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Ferdinando Targetti amministratore, antifascista, padre costituente

Nella serata di lunedì 22 marzo, con la collaborazione della Biblioteca Roncioniana di Prato e nell’ambito della Festa della Toscana, si è tenuto su piattaforma meet l’incontro “Ferdinando Targetti amministratore, antifascista e padre costituente“, dedicato al primo sindaco socialista di Prato (1912-1914). In quell’occasione Andrea Giaconi (vicepresidente del Coordinamento toscano dei Comitati per la promozione dei valori risorgimentali) ha intervistato Alessandro Affortunati (membro dell’omonimo Comitato pratese ed autore di vari contributi su Targetti, di cui ha redatto anche la voce relativa del Dizionario biografico degli italiani). L’intervista ha inteso ripercorrere i passi salienti della vita e dell’opera del politico socialista. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

Targetti proviene da una famiglia dell’alto ceto industriale pratese. Però aderì giovanissimo al Partito socialista. È possibile spiegare questa scelta ed in che misura essa può essere considerata anche più coerente di tante altre?

Sì, suo padre, Lodovico, era un grosso industriale laniero, uno dei fratelli, Raimondo, sarà sindaco liberale di Prato all’epoca del regicidio e, fra il 1922 ed il 1923, presidente della Confindustria. Ferdinando, invece, mostrò subito di non condividere i valori tipici dell’alta borghesia e si iscrisse al Partito socialista nel 1899, a diciotto anni, subito dopo i fatti di Milano. È probabile che le cannonate di Bava Beccaris non fossero estranee alla sua maturazione politica, ma le ragioni precise della sua scelta non si conoscono.

Forse, come talora accade, giocarono un ruolo anche fattori psicologici (il sottoscritto, ad esempio, si è orientato precocemente a sinistra anche perché, da bambino, il nonno paterno gli aveva raccontato della “domenica di sangue” di San Pietroburgo, nel 1905, delle povera gente presa a fucilate dalla truppa).

Certo è che Targetti fu davvero coerente con la  decisione presa: ne è prova il fatto che cedette la sua quota in ditta al fratello Gino, vivendo solo con i proventi della  professione di avvocato.

Targetti fu il primo sindaco socialista di Prato nel 1912, in un clima che, a livello di storia amministrativa era fatto (ce lo insegna Guido Melis) di revisione dei conti degli enti locali, di storno dei contributi per le spese degli organi centrali, di accantonamento delle opere di beneficenza e di delega alle associazioni di volontariato. In tal contesto, quali furono i suoi principali provvedimenti?

Targetti seguì un principio molto chiaro: ciò che gli premeva – ebbe a dire – era difendere gli interessi delle classi più deboli, nella convinzione che ciò equivalesse a fare del socialismo. Alla luce di questo principio-guida, la sua giunta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa.

Fra i provvedimenti varati, sono da ricordare almeno l’apertura di uno spaccio comunale, dove si vendeva il pane a prezzo calmierato, l’istituzione di un ufficio che, tra l’altro, esercitava anche funzioni di sorveglianza sui prezzi dei generi di prima necessità e l’approvazione di un progetto per la costruzione di blocchi di case popolari.

L’amministrazione Targetti termina alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1919 Targetti è eletto alla Camera dei deputati e nel 1920 diviene assessore nel Comune di cui era stato sindaco. Sono però anni in cui la violenza politica di matrice fascista sconvolge la quotidianità della vita civile (basti ricordare che nella sola Toscana sono concentrati un quinto di tutti gli atti di brutalità squadrista prima della Marcia: l’omicidio Lavagnini, i fatti di Roccastrada, la spedizione su Prato e Vaiano) Come reagì Targetti a questi tristi eventi?

Targetti fu risolutamente antifascista e non si fece intimorire dalle minacce: basti pensare che nel 1922 rifiutò di dare le dimissioni dalla carica di assessore nella giunta socialista presieduta da Giocondo Papi.

I fascisti lo odiavano e nel 1925 scampò alla “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3-4 ottobre 1925) solo perché fuori città: non avendolo trovato in casa, gli squadristi spararono ai suoi vestiti appesi nell’armadio, in segno di macabra rappresaglia.

Trasferitosi a Milano si impegnò nell’attività clandestina entrando a far parte del Gruppo Erba, che era in contatto col Centro socialista interno. Difese inoltre numerosi antifascisti e, nel processo contro gli assassini di Matteotti, rappresentò la famiglia come avvocato di parte civile.

Dopo l’8 settembre, dovette riparare in Svizzera, dove raccolse fondi a sostegno dell’opposizione in Italia, tenne conferenze e collaborò a varie testate antifasciste (la Libera stampa, del Partito socialista ticinese, e la Voce socialista, giornale clandestino dei socialisti italiani nella Confederazione).

Targetti appartenne ad un partito, quello socialista, che qualche storico ha definito “inquieto”, soggetto ad una dialettica aspra e profonda sino alle vicendevoli fratture. Lo stesso Targetti attraversò durante la sua carriera politica le esperienze del PSU e dello PSIUP. Esperienze che visse come conseguenza di momenti drammatici per il socialismo. La prima si colloca nel periodo della salita al potere del fascismo. Quale fu la sua posizione all’interno del PSU?

Targetti si schierò subito a fianco di Matteotti, sostenendo la necessità della più recisa opposizione al fascismo, mentre un gruppo che faceva capo ai leader confederali riteneva possibile una “costituzionalizzazione” del fascismo stesso ed era quindi disposto ad una qualche forma di collaborazione col regime. Targetti, invece, non si fece mai nessuna illusione al riguardo.

Prima di passare al ruolo svolto nello PSIUP, è bene ricordare che Targetti fu anche un membro importante dell’Assemblea costituente e, per lungo tempo, vicepresidente della Camera dei deputati. Quali furono i suoi interventi più importanti alla Costituente?

In estrema sintesi, si può dire che Targetti sostenne la necessità di una costituzione “breve” (che fissasse cioè solo alcuni principi generali da attuarsi poi con leggi ordinarie), fu a favore delle regioni (memore dei guasti prodotti dal centralismo in Italia) e di una larga indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello stato.

