1

“Tombolo paradiso nero”, il film che gli Usa non volevano vedere

«Un sabato scorso aprimmo il televisore – channel 7 – e sentimmo annunciare, come una primizia, il film Incontri della fatalità. Primo attore quell’Aldo Fabrizi che fu l’eroico Prete di Città aperta. Vediamo. Un film nostrano è sempre, un po’, un “bagno di italianità”. Ma trasecolammo. Quegli Incontri della fatalità non erano altro che il rimaneggiamento dell’ignobile film Tombolo. Non c’era altro “documentario” da presentare a quegli eterni “contenti e gabbati” che sono gli italo-americani? Evidentemente no». Con questo articolo del 27 febbraio 1954 il giornale dei cattolici italo-americani Il Crociato-The Crusader sferrava il suo attacco al film Tombolo, paradiso nero, prodotto qualche anno prima, nel 1947, dalla Incine. Edito a Brooklyn e collegato alla National Catholic Welfare Conference (la conferenza episcopale statunitense), il settimanale dei cattolici newyorkesi era solo una delle molte voci che Oltreoceano si erano alzate duramente contro la pellicola italiana.

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una "segnorina"

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una “segnorina”

Del resto il film del regista Giorgio Ferroni scoperchiava una realtà che, in patria come al di là dell’Atlantico, non poteva non dar fastidio nelle stanze dei bottoni del potere politico. Nell’immediato dopoguerra, il caso Tombolo, località che identifica la vasta pineta tra Livorno e Pisa, era assurto a emblema nazionale delle conseguenze più deleterie dell’occupazione americana. Dall’ultimo anno di guerra lo scalo portuale livornese aveva assunto una centralità logistico-strategica per le operazioni belliche nello scacchiere Mediterraneo: dopo essere divenuta una ghost town per i massici bombardamenti e il forzato sgombero del cento imposto dai tedeschi (12 novembre 1943), con la liberazione (19 luglio 1944) la città si era dunque ripopolata immediatamente soprattutto di soldati angloamericani. In un rapporto alleato del luglio 1945 si affermava che in quei mesi tra i 50mila e gli 80mila militari si erano ammassati in città (su una popolazione residua, al momento della liberazione, di appena 20mila livornesi). La massiccia presenza di truppe, che si protrasse fino al dicembre 1947 e che portò Livorno a divenire anche un immenso magazzino-emporio di materiale bellico di ogni tipo, richiamò dal Sud del paese già liberato migliaia di individui in cerca di fortuna.

In tale contesto, la pineta di Tombolo divenne il simbolo del degrado prodotto dalla “lunga liberazione”. Una sorta di terra di nessuno – spesso al di fuori del controllo perfino della Military Police (MP) – in cui stanziavano disertori, trafficanti, contrabbandieri, prostitute. Nell’estate 1948, un delegato della Santa Sede in visita alla città la descriveva come «una piccola Napoli» e «sotto alcuni punti di vista, peggio di Napoli», denunciando specialmente le conseguenze che la realtà di Tombolo provocava sull’infanzia. «Le truppe alleate (bianchi e neri) – scriveva il rappresentante pontificio – soltanto da pochi mesi hanno lasciato la zona! E i giovani, i ragazzi, i bimbi? Hanno formato la legione degli sciuscià. […] Sono stati ladri a sette anni, ruffiani nell’età delle favole, contrabbandieri nell’età dell’asilo».

Intorno a Tombolo si creò ben presto una leggenda, alimentata da romanzi (come Dopo l’ira di Silvano Ceccherini e Tombolo città perduta di Gino Serfogli, cronista di «nera» del quotidiano social comunista «La Gazzetta di Livorno») e inchieste giornalistiche che contribuirono a dare della pineta un’immagine tetra, di luogo di perdizione. Nel novembre 1946 era ad esempio la popolarissima «La Domenica del Corriere» a dedicare una copertina al rastrellamento delle «segnorine», sciuscià e disertori della Quinta Armata operato dalla MP a Tombolo. Inchieste apparvero su «L’Europeo» o su «Crimen».

La copertina della "Domenica del Corriere" dell'ottobre 1946

La copertina della “Domenica del Corriere” dell’ottobre 1946

Non stupisce che, con un tale concentrato di ingredienti paradigmatici, Tombolo e Livorno attirassero le attenzioni di registi e produttori cinematografici. La “pineta proibita” regalava lo scenario letterario e traslato della discesa agli inferi delle miserie del dopoguerra. Lo spazio avventuroso che questo contesto offriva, permetteva al cinema neorealista di attingere alla cronaca «per riadattare al nuovo orizzonte del dopoguerra vecchi codici di genere: gangster movie, spy story, noir, western e, soprattutto, commedia e melodramma». Non a caso l’intreccio di Tombolo, paradiso nero trasse spunto da un fatto di cronaca raccontato da Indro Montanelli sul “Nuovo Corriere della Sera” del 10 aprile 1947 nell’articolo Vive a Tombolo un uomo che si fa ricco con l’onestà. Il giornalista toscano figurò perfino tra gli sceneggiatori del film di Ferroni, prestandosi ad acconciare al grande schermo la storia di Giovanni R., ex vicebrigadiere che, tornato a casa, in Ciociaria, dopo aver servito tre anni in Libia, aveva trovato la propria abitazione distrutta da una bomba, la moglie morta sotto le macerie e l’unica figlia dispersa. Nel film Aldo Fabrizi impersonava l’ex brigadiere che nel suo viaggio nella «selva oscura» di Tombolo alla ricerca della figlia perduta (Adriana Benetti) riusciva – sacrificando la sua stessa vita – a salvare la figlia, riportandola sulla retta via e assicurandole un avvenire di amore e onestà.

Ma questa sorta di mito omerico moderno fu, come detto, osteggiato dalle alte sfere di governo. Approdato nel maggio 1947 a capo dell’ufficio che aveva in mano le chiavi della cinematografia nazionale, Giulio Andreotti aveva del resto fatto capire in poco tempo quale sarebbe stata la sua linea di governo. Il giovane Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo si sarebbe battuto, in un raccordo stretto con gli uffici vaticani, per «un cinema politicamente e sessualmente innocuo». Tombolo, paradiso nero faceva luce su certe conseguenze dell’occupazione alleata che non erano per niente in linea con la virata atlantica a cui, proprio nei mesi dell’uscita del film, stava lavorando il governo De Gasperi. Nel film di Ferroni non c’era alcuna celebrazione del ruolo salvifico degli americani: anzi veniva in rilievo l’impatto violento della cultura americana con i valori della tradizione italiana, la corruzione delle «segnorine», la degradazione a cui giungevano molti soldati statunitensi, soprattutto neri, che sceglievano la diserzione. Non a caso un altro film ambientato a Tombolo l’anno successivo, Senza pietà di Alberto Lattuada, non trovò calda accoglienza nelle stanze del potere democristiano e presso il pubblico statunitense. Qui oltre a presentare i topoi classici della disgregazione di valori del dopoguerra imposti dalla “lunga liberazione”, si proponeva la storia d’amore tra un soldato nero (John Kitzmiller, protagonista anche di Tombolo, paradiso nero) e una bianca (Carla Dal Poggio) che era ancora ritenuto un tabù nella società americana.

