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“Non uscire prima dell’alba e non rincasare dopo l’Ave Maria”

Veduta di Colle alta

Solo a partire dagli anni ’80 una storiografia più attenta e consapevole ha iniziato ad occuparsi in maniera approfondita dell’internamento attuato dalla dittatura fascista nei confronti dei cittadini di stati nemici e di oppositori interni, sia compiendo finalmente un’analisi della sua specificità (ovvero non più solo in relazione al sistema concentrazionario nazista), sia inserendolo nella politica di repressione del regime. Oggi non mancano studi sui campi di internamento (che furono circa 50 in Italia, di cui 3 in Toscana), mentre meno analizzate sono le località (circa 600 in Italia e circa 50 in Toscana) dell’internamento: esso rimane comunque un fenomeno misconosciuto all’interno del complesso apparato repressivo del fascismo e stenta ad entrare nella memoria collettiva.

La ricerca effettuata presso l’archivio del Comune di Colle di Val d’Elsa, conservato presso la Biblioteca comunale, ha consentito di ricostruire le vicende dell’internamento – tra settembre 1941 e giugno 1943 – di 3 uomini e 7 donne: “sudditi di paesi nemici” (Betsy Margaret Armstrong, Gladys Violet Archbutt, Kathleen Campbell, Hilda Chapman, Joan Annie Rennie, Giorgio Bellotto), ebrei stranieri (Emil Ullmann, Ottilie Feder, Edzia Stecher), e italiani (Renzo Cabib).

Il primo adempimento cui, al loro arrivo, gli internati dovettero ottemperare fu la sottoscrizione del “Verbale delle prescrizioni”, contenente, tra gli altri, i seguenti obblighi e divieti: non tenere presso di sé documenti di identificazione, denaro oltre le cento lire, gioielli; non occuparsi di politica; non allontanarsi dall’abitato; non uscire prima dell’alba e non rincasare la sera dopo le 18; presentarsi tre volte al giorno presso il Comune o la caserma dei carabinieri; non avvicinare nessuno senza autorizzazione. Dall’analisi dei documenti si rimane colpiti dalla ripetitività e macchinosità di tutte le procedure amministrative che li riguardarono, anche di quelle concernenti problemi di ben scarso rilievo, che dovettero seguire la catena burocratica: Ministero dell’Interno (talvolta) → Questura o Prefettura → Comune → internato, catena che ovviamente valeva anche, alla rovescia, per le loro richieste.

Il primo e più traumatico aspetto dell’internamento fu il forzato sradicamento dal proprio ambiente familiare e dalla realtà di provenienza, la separazione da parenti e amici, cui si aggiunsero il soggiorno in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove fu proibito ogni contatto con gli abitanti, la possibilità di lasciare l’abitazione solo di giorno, il rito della presentazione alla stazione dei carabinieri più volte al giorno e a determinati orari, la censura sulla corrispondenza, recapitata al Podestà, che gliela consegnò solo dopo averla controllata. La trafila amministrativa sopra ricordata fu valida per tutto: richieste di trasferimento, ricongiungimenti familiari, sussidio (una volta accertato lo stato di indigenza), ricoveri in ospedale, visite e cure mediche, prelievi di somme dal deposito presso il Comune. Le richieste di uscire dal territorio comunale dovettero essere sottoposte a specifica autorizzazione: una volta ottenuta, fu consegnato il foglio di via obbligatorio e si dovettero presentare alla Questura o al comando dei carabinieri della località di destinazione. Al loro rientro a Colle di Val d’Elsa il Comune ne dette assicurazione alla Questura.

Gli internati ricevettero per il loro mantenimento un sussidio giornaliero, pari, nel 1940, a 6,50 lire per gli uomini e le donne senza famiglia, ma per il nucleo familiare alla moglie spettarono solo 1,10 lire e a ciascun figlio 0,55 lire; si aggiunse un contributo per le spese di affitto di lire 50 mensili: a una famiglia con figli la cifra non bastava neppure a vivere di solo pane. Le condizioni materiali della vita divennero il problema più importante da affrontare quotidianamente per gli internati privi di altre fonti di reddito o di un aiuto dalle autorità dei loro paesi di origine, per cui chi ebbe il sussidio avanzò anche la richiesta di poter svolgere un lavoro, non sempre accolta.

Le modalità dell’allontanamento da Colle di Val d’Elsa degli internati furono diverse. Archbutt fu trasferita a Siena nel gennaio 1942 e Campbell a San Casciano dei Bagni nell’aprile 1942; Stecher ebbe nel maggio 1942 il permesso di recarsi a Roma per delle cure e non rientrò più nella cittadina valdelsana; Armstrong, Chapman, Rennie furono autorizzate ad espatriare nel gennaio 1943; Bellotto, Cabib, Ullman, Feder furono trasferiti a San Giovanni d’Asso nel giugno 1943.

La copiosa documentazione presente nell’archivio insomma ci restituisce uno spaccato della quotidianità di queste persone, delle loro “vite di carta”, per riprendere il titolo del volume di Anna Pizzuti (Vite di carta. Storie di ebrei internati dal fascismo, Roma, Donzelli, 2010): anche per gli internati di Colle di Val d’Elsa può valere la riflessione dell’autrice: “non è tutta la loro storia, è la storia che i documenti ci presentano”.

* Il presente articolo è un’estrema sintesi di quello dal titolo Non avvicinare alcuno senza particolare autorizzazione. Le “vite di carta” degli internati civili a Colle di Val d’Elsa (1941-1943), apparso sulla “Miscellanea Storica della Valdelsa” (2015, fasc. 1-2, pp. 113-182). Si ringrazia il prof. Fabio Dei, Presidente della Società Storica della Valdelsa, per averne autorizzato la pubblicazione. 




La “Caffettiera del Chianti”

La storia della Tramvia del Chianti ha origine negli anni di Firenze capitale. Il problema dei trasporti pubblici divenne di primo piano per la città, centro di nuove e importanti attività. Il servizio di trasporto pubblico svolto con gli omnibus, grosse carrozze pubbliche a cavalli che circolavano su rotaie metalliche, conducendo i passeggeri dalle porte della città fino al capolinea di Piazza della Signoria e viceversa si rilevò inadeguato con il trasferimento della corte, del governo, del parlamento, di funzionari prima residenti a Torino. Nel 1873 il Consiglio comunale nominò una commissione per studiare i problemi, dei collegamenti tra le varie zone. La soluzione migliore venne individuata nell’introduzione di una linea tramviaria, costituita da carrozze che circolavano su rotaie metalliche, trainate da cavalli. Negli anni Ottanta dell’Ottocento fu approvato l’uso del vapore al posto dei cavalli introdotto, a partire dal 23 novembre del 1879, nella linea Firenze- Prato. La tramvia ebbe un successo immediato, tanto che il Comune approvò il progetto di congiungere a Firenze, tramite tram, le località del circondario, la cui popolazione dipendeva sempre più dal capoluogo per le attività amministrative, economiche e commerciali. La Société Générale des Tramways, una delle più importanti imprese belghe operanti nel settore, richiese un nuovo capitolato al Comune per le linee extraurbane. Tra il 1881 e il 1892 furono così realizzate la linea tramviaria dei Viali, e quelle per Rovezzano, Bagno a Ripoli, Sesto Fiorentino, Ponte di Mezzo e Settignano. Nel 1884 i Tramways Florentins, dai fiorentini nominata “la belga”, ragione sociale dell’impresa facente capo alla Société Générale des Tramways, acquistarono le linee di Prato, Poggio a Caiano e Cascine. La diffusione di questo nuovo mezzo di trasporto suscitò nella cittadinanza reazioni molto contrastanti, suscitando nello stesso tempo paure e speranze, sollevando tematiche ancora attuali. In particolare l’ambizioso progetto per la realizzazione delle due linee per Fiesole e per il Chianti promosso da Emanuele Orazio Fenzi, figlio del famoso banchiere fiorentino e costruttore della Leopolda, pose l’imprenditore di fronte a diverse difficoltà.
«Da Firenze a S. Casciano: esiste fino dal decorso 1891 una linea di tram costruita dalla Società dei Tramvia del Chianti e dei Colli Fiorentini. Da Firenze le partenze del tram di S. Casciano avvengono da Piazza della Signoria e dal Piazzale della Porta Romana…». Viene così descritta nel volume Il Comune di San Casciano del 1892 del Carocci la linea che collegò Firenze con San Casciano e Greve in Chianti dal 1891 al 1935.
Alla fine dell’Ottocento, il territorio di San Casciano si presentava suddiviso in quattro frazioni principali: San Casciano, Mercatale, la Romola e San Pancrazio. La popolazione ammontava complessivamente a circa 11.000 abitanti nel 1861, aumentando progressivamente fino ad arrivare a poco più di 15.000 abitanti nei censimenti del 1911 e del 1921. L’economia di questo territorio ruotava intorno all’agricoltura, al commercio del bestiame, alla produzione del vino e dell’olio. I collegamenti tra Firenze e Siena erano affidati alle diligenze e nel 1887 fu accolto con favore il progetto di congiungere il Chianti con Firenze attraverso una linea tramviaria che prevedeva il servizio trasporto merci. La linea fu strumento di miglioramento economico e sociale per la comunità. Pochi mesi dopo l’inaugurazione del tratto Firenze-San Casciano, Francesco Stianti, trasferì la sua tipografia e casa editrice in una bottega in Piazza dell’Orologio, con una piccola succursale in un locale al primo piano in Borgo Sarchiani. Nel 1898 la famiglia Antinori costruì le cantine di San Casciano in Val di Pesa