Voglio poi ricordare che nel 1953 si dimise clamorosamente dalla carica di vicepresidente della Camera in segno di protesta contro la “legge truffa”, che violava il principio costituzionale dell’uguaglianza del voto, attribuendo di fatto un “peso” maggiore ai voti degli elettori delle liste apparentate.

Infine, perché decise di entrare nello PSIUP? E qual è la sua eredità come socialista?

Negli anni della seconda guerra mondiale Targetti aveva maturato il convincimento che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai suoi privilegi e che l’unità proletaria, cioè la più stretta unità d’azione fra socialisti e comunisti, fosse la condizione indispensabile per la difesa della democrazia, degli interessi dei lavoratori e per la realizzazione di riforme di struttura che facessero avanzare il Paese verso il socialismo.

L’alleanza del PSI con la DC, che comportava ovviamente la divisione a sinistra, la rottura con i comunisti, gli parve quindi inaccettabile, gli sembrò un passo che avrebbe finito con lo snaturare il PSI, riducendolo al ruolo di caudatario della DC al pari degli altri partiti di centro. Le ragioni della sua opposizione all’ingresso dei socialisti in un governo di centrosinistra organico e, quindi, della sua adesione allo PSIUP nel 1964 furono queste.

Quanto all’ultima parte della tua domanda, direi che la risposta ce la fornisce la biografia di Targetti stesso, cioè la biografia di uomo che ha lottato contro la dittatura, difendendo sempre la democrazia e gli interessi dei lavoratori nel segno di un socialismo non edulcorato.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




“Caro Ilio…”. Barontini nelle lettere di “raccomandazione” dei “compagni”

Nella carte dell’ex Federazione del Partito comunista di Livorno, custodite presso l’archivio dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea (Istoreco), c’è un fascicolo pieno di lettere scritte da comuni cittadini a Ilio Barontini (qui un profilo biografico). E’ un fascicolo di una certa consistenza. Si tratta infatti di settantatre lettere inviate all’attenzione di Ilio. Sin dall’incipit compaiono delle differenze tra gli scriventi. Ci sono quelli che iniziano la lettera, appellandosi all’ ”Onorevole” o “all’Onorevole senatore”; ci sono quelli che si appellano al “caro compagno”; ce ne sono alcuni che scrivono semplicemente: “Caro Ilio”. Talvolta incontriamo chi gli pone con molta  bonomia e ingenuità, se vogliamo, il problema che scrivendo si è posto: “Come bisogna interpellare Ilio Barontini, senatore della Repubblica, con il tu perché lo conosciamo e perché siamo compagni uniti dallo stesso ideale, con il lei o con il voi?”[1]

Cosa chiedono e cosa raccontano queste lettere? Perché sono due cose diverse: una problematica è collegata a ciò che chiedono, e un’altra è ciò che raccontano a noi che siamo lontani da quel periodo, oltre 70 anni, poiché le lettere partono dal 1944 e arrivano al 1950, cioè alla vigilia della morte dello stesso Barontini, avvenuta per un incidente stradale a Scandicci nel gennaio 1951.[2]

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Per prima cosa proviamo  a guardare in modo analitico a questo carteggio. I diversi mittenti che in maggioranza sono uomini anche se non mancano le donne, presenti in tredici casi, scrivono più spesso a penna che con una macchina da scrivere. Essere compilate a mano è una scelta ovvia: la macchina da scrivere era un lusso di pochi, pochissimi, e ancora più piccolo era il numero di coloro che sapevano utilizzarla.  Non solo per ragioni di reddito ma anche per problemi legati al livello, assai scarso di alfabetizzazione. Sono spesso vergate su carta non deputata, fogli di quaderno e poco più. Erano nella stragrande maggioranza persone semplici che scrivevano con testi profondamente sgrammaticati, con calligrafie improbabili, tipiche di chi non era abituato a tenere la penna in mano. La prosa, l’espressione comunicativa era comunque una prosa diretta, senza giri di parole, immediata.

Scrivevano per chiedere sostegno per le più diverse cause, anche se poi tutte le motivazioni sono raggruppabili ad uno stato di bisogno profondo. Lo scopo di aiuto invece che predomina è quello relativo al riconoscimento di una pensione. Si ragiona intorno a richieste inevase per pensioni di guerra (padre o marito morto ucciso dai tedeschi, figlio o marito invalido a causa di una bomba e simili) già inoltrate da molto tempo, talvolta da oltre due anni, tre, e non ancora arrivate in porto. Tutti gli scriventi denunciano una grandissima difficoltà economica e spesso anche la mancanza di un tetto sul capo. Talvolta sono richieste di consiglio e di aiuto per ottenere pensioni da lavoro, soprattutto pensioni per le attività lavorative svolte in Francia, soprattutto in Corsica e a Marsiglia, luoghi dove Barontini era stato a lungo presente come fuoriuscito, e chi domanda è evidentemente convinto che Barontini possa intervenire con efficacia. Sicuramente Ilio aveva conosciuto direttamente la realtà di quei contesti, e la durezza del lavoro in terra straniera come emigrante, poiché anche se la sua emigrazione fu sempre e solo politica, con incarichi speciali dalla direzione del Partito comunista, certo non poteva essergli sfuggita la dura realtà di tutti quegli emigrati che univano nella loro condizione, sia la difficoltà dell’emigrato sospetto alla forze dell’ordine, che quella del disoccupato, che cercava di entrare nel mercato del lavoro per sopravvivere.

Spesso l’aiuto per lavorare, guarda alla città labronica, ma talvolta la domanda rinvia anche ad altri centri della regione. Sono abbastanza presenti i comuni dell’isola d’Elba, ma compaiono anche luoghi lontani da Livorno come: Giulianuova, Sondalo, Bologna, Firenze, Roma, Modena, Volterra, Reggello, Cecina, Montescudaio etc. In quel lontano e pesantissimo secondo dopoguerra, a causa delle immani distruzioni belliche molti non hanno più trovato la possibilità di rientrare là dove lavoravano prima del 1940 e adesso cercano in Barontini un appoggio. Le richieste che si avanzano sono quasi tutte modeste. Si domanda lavoro come operai, come boscaioli nei cantieri di rimboschimento, come edili e poco più. Solo in alcuni casi, adducendo la maggiore istruzione che si può mettere in gioco, si chiede di fare l’impiegato, talvolta l’impiegato bancario e,  solo in un caso, questa richiesta è avanzata con un tono di aperta arroganza.

