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Livorno 1919: fra tumulti e rivoluzione

La Grande guerra è finita da pochi mesi ma, nella primavera del 1919, il precipitare del disagio economico sembra riportare la conflittualità di larghi settori popolari alla rivolta per la mancanza di viveri avvenuta a Torino nell’agosto 1917. Il prezzo di tutti i generi di prima necessità, dal cibo al vestiario, è rapidamente salito a livelli insostenibili per la classe lavoratrice che avverte l’inadeguatezza delle rivendicazioni salariali nella rincorsa del valore di acquisto del danaro. In particolare, nei primi mesi del 1919, avviene un ulteriore brusco rialzo dei prezzi; rispetto al 1914, i prezzi dei generi di consumo popolare  risultano aumentati in tre anni del 300%.

Persino la neonata Confederazione Generale dell’Industria Italiana, presagendo che tale questione può innescare gravi conseguenze, all’inizio di giugno presenta al governo una richiesta affinchè fornisca i più importanti generi alimentari, come il pane, a prezzi popolari senza tener conto del costo di produzione (cfr. R. Sarti, 1977). Nel mese di giugno, da La Spezia si estende ed esplode una prima ondata di moti contro il caroviveri, dalla Liguria alla Lunigiana e alla Versilia; quindi l’agitazione si riaccende alla fine del mese, a partire dalla Romagna, raggiungendo la sua massima intensità nella prima settimana di luglio.

In Toscana è il tempo del bolscevismo o del Bocci-Bocci, deformazione linguistica popolare che unisce il termine bolscevismo con l’espressione fiorentina «fare i cocci» che sta per rompere tutto (cfr. A. Pescarolo,  G.B. Ravenni, 1991; R. Bianchi, 2001). Nonostante tale richiamo rivoluzionario e gli intenti delle “avanguardie”, in realtà, «massimalisti e anarchici si trovano piuttosto a “rincorrere” le azioni di folla per tutto l’anno» (cfr. R. Bianchi, 2006). Infatti, i socialisti ne prendono le distanze; se per Amedeo Bordiga, a capo della frazione intransigente del Partito socialista: «il concetto dell’espropriazione simultanea all’insurrezione ed attuata capricciosamente da individui o gruppi, implicito nella frase di “sciopero espropriatore” è un concetto anarcoide, che nulla ha di rivoluzionario» («Avanti!», 20 luglio 1919), per la corrente riformista, per bocca di Claudio Treves al Congresso socialista di Bologna, «si tratta di masse guidate più dallo spirito di Masaniello che da quello di Marx».

Tabella (2)Anche a Livorno, da settimane, agli scioperi riguardanti diverse categorie – tipografi, portuali, scaricatori, tessili, impiegati del settore privato, insegnanti, dipendenti comunali… – si andava sommando l’agitazione sociale, a partire dal prezzo dei beni essenziali per l’alimentazione delle famiglie proletarie, in una sovrapposizione di linguaggi e pratiche (cfr. R. Bianchi, 2014). La protesta contro il carovita fuoriesce dalle fabbriche e dagli altri luoghi di lavoro. È opinione diffusa che l’attesa operaia per una sorta di scala mobile sia insufficiente e si ritengono inadeguate le rivendicazioni sindacali, mentre le tensioni scoppiate al mercato centrale confermano la rilevanza di settori di classe con una cultura politica segnata più dal sovversivismo di origine repubblicana e anarchica, che dal socialismo riformista di Modigliani. Cominciano i repubblicani con una riunione, alla fine di maggio, del loro Comitato di azione sociale, presso la sede della Unione Magistrale, presieduta da Cesare Tevené. Vi partecipano i rappresentanti delle leghe operaie e di numerose organizzazioni popolari. Viene decisa la costituzione di un Comitato d’agitazione contro il caro viveri, formato dai rappresentanti dei sodalizi locali di ogni tendenza politica. Si mira ad un prestito, da chiedere al governo per l’acquisto di derrate alimentari da lanciarsi sui mercati e si prospettano vendite senza intermediari. Qualche giorno dopo, si tiene una nuova riunione per nominare il comitato direttivo coi rappresentanti di ogni struttura aderente e per designare una giunta esecutiva di sette persone: Adolfo Minghi, Amleto Bazzoni, Francesco Silici, Ezio Cagliata, Alfredo Fiorini, Gualtiero Corsi e Gastone Mannucci (cfr. V. Marchi, 1973). Particolarmente significativa appare la figura di quest’ultimo: classe 1874, facchino, repubblicano intransigente e affiliato alla massoneria, detto Libeccino, abitante in via Eugenia; già attivo interventista nel 1915, poi dal 1923 esule antifascista con la famiglia in Francia (ACS, CPC, fasc. 58576).

Intanto nella cittadinanza cresce il malumore, ma la Camera del lavoro tarda a comprendere l’evolversi del risentimento popolare e stenta a reagire di fronte alle drammatiche notizie provenienti da La Spezia dove ci sono stati due morti e sette feriti tra i manifestanti. Scoppiano quindi, spontaneamente, i primi tumulti al mercato centrale, detto “delle vettovaglie”: le donne protestano clamorosamente davanti ai banchi, anche con colluttazioni con gli esercenti.

Il neonato Comitato di agitazione contro il caro-viveri è presto abbandonato dalle Leghe operaie di orientamento socialista che spingono per una più decisa «azione politica» a livello nazionale.

Malgrado la scissione, il Comitato repubblicano d’azione sociale prosegue la sua attività. Il 14 giugno c’è una adunanza alla “Fratellanza Artigiana” presieduta dal ferroviere Gino Reggioli – segretario Gastone Mannucci – «per una azione energica che, al di sopra di tutti i partiti, unisca tutti i consumatori nella lotta santa contro gli affamatori» («La Gazzetta Livornese», 13-14 giugno 1919). Vi aderiscono il sindacato ferrovieri, la cooperativa ferroviaria, la cooperativa mutuo soccorso operai cementisti, i pensionati ferrovieri, la Federazione nazionale ufficiali della riserva, l’Associazione nazionale dei combattenti, la cooperativa Alleanza, la Garibaldini e reduci, la Società cooperativa maestri d’ascia e calafati, il Fascio d’azione sociale, le cooperative Attività, Unione ferroviaria, Indipendenza, Mercantile, Privativa, la Società scaricatori dei marmi della stazione marittima, la cooperativa Ordine e Lavoro, la Società infermieri e infermiere, il Sindacato tramvieri, l’Associazione mutilati ed invalidi, gli avventizi ferroviari, la Società mutuo soccorso navicellai, la Lega lavoranti fornai, la Lega spazzini municipali, la Cooperativa tiraggio e rinfusi, la Federazione operaia farmacisti. Nella riunione si nomina una commissione di venti persone per la stesura di un programma «di azione radicale ed energica» e una decina di giorni dopo il Comitato viene ricevuto dal Prefetto, ottenendo l’impegno per un ribasso dei prezzi e l’adozione di un tariffario con i massimali per i generi alimentari. Viene anche annunciata l’attivazione di un calmiere su ortaggi e frutta («La Gazzetta Livornese», 27-28 giugno 1919).

Intanto l’assemblea delle Leghe operaie in un suo ordine del giorno ritiene ancora «non opportuno lo sciopero generale per protesta contro il caro-viveri, mentre il consiglio delle Leghe è pronto a rispondere all’appello della Confederazione del lavoro per uno sciopero politico». Intanto, alla fine di giugno i tramvieri entrano in sciopero contro il rialzo dei prezzi. Viene istituito il «calmiere del popolo»: consumatori ed acquirenti stabiliscono spontaneamente il prezzo che dovranno avere le merci giorno per giorno; ma i negozianti cominciano a sottrarre i prodotti, oppure, quando accettano il prezzo del calmiere, subito rimangono senza scorte.

 5 LUGLIO

 telegrafo_5LuglioNella Cronaca della città, su «Il Telegrafo» del 4 luglio 1919, si apprende che presso i Regi Bagni Pancaldi sono cominciati i concerti diurni e notturni, senza alcun aumento del prezzo d’ingresso. Poco sopra questo rassicurante trafiletto viene però riportata la notizia che «l’ufficio municipale annonario fa del suo meglio onde arginare l’ingordigia degli speculatori e per imporre l’obbedienza ai regolamenti e ai calmieri» e che sette esercenti sono stati «denunziati all’Autorità giudiziaria» per aver venduto merce a prezzi superiori a quelli previsti e per altre irregolarità. Nello stesso giorno, il Prefetto informa che il governo ha disposto una risibile riduzione del prezzo della carne congelata di Lire 1,50 al chilo. Si arriva così a sabato 5 luglio, in una situazione già tesa, mentre giungono notizie di sommosse in altre città.