Emanuele Orazio Fenzi, rappresentante la “Ditta Bancaria Emanuele Orazio Fenzi e C.” di Firenze, su Progetto dell’ing. Giuseppe Lenci, presentò domanda al Comune di San Casciano per «l’attivazione di una tramvia a trazione meccanica tra Firenze e San Casciano». L’adunanza del Consiglio comunale, in data 22 marzo del 1887, stanziò 110.000 lire in favore della società fiorentina per la realizzazione dell’opera. Nell’aprile 1887 la ditta Fenzi e C. presentò la domanda di concessione al Municipio di Firenze e al Consiglio Provinciale di Firenze:
«Questa linea muoverebbe necessariamente dalla Stazione Merci del Campo di Marte, e provvisoriamente da quella di Porta alla Croce, ed attraversando il territorio comunale di Firenze giungerebbe sulla Via Provinciale Senese nel luogo detto <le due strade> o <il Gelsomino> proseguendo quindi sulla detta Via fino al Ponte detto <dei Falciani> dove si biforcherebbe facendo capo, sempre percorrendo la Via Provinciale a S. Casciano da una parte e a Greve dall’altra».
La concessione a Province e Comuni per la costruzione e l’esercizio delle tranvie, concesse poi all’industria privata, era accordata dal Governo per Decreto Reale. Prima del definitivo decreto, furono vivaci le discussioni sull’opportunità della costruzione della tramvia del Chianti. Il progetto difatti si rivelò il più ardito e imponente del regno in quanto si sviluppava per 42 chilometri e prevedeva opere e infrastrutture ingenti: l’apertura di una nuova strada nella valle del Gelsomino, la ricostruzione del ponte San Nicolò e di nuovi ponti a Testi e Rimaggio, il consolidamento e la ricostruzione di opere a Mulino del Diavolo, a Ponte degli Scopeti, al Ponte dei Falciani, alla Colombaia, alla Casellina, al ponte San Angelo sulla Greve. Il preventivo di massima era di Lire 1.632.000.
Le discussioni sull’opportunità della costruzione della linea tramviaria del Chianti coinvolsero i maggiori protagonisti della vita politica toscana fra il 1887 e il 1888. Le linee tramviarie del Chianti e di Fiesole, attraversando zone residenziali o di rilevante interesse artistico e paesaggistico, posero agli amministratori problemi di varia natura, non ultima l’esigenza di confrontarsi anche con un primo embrionale concetto di tutela dell’ambiente. Giuseppe Poggi fu uno dei maggiori detrattori della tramvia del Chianti. Nella memoria diretta alle autorità cittadine fiorentine scriveva l’ingegnere:
«Una tramvia destinata a portare da Firenze al Chianti, e viceversa, mercanzie, bestiami, passeggeri, operai […] sarà utile, ma non sarà conveniente al Viale dei Colli, quale si è voluto che fosse e quale ne piace che sia. Il passeggio dei cittadini e dei forestieri perde le migliori attrattive, e l’opera viene necessariamente a subire alterazioni in quelle che sono le parti costitutive della sua bellezza».
Alla memoria del Poggi fece seguito la riposta di Emanuele Fenzi:
«non si può seriamente classificare come passeggiata pubblica tutto il tratto di Viale dalla Barriera di S.Niccolò fino al Piazzale Michelangiolo, lungo nientemeno che m. 2200. Non ci si trova mai anima viva e il Municipio lo sa, e per le annaffiature non vi spende mai un soldo, e in fatto di illuminazione vi si vede collocato un lume a petrolio a 500 metri. … Par poi proprio un gran male se qualche forestiero, andando a visitare il Viale dei Colli, vedrà per un momento passare un treno di fiaschi di buon vino del Chianti?»
Angiolo Pucci, Sovrintendente ai Pubblici Giardini e Passeggi, paventava danni agli alberi, ai marciapiedi e alle panchine del viale e ancora Giuseppe Poggi che, perso il primo assalto, sposò la causa ambientalista con queste parole:
«Le emanazioni del vapore noceranno certamente alle piante prossime alla rotaia e a lungo andare intristiranno anche le più discoste; e così il passeggio, lieto di ombre e di riposi, diverrà una strada come tutte le altre.»
Emanuele Fenzi, invocò a sostegno della tesi contraria la sua pluriennale esperienza di membro della Regia Società Toscana di Orticoltura:
«Fra i 250 platani o pochi più che si trovano piantati fra le cure e S.Gervasio sai tu quale è di gran lunga il più grosso, il più alto, il più forzuto, il più bello di tutti? Precisamente quello sotto al quale sta ferma (nota bene) per almeno 15 minuti ogni ora la locomotiva del tram di San Domenico».
Una serie di clausole del Comune di Firenze per alleviare le proteste, l’appoggio determinante al progetto di Sidney Sonnino e la netta presa di posizione di Ubaldino Peruzzi a favore della realizzazione della linea, chiusero le discussioni. Il 23 marzo 1888 la Provincia di Firenze approvò la concessione per la costruzione della Tramvia del Chianti. Il 12 maggio 1888 la giunta comunale di San Casciano, deliberò il contributo finale, destinato alla realizzazione dell’opera, in 140.000 lire. Il 18 dicembre 1888 il Decreto Ministeriale dava l’autorizzazione alla Ditta Emanuele Fenzi e C. a costruire ed esercitare con trazione a vapore una tranvia dalla stazione Ferroviaria di Firenze-Porta alla Croce a Greve e a San Casciano in base al progetto dell’Ingegnere Giuseppe Lenci. Decreto del Ministero dei trasporti, 18 dicembre 1888.
foto 3bLa linea fu inaugurata per tronchi successivi tra il 1890 e il 1893. Il tratto di San Casciano fu aperto il 24 maggio del 1891. L’inaugurazione fu una grande giornata di festa per tutto il paese alla presenza delle massime autorità, come racconta il periodico dell’ epoca “Il Chianti” il 31 maggio 1891:
«Per la nostra collina, su per una linea tortuosa serpeggia la vaporiera; saluta col suo fischio lungo, ripetuto dalle convalli, il bel paese che siede sulla cima del monte, ed a lui reca le più belle speranze di un lieto avvenire. Il nostro vecchio castello, a cui neppure sulle ali del vento, potea giungere il fischio della locomotiva, oggi esulta, perché, così bello, così ameno, non meritava di rimaner per sempre sconosciuto. Il 21 maggio è per noi epoca memoranda, in cui l’Illustre Cav. E. Fenzi, raggiunto il suo ideale, univa alla bella Firenze il nostro paese [… ] Alle 10, al teatro Niccolini, vennero estratti alcuni premi a vantaggio dei componenti la Società Operaia e Fratellanza Militare […] la banda suonò l’inno reale, e, mentre il popolo applaudiva al Cav. Emaule Orazio Fenzi ad alla di Lui famiglia, furono presentati mazzi sceltissimi di fiori alla Signora Cristina Fenzi, accompagnata dall’Onorevole Sidney Sonnino, a cui pure non mancarono i mille complimenti dei mille amici che lo amano e lo stimano. I nostri ospiti, ricevuti dagli assessori Levantini e Giunti, si recarono al palazzo municipale, dove vennero salutati dal Sindaco signor Antonio Sandrucci e da molti consiglieri e indi si recarono alla Società Operaia, alla Fratellanza Militare ed ebbero sempre festosa e cordiale accoglienza. Alle 6 ebbe luogo la corsa, dopo fu estratta la tombola, e la banda della Romola, durante questo trattenimento, prestò lodevolissimo servizio. Sull’imbrunire la folla si riversò tutta in piazza dell’Esposizione per assistere ai fuochi preparati dall’abile pirotecnico Tazzi di Calenzano. L’illuminazione del paese riuscì molto bella, e non poteva essere altrimenti, perché preparata dal rinomato Fantappiè. La banda locale, diretta dal distinto Maestro Giovan Battista Frosali, terminò la festa con svariati concerti e fu applauditissima. La famiglia Fenzi e l’Onorevole Sonnino tornarono alla villa entusiasmati per l’accoglienza ricevuta e soddisfatti della festa così.»