Ma ci sono anche domande di aiuto per ottenere la liquidazione di un credito da parte degli Americani che hanno prelevato da un magazzino–deposito, diverse tonnellate di carbone e poi hanno lasciato il debito insoluto. Un altro piccolo gruppo di missive riguarda un gruppo di militanti malati e ricoverati in un ospedale ortopedico di Bologna, il Putti, dove Barontini ogni tanto si recava in visita perché era diventato un istituto di assistenza per molti ex partigiani.

Lettera

Una delle lettere a Barontini conservate nell’Archivio Istoreco

Ci sono anche alune lettere di ex combattenti che desiderano il riconoscimento di una pensione, e poi incontriamo la richiesta di una donna, Simoncini Silvana, che desidera l’attribuzione della qualifica di partigiana combattente[3]. Una lettera importante anche per la sua eccezionalità. Come sappiamo dalla storiografia e dalle memorie, furono pochissime le donne che, pur avendo combattutto nei gruppi combattenti, chiesero poi di veder riconosciuto il loro impegno.

Un altro gruppo riguarda alcuni disoccupati delle Ferrovie dello Stato, licenziati per motivi politici per gli scioperi del 1920 e del 1921, che chiedono il reintegro o l’adeguamento della pensione[4]. Come possiamo comprendere una varietà significativa di contenuti, tutti contrassegnati però da un bisogno materiale che è anche la testimonianza di una ingiustizia sociale.

Al di là dell’oggetto della lettera è evidente la minore presenza di richieste provenienti dalla città labronica. Questo significa soltanto che i livornesi preferivano avere un colloquio diretto con Barontini poiché il senatore era spesso in città e non era difficile raggiungerlo in Federazione dove svolgeva con assiduità e autorità il compito di segretario. Egli era sì un grandissimo personaggio, che fra i militanti del suo partito emanava certamente ammirazione, rispetto, qualche volta anche timore, ma non agiva sui suoi interlocutori con la forza del mito. Era percepito, soprattutto dagli uomini e dalle donne della sinistra di Livorno, come “uno dei loro”, burbero quanto si voglia, ma diretto e senza atteggiamenti altezzosi.

Fra le altre c’è una lettera particolarmente commovente nella sua ingenuità. È stata scritta da una donna, De Santis Anna che, dal sanatorio di Villa Corridi a nome suo e anche dell’amica, Gina Freschi, scrive chiedendo del denaro:

[…] Siamo due ragazze molto giovani, che ci ha condotto in questo sanatorio di Livorno che ci ha colpito un male che non perdona, siamo orfane di padre e di madre e non abbiamo nessuno che ci aiuti… abbiamo tanto bisogno, che siamo veramente scalze di tutto, specialmente ora che siamo giunte all’inverno non abbiamo niente da coprirci…. Che siamo anche noi compagne. Il numero della tessera è 1064929. [5]

L’amica è di Roma anche lei è tesserata  al Pci ma ha lasciato a casa la tessera e la scrivente non può quindi indicare il numero a riprova della sua fede politica.

Accanto ad una missiva così diretta e semplice, la più semplice dell’intero deposito, ce n’è una che possiamo definire curiosa. Il mittente chiede al senatore comunista di parlare con Scelba perché vorrebbe entrare in Polizia.[6] Forse gli era sfuggito il clima della guerra fredda o riteneva Barontini capace di fare miracoli!

Ma cosa ci raccontano sulla vita, l’esistenza dei singoli, le condizioni di lavoro queste lettere? Molto anche senza darlo ad intendere, direi come un effetto secondario e quasi superfluo per il mittente e il destinatario di allora che condividevano lo stesso contesto di riferimento, ma non per noi, lettori di oggi, che, attraverso queste scritture, veniamo avvolti dalla durezza degli anni postbellici.

Il primo dato che emerge, forse anche un po’ scontato per chi si occupa regolarmente di storia, è la condizione di grande precarietà che attanagliava le famiglie italiane, sia sul piano delle abitazioni, ancora in gran parte distrutte, che su quello della possibilità di trovare un salario anche solo per la mera sopravvivenza fisica dentro quel presente. A riprova, ricordiamo che da una di queste missive, proveniente da Firenze, datata 1950, nella quale prende la parola un livornese. Costui, costretto per ordine dei tedeschi, allo sfollamento dal 13 novembre 1943, si trova ancora, dopo 7 anni, lontano da Livorno e non sa dove sbattere il capo. Dichiara fra l’altro che gli è terminata l’erogazione del sussidio per gli sfollati pari a £ 125, e senza quel piccolo aiuto, adesso è caduto in una condizione di prastrazione gravissima, senza casa, senza lavoro, senza sostegno alcuno.[7]

Questa lettera e molte altre simili, del deposito archivistico sul quale ragioniamo, ci racconta anche la farraginosità della macchina burocratica nazionale. Ricordiamoci che si trattava di una macchina organizzata dal fascismo – che ancora a distanza di 5 anni dalla fine del conflitto, così come non era riuscita ad attribuire la sacrosanta pensione alle vittime della guerra, aveva cominciato solo da poco una ricostruzione lenta e a macchia di leopardo e dal punto di vista complessivo si carretterizzava per una continuità significativa con il passato regime.[8]

Cantina Togliatti2

Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ma ci raccontano ancora di più e meglio. Ci raccontano la pesantezza del clima della ricostruzione dove accanto alla gioia per la fine del conflitto, la fine dei bombardamenti, va accostata la disperazione per la perdita della casa, la ricerca di un impiego là dove non si intravedevano possibilità a portata di mano perché non solo il tessuto urbano era andato distrutto ma anche le fabbriche, le officine, i porti, erano saltati in aria e, noi che scriviamo adesso, sappiamo che molte di queste attività lavorative mai più riprenderanno.