Come nel maggio 1898, quando popolane e cenciaine avevano dato l’assalto ai forni, di nuovo le donne sono le prime a prendere l’iniziativa, affiancate da alcuni soldati: attorno a mezzogiorno c’è una prima irruzione nel negozio di calzature di lusso “Varese” di via Vittorio Emanuele [l’attuale via Grande], dove i prezzi non erano stati ribassati: «direttore e commessi del negozio, impossibilitati a contenere la valanga umana, sono rimasti muti e tremanti spettatori della scena» («Il Telegrafo», 6 luglio 1919). Al diffondersi della notizia dell’accaduto, nel pomeriggio sono prese d’assalto le botteghe di Borgo Cappuccini: «erano gruppi di uomini decisi a tutto, erano donne e ragazzi che si pigiavano dinanzi alle saracinesche e agli usci», mentre «molte persone assistevano passivamente ai saccheggi a breve distanza». Le forze dell’ordine evitano d’intervenire, anche per la presenza di soldati tra la folla, attenendosi alle disposizioni del Prefetto che, evidentemente, ritiene controproducente un’immediata repressione. Da Borgo Cappuccini, la sommossa si sposta sul lungomare, in direzione dell’Ardenza, con «saccheggi e requisizioni in ogni arteria, in ogni strada»; i negozianti reagiscono chiudendo le botteghe, ma avvengono anche incidenti, sassaiole e sparatorie: «sarebbe opera vana e… ciclopica diffonderci ad enumerare tutti i negozi assaltati e razziati. Il numero è di essi assai alto»; almeno una trentina solo quelli segnalati nelle cronache cittadine («La Gazzetta Livornese», 7-8, luglio 1919). Alla fine della giornata si contano una quindicina di feriti, tra cui quattro fra le forze dell’ordine.

Nel tentativo di arginare e gestire la situazione la Camera del lavoro – in contatto col sindaco Rosolino Orlando – si assume la responsabilità della requisizione collettiva. Tra l’una e le cinque del pomeriggio, mentre uno sciopero non-dichiarato sta bloccando la città, squadre di giovani aderenti, seguendo le direttive camerali, rastrellano merci nei negozi, immagazzinandole nei vari centri di raccolta allestiti presso il Teatro S. Marco, già ridotto a deposito durante la guerra; il mercato centrale; la Camera del lavoro, la sede dell’Unione repubblicana e la sezione socialista in piazza S. Jacopo, per ridistribuirli alla popolazione a prezzi calmierati. All’Ardenza si registrano alcuni espropri, ma nel borgo sovversivo l’agitazione appare sostanzialmente in mano alla sezione socialista e al gruppo anarchico, nonché della sezione della Camera del lavoro che stipula direttamente con i commercianti ardenzini, disponibili ad un «concordato collettivo» per il ribasso dei prezzi, in linea con l’ordinanza del Comune di Livorno. Nella serata, si tiene un comizio in via del Pastore tenuto dal muratore socialista Giovanni Cerri e dal noto esponente anarchico “Amedeo” (Adolfo) Boschi; viene approvato un ordine del giorno nel quale sta scritto: «Il popolo dell’Ardenza […] mentre saluta il risorgere della energia proletaria, che sembrava fiaccata dall’orribile guerra […] e mentre manda il saluto augurale ai rivoluzionari di Russia, di Ungheria e di Germania, rileva che la crisi economica che oggi affama i popoli non dipende dalla sola ingordigia dei ladri grossi e piccoli del commercio, ma è insita in tutto il sistema sociale vigente, che trova la sua base sulla proprietà privata, e invita perciò i fratelli operai a pensare che la totale emancipazione dei lavoratori non avverrà finchè tutto non sarà di tutti, finchè non si effettuerà il motto «chi non lavora non mangia» (R.Bianchi, 2001). La stessa risoluzione viene approvata a Piombino il giorno seguente in un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana (cfr. P. Bianconi, 1970), nel tentativo anarco-sindacalista di indirizzare il malcontento popolare verso uno sciopero che sviluppi un movimento rivoluzionario per rovesciare l’ordine economico e politico del paese.

 6 LUGLIO

 «L’insurrezione contro gli affamatori si va estendendo in tutta Italia»: questo il titolo in prima del quotidiano socialista «Avanti!» di domenica 6 luglio.

A Livorno, «gli eventi sfuggirono [anche] dalle mani di Boschi, in quanto la folla dimostrò di non essere disposta a sottomettersi alle direttive politiche degli anarchici più di quanto lo fosse a quelle socialiste […] Il Mercato centrale, nel quale erano state depositate le derrate alimentari per essere vendute al pubblico, venne saccheggiato soprattutto da donne e bambini e le merci, invece che vendute, vennero trafugate» (T. Abse, 1990). Nella notte, invece, era stata invasa l’elegante trattoria “La Casina Rossa” nella centrale via Vittorio Emanuele; tra i diversi denunciati per tale espropriazione figura anche Bruno Piccioli, un caporal maggiore fiorentino che aveva disertato dalla caserma di marittima, sede dell’88° reggimento fanteria.

Nel pomeriggio, la presenza in città di polizia, carabinieri e militari si fa più consistente, anche se prudente: «reparti di truppa dislocati nei vari punti della città, un via vai di camions colle mitragliatrici» («La Gazzetta Livornese», 7-8 luglio 1919). La stampa locale riferisce di un primo gruppo di 36 arrestati (25 per saccheggio, 1 per porto di coltello, 4 per eccitamento alla disobbedienza alla legge, 5 per oltraggio e resistenza alla forza pubblica), «tra cui noti ladri e altrettanto noti sovversivi» (T. ABSE). Viene riferito che vi sono «tra gli arrestati individui accusati di grida sediziose di propaganda sovvertitrice. Fra essi è un giovanotto che sabato sera mostrava un cencio rosso ai militari invitandoli a inneggiare al comunismo e bolscevismo». Tale Goffredo Angarelli è accusato di «oltraggio con vie di fatto nei confronti del capitano comandante il corpo delle Guardie di città» («La Gazzetta Livornese», 7-8, 8-9 luglio 1919). Si apprende pure dell’arrivo in città, proveniente da Udine, di un battaglione di “Bersaglieri mitragliatori”, temporaneamente acquartierati presso le scuole Benci.

Nelle stesse ore, si tiene una riunione allargata in Municipio. Da parte sua il Comune ordina la riduzione del 50% sui prezzi dei generi compresi nel calmiere e del 70% sugli altri. Nei fatti è la Camera del Lavoro che, dal giorno prima, cerca di coordinare la requisizione e la vendita a prezzi calmierati dei prodotti, fornendo ai negozianti cartelli informativi da affiggere fuori dai loro esercizi, al fine di proteggerli dall’esasperazione popolare. Molti negozianti decidono volontariamente di consegnare le chiavi alla Camera del lavoro. Quando i cartelli affissi non recano il timbro camerale i negozi vengono depredati o requisiti, ma talvolta non c’è avviso o timbro sufficienti per fermare gli espropri più o meno selvaggi, come avviene per una salsamenteria in via Cairoli, pur aderente al calmiere.