Dopo l’inaugurazione di questo tratto l’attività commerciale e bancaria di Fenzi risentì della crisi economica europea degli anni 1889-90 e si aggravò al punto che il Banco Fenzi fallì alla fine del 1891. Nel 1896 la società belga, Société Générale des Tramways, acquisì la società della tramvia del Chianti e dei Colli Fiorentini, che con il fallimento del banco Fenzi era stata ceduta a Ferdinando Cesaroni. Il 26 luglio 1899 si iniziò ad elettrificare la linea; il primo tratto in cui venne eliminata la trazione a vapore fu quello da Porta alla Croce al Gelsomino. In seguito la nuova trazione fu estesa fino a Tavarnuzze, raggiunta il 16 settembre 1907.

La tramvia del Chianti, che da Firenze a Greve in Chianti transitava per 6.887 metri su strade comunali, per 23.594 metri su strade provinciali e per 5.766 metri in sede propria. La diramazione per San Casciano in Val di Pesa transitava per 3.388 metri su strade provinciali e per 1.002 metri in sede propria con una pendenza contenuta sempre entro il 60 per mille. Da Firenze a San Casciano correvano mediamente 28 corse, mentre nel tratto opposto le corse erano 24. Il capolinea principale era in piazza Beccaria, allora conosciuta come porta alla Croce; sempre da piazza Beccaria iniziava la diramazione per la stazione ferroviaria del Campo di Marte ad uso esclusivo dei convogli merci, mentre i passeggeri dovevano compiere il tragitto a piedi. Lasciato il capolinea principale la tramvia si dirigeva verso l’Arno. La prima fermata era nell’allora piazza della Zecca Vecchia (la zona oggi compresa tra piazza Piave e lungarno Pecori-Giraldi) da cui ripartiva per poi attraversare il fiume sul nuovo ponte in ferro di San Niccolò. Passato il ponte, nell’attuale piazza Francesco Ferrucci, si trovava la Barriera daziaria di San Niccolò che la tramvia superava sulla destra attraverso un valico fatto nella cinta muraria. Da qui in poi la tramvia percorreva il Viale dei Colli: da viale Michelangelo fino al piazzale, poi il viale Galileo fino al piazzale Galileo, quindi la tramvia svoltava a sinistra per viale Torricelli fino all’incrocio con il viale del Poggio Imperiale dove si ricongiungeva con il tronco iniziato al piazzale di porta Romana (secondo capolinea fiorentino). Poi la tramvia percorreva via del Gelsomino, una via costruita appositamente per il servizio tranviario dove era situata la stazione omonima. La linea proseguiva poi lungo la via Romana, attuale via Senese, attraversando il borgo delle Due Strade fino al bivio con via di Malavolta dove era il confine con l’allora comune del Galluzzo e dove si trovava un’altra barriera daziaria; superata la barriera la tramvia proseguiva attraversando il Galluzzo, sfiorando la Certosa, attraversando i Bottai e il bivio per Le Rose, dopodiché entrava a Tavarnuzze dove si trovava un’altra stazione. I convogli passavano in località Mulino del Diavolo, poi in località ponte degli Scopeti e quindi nella piana formata dal fiume Greve. Infine raggiungeva i Falciani dove aveva sede una stazione dotata di deposito di materiali e dove era posta una biforcazione: rimanendo sul binario principale proseguiva per Greve in Chianti mentre con l’altro ramo raggiungeva San Casciano in Val di Pesa.
I treni merci avevano l’obbligo di circolare solo di notte e su carri chiusi con l’obbligo di un solo carro merci per convoglio. Venne imposto alla tramvia di avere due capolinea: uno a Porta alla Croce ed uno a Porta Romana. Gli orari del servizio dovevano essere divisi in invernali ed estivi ed essere approvati dalla Prefettura. Fu imposto l’obbligo di collocare i binari al centro della carreggiata dei viali per permettere il pubblico passeggio ed il transito delle carrozze. La linea doveva essere dotata di un servizio telegrafico ed in seguito del servizio telefonico, poi installato per volontà della società esercente; ogni carro doveva avere un vano riservato al servizio postale. Lungo la linea le distanze progressive dovevano essere segnalate mediante segnali posti ogni 500 e ogni 1000 metri ed inoltre, per il tratto in sede propria, venne chiesto di far sorvegliare la linea da due guardiani i quali avevano l’obbligo di abitare nelle località servite. Infine il comune di Firenze si riservò il diritto di concedere più autorizzazioni per l’uso della linea anche ad altri concessionari, ma riconoscendo un rimborso spese per la manutenzione che rimaneva a carico del costruttore.

Foto 2Sono gli scrittori dell’epoca a lasciare i passi più significativi per la memoria storica del trenino. I macchiaioli della letteratura popolare tratteggiarono con pennellate più di memoria che di vero realismo i loro personaggi, i loro quadri di vita popolare nella San Casciano dell’epoca: «Alla punta estrema del paese si San Casciano in Val di Pesa, un colle amenissimo circondato da uno scenario di montagne superbe e punteggiato da volle splendide, là proprio dove le ultime case finiscono, e comincia a snodarsi la ripida via maestra ferrata da una linea di tranvai, c’è un caffè piccino piccino, ma sempre affollato di gente che arriva. Costì, in un bel pomeriggio, mi pare di settembre, il signor Aurelio Frattigiani sostò un momento, invitato da alcuni amici a sorbire una bibita, prima di montare su carrozzone che stava per partire… Sonò la campanella del tranvai, il signor Aurelio bevve in fretta, si congedò, e salì su una vettura. Contemporaneamente un altro carrozzone infilava il binario doppio, e si fermava, mentre il convoglio partente scompariva con un cigolio di freni tremendo. Gli avventori si fecero sulla porta del caffeuccio; alle finestre comparve qualche testa tra i vasi di basilico; un monello sgambettò, cantando. Dal tranvai scesero quattro persone solamente, lasciando delusi gli spettatori, per i quali gli arrivi e le partenze costituivano il lecito ed economico divertimento della giornata: un frate, una contadina, con un ragazzo e un fagotto più grande del ragazzo, e la guardia comunale Ferdinando Paolieri» (Novelle toscane , Il fico, 1914).