Il manifesto del film riadattato per l'estero

Uno dei manifesti che accompagnò l’uscita del film

Il film di Ferroni non trovò particolari ostacoli (salvo qualche taglio di poco conto imposto dalla censura) a ricevere il nulla osta alla proiezione in patria (concesso da Andreotti il 24 ottobre 1947), ma assai più complesso fu l’iter per la sua esportazione. Nel corso 1950 la Incine fu costretta a ripresentare il film alla Direzione generale della cinematografia in versione rivista «ai soli fini dell’esportazione avendone mutato il titolo in “Verso la vita”» e apportando «alcuni tagli e modifiche al montaggio del film». Le prime proiezioni negli Stati Uniti del film nella sua versione integrale avevano suscitato un esplicito malcontento sulla stampa Usa.

Nel gennaio 1950 il ministero degli Affari Esteri aveva inviato al Servizio informazione e spettacolo della Presidenza del Consiglio dei ministri una nota con oggetto Film “Tombolo” a New York in cui si riferiva sulla cattiva accoglienza della prima visione del film nei cinema della Grande Mela da parte della stampa: il New York Herald Tribune pur riconoscendo i meriti di Fabrizi («ottimo attore») bollava il film come un povero dramma giallo male ideato e peggio congegnato. Sulla stessa linea il più influente New York Times, sulle cui colonne però ci si soffermava anche su altri aspetti: a far problema non era tanto la mediocre qualità del film quanto la non onorevole parte che in esso avevano «i negri americani soldati in uniforme». «Non ci può essere scusa per così allegro travisamento dei fatti – commentava il critico del quotidiano americano -, ma è ancora più difficile comprendere come il sig. Kitzmiller e gli altri negri consentirono a partecipare a un così aperto e scurrile attacco non solo alla loro razza ma anche all’uniforme del loro paese».

Eppure anche nella sua versione “epurata” il film, come si è visto, continuò a trovare una pessima accoglienza al di là dell’Atlantico. Non stupisce quindi che a poche settimane dall’attacco del giornale cattolico Il Crociato-The Crusader il deputato Odo Spadazzi, si premurasse di rivolgere un’interrogazione al Presidente del Consiglio che aveva per oggetto la versione televisiva di Tombolo. Nel suo intervento del maggio 1954 Spadazzi chiedeva se non fosse «urgente e doveroso – a tutela della dignità della Nazione e degli italiani – disporre l’immediato ritiro del film in questione, anche nelle edizioni rielaborate ed accertare le responsabilità dell’ente e dei funzionari che, con colpevole leggerezza, autorizzarono l’esportazione del film, rassicurando l’opinione pubblica che non sarà ulteriormente permessa la denigrazione della Patria ad opera degli stessi italiani».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.




Una Repubblica conciliare

L’egemonia comunista sulle amministrazioni cittadine pistoiesi, indiscussa dal dopoguerra, si incrinò nel 1967 quando fu eletto presidente della Provincia il socialista Vincenzo Nardi in alleanza con la Dc. L’amministrazione tuttavia apparve subito debole e la votazione del bilancio mise a repentaglio la tenuta della maggioranza, a tal punto che il prefetto minacciò una gestione commissariale in caso di mancata approvazione.

Di fronte a questa situazione le vicende politiche della città imboccarono una strada inconsueta: il 30 dicembre il bilancio fu approvato all’unanimità, con il voto favorevole di DC, PSI e PCI (sebbene quattro consiglieri del PCI fossero assenti). L’inedita alleanza si trasformò in un accordo pragmatico destinato a risolvere positivamente due emergenze del territorio: l’imminente dismissione della Saca, l’azienda di trasporto pubblico, e una delle cicliche crisi delle Officine Meccaniche Ferroviarie Pistoiesi (OMFP), il maggiore stabilimento industriale della Provincia.

Sebbene la maggioranza provinciale continuasse ad essere formata da DC e PSU, il PCI garantì un appoggio anche futuro alla giunta di centrosinistra per la risoluzione di precisi problemi amministrativi e i tre partiti avviarono permanenti consultazioni.

manifesto dcTra i sostenitori del PCI l’intesa con il centrosinistra suscitò non poche perplessità: l’accordo fu osteggiato dal PSIUP, che affisse manifesti accusando il PCI di aver tradito la volontà dei lavoratori, e nel complesso tutta la base del partito accettò con difficoltà la collaborazione coi cattolici. Neppure per la DC l’accordo risultò pacifico, tanto che il capogruppo alla Provincia, l’avvocato Turco, scelse di spiegarne approfonditamente la natura ai propri elettori in una lettera a mons. Carlo Migliorati, direttore dell’organo della Curia diocesana «La Vita Cattolica», nella quale negò l’esistenza di una nuova maggioranza: «non era in atto alcuna collusione – scrisse – ma solo un tentativo aperto e coraggioso di porre il PCI davanti al dovere di assumersi le proprie responsabilità».

La direzione nazionale della DC approvò l’inedito accordo di Pistoia dopo che i dirigenti locali chiarirono il sostegno puramente tecnico del PCI; ma intanto intorno a questo tentativo, primo in tutta la nazione, di accordo tra i nemici per antonomasia iniziò a crescere l’attenzione mediatica.

La stampa locale conferì all’esperimento politico l’appellativo di Repubblica conciliare connotandolo come frutto della stagione di dialogo tra cattolici e marxisti inauguratasi dopo il Concilio Vaticano II. In prima linea contro la Repubblica conciliare si schierò il quotidiano «La Nazione» che per penna del suo direttore Enrico Mattei scrisse: «Qualcuno domanderà, ma perché vi scalmanate tanto? Forse Annibale è alle porte? É così pericoloso il fatto che la Dc ed il Pci collaborino insieme sul piano amministrativo? Non sarà pericolosa questa collaborazione ma… Annibale non è alle porte, è già entrato, circola fra noi!». La preoccupazione era condivisa dal settimanale «La Vita Cattolica» che scrisse che forse una gestione commissariale non sarebbe stata poi un male. Il timore della curia era infatti che gli elettori della DC non avrebbero compreso, né tanto meno appoggiato l’accordo, e perciò avrebbero potuto far mancare in futuro il sostegno al partito cattolico. Anche il giornale del dissenso cattolico pistoiese, il «Cineforum», prese posizione contro questa intesa politica, in un’inedita comunanza di vedute con «La Nazione» e con «La Vita Cattolica». Le accuse avanzate però furono antitetiche dato che, secondo «Cineforum», l’accordo non avrebbe dovuto limitarsi ad un susseguirsi di intese su singole “cose concrete”, perché altrimenti sarebbe apparso come una semplice volontà da parte dei due partiti di mantenere il potere nelle loro mani, bensì avrebbe dovuto essere un confronto con «spirito nuovo» su temi di fondo: un reale esperimento di «Repubblica conciliare».