Carabinieri e bersaglieri intervenuti sul posto eseguono 14 arresti; risultano asportati prosciutti, salami, formaggi, scatolame ed anche soldi, per un danno denunciato di L. 20.000 («La Gazzetta Livornese», 24-25 luglio 1919). Svuotati sono pure i magazzini sugli Scali del Pesce, quelli dei Bottini dell’Olio, affittati dal municipio ai grossisti e agli importatori, i fondi dei grossisti di via della Posta, i depositi di vino e liquori di via Cairoli, nonostante la vicinanza della caserma di PS. Saccheggiato anche il magazzino comunale dell’Ente autonomo dei consumi in via del Vescovado, già requisito per depositi. Impossibile fermare la moltitudine: «gli addetti della Camera del lavoro invano si opposero allo scempio». Secondo un primo rapporto del Prefetto «furono vuotati 53 magazzini, contenenti in maggior parte vini, oli, formaggi e qualcuno tessuti, calzature e simili, per un valore complessivo approssimativo di circa 800.000 lire, a quanto hanno dichiarato i danneggiati». Prosegue intanto la requisizione gestita dalle organizzazioni politiche e sindacali: per il trasporto della merce vengono usati camion, barrocci ed anche auto private requisite a ricchi imprenditori, quali Orlando, Corradini, Rosselli, Folena, Guidi. Davanti alla Camera del lavoro, «c’è grande animazione. Sono squadre di giovani muniti di bracciale rosso che vanno e vengono e che salgono e che scendono da automobili e camions. Le squadre ricevono ordini e si allontanano sulle locomobili». Al teatro S. Marco, dove i giornalisti non sono graditi, sventolano la bandiera rosso-nera della Federazione Socialista e un drappo nero degli anarchici (R. Marchi, 1973); su l’«Avanti!» si legge, non senza enfasi, che «Livorno è in mano ai soviet del popolo». Molte trattorie “alla carta” e caffé di lusso continuano ad essere depredati da una folla eterogenea, nonostante che la Camera del lavoro cerchi di mantenere il controllo nelle strade per evitare altri atti di vandalismo.

 7 – 8 LUGLIO

telegrafo_8luglioPrendendo atto della situazione, per l’indomani, la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale e sollecita l’intervento delle autorità governative per un urgente approvvigionamento di viveri. Lo sciopero, secondo la CdL, deve però terminare a mezzanotte del 7 luglio, anche se i portuali, tra i quali è forte la presenza anarchica, lo prolungano sino a martedì 8. Nello stesso giorno sui muri appare un manifesto ai cittadini della Giunta esecutiva della CdL nel tentativo di riprendere in mano la situazione:

Le organizzazioni operaie vi approvano e sono al vostro fianco ed in vostro nome i rappresentanti della Camera del lavoro hanno fatto sentire la vostra parola e fatto valere i vostri propositi di fronte all’autorità. Così è stato deliberato che le merci dei negozi, le cui chiavi sono state consegnate alla Camera del lavoro ed al municipio, debbono essere considerati requisiti […] Voi potete essere contenti di quanto avete ottenuto ed appunto perciò dovete vigilare che gli impegni dell’autorità siano eseguiti subito ed interamente e che elementi spuri non sfruttino per privata ingordigia il grandioso movimento del popolo.
Quindi sospendete le requisizioni!

Al termine dell’agitazione si fa sentire anche il movimento popolare cattolico: l’esecutivo del PPI  commenta che «la sommossa recente è diretta e logica conseguenza di una colposa diuturna trascuratezza del governo». Aggiunge che «lo sciopero non può bastare nello scatto del risentimento popolare per quanto giustificato […] Questo del caro-viveri è problema complesso determinato da cause e fattori molteplici che non hanno carattere locale ma nazionale ed internazionale». I cattolici non vanno oltre questa genericità e l’indicazione di alcuni rimedi di ordine generale, «ad onta e al di sopra di tutte le resistenze burocratiche e dei gruppi interessati che sono i veri affamatori del popolo».

I repubblicani, vedendo il loro operato sconfessato dalle pratiche collettive illegali, accusano le «autorità governative e comunali», deplorando che «il giusto malcontento popolare si trasformi in semplici tumulti caotici, che i saccheggi e le devastazioni allontanino il trionfo della rivoluzione» («Il Dovere», 6 luglio 1919).

I dirigenti della Camera del lavoro e del Partito socialista, da parte loro, più pragmaticamente, hanno cercato di controllare e politicizzare la spontanea ribellione popolare «livellando così il movimento per rappresentarlo, garantire un nuovo tipo di ordine pubblico, governare la politica annonaria» (R. Bianchi, 2001).

La Camera del lavoro, in un manifesto rivolto ai lavoratori, cerca quindi di far rientrare i moti in una prospettiva emancipatrice di lungo periodo: «Ricordatevi della vostra forza; se pensate anche, che se vorrete essere gli eredi della società che vi opprime bisognerà che sappiate essere non solo forti, ma anche capaci di dirigere il nuovo ordinamento sociale» (cfr. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, 1977).

Anche la Federazione Socialista, con evidente allusione polemica con i repubblicani per il loro recente interventismo, appare sulla stessa linea “di responsabilità”:

Lavoratori, il caroviveri è una conseguenza della guerra; quelli che si fanno paladini dei vostri interessi esigendone la diminuzione immediata, sapendo che tale rimedio esula dalle loro possibilità, vi tradiscono. Essi che furono i maggiori responsabilità del macello immane e della rovina della ricchezza sociale, devono tacere. Il rimedio a tutti i mali non si trova assaltando i negozi, che è effimero,, ma assaltando la diligenza borghese che già corre traballando verso la perdizione («La Parola dei Socialisti», 13 luglio 1919).

In altre parole, la dirigenza socialista – locale e nazionale – dopo aver sottovalutato l’occasione dei moti ed anzi operato per il ritorno alla legalità, depotenziando il movimento di protesta, mira ad incanalare politicamente le residue tensioni, a partire dallo sciopero generale internazionale indetto per il 20 e 21 luglio contro la posizione ostile del governo italiano nei riguardi delle rivoluzioni socialiste.

Significativo anche il comunicato della sezione livornese dell’Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra in cui viene promesso tutto l’appoggio «ad ogni buona, giusta e pratica azione popolare, che sia di riparo al mal Governo dei pubblici poteri» («La Gazzetta Livornese», 8-9 luglio 1919).

Il Fascio liberale rivolge invece ai cittadini un appello interclassista: «il male prodotto dai disordini di questi giorni chiede rimedio urgente, mentre si impone la necessità di scongiurare l’approssimarsi dello spettro della fame che colpirebbe poveri e ricchi, borghesi e proletari» (cfr. V. Marchi, 1973); ma finanche il direttore de «Il Telegrafo», quotidiano di notoria impostazione borghese, deve ammettere:

Anche il popolo di Livorno – seguendo l’esempio di altre città consorelle – ha tentato di sciogliere da se stesso il problema spasmodico del caro viveri, visto e considerato che il Governo nuovo, come il vecchio, continuava a trastullarlo con le solite promesse ed a consentire agli affamatori i più ignobili arbitrî e le più sfacciate sfide alla longanimità collettiva (cfr. R. Cecchini, 1993).

Il 10 luglio – giovedì – il Prefetto ordina la requisizione dei generi alimentari e il Questore  l’arresto dei commercianti che l’ostacolano o che vendono a prezzi non concordati. Ai proprietari vengono rilasciate “ricevute” firmate da sindaco e Prefetto che si assumono la responsabilità della requisizione e della vendita alla cittadinanza a prezzi fissi, resi noti tramite un manifesto.

Al fine di prevenire nuovi tumulti, il governo – su sollecitazione dell’on. Modigliani e tramite il ministro Murialdi – ordina al Prefetto di Pisa di far destinare parte dei viveri disponibili nella sua provincia a quella di Livorno per le più critiche condizioni in cui versa.




Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.




Detenuti jugoslavi nelle carceri italiane: la casa di pena di Volterra

Durante la seconda guerra mondiale, alcune carceri italiane furono utilizzate come luogh di detenzione per i civili – donne e uomini – condannati dal sistema militare e civile che amministrava la giustizia nei territori occupati o annessi della Jugoslavia. Ci riferiamo al Tribunale militare di guerra della II armata che aveva sedi a Fiume, Lubiana e Sebenico; al Tribunale militare di guerra di Cettigne in Montenegro; e al Tribunale speciale per la Dalmazia, istituzione civile voluta dal governatore Giuseppe Bastianini ma affidata alla gestione di giudici militari.

La funzione di questi apparati – in particolare all’interno del sistema repressivo –, il loro funzionamento, il numero e le tipologie delle condanne, ecc. sono argomenti che solo negli ultimi anni stanno diventano oggetto di studio da parte degli storici italiani.

L’associazione Topografia per la storia, che cura il progetto campifascisti.it, sta portando avanti un lavoro di mappatura dei luoghi di detenzione per i quali sono passate centinaia e centinaia di donne e uomini jugoslavi tra il 1941 e il 1944.