Già ad inizio 900 la linea tramviaria del Chianti necessitava di maggiori manutenzione, tanto che i comuni di San Casciano e Greve in Chianti erano stati costretti alle vie legali contro il gestore. I biglietti aumentavano, gli orari non venivano rispettati e le condizioni della linea peggioravano causando numerosi incidenti come riporta la cronaca de “Il Chianti”. La prima guerra mondiale aggravò la situazione ed ebbe conseguenze gravissime sulla società belga e sulla qualità del servizio. Ci fu un’enorme crescita del costo delle materie prime: carbone, energia elettrica, e materiale rotabile. I disservizi erano dovuti anche all’uso della lignite del Valdarno al posto del carbone, impiegato per scopi bellici, e al poco personale, richiamato in guerra. Alla fine della guerra la situazione economica della Società dei Tramways era disperata e tutti gli interventi migliorativi vennero rimandati a data futura.
Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, la SITA era riuscita a ottenere, in via sperimentale, di esercitare un servizio sulla linea Firenze-Siena passando per Greve. Nel 1917 la SITA iniziò a svolgere delle regolari corse di autobus sulle linee Firenze-Siena e Firenze-Volterra con passaggio per San Casciano in Val di Pesa via Falciani. Con l’autobus, San Casciano in Val di Pesa veniva collegato con il centro di Firenze in circa trentacinque-quaranta minuti. Nel ‘21 l’obbligo di cambiare a Tavarnuzze a causa del diverso sistema di trazione (da elettrico a vapore e viceversa) allungò i tempi di percorrenza: da Greve in Chianti a Porta Romana si impiegavano circa due ore (1 ora e mezza da San Casciano in Val di Pesa). Per tutelare la tramvia, l’Ispettorato delle Ferrovie-Tramvie di Firenze impose alla SITA di far passare i suoi autobus non più dai Falciani, ma dalla via Volterrana, con un allungamento dei tempi enorme. Questa decisione causò un lungo contenzioso tra l’amministrazione comunale di San Casciano in Val di Pesa e l’Ispettorato. Tale situazione durava ancora nel 1928, quando il Podestà di San Casciano in Val di Pesa, il generale Michele Polito, inviò un accorato appello al Ministero:
«Il servizio SITA per il tratto Firenze-Falciani-San Casciano, supplisce modestamente alla tanto reclamata deficienza del servizio tranviario. E’ lecito oggi dunque che un paese come San Casciano, che dista da Firenze appena 16 km, pieno di vita agricola e commerciale, debba contentarsi di tre sole partenze del tram al giorno, eseguite con due vecchie carrozze e qualche volta con una sola, mista, per servizio merci viaggiatori? …La variante apportata all’itinerario dei servizi automobilistici nel tratto San Casciano-Firenze e viceversa, e il disservizio tranviario hanno messo questa regione nelle condizioni di doversi porre a paragone di un paese qualunque nei riguardi dei mezzi di comunicazione: prova evidente ne sono l’orario deficiente ed impossibile delle partenze del tram ed il vizioso itinerario del servizio automobilistico col quale si impiegano spesso due ore per raggiungere la città, mentre 30 minuti dovrebbero essere più che sufficienti».

Nel 1932 fu annunciata la chiusura della linea tramviaria. Nel 1934 la società avvio il fallimento ed il 25 aprile 1935 venne deliberata la soppressione del servizio. Dopo la cessazione del servizio negli anni 30 il personale venne riassorbito dalle tramvie fiorentine, gli impianti smantellati, le rotaie divelte per farne dono alla Patria. Una delle vecchie motrici terminò la propria attività nelle cave di Carrara, adibita al trasporto del marmo. Per quasi cinquant’anni la vecchia stazione a strisce bianche e marroni continuò però a segnare il paesaggio urbano di San Casciano. Solo il 6 dicembre del 1983 iniziò la demolizione della Stazione in Piazza Zannoni che ancora oggi, per i sancascianesi, resta “Piazza della Stazione”.

Sara Gremoli è laureata in Storia contemporanea presso l’università di Firenze e presidente dell’associazione culturale Sgabuzzini storici, con sede a San Casciano in val di Pesa.

L’associazione Sgabuzzini Storici, con sede a San Casciano in Val di Pesa si occupa di promozione culturale e organizzazione di eventi. In particolare l’associazione promuove la valorizzazione del patrimonio documentale e la diffusione della memoria storico-culturale del Chianti attraverso l’organizzazione di conferenze, mostre, letture e spettacoli teatrali in collaborazione con le associazioni del territorio.

Le ricerche sulla Tramvia del Chianti curate dall’Associazione in collaborazione con Gruppo “La Porticciola” e del loro prezioso archivio fotografico si sono concretizzate nella realizzazione di una mostra foto–documentaria. Documenti, testimonianze raccolte, periodici dell’epoca, e fotografie sono state fonte d’ispirazione per lo spettacolo teatrale La Caffettiera del Chianti, parole, immagini e musica per ripercorrere la storia della Tramvia del Chianti, andato in scena al Teatro Comunale Niccolini di San Casciano in Val di Pesa, drammaturgia e regia di Tiziana Giuliani.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.




“Caterina la Santa”. Il film “fascista” che non vide mai la luce

Nelle ultime settimane del 1934, poco tempo dopo il suo approdo alla Direzione generale della cinematografia fascista, Luigi  Freddi, scrisse a Galeazzo Ciano, allora sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, prospettandogli la realizzazione di un nuovo film. «Il tema per un film su Caterina la Santa, – spiegava Freddi – […] è enormemente suggestivo. Si è in piena atmosfera di italianità, di poesia, di sacrificio, di passione, di fede. Un soggetto cinematografico di tal natura porterebbe sullo schermo un magnifico materiale, universalmente ammirato (Siena e tutta la pittura religiosa dei primitivi italiani) ed esprimerebbe sentimenti di alta portata spirituale, oltre a mettere in particolare rilievo la coscienza di italianità professata dalla Santa e ad elevare il sentimento della massa in un’atmosfera di bontà e di volontà». Freddi completava il quadro, aggiungendo dettagli tesi a esaltare col film il patrimonio artistico italiano e il ruolo di Siena come custode d’arte. «Alle opere d’arte figurative dei primitivi (di cui la Pinacoteca di Siena può fornire gli spunti più impensati e commoventi) – scriveva il “gerarca di celluloide” – dovrebbe essere unito, quale commento fonico, il patrimonio dell’arte musicale della nostra Rinascenza, tipica creazione della nostra razza che dal canto gregoriano si umanizza attraverso il Palestrina per giungere poi alle melodie inarrivabili del Carissimi, fornendo quindi tutti gli elementi intimi e poetici necessari ad un commento musicale adeguato».

patrona giovani

Immaginetta devozionale di Santa Caterina, patrona delle Giovani italiane (foto tratta da www.biagiogamba.it)

Tra i molti risvolti della Conciliazione del 1929 tra l’Italia fascista e la Santa Sede, tra i meno conosciuti c’è probabilmente il processo che portò all’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Un processo composito, articolato in momenti di osmosi, ma anche di competizioni e concorrenze tra le forme di costruzione degli apparati simbolici e rituali di cattolici e fascisti. L’idea di una santità italiana, già comparsa nel cattolicesimo liberale di metà Ottocento, aveva trovato nel periodo fascista l’humus più adatto per proliferare, sull’onda lunga del suo rilancio col nazionalismo di inizio Novecento. Forte di potenti gruppi di pressione Caterina da Siena occupò il posto più alto nella gerarchia della santità nazionale nell’Italia fascista, insieme a Francesco d’Assisi e Giovanni Bosco. Non a caso per Francesco e Caterina, la parabola di santi nazionali per eccellenza doveva suggellarsi con la proclamazione a patroni d’Italia nel giugno 1939. In questo quadro non stupisce che proprio su queste tre figure si fossero concentrati fino a quel momento i più reiterati progetti di narrazione agiografica a mezzo cinema. Ma se per il santo assisiate, col film Frate Francesco di Giulio Antamoro uscito nel 1927, e per il santo di Valdocco, portato sugli schermi da Goffredo Alessandrini col Don Bosco del 1935, i progetti cinematografici trovarono uno sbocco, per la santa senese le idee di trasposizione sul grande schermo si fermarono alle battute iniziali.

Eppure Luigi Freddi, che più di tutti lavorò ad una fascistizzazione del cinema, aveva puntato molto sull’operazione agiografica legata alla santa di Fontebranda. Nelle sue intenzioni il progetto si prestava a convalidare esplicitamente l’abbraccio della cinematografia fascista con il mondo cattolico avviatosi col suo arrivo alla testa della Direzione generale per il cinema. Freddi del resto non aveva nascosto agli emissari pontifici la volontà di inserire i cattolici nel suo piano di “rivoluzione” della cinematografia di regime, incardinato su un nuovo slancio per una produzione che fosse «prettamente italiana e profondamente morale». Ai suoi occhi, santa Caterina – come rivela nelle sue memorie postbelliche – rappresentava il modello perfetto per inaugurare il nuovo corso. La svolta del Concordato aveva d’altra parte fornito anche al culto di santa Caterina – fino ad allora legato a doppio filo al papato – l’occasione per diventare un culto nazionale, di cui il fascismo fosse non solo spettatore, ma promotore attivo.