A livello nazionale il periodico dell’ala sinistra della DC, «Politica», cercò di difendere l’accordo come un encomiabile tentativo di uscire dal vicolo cieco dell’approvazione del bilancio; era un merito dell’accordo di «aver raggiunto l’intesa non su equivoche formule di abbracci ideologici o “conciliari”, ma su precisi punti programmatici che interessano i problemi della Provincia». «La Stampa», quotidiano torinese, definì invece l’accordo “bizzarro”: «l’embrione di una repubblica conciliare nascente da locali mezzadrie» e sostenne che «simili accordi costituiscono un’effettiva spartizione del potere». In seguito su «l’Unità» si volle precisare che la base fondamentale dell’accordo era prima di tutto «la necessità di qualificare l’Amministrazione ponendola in diretto collegamento con il vasto movimento dei lavoratori. […] Cosa c’entri la “repubblica conciliare” lo sanno solo i fabbricatori di formule e di aria fritta».

I protagonisti politici dell’accordo quindi si guardarono bene dal connotare la collaborazione amministrativa come frutto di un dialogo tra cattolici o marxisti, o come il principio di un avvicinamento politico tra DC e PC, furono i detrattori a definirlo “Repubblica conciliare” contribuendo così ad attirare la curiosità del grande pubblico e decretarne la fine. La dirigenza nazionale della DC infatti, guidata dall’on. Piccoli, non appena vide il sostegno tecnico del PCI trasformarsi sui mass-media nazionali in un esempio di nuova maggioranza alla prova, ne sancì la fine: il 15 luglio del 1969 con un telegramma ordinò che la giunta provinciale fosse sciolta e la segreteria provinciale della DC per disciplina accettò la direttiva romana.

Francesca Perugi è ricercatrice presso l’ISRPt e membro della redazione dei Qauderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”.




All’alba della Costituzione italiana

Il 2 giugno 1946, all’indomani del ventennio fascista ed a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla conclusione del conflitto sul nostro suolo, il popolo italiano fu chiamato a scegliere tramite referendum tra la monarchia e la repubblica e contemporaneamente ad eleggere i deputati all’Assemblea Costituente.

Le cronache dell’epoca raccontano che gli italiani sfidando la calura di una domenica di fine primavera – inizio estate, in modo composto, disciplinato e tradendo emozione attendono pazientemente all’esterno dei seggi il loro turno.

L’affluenza alle urne sarà vicina al 90% e ciò testimonia la grande voglia di partecipazione e di esprimere il proprio voto in modo libero.

Il referendum fu favorevole all’istituto repubblicano che conseguì il 54% dei consensi contro il 46% raggiunto dalla monarchia. A sua volta le consultazioni per l’Assemblea Costituente si caratterizzarono per il successo dei cosiddetti “partiti di massa” (DC, PCI, PSIUP) che ottennero ben 426 seggi su 556 a disposizione, cioè i ¾ del totale.

Tra coloro che furono eletti in Assemblea ci furono anche Calogero Di Gloria, Palmiro Foresi, Abdon Maltagliati e Attilio Piccioni, tutti candidati nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia la quale annoverò anche Sandro Pertini e Teresa Mattei.

Ma chi erano i costituenti eletti. Di che cosa si occuparono in Assemblea?

Di GloriaCalogero Di Gloria nasce a La Spezia nel 1917, uomo di raffinata cultura, professore di storia e materie letterarie nei principali istituti cittadini, autore di poesie e padre fondatore della “Brigata del Leoncino”, associazione culturale cittadina organizzatrice di eventi, manifestazioni, momenti di approfondimento su tutte le forme dell’arte e delle scienze. Con le elezioni del 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PSIUP nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia

In sede assembleare intervenne in materia di rapporti civili, sull’ordinamento di Regioni, Province e Comuni ed infine sull’architettura istituzionale del futuro Stato repubblicano.

Rispetto all’ordinamento degli enti locali insisteva sulla necessità di rafforzare le province attraverso l’assegnazione di maggiori risorse economico – finanziarie ed espandendo i loro poteri di intervento, solo in questo modo avrebbero potuto rispondere efficacemente ai bisogni dei rispettivi territori.  In relazione all’architettura istituzionale evidenziava l’opportunità della creazione di un sistema bicamerale e la necessità di dare luogo ad un Senato elettivo, inoltre si dichiarava a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica mentre l’esecutivo avrebbe dovuto distinguersi per efficacia, efficienza e la capacità di rispondere agli interessi del Paese. Il 10 agosto 1997 terminerà di vivere.

Pistoia 3Palmiro Foresi nasce a Livorno nel 1900 da padre di simpatie repubblicane mentre la madre morirà prima che lo stesso raggiungesse i due anni di vita. Si dedica agli studi liceali e universitari, conseguendo la laurea in fisica e giurisprudenza, insegnando matematica presso l’istituto privato “Giuseppe Guerrieri” con sede nella città labronica, assumendo successivamente l’incarico di assistente di diritto ecclesiastico presso l’università di Pisa.

In politica è ricordato tra l’altro per essere stato uno dei fondatori del PPI Livorno, mentre nell’ottobre 1944 è eletto segretario provinciale della DC pistoiese.  L’incarico di maggior prestigio sarà l’elezione alla Costituente con le consultazioni del 2 giugno 1946 con quasi 7000 preferenze. Nella medesima fece parte della Commissione per l’esame dei disegni di legge che vide la partecipazione di autorevoli personalità quali Piero Calamandrei e Nilde Jotti. Tra i suoi interventi e contributi si ricorda in particolare quello relativo alla stesura dell’articolo 45 che recita così: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato».  Con esso si intendeva disciplinare l’impresa cooperativa e l’impresa artigiana cercando di tutelare la cooperazione con finalità di mutualità.

Foresi sarà poi rieletto anche nelle prime due legislature del Parlamento repubblicano e svolgerà anche un ruolo importante relativamente a vicende locali quali quella che vide contrapposte la Lazzi e la SACA, aziende di trasporto pubblico della provincia di Pistoia, inoltre sarà determinante per la risoluzione del contrasto tra imprenditori agricoli e lavoratori delle aziende ortovivaistiche e che si concluse con la firma del “Lodo Foresi” nel dicembre 1954. In seguito sarà Presidente dell’Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali, consigliere al comune di Roma e capogruppo della DC. Si spegnerà nel dicembre 1980.

Abdon Maltagliati nasce a Vellano (Pescia) il 7 novembre 1894 da famiglia di contadini poveri, condannato a 22 anni di carcere per i fatti di Empoli (ingiustamente accusato) e dal quale vi uscì nel 1932. Si rifugia inizialmente in Francia e successivamente in Unione Sovietica dove svolse il ruolo di direttore della Radio Italiana di Mosca, per poi rientrare nel novembre 1945 a Pistoia, dopo aver effettuato un esperienza anche nell’esercito sovietico. Segretario della Camera del Lavoro di Pescia, il 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PCI deputato alla Costituente dove si occupò principalmente dei temi del lavoro e dei lavoratori e pur non contribuendo a scrivere materialmente gli articoli riconducibili al principio lavorista cioè a quel principio che considera il lavoro come strumento di realizzazione della personalità di ciascun individuo. Il suo impegno e la sua attività saranno alquanto importanti nell’affermazione di quei principi precedentemente elencati. Cesserà di vivere il 10 novembre 1957.