In genere, i detenuti politici in attesa di giudizio erano ristretti nelle carceri prossime alle sedi dei tribunali, quindi nei territori annessi dopo l’occupazione. Successivamente alla condanna definitiva – i processi non duravano a lungo sia perché non esisteva di fatto la possibilità di difesa sia perché era previsto un solo grado di giudizio –, i detenuti erano trasferiti, di solito dopo un passaggio nel carcere di Capodistria che funzionava quindi come luogo di transito e smistamento, in istituti dove i prigionieri avrebbero scontato la pena inflitta.

Tra i molti luoghi che stiamo censendo c’è anche il carcere di Volterra.

Grazie alla direzione del carcere che ci ha autorizzato a consultare il suo archivio storico inedito ancora custodito all’interno della fortezza medicea, e alla Regione Toscana che ha cofinanziato la ricerca, siamo stati in grado di ricostruire le brevi biografie (con la data e il luogo di arresto, il reato commesso, il tribunale giudicante, la pena comminata e il percorso di detenzione) di 436 detenuti politici sloveni, croati e montenegrini. Biografie che si possono consultare in un nuovo data base, in continuo aggiornamento, di recente aggiunto agli altri strumenti disponibili sul sito campifascisti.it.

 Di seguito riportiamo la scheda sul carcere di Volterra pubblicata sul sito.

Il carcere di Volterra e i detenuti jugoslavi 1941-1944

 Dal dicembre 1941 fino alla fine del mese di maggio 1944, la casa di reclusione di Volterra fu uno dei luoghi in Italia destinato alla detenzione dei civili jugoslavi condannati in via definitiva dai Tribunali militari di guerra. I registri del carcere toscano, ancora oggi conservati presso la storica fortezza medicea, riportano i nomi di 436 montenegrini, croati e sloveni che, per periodi più o meno lunghi, furono detenuti nel carcere.

 I primi ad arrivare, nel corso del mese di dicembre 1941, furono 24 montenegrini condannati dal Tribunale militare di guerra che aveva sede a Cettigne (Cetinje), oltre a un detenuto sloveno proveniente dalle carceri di Trieste. Sempre dal Montenegro, il 19 aprile 1942 giunse a Volterra il secondo trasporto composto da altri 47 detenuti.  Da quel momento in poi, gli arrivi alla fortezza si susseguirono con regolarità. Così, alla fine del 1942 si contavano 151 detenuti jugoslavi; alla data dell’8 settembre 1943 il loro numero era salito a 358. Il mese con il maggior afflusso di detenuti fu il marzo 1943, quando giunsero a Volterra 64 jugoslavi, tutti provenienti per sfollamento dal carcere di Capodistria.

Quanto alla provenienza geografica, il maggior numero di detenuti arrivava dal Montenegro (137 condannati dal Tribunale militare di Cettigne). Pochi di meno erano i dalmati (115 condannati dal Tribunale speciale della Dalmazia e altri 18 dalla sezione di Sebenico del Tribunale militare di guerra della II armata) e gli sloveni (111 condannati dalla sezione di Lubiana del Tribunale militare della II armata). Ultimi, in termini numerici, i croati provenienti della provincia di Fiume (53 civili condannati anch’essi dal Tribunale militare della II armata che aveva la sede principale proprio a Fiume).

I reati per i quali erano stati imputati e giudicati colpevoli sono quasi sempre gli stessi: “partecipazione a banda armata”, “associazione sovversiva”, “attentati contro appartenenti alle forze armate italiane”, “detenzione abusiva di armi e munizioni”. Diverse invece sono le condanne comminate: dai pochi anni di carcere previsti per chi ha commesso il solo reato di detenzione abusiva di armi o di concorso in attentato alle forze armate, fino alla pena di morte (poi commutata in carcere a vita) per gli accusati di appartenenza a banda armata e associazione sovversiva.

Nel carcere di Volterra sembrano però concentrarsi i soli detenuti che hanno ricevuto le condanne più pesanti. In genere, i detenuti arrivati a Volterra per scontare pene relativamente leggere (da 1 a 10 anni di carcere) vengono poi trasferiti in altri luoghi. È il caso, ad esempio, di 30 montenegrini trasferiti nel giugno 1942 alla casa di lavoro all’aperto della colonia penale dell’Asinara, tutti condannati a pene che andavano dai 3 ai 10 anni. Oppure dei 13 detenuti inviati a Castiadas, di nuovo in Sardegna, presso una struttura analoga, anch’essi condanni a pene inferiori ai 10 anni. Così, alla data dell’8 settembre 1943, dei 358 detenuti presenti a Volterra, ben 264 sono gli ergastolani (69 dei quali originariamente condannati a morte) e 33 quelli con condanne comprese tra i 20 e i 30 anni.

Conosciamo poco delle condizioni di vita dei detenuti jugoslavi nel carcere di Volterra. L’unica testimonianza diretta fino ad oggi reperita è quella di Filip Pavešić. Nato a Kraljevica (Croazia) nel 1902, arrestato dagli italiani e condannato alla pena di morte, successivamente commutata in ergastolo, per il reato di appartenenza a banda armata, Pavešić arrivò a Volterra il 17 maggio 1942 dopo essere passato per le carceri di Fiume e di Padova. Nel dopoguerra dichiarò alla Commissione distrettuale per l’accertamento dei crimini di guerra di Sušak (Fiume) che: “il carcere di Volterra era noto per essere uno dei più brutali, specialmente per la nostra gente”. Pavešić ricorda anche che uno sciopero dei detenuti organizzato per chiedere condizioni igieniche migliori era stato represso con durezza.

Durante il periodo di detenzione a Volterra morirono sei civili jugoslavi, tutti per tubercolosi polmonare. Un altro detenuto, Milan Mićunović, morì all’ospedale di Trieste subito dopo la liberazione. L’epidemia di tubercolosi portò anche al trasferimento di alcuni detenuti da Volterra al sanatorio giudiziario di Pianosa.  Due furono i casi di detenuti trasferiti al manicomio giudiziario di Montelupo fiorentino.

Da alcuni registri, peraltro incompleti, utilizzati dai carcerieri per segnalare alla direzione gli episodi di insubordinazione da parte dei detenuti, sappiamo che gli jugoslavi in più di un’Ioccasione si rifiutarono di fare il saluto fascista, così come di fare silenzio nelle camerate, o di interrompere canzoni e cori nelle proprie lingue. Episodi che di solito erano puniti con uno o più giorni di cella di isolamento.

Dopo il 25 luglio 1943, con l’arresto di Mussolini, i rapporti delle guardie registrano oltre ai consueti canti e proteste, anche diverse altre iniziative – passaggi di fogli, frasi urlate da una camerata all’altra, ritrovamento di pezzi di latta a forma di coltello, tentativi di manomettere una serratura – alla luce delle quali è lecito immaginare qualche forma di organizzazione dei detenuti in vista o in preparazione della propria liberazione. Questo genere di atti continuerà anche nei mesi di ottobre e novembre 1943, senza però sortire alcun effetto.

L’occupazione tedesca e l’insediamento della Repubblica sociale italiana non influiscono quindi in alcun modo sullo status di prigionieri politici dei detenuti jugoslavi. A decidere la loro sorte sarà invece l’intervento dello Stato indipendente di Croazia (NDH) guidato dal collaborazionista Ante Pavelić.  Su suo incarico il sacerdote Krunoslav Stjepan Draganović arriva in Italia anche come rappresentate delle croce rossa croata, per chiedere la liberazione degli internati e detenuti croati. Con un analogo obiettivo, giunge in Italia un certo dottor Lukan in qualità di rappresentate della croce rossa slovena. Ha inizio così una trattativa per la liberazione dei detenuti cui la RSI prova inizialmente ad opporsi.

Le prime liberazioni dal carcere di Volterra avvengono alla fine del novembre 1943, quando su ordine del comando tedesco vengono scarcerati dieci detenuti sloveni e croati. La gran parte degli jugoslavi sarà liberata nel corso del gennaio successivo, quando lasceranno Volterra 284 detenuti, quasi tutti sloveni e croati. A restare in carcere saranno quindi una cinquantina di Montenegrini. Una parte di loro sarà liberata a marzo, gli ultimi il 31 maggio 1944, poco prima della liberazione di Volterra.