Ecco allora ecco la reiterata richiesta di partecipare ai cantieri di rimboschimento che furono un modo neppure troppo larvatamente assistenziale, ma assolutamente giustificato, di togliere disoccupati dalle strade. Ricordo che lo stesso Piano del Lavoro della Cgil[9] che voleva indicare verso quali attività indirizzare la ricostruzione, e che sottointendeva un progetto ponderato ed articolato, dall’altra parte però cercava e, in parte riuscì, a far partire una serie di attività lavorative – oggi si direbbero lavori socialmente utili – che tamponavano la disoccupazione dilagante, appesantita fra l’altro dal blocco dei salari. Così come il Piano Casa, cosiddetto Piano Fanfani[10], aveva come primo scopo esplicito la lotta alla disoccupazione.

Ma queste lettere ci dicono qualcosa di più soprattutto sull’etica di quelli che scrivevano. Queste persone, uomini e donne cercavano una risposta, una solidarietà, più che un appoggio clientelare rivolgendosi al proprio rappresentante politico di più alto grado, a quel politico che era così diverso da loro, inviato a rappresentarli in Parlamento e nell’Assemblea Costituente, ma così vicino alla loro comunità di appartenenza da potergli scrivere e “aprirgli il cuore”. Non si facevano richieste illegittime, non si chiedevano privilegi. Chiedevano di lavorare e lo facevano tramite il rappresentante locale del Partito più importante del mondo del lavoro di allora, il primo partito della città di Livorno, il Partito comunista italiano. Scrivevano sicuri che Ilio avrebbe preso nota, che avrebbe fatto direttamente o indirettamente qualcosa, e questo era anche confermato dalle stesse missive perché spesso i mittenti ritornavano sulla loro richiesta per ringraziare, per informare Barontini che qualcosa si era mosso, qualcosa si era risolto. Barontini veniva visto, cosa che oggi pare davvero lontana anni luce dalla realtà odierna – un politico non solo vicino alle persone, ma lui stesso persona in mezzo ad una massa di uomini che si ritenevano solidali per idee, per obiettivi, per percorsi di vita. Barontini era il loro migliore rappresentante, quello che si era evidenziato di più, che era salito più in alto, ma per coerenza, per coraggio, per intelligenza, senza camarille di potere, senza giochi di corrente, a  testa alta, e spesso anche controcorrente tra i suoi, e questo lo rendeva ancora più forte e più autorevole agli occhi dei militanti di base. Questi testi ci documentano anche come Barontini ebbe effettivamente una capacità di ascolto adatta a quei singoli ed umili mittenti, così come seppe ascoltare, in altri contesti, altri leaders, anche internazionali, rimanendo fedele a sé stesso e alla sua storia.

E in questo nostro presente, ci raccontano che un altro rapporto con la politica è possibile, sia dalla parte dei rappresentanti che dalla parte dei rappresentati. La storia non si ripete mai e neppure è abituata a progredire, ma è anche vero che potremmo provare con modalità diverse, adatte ai nostri tempi, a ricostruire perlomeno qualcosa di simile, ad avere fiducia negli eletti, a pretendere una selezione adeguata dei medesimi. Occorre però il coinvolgimento di tutti, che tutti si ritorni ad essere più soggetti partecipi e meno telespettatori.

 [1] Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Sottofascicolo di “Barontini Pci”: Raccomandazioni Lettera di Alberto De Pasquale dell’8 febbraio 1950, dal Cavo (Elba)

[2] Ilio Barontini (Cecina 1890-Scandicci 1950).

[3]Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Fascicolo Lettere a Barontini. Lettera del 29 maggio 1949 di Simoncini Bigongiari Silvana da Pisa.

[4] Ibidem. Si tratta di Ciurli Gino, Vaselli, Scappini di Empoli, il padre di Mario Piselli da Roma, Stefani Oreste, Luigi Guarnelfi da Roma, Modesti Arno di Montescudaio. Tutte lettere collocate tra il maggio 1948 e il luglio 1950.

[5] Ibidem. Lettera scritta a Livorno il 5 dicembre 1950. Scritta a mano e appellandosi a Barontini con: “all’onorevole”

[6] Ibidem. Lettera del 27 giugno 1950, da Giulianuova a firma di Santucci Vincenzo.

[7] Ibidem. Lettera del 28 maggio 1950 di Oscar Benedetti.

[8] Cfr. Claudio Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

[9] Fabrizio Loreto, Storia della Cgil. Dalle origini ad oggi, Ediesse, Roma, 2009.

[10] La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa el’Italia degli anni ’50 ( a cura di Paola Di Biagi), Donzelli, Roma, 2001

 




Lungo l’aspra via dell’idea

A Livorno!
Ancora una tappa. È necessario. Lungo l’aspra via dell’Idea ogni tanto ci fermiamo, raccogliamo le forze, le passiamo in rassegna, ci volgiamo indietro, la guardiamo intorno e davanti, vicino e dietro.
Qualcuno stanco per l’asperità del terreno si ferma e ritorna, gli altri riprendono la marcia in file serrate che si ingrossano sempre di più strada facendo.

Così, il 4 gennaio 1921, «L’Avvenire» salutava il congresso di Livorno, dove, più divisi che mai, i socialisti erano chiamati a votare l’adesione alle 21 condizioni poste per l’ingresso nella Terza Internazionale. Organo della federazione circondariale socialista e dotato di una storia ultratrentennale, il settimanale era allora gestito dalla corrente maggioritaria nel partito: quei “socialisti massimalisti” che, rappresentati dal direttore de «L’Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, avevano inizialmente guardato con favore sia al ruolo guida della Russia rivoluzionaria sia alla Terza Internazionale.

Molti erano però i motivi che stavano incrinando gli entusiasmi. La disgregazione dei partiti socialisti francesi e tedeschi suscitava analoghe paure per il partito italiano; decisivi erano stati anche i dubbi sulla possibilità di organizzare una rivoluzione in breve tempo, esibiti dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Soprattutto il mancato appoggio dei massimalisti scavò un fossato profondo tra di loro e le frange più radicali: il gruppo torinese di «Ordine Nuovo» (rappresentato da Gramsci, Terracini e Togliatti), gli “astensionisti” campani di Amedeo Bordiga e l’eterogenea «terza componente» tosco-emiliana.