Pistoia 4Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone in provincia di Rieti il 14 giugno 1892. Di professione avvocato sarà eletto per la lista della D.C. alle elezioni del 2 giugno 1946. Farà parte della Commissione dei 75 cioè quella che contribuirà alla stesura materiale del dettato costituzionale. Egli interverrà sul tema delle autonomie locali e in particolare sull’istituzione dell’ente Regione per il quale dichiara di essere a favore della sua creazione giudicata dallo stesso come baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese, affidando loro anche una potestà legislativa rispettosa comunque dell’ordinamento statale. Oltre al tema illustrato interverrà anche sulla formazione e la composizione della seconda Camera cioè del Senato, auspicando che questi sia su base regionale.

Sarà poi ricordato per aver svolto il ruolo di Ministro degli Esteri dal quale si dimetterà nel settembre 1954 a seguito del coinvolgimento del figlio Piero nello scandalo “Montesi”.  In seguito sarà rieletto al Parlamento ininterrottamente fino alla legislatura che si conclude anticipatamente nel 1976, anno in cui viene a mancare.

Filippo Mazzoni nasce a Pistoia nel 1972. E’ laureato in Storia e Scienze Politiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia di cui fa parte anche del Consiglio Direttivo. É autore della pubblicazione “La federazione comunista pistoiese dalla Liberazione al <<terribile>> 1956 (2003), ha collaborato assieme ad altri ricercatori alla stesura del volume “Pistoia fra guerra e pace” (2005) ed ha curato con P. L. Guastini e G. F. Marcucci “All’alba della costituzione italiana. I quattro costituenti pistoiesi (2008). É inoltre autore della pubblicazione “Una storia da non dimenticare. Ricostruzione storica dell’eccidio del 31 marzo 1944 alla Fortezza S. Barbara (2008 e ristampa 2015). Infine per conto della casa editrice Ibiskos ha pubblicato “Il terribile quindicennio (1969 – 1984). La storia delle stragi raccontate ai ragazzi” (2014). Con Stefano Bartolini ha curato il recupero dell’Archivio “Andrea Devoto” conservato presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, inoltra collabora con la rivista “QF – Quaderni di Farestoria” edita dall’Istituto.




Dopo la Liberazione.

“Ancora non ci siamo totalmente ritrovati! Siamo tutt’ora smarriti, siamo come un malato in convalescenza che non trova la via di rimettersi, perché lotta fra la miseria, la sfiducia e la fiducia”. Scrivendo nel settembre 1944 al cardinale Elia Dalla Costa, don Girolamo Barzagli, parroco di S. Andrea a Fabbrica (comune di San Casciano Val di Pesa), descriveva con queste parole lo stato d’animo prevalente tra i suoi fedeli a poche settimane di distanza dalla liberazione. Fiducia per quanto rinasceva dopo il fronte ma al contempo disorientamento per un futuro ancora incerto si fondevano assieme, orientando il giudizio complessivo di coloro che avevano vissuto la guerra e la liberazione nei comuni di Barberino Val d’Elsa, Tavarnelle e San Casciano Val di Pesa; piccole comunità rurali della provincia fiorentina, chiuse nel loro mite microcosmo agricolo, sulle quali la guerra e il passaggio del fronte avevano pesato in modo particolare.

Divenuti alla fine del luglio 1944 terreno di battaglia aspramente conteso tra tedeschi e alleati in vista della liberazione di Firenze, questi tre comuni a cavallo tra Val d’Elsa e Val di Pesa avevano infatti pagato a caro prezzo questa loro rilevante posizione strategica, tanto che, il grosso delle perdite umane e materiali subite si era concentrato proprio nei giorni del passaggio del fronte, grossomodo tra il 20 e il 27 luglio. Una serie di stragi e stillicidi compiuti dagli uomini della IV Fallschirmjäger Division (tra cui l’episodio più grave a Pratale, con la fucilazione di dodici contadini il 23 luglio) nonché le numerose morti dovute alle operazioni militari avevano insanguinato la valle della Pesa, producendo complessivamente nei tre comuni poco meno di 150 vittime.

Diffuse e capillari devastazioni prodotte in ritirata dai guastatori tedeschi nonché dai combattimenti stessi avevano al contempo straziato le campagne, distrutto strade, ponti e ridotto in macerie i principali abitati, nonché sensibilmente colpito il patrimonio agricolo e zootecnico di queste comunità. Per questo, la liberazione dei tre comuni lasciò in eredità agli amministrazioni post-bellici un’ emergenza che fu anzitutto umanitaria e demografica. Nel comune di Tavarnelle Val di Pesa, dopo la liberazione del 23 luglio, in circa 500 avevano avuto la casa completamente distrutta e 1.400 gravemente sinistrata. A San Casciano, 863 erano le persone che avevano perso la propria abitazione, 1.046 quelle con la casa gravemente danneggiata, mentre 684 ancora nel novembre 1944 vivevano in rifugi temporanei. A questa massa di sinistrati si aggiungeva inoltre un ingente numero di sfollati provenienti da altri comuni: alla fine del 1944 se ne contavano 265 a Tavarnelle, 1.412 a San Casciano e 850 a Barberino. Già prima del fronte molti di questi sfollati erano riparati in luoghi e locali di fortuna, quali cantine e tinaie, e persino in cave e miniere, come era avvenuto ad esempio nella miniera di lignite di Tignano, dove si erano sistemate 6-700 persone. Dopo il fronte, provvedere al rientro di questa popolazione negli abitati, dando un tetto a chi ne era rimasto senza, fu uno dei compiti che tentarono di portare a termine le giunte provvisorie dei tre comuni, col concorso dei locali Comitati di liberazione nazionale (Cln) e sotto la supervisione del governo militare alleato.

All’indomani della liberazione, riattivata la macchina amministrativa, le giunte provvisorie di Barberino, Tavarnelle e San Casciano danno così inizio alle prime riparazioni. In mancanza di materiale edile e di fronte ad un mercato che si caratterizza subito per l’eccessivo aumento dei prezzi, si ordina lo smantellamento delle strutture agricole superflue, come concimaie e magazzini, e il reimpiego dei materiali per consentire le riparazioni più urgenti entro gli abitati distrutti. Parallelamente, si fa affidamento su coloro che hanno avuta salva la propria abitazione, che adesso vengono richiesti di mettere a disposizione anche di altre famiglie di sinistrati. È una corsa contro il tempo quella con la quale si tenta, prima del sopraggiungere del primo inverno di liberazione, di mettere al riparo i senza tetto. Ma i principali abitati sono un groviglio di edifici semidistrutti e macerie sotto alle quali si trovano ancora ordigni inesplosi. Nella totale impossibilità di fare affidamento sull’intervento delle autorità provinciali, in ciascuno dei tre comuni si decide pertanto di iniziare autonomamente l’opera di prima ricostruzione, talvolta adottando, “il sistema di indipendenza dagli uffici burocratici” col quale cioè si pone mano alle riparazioni senza attendere il naturale decorso delle autorizzazioni necessarie  e facendo affidamento su maestranze e manodopera locale. Con questo sistema, nell’agosto 1945 a San Casciano “dei sette ponti completamente demoliti nella rete stradale interna” ben cinque erano già stati ricostruiti, grazie anche all’aiuto prestato “da parte di proprietari e coloni, i quali si sono volontariamente quotati ad offrire trasporti e mano d’opera a titolo gratuito”. D’altra parte, sin dopo la liberazione, tutta la popolazione maschile in età adulta (fatta eccezione dei mezzadri) è stata chiamata al lavoro per gli interventi più necessari, secondo una mobilitazione obbligatoria da cui dipende tra l’altro la possibilità delle famiglie di accedere alla distribuzione dei generi alimentari. Oltre alle macerie, infatti, la fame.