Tra gli ultimi detenuti jugoslavi a lasciare il carcere c’è anche il rabbino Isidor Finci. Nato a Sarajevo nel 1918, Finci – identificato nei documenti italiani come Finzi – era stato arrestato a Spalato il 24 aprile 1942 e condannato dal Tribunale speciale per la Dalmazia a 20 anni di reclusione per il reato di propaganda sovversiva. Nelle note della sua cartella biografica si può leggere: “È un pericoloso comunista, diffusore dell’idea sovversiva, e siccome è colto riesce con facilità ad avvelenare gli animi. È molto astuto e sa dissimulare con abilità sorprendente nello stesso modo come sa spudoratamente mentire. Del resto è un ebreo! Parla italiano”.

Il 31 maggio 1944 Finci, a quanto risulta unico tra tutti i detenuti jugoslavi di Volterra, viene trasferito a Firenze in via Bolognese 67 per essere messo a disposizione del comando militare tedesco. Isidor Finci sarà successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli e da qui inviato ad Auschwitz dove morirà alla fine di agosto 1944.




Carmignano nel secondo dopoguerra.

Per la realizzazione di una ricerca sul Carmignanese alla quale stiamo attendendo, abbiamo avuto di recente un interessante colloquio con Riccardo Cammelli, autore de Il Poggio e il Campano (Carmignano, Attucci, 2017), una dettagliata ricostruzione delle vicende che portarono alla nascita del Comune di Poggio a Caiano. Ne proponiano il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

 Qual era la situazione a Carmignano dopo la liberazione?

A Carmignano, come nel resto della Toscana, la guerra aveva prodotto danni molto seri. I collegamenti con Firenze, con Prato, con Vinci e con il resto del Montalbano erano problematici a causa delle condizioni delle strade; le case e gli edifici scolastici erano da ricostruire, l’acquedotto non esisteva (i pozzi erano insufficienti e c’era chi pativa la sete). Si tenga presente che a quell’epoca le opere pubbliche – alpari dei piani regolatori – dovevano passare dal vaglio ministeriale, e l’attesa dell’approvazione da Roma rallentava molto la loro realizzazione.

Ed il quadro politico?

Dal punto di vista politico, Carmignano rappresentava (insieme con l’alto Mugello, cioè con i comuni di Firenzuola, Londa, Marradi, San Godenzo e Palazzuolo sul Senio) una delle isole bianche in provincia di Firenze (quello del capoluogo, sotto questo profilo, era un caso più complesso, con caratteristiche sue proprie). Per la DC fiorentina il Carmignanese, come l’alto Mugello, era un’area molto importante: lo era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando essa inviò un personaggio di spicco come Ivo Butini a fare l’assessore nel comune mediceo, e lo era successivamente quando a Poggio a Caiano negli anni Settanta fu sindaco Sergio Pezzati. Per tornare alle peculiarità di Carmignano, le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto si distinsero da subito con il risultato del referendum monarchia-repubblica del 1946, votando in maggioranza per la prima, a differenza del resto del territorio. Alle elezioni per la Costituente la DC ebbe il 44,06% dei voti, alle politiche del 1948 raggiunse addirittura il 53,39%. Il partito cattolico governò il paese con giunte monocolori fino al 1960 e circa un terzo dei voti democristiani provenivano dalle frazioni di Poggio a Caiano e di Poggetto, dove viveva un ceto medio fatto in prevalenza di artigiani, commercianti e impiegati pubblici e privati. Il voto cattolico era rilevante anche a Carmignano, dove si registrava una forte presenza di dipendenti comunali, ed in frazioni come Artimino. Le sinistre erano più forti altrove, a Comeana, a Poggio alla Malva ed a Seano. A sinistra votavano parte dei mezzadri, i lavoratori salariati (per esempio gli operai della Nobel) e gli scalpellini di Comeana e di Poggio alla Malva.

Quali furono le principali realizzazioni dell’amministrazione comunale bianca?

Senz’altro il ripristino ed il miglioramento della rete viaria, la costruzione dell’edificio della scuola media a Poggio a Caiano e, nel 1959, l’inaugurazione dell’acquedotto, che venne poi completato negli anni successivi. Per quanto riguarda la realizzazione di quest’ultima opera, fu molto importante l’interessamento del senatore democristiano pratese Guido Bisori, all’epoca sottosegretario agli interni.

 Che giudizio ti senti di dare sugli anni in cui la DC ebbe il controllo del Comune attraverso giunte monocolori (1946-1960)?

Tenendo conto delle risorse limitate del comune – la storia è la medesima per tutti i comuni delle dimensioni di Carmignano – si può parlare di un bilancio complessivamente positivo: Giacomo Caiani e Leonardo Civinini sono stati i sindaci della ricostruzione e, da questo punto di vista, essi hanno certamente raggiunto l’obiettivo minimo: strade asfaltate, scuole di vario ordine e grado, e come già ricordato l’obiettivo fondamentale dell’acquedotto.

Nel 1961 si insediò una giunta DC-PSI presieduta dal democristiano Leonardo Civinini. Come maturò questa svolta?

Maturò per gli stessi motivi che portarono il PSI al governo del Paese: il mutato atteggiamento della Chiesa verso la collaborazione fra cattolici e socialisti dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII (1958) e l’attenuarsi della guerra fredda. Molto importante e influente, per quanto riguarda Carmignano, fu poi l’esperienza del centro-sinistra nella vicina Firenze, avviata da Giorgio La Pira nel 1961. Il clima culturale e politico fiorentino della seconda metà degli anni Cinquanta era caratterizzato da un  grande fermento ed anticipava già di alcuni anni il portato del Concilio Vaticano secondo. Era la Firenze di Giorgio La Pira, della giovane segreteria DC di Edoardo Speranza, Nicola Pistelli, Ugo Zilletti, e più tardi di Ivo Butini e Cesare Matteini; la Firenze in cui agivano in provincia e in periferia preti “scomodi” come don Milani e qualche anno più tardi don Mazzi all’Isolotto; la Firenze in cui operava un PSI autonomista, fuori dalla linea morandiana, caratterizzando la sua azione con le aperture di Mariotti e Paolicchi. A questo proposito va ricordato l’apporto degli ex azionisti che entrarono nel PSI: Lagorio, Morales, Codignola per citarne alcuni; a questi si aggiungeva l’esperienza de Il Ponte, di Calamandrei ed Enriques Agnoletti; era infine, ma non ultima per importanza, anche la Firenze del PRG di Edoardo Detti. Ho lasciato fuori da questo elenco il PCI, alle prese con il processo di ricambio del gruppo dirigente con l’VIII Congresso. Guido Mazzoni lascia la guida del partito locale in favore degli “innovatori” Fabiani e Galluzzi, avviando così il cammino di allontanamento dal massimalismo, verso la formazione di una cultura di governo locale che già teneva conto dei “ceti medi”. Tutto sommato il panorama politico offriva qualcosa di straordinario a livello, direi, italiano: un laboratorio politico e culturale  che avrebbe finito per influire in qualche modo sulle dinamiche nazionali, certamente sul resto della provincia e quindi anche su Carmignano.

Due anni dopo fu varata la prima giunta di sinistra PCI-PSI, guidata dal socialista Guido Lenzi. Il centro-sinistra ebbe dunque a Carmignano vita assai breve. Perché?

Dopo le elezioni amministrative del 1960 ci vollero alcuni mesi di trattative per preparare la svolta di centro-sinistra e si arrivò così all’estate del 1961. Un anno dopo, nel luglio del 1962, Poggio a Caiano diventò un comune autonomo e questo segnò di fatto la fine del centro-sinistra a Carmignano. Anche durante il percorso che portò all’autonomia di Poggio, la DC pensava di mantenere comunque il governo dei due futuri comuni. Alla base di tutto ci fu un errore di calcolo da parte dei democristiani, che speravano di governare il nuovo comune, dove erano molto forti, e di tenere comunque Carmignano. L’erroneità del calcolo, che aveva forse più le sembianze di una speranza, fu appurata da Bisori: gli giungevano notizie e impressioni che volle controllare. Chiese allora al personale del ministero di effettuare delle proiezioni elettorali, che dettero questi risultati: Poggio a Caiano sarebbe stata a guida DC, mentre Carmignano sarebbe stata appannaggio dei socialcomunisti. Le speranze ed i calcoli sbagliati venivano smentiti dalla matematica. L’elemento probabilmente ignorato da chi nutriva aspettative ottimistiche derivava dalle conseguenze del distacco di Poggio, che fece scendere i due comuni sotto i diecimila abitanti. Nei comuni con meno di diecimila abitanti si votava col maggioritario e, siccome a livello regionale esisteva un accordo fra socialisti e comunisti per le alleanze nel governo locale, ciò rese impossibile la prosecuzione dell’alleanza DC-PSI.