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

L’iniziativa di Freddi si inseriva in un solco già ben avviato: nel febbraio 1930 l’anniversario della Conciliazione era stata occasione per l’Ordine domenicano e per la Corporazione dei caterinati di rinvigorire la campagna per la proclamazione di Caterina patrona d’Italia, processo che avrebbe avuto un nuovo impulso in occasione dell’Anno Santo straordinario del 1933 quando a questo scopo la Società di Studi Cateriniani si fece promotrice di un voto della città di Siena. Freddi provò a dare ali al suo progetto coinvolgendo Piero Misciattelli che nella città del Palio era stato tra i promotori più ferventi di una cattedra di Studi cateriniani all’Università locale e tra i primi a intravedere le potenzialità nazionaliste del misticismo cateriniano.

Ma il vero salto di qualità culturale dell’operazione doveva essere il coinvolgimento del poliedrico intellettuale fiorentino Giovanni Papini, che, dopo la Grande Guerra, con la sua fertile penna era divenuto uno degli alfieri più intransigenti del progetto ierocratico di restaurazione della societas christiana. Come molti della sua generazione, il dirigente fascista era rimasto impressionato dalla “giravolta” di Papini consumatasi nell’arco di un decennio. L’autore blasfemo delle Memorie d’Iddio (1911), divenuto il convertito di grande successo editoriale della Storia di Cristo (1921), agli occhi di Freddi aveva il giusto profilo per partorire la sceneggiatura perfetta che ponesse il sigillo all’«italianità» della santa di Fontebranda e che, nel contempo, potesse divenire simbolica rappresentazione dell’abbraccio cattolico-fascista. Pur se Papini non rimase estraneo al fascino dell’“ideologia italiana” adottata e promossa dal fascismo, è difficile credere che si prestasse a sposare in pieno un progetto con connotati così smaccatamente ideologici. Motivi politici che influirono probabilmente anche sul fallimento definitivo dell’operazione del film su Santa Caterina nella sua fase di decollo: il primo interlocutorio contatto preso da Freddi nel novembre 1934 con Ruffo della Scaletta e Corazzin, i rappresentanti meno filofascisti dell’Ecer e della Lux Christiana —  i due enti cinematografici cattolici al centro allora di una complessa operazione di restyling  — non avrebbe avuto alcun seguito.

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

È certo però che l’idea della pellicola sulla Senese, tramite la «Minerva Film», nei mesi successivi passò nelle mani del grande regista del realismo francese Julien Duvivier, perdendo sempre più i contenuti ideologici con cui era stata battezzata, ma senza mai trovare uno sbocco produttivo. Papini continuò a rivedere il soggetto almeno fino al 1937, avendo modo di parlarne in diverse occasioni attraverso interviste concesse a giornali e riviste. In esse l’intellettuale toccava i temi al centro del delicato dibattito sulla rappresentabilità dei soggetti religiosi, tutti interni alla cultura cattolica. «Un film che abbia a protagonista santa Caterina da Siena – dichiarò Papini, nel febbraio 1937, all’intervistatore de “L’Osservatore Romano della Domenica” – non può essere concepito come uno dei moderni film di fantasia e d’avventura. La ragione d’essere della Vergine senese è la santità, e per conseguenza, ogni spettacolo che intenda rappresentare la sua vita, deve in qualche modo ricordare e arieggiare una sacra rappresentazione».

Solo nel dopoguerra l’idea di trasporre la vita della santa senese poté trovare una concretizzazione. Niente a che vedere però con le raffinate elaborazioni culturali e artistiche che avevano accompagnato i progetti Duvivier-Papini. A raccogliere il testimone fu infatti il regista Oreste Palella che in ben due film prodotti a distanza di circa dieci anni, non riuscì ad incontrare i favori di critica e pubblico. Se Caterina da Siena del 1947 fu apertamente mal giudicato dalla rivista «Intermezzo» («A certi argomenti – così la recensione – e a certi personaggi bisognerebbe accostarsi con maggiore preparazione, con mezzi meno limitati ed anche con una buona dose di rispetto. […] a vedere il film si ha l’impressione che ad un certo momento sia sorta la necessità di condurlo rapidamente a termine, bene o male»), non miglior sorte toccò a Io Caterina del 1956 stroncato senza mezzi termini dalle Segnalazioni Cinematografiche, elaborate dal Centro cattolico cinematografico che era una diretta emanazione dell’Azione cattolica italiana: «E’ un film di modesta fattura, semplicistico nel suo svolgimento, interpretato con scarsa convinzione. Ambientazione di maniera».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.




Contro ebrei, barbari, traditori e rinnegati!

All’indomani della proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, in un Paese già duramente provato dal conflitto ed adesso diviso fra contrapposti eserciti stranieri e in gran parte occupato dalle truppe nazisti, i fascisti, facendosi forti proprio della presenza di questi ultimi, tornano ad assumere il governo dei territori e intendono riaffermare il proprio dominio e controllo sugli italiani sotto la guida del proprio Duce. Ex squadristi emarginati nel Ventennio ed in cerca di riscatto, giovani forgiati dalla retorica del regime, funzionari dello Stato, militari e civili, uomini spinti da interessi, condizionati da paure, mossi da passioni e ideali formano le leve del partito fascista repubblicano e del nuovo stato: la Repubblica sociale italiana (RSI).
Uno degli obiettivi immediati diviene la conquista del consenso degli italiani e la stampa e gli altri strumenti di propaganda affidati al Ministero della Cultura popolare ne sono lo strumento principali, dimostrando che la RSI rappresenta l’unica possibilità di salvezza per l’Italia, di riscatto dell’onore perduto con il “tradimento” dell’armistizio, di vittoria della guerra a fianco dei nazisti. Si tratta di una propaganda di guerra tesa a contrastare quella degli Alleati e degli antifascisti, che si esprime in una vera e propria guerra di parole dai toni sempre più duri e truci. Una sfida difficile per gli eredi del regime che aveva portato il Paese alla sconfitta, resa di fatto impossibile, con il passare dei mesi, dall’andamento della guerra. Anche in Toscana, già culla del fascismo delle origini, così come in tutto il territorio della repubblica, si assiste ad una fioritura di testate: quotidiani, periodici, numeri unici che danno voce a tutte le anime della RSI, da quelle nazionaliste a quelle più radicali, espresse dai “fogli” delle federazioni del partito (come “Repubblica” di Firenze, “L’Artiglio” di Lucca, “Il Ferruccio” di Pistoia, “Giovinezza repubblicana”), tutte comunque circoscritte nell’identità del fascismo repubblicano e nell’alleanza con il nazismo.

Per cercare di acquisire i consensi degli italiani, uno dei temi essenziali trattai e usati dalla propaganda repubblichina è la rappresentazione dei nemici. Per i fascisti la descrizione degli avversari è funzionale, per contrasto, a delineare e chiarire la propria identità di “puri” ed eroici combattenti e per mobilitare attorno alla repubblica tutti coloro che intendano difendere la Patria. La propaganda deve quindi recuperare stereotipi e slogan del regime, suscitare dubbi e paure, motivare rabbia e risentimento, toccare interessi ed emozioni.

WP_20160705_09_45_27_ProL’idea centrale è che i fascisti, unici veri italiani, siano contrastai da una vera e propria congiura che unendo nemici diversi sotto la regia degli ebrei, quali nemico n. 1, come scrive “Repubblica” il 18 novembre ’43, da contrastare con ogni mezzo, definiti “razza nemica” nel Manifesto di Verona del Partito, carta di identità del fascismo repubblicano. Per “La Nazione” le potenze straniere troverebbero il loro comun denominatore proprio “nel giudaismo unico e vero despota delle cosidette democrazie liberali e di quel regime barbaro e mostruoso che si chiama Unione delle Repubbliche sovietiche” [Inghilterra, bolscevismo e imperialismo americano, “la Nazione”, 3 novembre 1943]; Inghilterra, USA e URSS sarebbero così al servizio dell’oro giudaico. Questa denuncia serve da un lato a sottolineare l’esistenza di una “razza italiana” minacciata da quella ebraica, che tutti devono mobilitarsi per difendere, dall’altra a promuovere e giustificare qualsiasi forma di violenza contro un nemico tanto pericoloso che viene definito “malattia ereditaria dell’umanità” su “la Nazione” del 20-21 febbraio, microbo maligno sul periodico fiorentino “italia e civiltà” e “tumore maligno” da eliminare su “Repubblica”.