Con l’interruzione della campagna granaria a causa del passaggio della guerra, la devastazione delle coltivazioni e la perdita del patrimonio bovino (diminuito del 16% a Barberino, del 27% a Tavarnelle e del 43% a San Casciano sui valori anteguerra), il sostentamento delle popolazioni locali viene a dipendere principalmente dalle distribuzioni alleate e da quanto si riesce ancora a reperire in zona. In alcune aree, si è costretti a nutrirsi prevalentemente della frutta dei campi mentre, come notano le autorità alleate, “la popolazione vive spesso procurandosi erbe selvatiche”. Le distribuzioni alleate registrano col passare dei mesi ritardi e rallentamenti, dando spesso adito a proteste popolari, come accade a San Casciano quando, alla fine del 1944, le donne del paese scendono in piazza per manifestare di fronte al palazzo municipale. Tocca dunque agli uffici comunali all’assistenza, spesso con quanto messo generosamente a disposizioni da fattorie e mezzadri della zona, organizzare i primi soccorsi, distribuendo cibo, indumenti e masserizie. È una gestione dell’emergenza, questa diretta dalle amministrazioni comunali, che sovente si scontra però con le esigenze delle autorità provinciali, le qual,i spesso con troppa leggerezza, distolgono le residue risorse locali allo scopo di soddisfare la piazza di Firenze. Allo stesso tempo, si tenta urgentemente di ripristinare i servizi medici basilari, a fronte di una situazione che a causa della malnutrizione e della contaminazione delle acque conseguente alla distruzione degli acquedotti e della rete fognaria diviene sempre più urgente. Numerosi casi di febbre tifoide, alcuni letali, si diffondono nelle settimane seguenti al passaggio del fronte, costringendo le amministrazioni a reimpiegare d’urgenza il personale medico disperso a seguito del fronte.

Ma è dirigendo la macchina governativa dei sussidi giornalieri che le amministrazioni provvisorie, tramite il reimpiego degli Enti di assistenza comunali e la costituzione di appositi comitati all’assistenza, tentano di risollevare la popolazione dalla condizione miserevole in cui l’ha spinta la guerra. Sussidi giornalieri di importo variabile sono infatti rilasciati a vantaggio delle categorie più colpite, quali i sinistrati, gli sfollati, i profughi, i reduci dalla prigionia e soprattutto i familiari delle vittime nazifasciste ed i congiunti dei partigiani caduti. Una macchina dell’assistenza che sul piano nazionale, soprattutto sotto il governo guidato da Ferruccio Parri, si adegua ad un ambizioso progetto politico volto a rifondare il paese non solo su nuovi principi politici (l’antifascismo) ma anche su nuove basi materiali di esistenza. Rispondere ai bisogni materiali di cui i superstiti della guerra chiedono soddisfazione alle autorità costituite – come ad esempio fanno le vedove della strage di Pratale in un’accorata petizione inoltrata al comune nel maggio 1945 – equivale a riconoscere ed accogliere il loro diritto materiale “di ritorno alla vita”. Una sensibilità e un indirizzo effettivo che con estrema difficoltà si tenta di soddisfare anche nei tre comuni.

Ponte Argenna - S. Donato

San Donato in Poggio (Tavarnelle Val di Pesa) 1945. Il ponte sull’Argenna in fase di ricostruzione dopo la guerra (Archivio Forconi)

Benché il processo di uscita dalla guerra e di ricostruzione si rivelerà un percorso lungo e difficile destinato a protrarsi negli anni seguenti, sono però i primi mesi successivi alla liberazione che costituiscono per queste comunità e i loro amministratori il momento determinante col quale tentare di risollevare dai disagi della guerra le popolazioni locali. Spesso, si cerca di far ciò attraverso provvedimenti e processi autonomi che mettono in luce, seppur con tutti i limiti del contesto, il protagonismo, la dedizione e l’impegno delle giunte provvisorie. Queste ultime puntano a fare della loro attività di assistenza e ricostruzione un’occasione attraverso la quale sperimentare un rapporto più aperto e partecipativo con le proprie cittadinanze, all’insegna del nuovo clima democratico che si apre dopo il fronte. La volontà della giunta di Tavarnelle di sottomettere la decisione di acquistare un alternatore che consenta il ripristino della fornitura elettrica ad un referendum popolare, che in effetti si svolge nel dicembre 1944 con la partecipazione di circa 200 cittadini, è un esempio significativo (oltreché curioso) di questo nuovo spirito di rinascita democratica.

Anche la ripresa della vita sociale e politica dopo il fronte si indirizza nei tre comuni lungo un percorso pervasivo, benché non sempre lineare, di rinascita democratica. Nelle giunte provvisorie, così come all’interno dei Cln, tra i diversi partiti antifascisti maturano momenti di tensione su questioni di natura politica e amministrativa. In particolare, la capacità di condurre a termine l’epurazione degli elementi collusi col fascismo, se è avvertita dai comitati come spia della genuinità della democrazia che si sta ricreando in Italia, d’altra parte viene però interpretata dai partiti antifascisti con diverso grado di radicalità. Così, mentre nel settembre del 1945 il Cln di Tavarnelle è costretto a rassegnare in tronco le sue dimissioni, perché incapace di operare a fondo quell’epurazione che la popolazione nel frattempo gli richiede, a San Casciano nel giugno 1945, proprio a riguardo di un provvedimento di epurazione, matura una rottura (seppur temporanea) ai vertici del governo locale tra il sindaco comunista Aldo Giacometti e il vicesindaco democristiano Primo Calamandrei; rottura che porta alle dimissioni di quest’ultimo e alla fuoriuscita dal Cln di tutti i rappresentanti della Dc. Tensioni queste – certo sintomo di un fermento democratico dirompente -, che si riflettono inoltre sugli assetti amministrativi esistenti tra il centro e la periferia municipale: dopo il fronte, ad esempio, si registrano infatti da parte di alcune frazioni di comune richieste e istanze a rendersi municipalità autonome, come ad esempio si tenta di fare a San Donato in Poggio e a Mercatale Val di Pesa. Tentativi di trasformazione contro i quali le autorità superiori alleate e italiane intervengono a difesa dei tradizionali equilibri territoriali e amministrativi, al pari di quanto fanno nel frattempo anche sul piano degli assetti politici. In questo campo, alleati e autorità prefettizia sembrano seguire con circospezione e preoccupazione il protagonismo che alcuni esponenti del partito comunista esercitano entro i Cln e i governi locali. Simili indirizzi sono rintracciabili ad esempio in occasione dell’interessamento alleato dimostrato per Ottavio Gimignani, membro comunista del Cln di S. Donato in Poggio, indicato come un “ardente comunista” e ritenuto addirittura pericoloso per la stessa comunità; oppure, in modo simile, orientano l’intervento dell’autorità prefettizia che alla fine del 1944 suggerisce un rimpasto della giunta comunale di Barberino con nomina di rappresentanti democristiani in sostituzione di quelli comunisti. Conflittualità, queste che interessano comunisti e democristiani, destinate poi a infittirsi in prossimità della campagna elettorale per le triplici elezioni del 1946, benché poi gli assetti usciti dalle urne non siano tali da minare ancora l‘unità antifascista esitente tra i due partiti; non almeno a San Casciano, dove  comunisti e democristiani si scambiano pubblicamente reciproche congratulazioni per i piazzamenti riportati all’indomani delle amministrative del 1946. Benché il lungo dopoguerra sia formalmente iniziato, l’ombra del conflitto che si è da poco lasciato alle spalle continua a popolare l’orizzonte comune di queste tre piccole comunità della provincia fiorentina, le cui forze politiche proprio in occasione delle prime elezioni amministrative libere del 1946 danno conto nei loro programmi elettorali di quanto fatto e di quanto ancora resta da fare per un completo ritorno – materiale, morale, sociale e politico – alla normalità.