 Puoi riassumere brevemente le ragioni su cui poggiava la richiesta di autonomia di Poggio a Caiano?

La richiesta di autonomia avanzata nel 1957 aveva due precedenti: altre due richieste – formulate rispettivamente prima della grande guerra e durante il fascismo – erano state infatti respinte. La richiesta del 1957, sostenuta da una raccolta di firme, andò invece in porto entro cinque anni. I fattori della spinta all’autonomia erano di tipo economico, politico ed identitario. Le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto erano in buona parte composte, come già ricordato, da imprenditori, artigiani, commercianti e impiegati. Un ceto medio cosciente del fatto che il comune di Carmignano stesse viaggiando a due velocità: di fronte al boom economico appena iniziato, la parte agricola e collinare stava decadendo, mentre le zone urbanizzate della piana erano partecipi dello sviluppo. L’elemento economico si fondeva con quello politico: la richiesta di autonomia fu facilitata dal fatto che il colore politico dei richiedenti era lo stesso del governo centrale. La DC di Poggio a Caiano riuscì ad interessare e coinvolgere nel percorso il segretario provinciale del partito, Cesare Matteini; il senatore eletto nel collegio cioè Bisori; il parlamentare Giuseppe Vedovato; in vario modo le diocesi di Pistoia e di Prato, e don Milton Nesi, responsabile dei Comitati civici pratesi. Un peso notevole ebbe infine l’elemento identitario. Poggio a Caiano, infatti, aveva sempre avuto una sua peculiarità rispetto al resto del comune: la Villa medicea (poi reale) era il centro culturale, sociale ed economico attorno al quale la frazione si era sviluppata, un “indotto” dalle molteplici valenze, a cui si aggiungeva l’Istituto delle minime suore del Sacro Cuore, altro centro “gravitazionale” religioso, culturale e sociale. Anche la geografia contribuiva a diversificare Poggio dal resto del comune: Poggio, infatti – collocata in pianura, ben collegata con la strada statale a Firenze ed a Pistoia – era sempre stata un crocevia di scambi e non per nulla aveva avuto, nei primi decenni del Novecento, il tram e il telefono, simboli di progresso e di distinzione rispetto ai centri vicini.

Quali sono stati, a tuo parere, gli eventi più importanti nella storia di Carmignano nel secondo dopoguerra?

Sul piano politico va ricordato che Carmignano fu a guida DC fino al 1963, ma certamente merita attenzione la breve e dimenticata parentesi del centro-sinistra ed il distacco di Poggio a Caiano, che portò le sinistre alla guida del Comune. Su quello economico la crisi della mezzadria, maturata negli anni Cinquanta-Sessanta, con le sue enormi conseguenze a livello sociale.

 È corretto affermare che, dopo la fine dell’istituto mezzadrile, Carmignano si è riassestata sul piano economico, trovando un equilibrio che si basa, da un lato, su un’agricoltura che fornisce prodotti di nicchia (vino ed olio, in primo luogo) e, dall’altro, su un temperato sviluppo industriale?

Sì, l’affermazione è corretta. Nel 1961, come ricordò il sindaco Leonardo Civinini in consiglio comunale, c’erano già 2.500 pendolari (su poco più di 4.600 attivi) che andavano verso la piana pratese e fiorentina a lavorare nel settore secondario, nell’industria e nell’artigianato. Negli anni successivi quel numero crebbe, e si ebbero due risposte all’industrializzazione: da un lato la nascita dei laboratori e degli “stanzoncini” tessili presso la casa di abitazione; dall’altro la prosecuzione del pendolarismo verso le zone produttive. Quanto all’agricoltura, sebbene vi fosse qualche fenomeno di sostituzione della manodopera con altra venuta dal sud della Toscana o dell’Italia, il numero degli addetti al settore primario scese senza sosta. Ma, in Toscana come altrove, si riuscì a convertire un dramma economico ed occupazionale in un’opportunità di sviluppo. Da un lato i due “Piano Verde” del 1961 e del 1966, e dall’altro la nascita delle regioni con le deleghe annesse, determinarono una diversa attenzione verso il settore dell’agricoltura. Le colture promiscue, miste, caratteristiche dell’era mezzadrile, lasciarono il posto alle monocolture ad alta specializzazione della vite e dell’olivo. Un graduale ma preciso orientamento guidato dalle aziende agricole locali che hanno consentito di offrire quelle eccellenze del territorio che sono oggi il vanto dell’area carmignanese e poggese. Relativamente agli anni più recenti, va tenuto presente anche lo sviluppo dell’agriturismo, dovuto ad una sensibilità, maturata nella seconda metà degli anni Ottanta, tenendo conto delle esigenze di un turismo che muta abitudini e modalità di permanenza sul territorio, e che allarga i suoi orizzonti al di fuori delle città d’arte toscane.

L’industria è concentrata soprattutto a Seano ed a Comeana (lungo la via Lombarda, l’arteria che collega Comeana stessa a Poggio a Caiano). Quali sono i rami di attività più importanti?

Lo sviluppo della parte pianeggiante del territorio carmignanese ha a che fare con lo sviluppo demografico ed economico connesso al distretto pratese, ed è legato, nei decenni più recenti, a spostamenti di persone da Firenze e Pistoia verso Carmignano e Poggio a Caiano: dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta Seano e Comeana crescono: lo sviluppo demografico si accompagna a quello urbanistico, edilizio ed economico. La pianificazione urbanistica di quei periodi, fino agli anni Novanta, prevede aree destinate alla produzione artigianale ed industriale nella zona compresa fra Prato sud, Seano e la periferia nord di Poggio a Caiano, oltre alla zona sviluppatasi successivamente lungo la via Lombarda. Il settore più importante è quello del tessile-abbigliamento, che si pone come indotto di Prato, ma ci sono anche diverse piccole aziende meccaniche.




Dialogare con la memoria: gli ultimi testimoni. Il Treno della Memoria 2019

Dopo le visite ai campi, il viaggio prosegue in un cinema di Cracovia con un denso pomeriggio di formazione centrato sull’incontro con i testimoni, organizzato, come tutto il viaggio, impeccabilmente dal Museo della deportazione. Apre il pomeriggio al cinema Krilov, l’instancabile Ugo Caffaz, che con tono allarmato, afferma che stiamo attraversando di nuovo un periodo in cui l’Europa -la sua Unione- va a pezzi, in cui (notizia di oggi) si afferma che i protocolli dei Savi di Sion siano veri e che la banca degli Ebrei, cioè i Rothschild, stiano di nuovo mandando in crisi il sistema finanziario mondiale. Seguono i saluti istituzionali, che citano le parole di Liliana Segre contro l’indifferenza. Il Professor Gozzini  cita, invece, la lettera scritta da Hoess la notte prima di essere giustiziato nel 1947 “il mio errore è stato quello di credere ciecamente in ciò che mi è stato detto”. Poi invita a riconoscersi negli occhi degli altri -questa è l’humanitas- e conclude dicendo che come abbiamo il “librone” dei nomi dei morti di Auschwitz, oggi noi dovremmo prendere un librone bianco e raccoglievi i nomi di coloro che sono scomparsi nel Mediterraneo.