Ma il nemico reale con cui fare i conti sono certamente gli eserciti Alleati. Consapevoli della loro forza e dell’appeal che hanno fra la popolazione italiana, la propaganda di Salò cerca di rovesciarne l’immagine da quella di “liberatori” a quella di “oppressori”. Così li descrive il periodico fiorentino “Rinascita”: i “liberatori sarebbero quei barbari volanti che distruggono le nostre città e i nostri villaggi, quei mercenari che depredano le nostre popolazioni dell’Italia meridionale, quei negri che violentano le nostre donne” [27 novembre 1943], recuperando tutti gli stereotipi propri del razzismo coloniale. Tanto che per “Repubblica” i “negri non sono esseri civili” [22 gennaio 1944]. Allo stesso tempo si denuncia che gli angloamericani avrebbero consegnato l’Italia a Stalin in caso di vittoria e per rafforzare questa ipotesi viene diffusa la falsa notizia della partenza dai porti del Mezzogiorno di navi cariche di bambini strappati alle proprie famiglie per essere condotti in Russia e trasformati in perfetti comunisti, automi nelle mani del dittatore bolscevico che li avrebbe poi rimandati in Italia controllare il Paese. Si usa lo spettro del comunismo per mobilitare attorno alla RSI tutti coloro si riconoscono nei valori tradizionali della patria, della religione e della famiglia. Abile nello sfruttare fatti reali (dai bombardamenti alle violenze sulle donne delle truppe coloniali, alle difficili condizioni di vita nell’Italia meridionale “occupata” dagli angloamericani) e nell’alimentare paure ataviche e diffuse, questa propaganda si scontra tuttavia da un lato con il reale andamento del conflitto, dall’altro con la presenza opprimente dei nazisti. L’aspirazione per la fine del conflitto e l’ostilità nei confronti del nazismo pare prevalere su ogni altra considerazione fra la popolazione.

Tuttavia sono i “traditori” i nemici contro cui la propaganda fascista si scaglia con maggiore ferocia. In primo luogo i fascisti che non hanno seguito il nuovo corso, simboleggiati da Galeazzo Ciano e dagli altri gerarchi che avevano votato contro Mussolini nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio. Quindi il re Vittorio Emanuele III e il generale Badoglio che avrebbero venduto l’Italia al nemico con l’armistizio. Infine i partigiani: i “rinnegati” che combattono contro la propria Patria. Figure private di qualsiasi dignità e qualificate infatti come criminali, assassini, vigliacchi, sicari. Ma incredibilmente agli occhi dei repubblichini ottengono consenso e sostegno da parte della popolazione.
E così la categoria dei traditori tende ad estendersi coinvolgendo categorie diverse di persone, considerati prima come sostenitori “naturali” o potenziali, ma poi guardate con sempre maggiore diffidenza e quindi con rabbia, per esser infine identificati come “nemici” particolarmente odiosi proprio perché inattesi. Infatti, come scrive “Repubblica” il 26 febbraio 1944: “oltre i sabotatori, i sobillatori, i sicari prezzolati del nemico attenta alla vita della nazione, anche chi in questo momento, non assolve in modo preciso e concreto il compito assegnatoli”, come i giovani che non rispondono alla chiamata di leva, e i loro genitori e parenti che li nascondono, come i disertori e coloro che proteggono gli ebrei, i soldati “alleati”, i partigiani. Particolarmente dure sono le condanne degli intellettuali che si sono ritirati nel silenzio e non sostengono la Rsi, del clero che non segue le direttive della repubblica ed anzi svolge “attività antinazionali”, delle donne che sono invitate ad andare “al di là del Volturno a sollazzare le ore meditative del filosofo Croce o le fatiche guerresche delle truppe angloamericane” [Repubblica, 18 dicembre 1943].

Ma proprio la denuncia di questa crescita esponenziale del numero e della varietà dei nemici rivela emblematicamente l’isolamento dei fascisti di Salò e il fallimento della loro stessa propaganda sconfitta inesorabilmente dalla realtà nella sua disperata guerra di parole condotta con tenacia dalle testate toscane fino al giugno-luglio del ’44 nell’imminenza dell’avanzata nemica e nel dilagare delle azioni partigiane in una regione provata dalla durezza dell’occupazione, della guerra ai civili e del passaggio del fronte, che attende con impazienza i giorni della Liberazione.

Matteo Mazzoni, dal settembre 2014 direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, è dottore di ricerca in Studi storici dell’età moderna e contemporanea. Ideatore e coordinatore di progetti didattici e culturali per la divulgazione scientifica della storia. Consigliere dell’Istituto Gramsci Toscano. Membro della Redazione del Portale di Storia di Firenze, oltre che Responsabile di redazione di ToscanaNovecento. Autore di pubblicazioni e volumi fra cui si ricordano: Livorno all’ombra del fascio, Olschki 2009, vincitore del Premio ANCI-Sissco 2010 e Il passaggio del fronte tra Val di Pesa e Val d’Elsa, Polistampa 2014.




Israele “Lele” Bemporad

I Bemporad erano una famiglia di ebrei toscani assai numerosa. Il ramo guidato da Riccardo si trasferì da Firenze a Pistoia a cavallo tra l’800 e il ‘900. Riccardo era il quarto di un gruppo di 6 tra fratelli e sorelle, e il nome di sua sorella minore, Italia, nata nel 1888, testimonia di per sé l’afflato patriottico e il grado di integrazione che la famiglia aveva raggiunto nel Paese. Benestanti, dediti al commercio dei tessuti e proprietari di una residenza di campagna con un attiguo appezzamento di terra dato a mezzadria nei pressi di Serravalle Pistoiese, fu per iniziativa del capofamiglia che venne eretta in quell’epoca, ancorché in stile medievale come suggerivano certi gusti del tempo, la Torre Bemporad, un edificio ben noto ai pistoiesi e che ancora oggi fa mostra di sé in pieno centro storico, all’ingresso di via del Can Bianco.

famiglia bemporad inizi 900_israele e  il quinto da destra in altoRiccardo Bemporad e sua moglie Ines Franco ebbero a loro volta 7 figli e figlie, di cui Israele era il sesto. Il motivo della scelta del nome resta a tutt’oggi ignoto, mancando anche nella memoria familiare informazioni che ci possano far comprendere se tale scelta fu dovuta a motivi prettamente religiosi o in omaggio al movimento sionista, anche se questa eventualità appare più remota dato che nessun discendente della famiglia è mai diventato un attivo sionista e nessuno ha scelto di compiere l’Aliyah, ovvero di trasferirsi a vivere in Israele. Tuttavia la scelta dei nomi di Riccardo e Ines rivela il permanere di un’identificazione patriottica – la terza figlia fu chiamata Margherita, come la regina – nonché l’apprezzamento per i nomi antichi o legati al medioriente, dato che le due primogenite furono chiamate rispettivamente Cesarina ed Egizia.

Nato il 27 giugno 1914, Israele condusse una tranquilla infanzia in città e fu poi avviato agli studi classici, dapprima presso il Liceo Forteguerri di Pistoia, per poi conseguire il diploma nel 1936 presso il Liceo Galilei di Pisa, dove si era trasferito presso Aldo Dello Strologo, che aveva sposato sua sorella Egizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove comunicò, come era obbligatorio fare, la propria presenza ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed alla coorte autonoma universitaria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). A Pisa Israele sostenne due esami di diritto romano e uno di diritto privato, per poi inoltrare domanda di trasferimento a Firenze nel novembre del 1937.
Ricominciando a frequentare Pistoia, nella primavera-estate del 1938 conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna per la vita, Dina Fontana, una ragazza di umilissime origini, figlia di emigrati provenienti dall’Emilia e di religione cattolica. Il fidanzamento tra i due giovani fu osteggiato dai genitori di Israele. Giocavano tanto la differenza religiosa che la marcata diversità di estrazione sociale.