Manifestazione CGIL San Casciano

Manifestazione della CGIL unitaria a San Casciano nell’immediato dopoguerra (Archivio La Porticciola)




Stato sociale anni Cinquanta: le carte dell’ENAOLI di Rispescia

L’archivio della Fattoria-Scuola E.N.A.O.L.I. di Rispescia (GR) può essere definito,a buon diritto, un piccolo tesoro. La sua acquisizione da parte dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea si è rivelata essere, sin dal primo sondaggio sulle carte, una grande fortuna per la ricerca e il patrimonio archivistico del territorio grossetano: il fondo rischiava seriamente il disfacimento, anche fisico, essendo rimasto per lungo tempo nei locali dell’ex-Collegio dell’Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani di Rispescia senza alcuna cura. Grazie all’iniziativa dell’associazione degli ex-allievi, e della Direzione dell’Istituto grossetano, le carte sono pervenute nei locali di quest’ultimo, pronte per i primi sondaggi e la definitiva sistemazione archivistica.

La Scuola professionale di formazione agricola di Rispescia, e l’Azienda di produzione agroalimentare ad essa associata, vennero costruite ed organizzate su iniziativa del succitato Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani, ente di diritto pubblico istituito inizialmente già nel 1941 (legge n.987 del 27 giugno) dal regime fascista con l’intento di coordinare in modo organico l’assistenza alle famiglie dei caduti sul lavoro, successivamente riconfermato nella sua esistenza e nelle sue funzioni con il decreto n. 327 del 23 marzo 1948. L’Ente, con sede centrale a Roma e uffici periferici nei capoluoghi delle province in cui sorgevano o sarebbero sorte le strutture di accoglienza ed educazione, operava sotto l’egida del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale; il suo scopo precipuo era finalizzato all’educazione morale, civile e professionale – sino al diciottesimo anno di età – degli orfani dei lavoratori mediante l’istituzione e la gestione di collegi-convitti o il ricovero in strutture gestite da altri enti, all’interno delle quali avrebbe dovuto curare l’avviamento professionale e il collocamento degli orfani assistiti. L’attività dell’Ente sarebbe proseguita fino al 1977, anno in cui il d.p.r. n. 616 del 24 luglio ne avrebbe decretato la soppressione nell’ambito della più generale riforma sulle autonomie locali e sul decentramento dei poteri alle Regioni.

7

Immagine della fattoria-scuola di Rispescia nel 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

I lavori di edificazione della fattoria-scuola di Rispescia, iniziati nel 1952, si conclusero nel 1955; la struttura poteva dirsi a regime a partire dal 1958, anno di completamento del primo ciclo scolastico. Fino al 1962 il piano formativo degli allievi prevedeva un ciclo scolastico post-elementare unico della durata di 6 anni; in quell’anno una generale riorganizzazione dell’assetto della Scuola professionale (nel frattempo elevata dallo Stato italiano a scuola pubblica con l’attestato finale fornito di valenza statale) avrebbe ridotto a 3 gli anni del ciclo post-elementare, introducendo 3 anni di Istituto professionale superiore. Fra il 1955 e il 1973 (stando ai dati raccolti nell’ambito di una ricerca interna compiuta in quell’anno), circa 650 ragazzi sarebbero stati ospitati a Rispescia: in maggioranza provenienti dal Sud e dalle Isole (molti dei quali trasferiti in Maremma da altri Istituti E.N.A.O.L.I. del Centro-Sud), in seconda battuta dalla provincia di Grosseto e più in generale dal Centro Italia; pochissimi i ragazzi provenienti dal Settentrione.

14

I ragazzi dell’ENAOLI di RIspescia impegnati nell’azienda agraria, 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

Le carte dell’archivio acquisito dall’ISGREC presentano una ricchezza qualitativa ed una completezza quantitativa assolutamente straordinarie: esse ci restituiscono un quadro oltremodo particolareggiato e ricco di informazioni su tutta la vasta gamma di attività che caratterizzavano la vita quotidiana della Fattoria-Scuola di Rispescia. Le oltre 220 buste che lo compongono restituiscono un affresco interessantissimo sull’attività scolastica (cartelle personali degli allievi complete di pagelle, profili psicologici, informazioni anagrafiche e sul collocamento al lavoro), sulla conduzione del Convitto (contabilità della mensa, spese per l’alloggiamento degli orfani, acquisti della biblioteca e della discoteca ecc.), sull’Azienda di produzione annessa (piani annuali di produzione e colturali, contabilità, attività sperimentali come quella relativa ad un impianto metanifero attivo sin dal 1955 ecc.).  Il fondo contiene poi ancora serie particolarmente regolari sul personale (sia didattico che amministrativo), la corrispondenza istituzionale e privata della Direzione, e infine, ma non ultimo per importanza, il fondo bibliotecario dell’Istituto professionale che aspetta ancora uno spoglio approfondito.

L’ISGREC, facendo tesoro del contributo regionale nell’ambito del programma “Giovani Sì, ma consapevoli” 2014-2015, ha portato a compimento, al termine di un anno di proficua attività di spoglio e sistemazione delle carte, una fase di mappatura preliminare della consistenza archivistica del fondo E.N.A.O.L.I. che offre alla ricerca e alla consultazione uno strumento prezioso e già operativo. Questo fondo archivistico, così interessante e prezioso per la conservazione e l’indagine di un pezzo non secondario della storia di Grosseto e del suo territorio, attende pur tuttavia una prosecuzione delle operazioni di catalogazione e di eventuale ricondizionamento, che una realtà come quella grossetana, sommamente bisognosa di fare luce sul suo passato, merita senza dubbio alcuno.




Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.