Se dal panorama nazionale spostiamo lo sguardo su quello pistoiese poco netta fu, a questo proposito, la posizione de «L’Avvenire», impegnato in quanto organo ufficiale del PSI locale a giostrarsi tra le sue litigiose correnti. Confusa era anche la situazione politica locale: nel 1919 la giunta clerico-moderata di Arrigo Tesi era stata commissariata per irregolarità nella gestione dei magazzini comunali e venne destituita. Tra il maggio e giugno  1919 erano stati organizzati numerosi scioperi tra i lavoratori dell’industria; il 4 luglio, durante la manifestazione contro il caro-vita, un esasperato gruppo di lavoratori assaltò il centrale Emporio Lavarini.

Come il direttivo nazionale, anche quello del PSI locale era discorde sulla linea da adottare. Buona parte della rivista – gestita allora da Pietro Querci – e del gruppo dirigente pistoiese era legata ai serratiani. A Capostrada forti erano i bordighiani, mentre in montagna il punto di riferimento era Savonarola Signori, sindacalista di simpatie ordinoviste e sindaco di San Marcello tra 1921 e 1922. Roccaforte dei riformisti era invece la Camera del Lavoro, presieduta da Alberto Argentieri.

Se l’editoriale A Livorno!, auspicava sì una scissione, ma a destra, i comunisti erano infatti favorevoli a creare un partito autonomo. Tra questi figurava l’autore de I comunisti al congresso di Livorno (pubblicato il 15 gennaio 1921), ON-DA:

Credo – scriveva infatti – che la frazione comunista, già a [sic] Partito Politico vibrante di vita e di fede, a Livorno debba iniziare la sua battaglia, non nell’orbita del passato, ma lontano da questo per un principio di purezza e di vitalità.

Ugualmente orientata verso la scissione a sinistra era la corrente riformista. Nel suo editoriale Da Genova a Livorno (pubblicato il 22 gennaio) V., nel ricordare le precedenti scissioni (quella degli anarco-sindacalisti, negli anni ’90; dei sindacalisti rivoluzionari, nel 1904; della minoranza favorevole all’intervento nella guerra italo-turca, nel 1912), bollava quella futura «una dolorosa ineluttabilità».

L’esito del congresso minò il complesso equilibrio del PSI pistoiese. La mancata adesione alla Terza Internazionale – che li rigettava a favore del PCd’I – contrastava con gli entusiasmi per la Rivoluzione russa e la convinzione di essere il partito più radicale dell’Europa occidentale. Con la scissione acquistavano un peso maggiore i riformisti e la CGL. Per di più, entro pochi mesi dal congresso, gli iscritti alle singole federazioni dovevano decidere se restare nel PSI o migrare nel PCd’I: scarsa era quindi la consapevolezza di quali strutture sarebbero rimaste ai socialisti.

Questo disorientamento ben emerse nel primo editoriale sull’argomento il 19 febbraio 1921. «Il Congresso della Terza Internazionale»,

non potrà nulla addebitare al nostro Partito Socialista Italiano, il più puro, il più intransigente partito socialista del mondo e finirà col conservarci nei ranghi, perché tenemmo e terremo il nostro posto con onore.

Fu questa una convinzione che venne ribadita anche nei mesi successivi, quando il voto del 10 marzo tra gli associati pistoiesi sancì il passaggio della sede e del settimanale al Pcd’I. Mentre con il numero 19 marzo «L’Avvenire» diventava l’“Organo della Federazione circondariale comunista”, gli esuli socialisti confluivano ne «L’Avvenire socialista», che ancora il 12 marzo ribadiva la vicinanza tra socialisti e comunisti:

I proletari che amano la causa rivoluzionaria non possono voler la divisione del Proletariato, sia pure nel solo campo politico. L’unione fa la forza!

Una condivisione messa fortemente in dubbio dall’altro elemento della diade. «Il partito socialista» chiosavano infatti i comunisti sul primo numero de «L’Avvenire»

prima e durante la guerra non à [sic] dimostrato chiaramente di possedere qualità rivoluzionarie […]. Il dopoguerra à [sic] poi lumeggiato tutta l’impotenza rivoluzionaria di questo partito […]. Ed allora come si fa a chiamare ancora rivoluzionario questo partito socialista?

 




Note di Memoria: il pianoforte di Maria Einstein

Il suono del pianoforte Blüthner è la colonna sonora armoniosa della casa colonica di Quinto, borgo alle porte di Firenze sulla strada di Sesto fiorentino, dove vivono i coniugi Paul e Maria Winteler, sorella di Albert Einstein. Proprio il noto scienziato le ha fatto dono del prezioso strumento musicale nel 1931, conoscendone bene l’intesa passione per la musica che, peraltro, condivide. Nonostante la lontananza fisica i due Einstein (lui in Germania, lei in Italia) sono infatti profondamente legati ed Albert non esita a sostenere ed aiutare la sorella nella vita semplice scelta per amore del suo Paul, avvocato svizzero, “ritirandosi” nella campagna fiorentina. Arte e cultura riempiono le giornate dei coniugi, lui dedito alla pittura lei alla musica, che allietano così i loro ospiti a partire da Albert nelle sue visite e soprattutto Hans-Joachim Staude giovane pittore tedesco.

 Nei turbolenti anni Trenta, segnati dal crescente rimbombare di  inni e rumori di guerra, in un’Italia in camicia nera, inquadrata dal regime fascista, l’abitazione pare una “bolla”, impermeabile all’esterno, definita non a caso da Maja “Samos”, quasi fosse una’incantata isola greca sottratta al tempo e allo spazio reale.

Ma anche le bolle prima o poi esplodono. La prospettiva bellicista e la svolta razzista del razzismo rendono sempre difficile astrarsi dalle preoccupazioni del presente e, infine, impossibile la loro stessa permanenza. A seguito dell’entrata in vigore della legislazione razzista contro gli ebrei varata dal governo fascista nell’autunno del ‘38, gli ebrei stranieri che non abbiano contratto matrimonio con cittadini italiani devono lasciare il Regno entro il 12 marzo 1939. Per Maria non ci sono alternative. Per la sola colpa di essere ebrea deve lasciare il proprio “paradiso terrestre”. Sollecitata dal fratello Albert che, fortemente preoccupato dall’evoluzione della politica tedesca dopo l’avvento al potere di Hitler e del nazismo, già nel 1933 era rimasto negli Stati Uniti al termine di un soggiorno di studi, non tornando più in Germania, anche Maria si decide a raggiungerlo. Ma prima di partire si preoccupa di mettere in salvo il suo pianoforte. Lo strumento, assai prezioso, non può correre i rischi di un viaggio, né può essere lasciato all’incuria di una casa abbandonata. Decide così è di affidarne la custodia a Staude, l’amico più caro, che lo conserva presso il proprio studio-abitazione nel cuore di Firenze. Poi Maja deve abbandonare la sua isola e congedarsi anche dal marito che intende prima tornare in Svizzera, iniziando così un viaggio che non avrà ritorno.