Ma problemi ben più gravi erano in agguato.
Nello stesso periodo, infatti, il Fascismo si lanciava nella campagna antisemita, con la pubblicazione il 14 luglio del ’38 del Manifesto della razza, a cui seguirono nel settembre le Leggi razziali. La famiglia Bemporad veniva regolarmente censita con le altre 62 famiglie di ebrei della provincia di Pistoia. Nonostante le leggi proibissero le unioni “miste” tra gli italiani e gli “appartenenti alla razza ebraica”, ed introducessero gravi restrizioni nel campo dell’istruzione, fino all’espulsione, Israele perseverò tanto nel suo legame con Dina quanto nel suo impegno universitario. Il 3 novembre del 1938 fece formale domanda per essere iscritto al terzo anno della Facoltà di legge, costretto a dichiarare, in calce alla richiesta, che «Il sottoscritto è di razza ebraica e professa la religione ebraica, lui e la famiglia». Da quel momento sui verbali degli esami sostenuti, per i quali doveva fare richiesta di ammissione al Rettore, iniziò ad apparire la dizione di «studente di razza ebraica». Frattanto le maglie intorno agli ebrei si stringevano.
israele bemporad e dina fontanaNel febbraio del 1939 fu cancellato dalle liste di leva e sul certificato anagrafico appariva, di nuovo, il timbro con la dizione «di razza ebraica», mentre la famiglia iniziava a sfaldarsi, con suo fratello minore Roberto che riusciva a emigrare a New York, approdando ad Ellis Island. La carriera universitaria di Israele diventava sempre più precaria, fino al suo epilogo, sulle cui motivazioni la scheda nominativa della facoltà di Giurisprudenza non lascia dubbi, «Troncati gli studi perché di razza ebraica». Il legame con Dina invece reggeva, e diventava sempre più saldo. Un grande coraggio animava anche questa donna, che giovanissima – era nata nel 1919, aveva appena venti anni – continuò caparbiamente a coltivare il suo amore per Israele, nonostante il Fascismo, le discriminazioni, le persecuzioni, le differenze religiose e sociali, l’ostilità familiare.

Costretti a vivere in sordina, silenziosamente, gli ebrei pistoiesi condussero una vita appartata e impaurita, di cui sappiamo ben poco, fino all’8 settembre del 1943. Con l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale Italiana i membri della famiglia si frammentarono ulteriormente per la Toscana, e si nascosero. I Bemporad pistoiesi trovarono riparo in montagna, nell’area di Cireglio, anche con l’aiuto dell’avvocato pistoiese Bianchi. I rapporti tra Israele e Dina entrarono in clandestinità, mentre la caccia agli ebrei era aperta. Nel pistoiese ne vennero arrestati 88, quasi tutti sfollati da altre zone o di passaggio, mentre il fratello di Riccardo, e zio di Israele, Amedeo, veniva inghiottito dalla Shoah. Arrestato e deportato da Firenze, non fece mai ritorno.

Lele_primo da sinistra_in via abbi pazienza a Pistoia il girono della LiberazioneÉ in questo clima che Israele matura la scelta resistenziale, a cui partecipa anche suo nipote, Giancarlo Piperno, che diventerà un medico di fama mondiale. Stanco di nascondersi, e determinato a costruirsi la propria via d’uscita, il 17 giugno del 1944 entra a far parte delle brigate Garibaldi nella formazione Ubaldo Fantacci. Dina aiuta come può, portando viveri con la propria bicicletta. L’attività partigiana di “Lele”, il nomignolo con cui tutti l’avevano sempre chiamato e che adesso diventa il suo nome di battaglia da partigiano, si racchiude nell’arco dell’estate del 1944, ma è intensa. Matura un orientamento socialista e a quanto sembra cura dei contatti con Radio Londra. Alla fine parteciperà attivamente alla Liberazione di Pistoia l’8 settembre del 1944, immortalato anche nelle storiche foto della Liberazione in alcune vie a due passi da quella che diventerà poi la sua casa, insieme alle sorelle Cecchi, e si guadagna in questi mesi la qualifica di partigiano combattente.

Dopo la Liberazione “Lele” riprese le fila spezzate della sua vita, che nel frattempo si erano arricchite. Nel 1945 nasceva la sua prima figlia, Miriam, fuori dal matrimonio perché le leggi razziali ancora in vigore lo impedivano – lui e Dina riusciranno a sposarsi solo nel 1947 –, una circostanza malvista nell’Italia del tempo. Nello stesso anno chiese di essere riammesso a Giurisprudenza, ma dovrà presto abbandonare gli studi per i sopraggiunti nuovi impegni familiari. Nel 1948 nasceva Sara, seguita poi da Laura. Sempre in questo periodo si impegnava nel partito socialista, per un periodo, e poi nell’ANPI, a cui rimarrà sempre iscritto, e nel sostegno ai lavoratori della cooperativa di trasporti SACA. “Lele” resterà sempre a vivere a Pistoia con la propria famiglia, dapprima fa il negoziante, poi apre il “bar dello studente”, punto di ritrovo per generazioni di giovani pistoiesi, senza clamori, ma con la grande dignità di chi si è ripreso tanto la città che la cittadinanza.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




La potenza creativa dell’azione violenta

Le prime sporadiche apparizioni del fascismo a Pistoia cominciarono nell’autunno del 1920.  In città le elezioni amministrative, tenutesi nell’ottobre, avevano segnato, come in molte altre zone del Paese, una netta affermazione dei socialisti, che si aggiudicarono nel capoluogo del circondario la metà dei seggi nel consiglio comunale. I socialisti vincevano anche nei comuni vicini, a prevalenza contadina, di Larciano e Lamporecchio e in quelli montani di San Marcello e Sambuca, mentre i popolari prendevano le zone agricole di Montale, Agliana, Tizzana e il comune montano di Marliana. La vecchia classe dirigente liberale veniva scalzata dalle sue posizioni consolidate. Pistoia nei mesi precedenti aveva vissuto i moti del caroviveri come il resto della Toscana, nonché aspri conflitti agrari e l’occupazione delle fabbriche come altrove in Italia. Nonostante nel tardo autunno del 1920 sia il movimento socialista che quello popolare fossero già entrati in una fase di riflusso, la “grande paura” fece sentire i suoi effetti nei ceti agiati unendosi ai sentimenti di rivalsa conseguenti alla sconfitta elettorale, aprendo quel cruciale spazio di azione ai fascisti all’interno del quale si sviluppò il loro l’insediamento, in maniera analoga a quanto messo più volte in luce dalla storiografia per tante altre zone.

I primissimi fascisti si organizzarono a Pistoia attraverso un reduce, il maggiore Nereo Nesi, e nella zona di Larciano intorno a Idalberto Targioni, un ex socialista, tra i fondatori della Camera del Lavoro, protagonista di una parabola tipica di molti fascisti e dello stesso Mussolini. Interventista nel 1915, il 29 marzo del ’19, a meno di una settimana dalla fondazione dei Fasci di combattimento a Milano, su «Il popolo pistoiese» – giornale dei liberali e presto fiancheggiatore del fascismo – sosteneva il suo credo nella «potenza creativa dell’azione che afferra l’essere in via di formazione e che la violenza generi uno stato epico ed eroico. […] Se i governi non risolveranno gli ardui problemi che stanno oggi sul tappeto della storia, se non li risolveranno nel modo più equo e giusto per tutti e segnatamente per le classi lavoratrici, allora sarà giunto il momento di passare all’azione diretta. Ma vedete: allora, voi che oggi vi scalmanate tanto, sareste i primi a far contro ai rivoluzionari e a scappare a gambe levate!»

Questo fascismo, dai caratteri reducistici e rivoluzionari, compiva alcune iniziali e sporadiche azioni nell’ottobre-novembre del 1920. La prima notizia certa della presenza di un fascismo organizzato a Pistoia arrivò subito dopo e sottotono, in un trafiletto su «Il popolo pistoiese» del 25 dicembre che riportava l’invito del Fascio di combattimento, in occasione della commemorazione di Oberdan, ad esporre il vessillo nazionale, preoccupandosi comunque di ricordare che nel comizio avvenuto alla Fratellanza Artigiana non erano avvenuti incidenti.