Un monument man poco conosciuto

Analizzando i complessi intrecci di eventi e personaggi che ebbero come sfondo la difesa dell’arte in Italia durante la Seconda guerra mondiale, il nome di Giorgio Castelfranco (1896-1978) non è forse tra i più noti. Tuttavia lo storico dell’arte ebreo, allontanato nel 1938 dalla prestigiosa direzione della Galleria di Palazzo Pitti in occasione della visita del Führer e cacciato definitivamente il 1° febbraio 1939 per effetto delle leggi razziali, è tra le figure centrali nella salvaguardia del patrimonio artistico dell’Italia all’alba della Liberazione.

ritratto

De Chirico, Ritratto di Giorgio e Matilde Castelfranco, 1924 (Fondo Castelfranco, archivio Bernard Berenson, I Tatti)

Castelfranco nacque nel 1896 da un’agiata famiglia ebrea e, dopo la laurea in Lettere a Firenze, sposò la cugina Matilde Forti, con la quale andò a vivere nel villino di Lungarno Serristori a Firenze, oggi Museo Casa Siviero. Il villino Serristori vide ospiti illustri, come Giorgio De Chirico, di cui Castelfranco divenne il maggior collezionista, e un giovane Rodolfo Siviero, all’epoca agente del SIM e meglio conosciuto oggi come lo “007 dell’arte”.

A seguito delle leggi razziali, Castelfranco fu quindi costretto a lasciare la Soprintendenza e a vendere la sua collezione per poter mettere in salvo i figli in America; nel 1942 salutò definitivamente la sua residenza fiorentina (che divenne il quartier generale di Siviero e della sua “squadra” di partigiani) per nascondersi nelle Marche. Con l’Armistizio (8 settembre 1943) si schiuse la possibilità per Castelfranco di offrire, dopo anni, la sua professionalità a servizio della salvaguardia del patrimonio artistico italiano e di ricominciare a vivere. Dopo esser riuscito a passare il fronte attraverso le montagne abruzzesi il 7 novembre 1943, venne finalmente riassunto a decorrere dal 1° dicembre 1943 dal governo Badoglio.

Dal febbraio all’aprile 1944, Castelfranco fu comandato a Salerno in qualità di Direttore reggente alle Belle Arti: in collaborazione con gli ufficiali alleati della sezione Monuments, Fine Arts, and Archives, riattivò il lavoro delle Soprintendenze del Sud e iniziò la ricostruzione degli edifici danneggiati.
Uomo mite, di grande intelligenza e cultura, con raro attaccamento al dovere e senso di responsabilità, nell’estate del 1944 si spostò a Roma e poi in Toscana, inviato a esaminare i depositi dove la Soprintendenza alle Gallerie di Firenze aveva ricoverato le opere d’arte dei musei. In particolare Montagnana e Montegufoni, nel comune di Montespertoli, dove lo attendevano, tra gli altri capolavori, la Primavera di Botticelli e la Maestà di Giotto.

Dopo la Liberazione di Firenze, Castelfranco si trasferì definitivamente a Roma, dove l’amico Siviero aveva creato un piccolo ufficio per il recupero delle opere d’arte sotto il Ministero della Guerra; successivamente l’Ufficio, subordinato al Ministero della Pubblica Istruzione, fu ufficialmente costituito a Firenze nel 1945 e in seguito istituito con decreto luogotenenziale a Roma nel 1946, sotto la supervisione del Ministero della Pubblica Istruzione, in accordo con i Ministeri della Guerra e degli Esteri. Siviero fu nominato responsabile del nuovo ente e della missione che il governo italiano inviò in Germania, su invito del governo militare alleato, per iniziare le pratiche di restituzione dei beni artistici requisiti dai nazisti.

Una delegazione di 14 membri, di cui entrò a far parte Castelfranco in qualità di rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione, iniziò i lavori nell’autunno 1946, presso il Collecting Point di Monaco, dove si raccoglievano le opere recuperate dai depositi tedeschi.

Nel lavoro di indagine e identificazione delle opere d’arte di provenienza italiana trafugate dai nazisti in Germania, Castelfranco svolse un ruolo chiave: la sua permanenza a Monaco durò circa tre mesi, parte dei quali egli fu il principale incaricato per le questioni artistiche. Il lavoro di Castelfranco si concentrò sulla ricerca e catalogazione di pezzi provenienti dal Museo Archeologico e dalla Pinacoteca di Napoli (futura Galleria di Capodimonte), trafugati durante la guerra dal deposito di Montecassino e recuperate dal deposito di Altaussee presso Salisburgo. Nel novembre 1946 l’imballaggio dei materiali reperiti nell’”immenso deposito” bavarese fu concluso, ma si aprì una complessa procedura relativa al rimpatrio, che si sarebbe conclusa nell’agosto del 1947.

Il risultato della missione fu il ritorno in Italia delle oreficerie e dei bronzi antichi del Museo Archeologico, nonché dipinti famosissimi di Tiziano, Raffaello, Parmigianino, Sebastiano del Piombo provenienti dalla Pinacoteca. A queste si aggiunsero cinque campane provenienti dalla provincia di Lucca rinvenute a Regensburg.

5 mostra 1947 foto 3 Siviero Clay DeNicola DeGasperi Gonella e Danae di Tiziano

Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania alla Villa Farnesina (1947). Da sinistra Rodolfo Siviero, Lucius Clay, Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi e Guido Gonella all’inaugurazione della mostra il 9 novembre 1947, ritratti accanto alla Danae di Tiziano (Biblioteca Casa Siviero)

Le opere furono ufficialmente consegnate alla delegazione italiana il 7 agosto 1947 e fin da subito iniziarono i lavori per organizzare una grande mostra alla Villa Farnesina a Roma. Nelle settimane successive fu lo stesso Castelfranco a curare, nella sua veste di alto funzionario del Ministero, la preparazione, l’allestimento e il catalogo della prima “Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania”, che aprì i battenti il 10 novembre 1947.
L’inaugurazione si tradusse in una cerimonia ufficiale ed ebbe un significativo risalto sulla stampa italiana, che sottolineò diffusamente il valore delle opere esposte e la valenza risarcitoria della restituzione. Alla manifestazione parteciparono De Gasperi, il presidente della Repubblica De Nicola, il ministro della Pubblica Istruzione Gonella e il ministro degli Esteri Sforza, l’ambasciatore James Clement Dunn, il governatore militare della zona di occupazione statunitense in Germania Lucius Clay, Robert Murphy, consigliere politico per gli affari europei del dipartimento di Stato USA e un ampio staff di funzionari statunitensi.

6 allestimento

Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania alla Villa Farnesina (1947): la Sala delle Prospettive con i bronzi antichi del Museo Nazionale di Napoli (Fondo Castelfranco, archivio Bernard Berenson, I Tatti)

Nella prima rassegna di “capolavori recuperati”, presentati in un allestimento volutamente sobrio sullo sfondo degli affreschi rinascimentali della Villa, spiccavano i bronzi romani e la collezione di oreficeria antica del Museo Nazionale di Napoli, nonché i capolavori provenienti dall’attuale Galleria di Capodimonte di Napoli, come la Danae di Tiziano, prediletta da Göring, scelta come immagine simbolo di tutta la mostra.

Aurora Castellani, Francesca Cavarocchi, Alessia Cecconi sono le curatrici della mostra “Giorgio Castelfranco: un monument man poco conosciuto” (Firenze, Museo Casa Siviero, 31 gennaio-31 marzo 2015).