Ma la scelta si rivela, anche inconsapevolmente, perfetta. Infatti, negli anni successivi, quando divampa la seconda guerra mondiale – e lo stesso Staude deve arruolarsi per combattere per il Reich suo malgrado -, e, dopo l’8 settembre 1943 – armistizio italiano – i nazisti occupano la penisola,  l’essere nell’appartamento di un cittadino “ariano” salva il prezioso strumento sia dalle mire di questi che da quelle dei fascisti che, sotto l’autorità della repubblica sociale italiana, si scatenano in una feroce caccia agli ebrei e ai loro beni.  Proprio i pianoforti, così come ogni strumento musicale, sono peraltro fra i beni più ambiti dai nazisti che hanno costituito un vero e proprio comitato di esperti per valutarli e spedirli nelle destinazioni più opportune, a partire da uffici ed abitazioni dei vertici del partito, dello Stato e degli stessi campi di concentramento. A Firenze in particolare gli uomini del maggiore Carità e un fitto reticolato di apparati di sicurezza e di “gente comune” si specializza delle denunce e nei saccheggi delle abitazioni di ebrei, catturati e condotti sui vagoni destinati ad Auschwitz. Li fronteggia la rete di protezione voluta dal cardinale Elia Dalla Costa e da esponenti della Comunità ebraica e delle forze antifasciste: una vera e propria resistenza civile che, con consapevolezza diversa da parte dei suoi protagonisti riafferma, nell’ora più buia, il valore universale della fraternità umana. Nell’ora dell’indicibile e delle scelte supreme che interpellano la coscienza di ciascuno, tace il pianoforte di Maja, non è il tempo dell’armonia, ma del dolore, delle grida e del pianto.

Ma il pianoforte si salva: supera il pericolo di furti e saccheggi e rimasto illeso anche dal drammatico passaggio del fronte che investe Firenze nell’estate del 1944, con la decisione dei nazisti di minare i ponti e parte del centro storico per fare della città una trincea sulla quale rallentare l’avanzata nemica. E nel dopoguerra, dal ritorno dalla prigionia britannica, Saude può così ritrovarlo e sedervisi per ascoltarne le armonie, anche se ormai da solo.

Oggi il suono del pianoforte di Maja, deceduta a Princeton presso il fratello nel 1951, risuonano ancora sulla collina di Arcetri, presso l’Osservatorio astrofisico, grazie auna scelta illuminata della famiglia Staude, restituendo anche a noi le sue note di incantevole armonia, messaggere di memorie tragiche, di vite spezzate, di grandi passioni e ideali civili, monito per il presente e il futuro.

Il libro di Valentina Alberici  Il pianoforte di Einstein guarda le stelle non solo svela i dettagli di questo esito sorprendente della vicenda del pianoforte, ma soprattutto, con agilità e delicatezza, ripercorre, attraverso la storia dello strumento, qui richiamata, le tragiche esperienze degli Einstein segnati dalle persecuzioni e dalle terribili violenze perpetrate negli anni del conflitto. Accanto a Maria, si delinea quindi la tragica storia di suo cugino Robert, con il quale erano frequenti i contatti, risiedendo con la famiglia prima a Firenze poi presso la Villa del Focardo dove ha il suo drammatico epilogo. Attenta a richiamare con puntualità e correttezza il contesto storico, l’autrice sa restituire con efficacia l’atmosfera della casa dei coniugi Winteler, evidenziando così tutto il valore e la forza universale dell’arte, superiore ad ogni prova, sia pur pagando prezzi altissimi. Una lezione e un monito validi per l’oggi, che rendono opportuna oltre che piacevole e interessante la lettura di questo piccolo racconto.




“Comunisti d’acciaio”

