via dalla quale erano venuti, completamente indisturbati». Il circolo comunista “Umanità Nuova” subì danni per 2.500 lire. Furono arrestati 7 fascisti. I 3 sopramenzionati, Vittorio Franceschini di 20 anni carrozziere, Francesco Vannini di 18 anni studente, Pellegrino Pistoresi e poi Bruno Lorenzoni di 23 anni studente, Antonio Cappelli di 19 anni definito benestante, Riccardo Rosati e Desiderato Rosati. Un telegramma del Sottoprefetto al Prefetto dell’11 gennaio faceva salire il numero degli arrestati a otto, cinque di Pistoia e tre di Serravalle, ma non fornisce i nominativi. Tuttavia già da queste informazioni rileviamo ancora una volta la giovane età degli assalitori e l’interclassismo dei fasci, tutti elementi tipici dello squadrismo.
La devastazione del circolo di Serravalle fu un piccolo tassello nell’ascesa del fascismo nel pistoiese, che tende a scomparire di fronte ai ben più gravi fatti del 1922, con l’uccisione di diversi antifascisti, ma ci permette ci mettere in luce quanto l’ascesa del movimento di Mussolini fosse “resistibile”, se contrastata da chi ne avrebbe avuto la funzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.