Pistoia, 28 gennaio 1947: sciopero generale

I podromi del primo sciopero generale provinciale iniziarono a farsi sentire già nel dicembre 1946. Nel corso del mese il Pastificio Maltagliati a Margine Coperta e quello Giaccai di Pescia sospendevano la produzione per mancanza di farine. A Pescia anche la manifattura Cavallucci effettuava licenziamenti. Il 18 i mezzadri manifestavano massicciamente a Pistoia chiedendo l’applicazione del Lodo De Gasperi. In montagna, una serie di manifestazioni dei disoccupati in favore della ricostruzione causavano tensioni a più riprese e blocchi stradali. Anche i lavoratori ospedalieri scendevano in sciopero. Il 20 infine la fornitura di energia elettrica si interrompeva alla San Giorgio, la più importante industria della zona, bloccando la produzione. Una manifestazione di un migliaio di operai si recava in Prefettura provocando lievi scontri. Il Prefetto Mazzolani si dimostrava preoccupato. Fin dalla fine della guerra la conflittualità sociale era stata all’ordine del giorno, la disoccupazione e l’inflazione alte, ma in due anni la situazione non solo non era migliorata ma sembrava addirittura peggiorare, esasperando gli animi.

La stessa CGIL si trovava alla testa di agitazioni che a stento riusciva a controllare, specie in montagna e tra i disoccupati. Il 20 dicembre la Camera del Lavoro di Pescia votava un ordine del giorno contro il caro prezzi, che il Prefetto dispose riconoscendo che ormai il costo della vita aveva raggiunto limiti sproporzionati rispetto alle possibilità dei lavoratori e dei ceti medi. Ai primi di gennaio Mazzolani invocava al Ministero dei lavori pubblici i finanziamenti per la ricostruzione, promessi ma fermi per motivi burocratici, sottolineando che i disoccupati di San Marcello erano «ridotti alla fame» e che il rischio di nuove agitazioni era alto.

Tuttavia, la situazione a gennaio continuò ad aggravarsi. Tra il 9 e il 10 la fornitura di elettricità si interrompeva in quasi tutte le industrie della provincia, lasciando fermi più di ottomila lavoratori. Il 20 la protesta esplose a Campotizzoro. I disoccupati occuparono gli uffici telegrafici e annonari, chiedendo lavori pubblici, l’assorbimento di una parte di loro alla SMI, la riduzione dei prezzi, il pagamento del Premio Repubblica, un sussidio straordinario e la distribuzione di pasta. Gli operai della SMI entrarono in sciopero per solidarietà. I disoccupati a quel punto bloccarono anche la strada statale, desistendo solo dopo una mediazione portata avanti dai Carabinieri, dai rappresentanti della CdL e dalla Prefettura. In montagna si era intanto formato un Comitato pro-agitazione che intendeva proclamare lo sciopero. In questo contesto, il Questore si recava a Firenze per convincere il direttore della SMI, Orlando – inviso ai lavoratori per il suo coinvolgimento con il regime fascista –  ad assumere alcuni disoccupati. Orlando però rifiutava sia l’assunzione sia la successiva proposta prefettizia di partecipare a un tavolo di trattativa. Il Comitato intanto proclamava l’intenzione di riprendere l’azione entro tre giorni in mancanza di risultati.

A quel punto la Camera del Lavoro rischiava di essere scavalcata e si assunse, tra il 23 e il 24, la direzione dell’agitazione, che si stava trasformando anche in un braccio di ferro con la direzione della SMI. Venne presentato al Prefetto un piano per l’assorbimento di 350 disoccupati, 150 direttamente alla SMI e 200 presso un’azienda agricola collegata.

In montagna erano in agitazione circa duemila lavoratori, tra disoccupati e maestranze SMI, a cui si aggiunsero altri 500 operai delle Cartiere Cini. Dal 25 gli operai della San Giorgio entravano in sciopero bianco. Tutte le trattative restavano ferme al palo per il rifiuto intransigente di Orlando di sedere al tavolo, nonostante gli sforzi di Mazzolani.

Il 28 la CGIL proclamava lo sciopero generale, con una piattaforma rivendicativa ad ampio raggio:  indennità mensa; miglioramenti salariali; Premio Repubblica per le lavoranti a domicilio; applicazione dell’accordo nazionale per gli operai artigiani; miglioramenti salariali; assegni di famiglia; gratifiche natalizie ai lavoratori agricoli; applicazione Lodo De Gasperi; miglioramenti ai pensionati; ribasso generi largo consumo e tesseramento; distribuzione normale generi  alimentari; provvedimenti contro il mercato nero; risoluzione problema dell’energia elettrica.

In provincia si fermava tutto ad eccezione dei negozi alimentari e dei servizi di pubblica utilità. L’Associazione degli industriali accettava di sedersi al tavolo, ma la trattativa si preannunciava difficile. Messa alle strette, la SMI accettava l’assunzione di un centinaio di disoccupati. Tuttavia l’Associazione degli industriali subordinava la discussione di tutti i punti alla cessazione dello sciopero, cosa che la CGIL rifiutò. A quel punto nelle trattative si inserirono anche il Sindaco di Pistoia, il segretario nazionale della Fiom e la CdL di Firenze. L’accordo venne raggiunto il 30, prevedendo l’assunzione da parte della SMI di 50 lavoratori e l’avviamento al lavoro in Svizzera per altrettanti, insieme ad un sussidio. L’Associazione degli industriali si impegnava a collocarne altri 120 e a proseguire le trattative sugli altri punti, conclusesi poi in sede regionale con un nulla di fatto. Alla San Giorgio tuttavia alcuni operai intendevano continuare lo sciopero per protestare contro l’accordo, convinti a desistere da Valdesi della CGIL. Il 31 infine arrivava un altro risultato dal versante statale, con l’estensione del sussidio di disoccupazione a tutte le categorie industriali, ai braccianti e ai lavoratori edili.

L’esito dello sciopero fu incerto. Da una parte segnava un primo e palpabile successo della linea intransigente di Orlando, seppur in sordina. Dall’altra la CdL incassò alcuni risultati, sia economici che politici, ma piuttosto miseri rispetto alle richieste ed ai rischi presi. Forzata dall’agitazione dei disoccupati e probabilmente dall’entusiasmo dei militanti comunisti, la CdL usciva dallo sciopero con l’amaro in bocca e con uno strascico pesante al suo interno. Per la prima volta venne alla luce pubblicamente un dissidio tra la componente comunista, guidata da Valdesi, e quella democristiana di Turco, seppur ad acque ormai calme. L’esponente DC considerava lo sciopero in montagna mal impostato ed espresse riserve anche sulla costruzione della piattaforma, a suo dire inadatta. Le richieste erano legittime ma si era rischiato di impegnare il sindacato in una trattative lunga e pericolosa, punto su cui convergevano anche i socialisti con Morandi. I comunisti accusarono la componente DC di aver sottilmente sabotato lo sciopero. La vicenda arrivò fino a Roma, con l’ipotesi di una commissione di  inchiesta da parte della CGIL nazionale, mentre i democristiani si ritiravano dalla segreteria della Camera del Lavoro pur continuando l’attività nei sindacati di categoria.

 Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.