Giovani e giovanissimi, di un’età compresa fra i 18 e 25 anni, a formare una serie di nuclei in alcune località del territorio provinciale, soprattutto laddove più forte era il tradizionale insediamento socialista. Un unico punto di riferimento nazionale in Amedeo Bordiga (di Antonio Gramsci e dell’Ordine Nuovo, nel Senese nessuno aveva sentito parlare, o quasi). Forti motivazioni ideologiche per separarsi dal Psi. Una fede altrettanto robusta nella rivoluzione proletaria sul modello leninista. Una sostanziale incomprensione e sottovalutazione del fascismo montante, nonostante le evidenze della sua aggressività pagata spesso sulle proprie ossa. Infine, una presa elettorale minoritaria, ma non irrilevante (2.072 voti provinciali alle politiche del 1921, pari al 3,7%; percentuale confermata tre anni dopo alle politiche del 1924). Sono questi alcuni dei tratti del PCd’I della provincia di Siena ai suoi albori.
Fra le biografie dei primi iscritti, tratteggiamo di seguito quelle di Vittorio Bardini, Giovanni Guastalli e Pietro Borghi, nelle quali l’impegno politico attraverso i decenni della dittatura, fino alla Resistenza, lascia intuire l’importanza della fase fondativa del partito sulla formazione di uomini che, con una retorica riecheggiante il nome di Stalin, ma non priva di agganci alla realtà, sarebbero stati definiti “comunisti di acciaio”.
Vittorio Bardini era nato a Sovicille nel 1903. Figlio di muratore e muratore lui stesso, aderì alla gioventù socialista su posizioni massimaliste, passò al PCd’I subito dopo Livorno e divenne segretario provinciale dei giovani comunisti. Presente fra i 67 difensori della Casa del Popolo di Siena dall’assalto fascista avvenuto nel marzo 1921 con il sostegno delle forze di polizia, subì altre aggressioni squadriste. Nel 1927, dopo le leggi eccezionali, venne arrestato per ricostituzione del Partito comunista. Inviato al Tribunale speciale, ebbe una condanna a otto anni di carcere. Dopo essere uscito di galera espatriò clandestinamente in Unione Sovietica, frequentò la scuola di partito, partì per combattere in Spagna nelle brigate internazionali. Dopo aver lasciato la Spagna ormai franchista, trascorse un periodo nei campi di concentramento frances. In seguito alla sconfitta della Francia da parte dei tedeschi e alla nascita del regime fantoccio di Vichy, fu riconsegnato alle autorità italiane finendo di nuovo in carcere e al confino. Tornato libero dopo il 25 luglio 1943, dall’8 settembre si dedicò al lavoro organizzativo nella lotta contro il nazifascismo, a Siena e a Milano. Seguirono la cattura, la deportazione a Mauthausen, la sopravvivenza al campo di prigionia, il ritorno e, nel 1946, l’elezione nelle liste del Partito comunista all’Assemblea Costituente.
Anche Giovanni Guastalli era del 1903, nato a S. Lorenzo a Merse (comune di Monticiano), licenza di terza elementare, mestiere boscaiolo. Nell’ottobre 1921, da segretario giovanile della sezione del PCd’I, partecipò insieme al padre ad una manifestazione di protesta di fronte alla caserma dei carabinieri che avevano arrestato alcuni lavoratori, finendo agli arresti lui stesso. Nel 1924 espatriò in Francia unendosi a quel flusso di emigrazione che era insieme economica (la speranza di occasioni di lavoro e remunerazioni migliori) e politica (sfuggire allo squadrismo). Nella zona di Draguignan, dipartimento del Var, riprese a tagliare alberi e proseguì nel suo impegno politico e sindacale. Inviato dal partito in Italia nel 1933 per svolgere attività clandestina, fu individuato a Modena, deferito al Tribunale speciale, assolto per insufficienza di prove, scarcerato e spedito in soggiorno obbligatorio al suo paese natale, poi condannato a tre anni di confino nell’isola di Ponza.
La sua scheda biografica, redatta dalla polizia, ne descrive il comportamento: «25 febbraio 1935, denunciato per aver preso parte ad una protesta e condannato a dieci mesi di arresto; 12 marzo 1937, dimesso dal carcere viene reintrodotto nella colonia di Ponza; […] 23 giugno 1938, con disposizione ministeriale […] viene trasferito da Ponza a Tremiti; 21 luglio 1938, il consiglio di disciplina della coloniale lo punisce con 20 giorni di divieto di libera uscita per essersi rifiutato di salutare romanamente; 4 luglio 1938, 30 giorni di divieto per lo stesso motivo; 4 agosto 1938, il Ministero […] aggiunge anche due mesi di detenzione alla pena del 4 luglio; 19 dicembre 1938, ritradotto a Tremiti […]; 21 dicembre 1938, ritradotto carceri Foggia, in attesa punizione, essendosi nuovamente rifiutato di ottemperare all’obbligo del saluto romano; 31 dicembre 1938, l’On. Ministero […] autorizza infliggergli un altro mese di detenzione e lo trasferisce a Ventotene».
Infine Guastalli, senza mai aver alzato il braccio con la mano tesa venne rimandato a casa. Durante il periodo resistenziale divenne commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini.
Pietro Borghi era nato a Poggibonsi nel 1898, di mestiere falegname. La data di nascita gli aveva garantito il “privilegio” di partire soldato nella Grande Guerra. Essendo iscritto a Psi dall’età di 18 anni fu uno dei tanti socialisti a vivere la contraddizione fra il rifiuto politico e morale del conflitto e l’onorevole partecipazione ad esso sancita dalla Croce al merito. Nel 1921 passò al PCd’I e ne condivise le fasi organizzative fra Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, le due località che per un certo periodo ospitarono la sede della Federazione provinciale. Con la legislazione eccezionale passò all’attività clandestina fino al 1932, quando l’organizzazione comunista poggibonsese di cui faceva parte venne individuata. Borghi fu arrestato insieme ad altri suoi compagni, ma eludendo la sorveglianza, riuscì a scappare dalla caserma dei carabinieri dove era stato portato. La fuga lo condusse in Francia, ad Antibes e a Tolone, a svolgere azione politica e sindacale nell’emigrazione antifascista e in collaborazione con i comunisti francesi, poi in Spagna dove, come mitragliere antiaereo, si guadagnò una decorazione e il grado di tenente.
La Prefettura di Siena così ne delineava il profilo nel 1937: “Non ha desistito giammai dallo esternare i suoi inveterati sentimenti di inconciliabile odio verso il fascismo e il suo Capo del quale […] non ha esitato spesso, nelle lettere alla moglie, a preconizzare la morte. […] Tali suoi sentimenti hanno di recente avuto piena rispondenza nel gesto da lui compiuto arruolandosi nelle file rosse, il che rivela in lui maggiori sintomi di pericolosità […] esasperata anche dalla forzata lontananza dalla moglie e dal figlio per i quali nutre grande affetto e sa privi di aiuti”.
Tornato in Francia dopo la vittoria dei fascisti spagnoli, Borghi transitò in vari campi di prigionia per essere infine estradato in Italia e confinato a Ventotene. Rientrato a Poggibonsi nell’agosto 1943, divenne uno degli organizzatori del Cln della sua città e dei Gap Val d’Elsa.

BIBLIOGRAFIA

Bardini Vittorio, Storia di un comunista, Firenze, Guaraldi 1977

Guastalli Giovanni, Il boscaiolo, Mulano, La Pietra 1979

Burresi Francesco, Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla liberazione, Poggibonsi 2019

Archivio di Stato di Siena, Questura, cat. A8, b. 93, f. Giovanni Guastalli

Archivio Isrsec, Fascicoli del Casellario politico centrale, Pietro Borghi




“Agire, Agire, Agire!”