Poi salgono sul palco fra gli applausi Andra e Tatiana, figlie di famiglia mista, ebrea da parte di madre, la quale con la nonna era fuggita da un pogrom nell’est Europa a Fiume, città che, alla loro nascita, era Italiana. Nel ’38, per le leggi razziali, parte dei parenti perde il lavoro e il padre italianizza per sicurezza il cognome da Bucich a Bucci. Allo scoppio della seconda guerra, egli, che navigava per il Lloyd Adriatico, viene imprigionato in Sud Africa. Nell’estate del ’43 il resto della famiglia viene raggiunto dalla zia Gisella con il figlio Sergio con il quale loro, bambine, vivono una infanzia normale, fino a una notte del ’44 in cui delle SS e dei fascisti, in seguito a una delazione, si presentano alla loro porta e tutta la famiglia viene arrestata e deportata alla Risiera di San Sabba. Da lì inizia il lungo e doloroso viaggio in treno verso Auschwitz, dove arrivano il 4/4/44 Di esso Tatiana ricorda il secchio con gli escrementi. L’arrivo alla Judenrampe lo racconta Andra, così come la prima selezione, in cui nonna e zia vengono fatte salire su dei camion e scompaiono per sempre. Il suo ricordo di sposta poi nella sauna, dove vengono tatuate. Ma il racconto è interrotto dal pianto, coperto dagli applausi. Andra si riprende e narra la divisione dalla mamma e la collocazione nel Kinder Block. Così inizia una nuova vita, caratterizzata da un grande spirito di adattamento. Ciò che più ricorda è la ciminiera che sputa fumo e fiamma ed il freddo, la neve. Di giorno erano abbastanza liberi e vagavano nel campo fra cumuli di cadaveri. La loro blokowa un giorno le avverte di non fare un passo in avanti, qualora venisse loro chiesto di rivedere le loro mamme. Ma Sergio fa quel passo e, deportato a Neuengamme, muore da cavia di esperimenti medici.

Poi viene proiettato un video di Slomo Venezia,  che racconta la sua terribile esperienza nel sonderkommando. A seguire quello di Hugo Hoellnreiner, la cui storia si è tramandata grazie al prigioniero politico Tadeusz Joachimowski che ha nascosto in un secchio il nome dei deportati Sinti.

Sale poi sul palco Silvia Rusich, in memoria del padre deportato perché oppositore politico. Il babbo le raccontava della lotta  partigiana in modo gioioso, non nascondendosi. In pensione il padre, maestro elementare,  ha iniziato a scrivere ma lei non volle leggere i suoi scritti se non dopo la sua morte. Infatti, andando all’Arena di Pola,   per la quale lui scriveva, Silvia legge alcune parole del padre, che raccontano di Flossenbürg e delle marce della morte.

È la volta di Luca Bravi che ci introduce la testimonianza di Marcelli Martini, il più giovane deportato politico di Italia, a 14 anni. Dapprima incarcerato alle Murate, fu portato a Mauthausen, dal quale si chiede come abbia fatto a sopravvivere. Ricorda una decimazione durante un appello, poi esorta i giovani ad imparare “Perché quello che tu sai o che sai fare non te lo può levare nessuno”.

Sempre Bravi introduce, citando il paragrafo 175 che condannava gli omosessuali, la testimonianza di Hans F.,  che, intervistato nel 2000, non sa o ha ancora paura di dire il suo cognome. Hans racconta del suo arresto senza processo e dell’internamento prima a Dachau, poi a Buchenwald, e infine a Mauthausen. Complessivamente restò  nei campi per 8 anni e 4 mesi. Al ritorno non ne ha parlato con nessuno, neppure con la madre o il fratello, per vergogna.

Torna sul palco Caffaz, che introduce il tema degli IMI, gli internati militari italiani: 650.000, di cui solo 40.000 dalla Toscana, deportati per aver rifiutato di servire Hitler e Mussolini. Viene poi trasmessa la testimonianza di Antonio Ceseri, salvatosi per essere rimasto sepolto vivo sotto non una montagna di cadaveri. Dopo un anno dalla sua deportazione, tornato, deve rifare 8 mesi di servizio militare in marina, a sminare l’Adriatico e dice ironicamente con il suo accento toscano “sta’ a vede’ che so’ sopravvissuto a Hitler e ora muoi in Italia dopo che la guerra è finita”. Quando gli viene chiesto se lo rifarebbe, risponde “assolutamente sì”. Grande esempio di coraggio e di coerenza.

Infine sale sul palco Vera Vigevani Jarach, 90 anni, che con il suo incrollabile sorriso e fiducia nella vita, inizia dicendo “mai più il silenzio”. Poi racconta che due settimane fa le è stata recapitata una lettera del 1943 di suo padre, che dichiara di volersi arruolare per l’Italia libera e per salvaguardare la dignità degli uomini. Ciò dimostra il patriottismo ebraico. Dopo racconta un altro episodio accadutole qualche mese fa: a Venezia le è stata consegnata la pagella di suo marito. Il voto più alto era la condotta! Ciò richiama come contrappasso per opposizione la pagella di sua figlia Franca, che nella sua ultima pagella, aveva tutti 10 ma “male” a condotta, perché in Argentina c’era già la dittatura e lei, da studente, vi si opponeva, cosa che la porterà alla morte. Quando ci sono i sintomi, i prolegomeni della crisi della democrazia, dice Vera, bisogna prendere parte, cioè diventare partigiani. Definendosi un’ottimista, anche se non assoluta, dice che per farlo ci vogliono volontà (e qui cita Gramsci), speranza e testa, cioè il pensiero critico. E rammenta che ora bisogna ancora lottare contro la fame (dovuta al colonialismo), le guerre, il femminicidio. Conclude citando Dante, il terzo canto dell’inferno: mai per viltade fare il gran rifiuto!

La nostra serata è conclusa con la musica particolare e trascinante di Enrico Fink, attore, cantante, musicista, che fa una sorta di teatro canzone, fondendo correnti diverse e recuperando cultura ebraica e storia familiare. [Sullo spettacolo di Fink vedi file allegato]

Senza che si accendano le luci per non rovinare l’atmosfera, defluiamo lenti, dopo un lunghissimo applauso ad Enrico e a tutti coloro che hanno contribuito a questo memorabile incontro.




Conoscere, viaggiando: il Treno della Memoria 2019

Rivelando una grande ed organizzazione, che mostra chiaramente il grande dispendio di energie – morali, organizzative ed economiche – dedicate dalla Regione Toscana e dalla Fondazione Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, la mattina del 20 gennaio alle 12:30 circa, dalla stazione di Firenze, ha avuto inizio l’ XI edizione del Treno della Memoria, dedicato questo anno a Primo Levi, di cui ricorre il centenario della nascita (avvenuta il 31 Luglio 1919).

Il treno porta oltre 600 persone a visitare i campi di Auschwitz e di Birkenau (Auschwitz 2), di cui 555 studenti del triennio delle scuole superiori (ogni docente ne accompagna 8) e 3 del Parlamento Regionale che hanno l’occasione unica di fare questo percorso di formazione etica, ancor prima che storica, insieme a studiosi, rappresentanti delle associazioni (Aned, Anei, Anpi, Arcigay, Sinti e Rom) ed ex deportati. Infatti partecipano al viaggio Andra e Tatiana Bucci, deportate ancora bambine (a 4 e 6 anni); Silva Rusich, figlia di Sergio, deportato politico a Flossenbuerg ed esule istriano; a Cracovia ci raggiungerà Vera Vigevani Jarach, testimone di due storie: esule in Argentina per le leggi razziste del fascismo e madre di Franca, una desaparecida durante la dittatura di Videla.

Il lungo viaggio in treno, circa 22 ore, è stato esso stesso un’importante occasione di conoscenza, perché nel vagone ristorante si sono tenuti 5 workshop – organizzati in particolare dal dott. Luca Bravi del Museo della deportazione – con i portavoce delle varie comunità, nei quali i ragazzi hanno avuto occasione di incontrare, dialogare, ascoltare e porre domande alle varie categorie di vittime della Shoah. Stessa dinamica si svolgerà nel corso del viaggio di ritorno.

[In allegato sono riportate le sintesi dei 5 workshop]




Democrazia e Resistenza

Le elezioni amministrative del 1946.

La costruzione della democrazia nell’Italia del secondo dopoguerra[1] rappresentò un processo lungo e non lineare. Nel contesto delle distruzioni e degli sconvolgimenti causati da cinque anni di conflitto, culminati con la dura occupazione da parte delle truppe tedesche ed una terribile guerra civile,[2] le elezioni amministrative svoltesi nella primavera del 1946 costituirono il primo passo verso la rinascita politica e sociale del nostro Paese. Fin dal periodo immediatamente successivo alla Liberazione, il Partito Democratico Cristiano, il Partito Comunista e il Partito Socialista si presentarono come quelli dotati di una più ampia base popolare. Il Partito d’Azione aveva svolto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza, ma non era riuscito a costruirsi un seguito nelle città e nelle campagne. Il Partito Liberale era andato configurandosi come un partito d’élite, composto prevalentemente da vecchie personalità del periodo prefascista.