Come altrove, i fascisti fiorentini non tardarono a fornire il loro appoggio strutturato al nascente squadrismo pistoiese. Il 7 gennaio 1921 si diffondeva un primo allarme che preannunciava l’arrivo di una spedizione da fuori, secondo una prassi tipica delle azioni squadristiche, mentre «Il popolo pistoiese» rassicurava sulle buone intenzioni dei fascisti pistoiesi, non interessati a creare disordini ma pronti a «rintuzzare le provocazioni con coraggio e di rispondere alla violenza con la violenza». La spedizione del 7 alla fine non avvenne, ma nel mese di gennaio i fascisti provocavano una rissa nella zona vicina di Pieve a Nievole, in direzione di Lucca, e due bombe scoppiavano, una in città e una sulla linea ferroviaria Porrettana.
Il 22 gennaio infine si costituiva ufficialmente il Fascio  pistoiese. Un mese dopo, il 20 febbraio, arrivava il battesimo del fuoco. La Camera del Lavoro pistoiese aveva organizzato un comizio in piazza Garibaldi, a cui doveva parlare il segretario Onorato Damen. Rincalzati da una quarantina di fascisti fiorentini e da altri provenienti da Monsummano e Pescia, gli squadristi pistoiesi radunarono un centinaio di uomini con l’intento di recarsi in piazza, chiedere un contraddittorio per interrompere il comizio e provocare incidenti. La forza pubblica in questa prima occasione fece il suo dovere impedendo ai fascisti di raggiungere la piazza, che comunque si spopolò alla vista delle squadre nelle vicinanze. Alla fine della manifestazione i fascisti, con il consenso della autorità, si impossessarono simbolicamente del palco, tennero un comizio e poi sfilarono in corteo nel centro cittadino cantando i loro inni. La messa in scena scenografica tipica della conquista del territorio veniva messa in pratica nonostante in quella prima occasione fosse mancata la forza di arrivare a uno scontro diretto. Tuttavia, prima di ritirarsi, gli squadristi raggiunsero in treno Corbezzi, provocando tafferugli nelle stazioni attraversate lungo il tragitto. Nel paese di montagna si procedeva alla bastonatura dei “sovversivi” per poi tornare a piedi verso la città, con i trofei presi agli avversari e continuando a provocare incidenti nelle frazioni di Valdibrana e Capostrada, dove i fascisti spararono anche alcuni colpi di rivoltella. In ultimo, prima di rientrare a Firenze, gli squadristi fiorentini attaccarono i ferrovieri socialisti nella stazione del capoluogo.

La prima spedizione era compiuta, il Fascio costituito e radicato, il morale elevato. Iniziava l’epoca della violenza squadrista organizzata a Pistoia.

 

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




La profuganza tra I e II guerra mondiale

Il Novecento, il secolo caratterizzato da due conflitti mondiali che, nell’arco di 30 anni, sconvolsero le nazioni e le popolazioni europee, fu anche il secolo della profuganza, dal momento che le guerre causarono importanti trasferimenti di civili che interessarono tutta l’Europa.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, infatti, si verificò un immane spostamento di popolazioni che furono costrette dai Trattati di pace e dalle conseguenti ridefinizioni dei confini ad abbandonare i propri territori, per reintegrarsi in altri paesi. Dal Confine orientale, dall’Istria in particolare, giunsero in Italia circa 300.000 esuli giuliano-dalmati che, tra il 1943 e la fine degli anni ’50, abbandonarono le località di origine per trovare accoglienza nel nostro paese.

 In fuga da Caporetto

In fuga da Caporetto

Non molti anni prima, al tempo della Grande Guerra, si era verificato un analogo allontanamento di uomini, ma soprattutto di donne e bambini, dai paesi che si trovavano lungo il confine nord-orientale, che separava il nostro Stato dall’Impero austro-ungarico. Vennero evacuati interi paesi posti in zona di guerra e le popolazioni furono spostate in Austria, se si trovavano a nord della linea di confine, o in Italia, se vivevano a sud.

La riflessione sulla profuganza e sull’esodo che hanno caratterizzato la I e la II Guerra mondiale apre uno spaccato sul dolore di un popolo costretto a provare sentimenti quali l’abbandono, lo spaesamento, il traumatico distacco da ciò che aveva caratterizzato fino a poco tempo prima il loro vivere quotidiano. Tale riflessione ci permette di cogliere analogie e differenze tra le due esperienze.

Le zone interessate dai due esodi sono in parte le stesse: è dal Confine orientale, in particolare dall’Istria, che a partire dal 1943 iniziò l’esodo dei giuliano-dalmati, mentre il I Conflitto mondiale, con la sua guerra di trincea combattuta lungo tutto il confine nord-orientale, coinvolse nella profuganza, oltre al Friuli, anche il Veneto e il Trentino.

Ciò che fece realmente la differenza, oltre ai numeri (più di 600.000 profughi quelli della I Guerra mondiale, circa 300.000 gli esuli della II), furono le motivazioni che portarono migliaia di persone in Italia come luogo.

Nel corso della Grande Guerra le evacuazioni dai territori interessati dal conflitto furono predisposte dalle autorità italiane e da quelle austriache per motivi legati alla sicurezza delle popolazioni, ma anche per la necessità di garantire ai comandi militari libertà d’azione, nonché per la diffidenza nei confronti dei civili. Se da parte italiana si temeva il lealismo degli abitanti della Venezia Giulia nei confronti della monarchia asburgica, da parte austriaca si temevano i sentimenti filoitaliani di buona parte della popolazione.

Profughe, loro malgrado, queste popolazioni furono indirizzate e accolte in molte città italiane, da cui ripartirono alla fine della guerra per ritornare nelle loro terre di origine.

Diverso l’esodo che si verificò, a partire dal 1943, dalle terre poste al Confine orientale.

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947 © Archivio Storico della Città di Torino

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947
© Archivio Storico della Città di Torino

In questo caso la popolazione non dovette rispondere a nessun decreto di espulsione o a nessun piano di evacuazione che la costringesse a lasciare Pola, Trieste e le altre città dell’Istria. La guerra, in queste terre, generò violenze inaudite, nate e perpetrate all’interno delle stesse comunità in cui convivevano da anni italiani e slavi. Gli infoibamenti del 1943 e soprattutto quelli del 1945, dopo l’arrivo dell’esercito di Tito, caratterizzarono un periodo in cui venne applicata su vasta scala la pratica del terrore, volta a cancellare ogni traccia della presenza istituzionale italiana sul territorio.

Ebbero così inizio i primi esodi di massa da Fiume, a cui fece seguito l’esodo dei quasi 30.000 abitanti di Pola. Anche in questo caso la meta immediata degli esuli fu l’Italia, ma non sempre il loro inserimento nelle nuove realtà fu possibile da realizzarsi con la necessaria serenità, a causa anche delle condizioni materiali del nostro paese, devastato in ogni senso dal conflitto appena terminato.

Un filo rosso congiunge la I e la II Guerra mondiale, attraverso questo fenomeno della profuganza/esodo.

Fu con la Grande guerra, infatti, che città come Gorizia, Trieste, Fiume e tutta l’Istria entrarono a far parte del Regno d’Italia e con esse una pluralità di popoli, lingue, culture e religioni. Fu il fascismo che, con la sua politica deslavizzante e fortemente nazionalizzatrice, approfondì la frattura tra l’elemento slavo e quello italiano. Fu la seconda guerra mondiale, con il gioco delle varie ingerenze politiche che si svolse a fine guerra sulla zona del Confine orientale, che portò agli estremi una ormai insanabile frattura che causò, come risposta alla politica slava decisamente anti-italiana, l’esodo di migliaia di italiani che abbandonarono le loro terre e tutti i loro beni per affermare la propria italianità.

Pochi di questi esuli tornarono nelle loro terre, loro italiani non potevano e non volevano riconoscersi nella Jugoslavia di Tito che, così come il fascismo nei confronti degli slavi anni prima, aveva fatto propria una politica di intolleranza nei confronti dell’elemento italiano.

Profughi, dunque, quelli della I Guerra mondiale, costretti da decisioni militari a lasciare le loro terre a cui fecero poi ritorno.

Esuli quelli della II Guerra mondiale, liberi di rimanere nelle terre di origine a costo della privazione della loro italianità e che per scelta esercitarono il diritto di opzione. Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva infatti il ricorso al diritto di opzione: optare significò scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significò di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significò in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo, per non tornare più nelle loro terre.