Davanti alla scelta di entrare nel conflitto mondiale, i socialisti pistoiesi risentirono delle divisioni del PSI nazionale. La linea ufficiale era di neutralità assoluta, ma le correnti erano in disaccordo, fronteggiandosi su «L’Avvenire», organo locale del partito. I riformisti, maggioritari in città, adottarono un orientamento attendista. I massimalisti, forti nelle zone bracciantili e nelle industrie della montagna, erano fermamente neutralisti. Le sezioni pistoiesi risentirono dell’ambigua linea di condotta della dirigenza nazionale, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’unità del partito. Al di là di organizzare conferenze contro la guerra per mobilitare i ceti popolari, il partito non seppe farsi guida delle spontanee agitazioni antibelliciste. Solo nell’area di Lamporecchio, per merito del sindaco Idalberto Targioni, le manifestazioni ebbero caratteri più organizzati, ma si esaurirono con l’intervento (maggio 1915).

Dopo l’ingresso in guerra, le fratture si acuirono. Alcuni importanti esponenti, come il riformista Amulio Cipulat (direttore de «L’Avvenire») e Targioni, lasciarono il PSI e si “convertirono” all’interventismo. Questi abbandoni provocarono un’emorragia di iscritti, che indebolì soprattutto i riformisti. I massimalisti – tra i quali emerse una frangia di sinistra animata da giovani militanti, che rivendicava una linea rivoluzionaria – guadagnarono posizioni nel partito e nel giornale, che divenne assai critico con la giunta comunale. Intanto, a partire dal 1916 si acuirono le tensioni sociali, con scioperi dei lavoratori e proteste delle donne delle campagne contro la guerra. Nei moti, i socialisti locali mantennero però un ruolo passivo. Il partito era stato minato dalle defezioni, dalla coscrizione obbligatoria e dagli arresti. La dirigenza era poi divisa sul da farsi. I riformisti non appoggiavano le proteste e favorivano la collaborazione con l’amministrazione. L’ala intransigente intendeva supportare le agitazioni popolari e operaie. I massimalisti ebbero la meglio nel convegno collegiale del luglio ’17 e votarono di seguire il modello bolscevico, spogliandosi «di tutte quante le ideologie borghesi e anteporre alla patria l’internazionale proletaria». Nondimeno, la stretta repressiva successiva a Caporetto frenò le pretese rivoluzionarie. «L’Avvenire» interruppe le pubblicazioni per le divisioni della redazione.

Concluso il conflitto, il PSI pistoiese ebbe una crescita considerevole. Nonostante il peso acquisito, nei moti popolari contro il caroviveri e negli scioperi del 1919, i dirigenti, in linea con la segreteria nazionale e d’accordo con i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, non tradussero in pratica il motto “Fare come in Russia”, mantenendo le proteste nella legalità. Per «L’Avvenire», dove era forte la componente riformista, i tumulti erano il male del proletariato perché «peggiorano la sua condizione, allontanano il giorno della sua completa emancipazione […] suo compito è quello di prendere il timone della cosa pubblica». La base locale, ormai radicalizzata, chiedeva però una svolta rivoluzionaria e guardò alla frangia comunista, strutturatasi attorno al gruppo dei giovani militanti estremisti. Dopo le elezioni nazionali del novembre 1919, vinte dal PSI nel circondario di Pistoia (49 %), i comunisti presero il sopravvento nella sezione cittadina e su «L’Avvenire», come prova la scelta dei redattori di inserire nella testata il motto di «Ordine Nuovo», la rivista di Antonio Gramsci: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Nell’agosto 1920, anche la Camera del Lavoro passò sotto il loro controllo. Proprio per l’influenza dei comunisti, le proteste del ’20 assunsero caratteri anticapitalisti. Culmine delle agitazioni furono le occupazioni delle fabbriche nell’agosto-settembre, che nel pistoiese interessarono le officine metallurgiche, come la San Giorgio, e gli stabilimenti più piccoli. Gli scioperanti locali speravano nell’insurrezione, ma l’accordo tra sindacati, governo e industriali pose fine alle occupazioni ed esaurì la spinta rivoluzionaria.

Nonostante il fallimento delle proteste, il PSI vinse le elezioni amministrative dell’autunno, strappando ai moderati vari Comuni del circondario e il capoluogo, dove fu eletto l’avvocato Bartolomeo Leati. Le fratture interne al partito divennero, però, insanabili. Il congresso nazionale di Livorno, previsto per il gennaio 1921, appariva una resa dei conti tra i riformisti di Turati, i massimalisti di Serrati e i “comunisti puri” di Bordiga. Quest’ultimi erano maggioritari nel pistoiese ed richiesero la direzione nazionale, su «L’Avvenire», ad espellere i riformisti e ad avere una linea politica più vicina alla III Internazionale. Ugo Trinci invitò a mettere da parte le discussioni e ad «agire, agire, agire!». Intanto, lo squadrismo fascista intensificava le sue violenze.

Nel congresso circondariale del dicembre 1920, la mozione comunista ottenne una maggioranza netta, mentre in gran parte d’Italia prevalse la mozione massimalista. Al Congresso di Livorno (gennaio 1921) si consumò la spaccatura: prevalse la linea di Serrati, ossia tenere dentro i riformisti senza però sciogliere i nodi politici, mentre i comunisti si scissero dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCdI). A Pistoia, gran parte della dirigenza, tra cui Trinci, e dei militanti del PSI passarono alla neonata formazione, che controllava anche la Camera del Lavoro – dove sedeva il bordighista Onorato Damen, un giovane poeta locale – e «L’Avvenire». Nel marzo, i resti del PSI pistoiese mandò alle stampe il nuovo organo: «L’Avvenire socialista». Iniziava una contesa politica che indebolì il movimento socialista e operaio, nel momento in cui l’unità era necessaria per opporsi al fascismo. La giunta Leati non resse alla scissione, dimettendosi nel maggio 1921. L’amministrazione comunale, per le divergenze tra comunisti e socialisti, rimase vacante fino all’agosto 1922 quando i fascisti ottennero il commissariamento del Comune.

Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato in Scienze storiche all’Università di Firenze con una tesi dal titolo “L’influenza spagnola del 1918-1919: la dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” , rielaborata e pubblicata nel 2020 per i tipi dell’Isrpt. È consigliere dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e membro dell’associazione “Storia e città”. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria» e «Storialocale». È stato curatore delle mostre: “La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918” (Pistoia, 2017); “Memorie d’autore. I grandi personaggi e la prima guerra mondiale” (Firenze,  2018; Montespertoli, 2019); “Le cicatrici della vittoria. Pistoia e le memorie della Grande Guerra” (Pistoia, 2019).