Il Partito Comunista, in particolare, era riuscito non soltanto a sopravvivere al ventennio fascista ricorrendo alla clandestinità, ma era riemerso con forza fin dal 1943 nelle città industriali e nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale, arrivando a contare quattrocentomila iscritti già agli inizi del 1945.[3] La Toscana rappresenta una delle regioni in cui la capacità del Pci di mobilitare le masse – in tal caso soprattutto contadine – emerse in maniera più evidente. Già durante la lotta di liberazione, la partecipazione contadina alla Resistenza aveva raggiunto livelli più alti rispetto alla media nazionale, assumendo talvolta un marcato carattere di guerra di classe.[4] Proprio a seguito dell’esperienza della guerra, dell’occupazione nazifascista e della Resistenza emersero in Toscana una classe dirigente ed una consapevolezza politica più forti e rinnovate.[5]

Nonostante le differenze sociali ed economiche esistenti all’interno della regione tra la parte settentrionale, maggiormente urbanizzata e sviluppata dal punto di vista industriale, e quella meridionale ancora prevalentemente agricola, le elezioni svoltesi nel 1946 – tanto quelle amministrative che, successivamente, quelle politiche – videro le liste comuniste riportare un netto successo in vaste aree del territorio. Alla base di tale risultato si colloca il sostegno elettorale portato al Pci dai mezzadri toscani, i quali rappresentavano il 54,2% della popolazione rurale di tutta la regione e circa un quarto di quella totale.[6] Nella provincia di Siena i mezzadri costituivano addirittura il 68% dei rurali, mentre ben ventuno dei trentasei comuni del territorio provinciale erano classificati come esclusivamente rurali-mezzadrili.[7]

Le elezioni amministrative svoltesi nella provincia senese nei mesi di marzo e aprile e, successivamente, di ottobre e novembre del 1946, fecero registrare una vittoria netta da parte della lista socialcomunista, che ottenne il 75,9% delle preferenze nei comuni che votarono con il sistema maggioritario.[8] Persino i risultati delle ultime elezioni amministrative del prefascismo, che avevano visto i socialisti conquistare ben ventinove comuni,[9] furono ampiamente superati, in quanto stavolta le sinistre si imposero in trentacinque dei trentasei comuni della provincia.

In controtendenza con quanto avvenne a livello nazionale, ma in linea con quelli che furono i risultati in gran parte della Toscana, il Pci superò nel territorio senese il Psiup. Il Partito Comunista, partito tradizionalmente operaio, divenne quindi nella provincia di Siena il principale referente politico di una popolazione costituita in prevalenza da agricoltori.[10] Il fondamentale ruolo svolto dai comunisti nella lotta di liberazione dal nazifascismo, che vide la partecipazione di circa millecinquecento partigiani combattenti,[11] rappresenta senza dubbio una delle principali motivazioni che portarono la popolazione a vedere nel Pci il partito antifascista per eccellenza.[12]

Lo stretto rapporto tra Resistenza e mondo contadino nella provincia senese aveva peraltro radici estremamente profonde, risalenti a ben prima della Seconda Guerra Mondiale. Contadini e socialisti erano stati infatti i bersagli principali degli squadristi fascisti durante il cosiddetto biennio nero, quando i militi senesi comandati da Giorgio Alberto Chiurco avevano compiuto numerose spedizioni contro il tessuto politico, associativo e sindacale della sinistra nella provincia e nei territori limitrofi.[13] La politica agraria perseguita dal Regime, assieme alla restaurazione contrattuale imposta ai mezzadri, aveva inoltre prodotto un netto peggioramento delle condizioni di vita della classe agricola, che avrebbe raggiunto il proprio culmine attorno alla metà degli Trenta.[14] Come ha scritto Baccetti, «quando lo scontro diretto e quotidiano tra agrario e mezzadro divenne scontro quotidiano e diretto anche tra mezzadro e fascismo […], fu definitivamente chiaro, per i contadini, che per liberarsi dovevano prima uscire dal fascismo, e poi uscire dalla fattoria. La radice dell’antifascismo dei mezzadri, della loro partecipazione attiva alla lotta di liberazione, e poi del sostegno elettorale al PCI, sta in fondo tutta qui».[15]

 Sindaci e Resistenza

Lo spirito antifascista presente in larghi strati della popolazione si rifletté inevitabilmente nella composizione dei consigli comunali formatisi nel 1946 e nella scelta dei sindaci dei vari comuni della provincia.[16] Undici dei trentasei sindaci nominati a seguito delle elezioni comunali avevano infatti combattuto tra le fila della Resistenza durante la guerra. Altri cinque, pur non avendo aderito alle formazioni partigiane, erano stati iscritti al Casellario politico centrale[17] per aver manifestato idee  avverse a quelle fasciste o per aver svolto attività antifascista. Tra i sindaci che non avevano partecipato alla lotta armata vi erano comunque antifascisti di lunga data, membri del Cln, vecchi attivisti comunisti e socialisti. Persino Arturo Marucelli, primo cittadino di Gaiole in Chianti con la Democrazia Cristiana – l’unico in tutta la provincia che non proveniva dalla lista socialcomunista – era stato avverso al fascismo, tanto da abbandonare la vita politica nel 1926 a seguito dell’istituzione dei podestà, e farvi ritorno soltanto nell’aprile del 1945 su invito del locale Cln.[18]

Tra coloro che avevano preso parte alla resistenza armata vi erano figure piuttosto note, quale il sindaco di Siena Ilio Bocci, combattente della Brigata “Spartaco Lavagnini” con nome di battaglia “Sandro”, oppure quello di Sovicille Ruggero Petrini, prima “Tancredi” e poi “Silvio”, comandante del V° distaccamento “Giuggioli e Parri” della Brigata Lavagnini e successivamente volontario del gruppo di combattimento “Cremona”, con il quale combatté fino al giugno del 1945.[19]

Meno conosciuta, ma estremamente interessante, è la storia di un altro sindaco partigiano della provincia senese, Angelo Tacconi.

Nato a Monticiano nel 1883, il Tacconi spese gran parte della sua giovinezza viaggiando in cerca di lavoro. Lasciò per la prima volta il proprio comune nel 1902 e trovò un impiego come boscaiolo nei pressi di Porto Maurizio (Imperia); successivamente si trasferì prima a Ventimiglia, poi in Francia tra Marsiglia, Beausoleil e Nizza, lavorando come manovale. Fece ritorno a Monticiano nel 1905, ma appena un anno dopo partì per gli Stati Uniti, stabilendosi inizialmente a New York e spostandosi poi per un breve periodo a Monogahela, una piccola cittadina della Pennsylvania dove lavorò come minatore. Rientrato di nuovo a Monticiano, nel 1910, per sposarsi con la fidanzata Pia, ripartì subito dopo per la Francia, stabilendosi questa volta a Fontan, un piccolo paese vicino al confine italiano. L’esperienza maturata come minatore negli Stati Uniti e come costruttore di gallerie a Fontan permisero al Tacconi di arruolarsi nel VI° Reggimento italiano del genio durante la Prima guerra mondiale.[20] Congedato con il grado di caporale nel febbraio 1919, trascorse un breve periodo a Monticiano, durante il quale fu assessore comunale per il Partito Socialista e prese parte al Congresso di Livorno quale rappresentante della sezione monticianese di questo stesso partito.[21] Nel giugno del 1923 si recò nuovamente in Francia – stavolta con la famiglia – inizialmente a Cap-d’Ail e dal 1927 nel Principato di Monaco, dove assieme alla moglie ed alla figlia Ornella aprì un bar-ristorante, divenuto in breve tempo punto di ritrovo di molti fuoriusciti antifascisti.[22] Nel novembre del 1942 il Tacconi venne arrestato e ricondotto in Italia per essere imprigionato, assieme al figlio Ideale, nelle carceri di Siena. Confinato alle Tremiti (Foggia) nel maggio del 1943,[23] rientrò a Siena subito dopo la caduta del fascismo e si unì alla formazione Spartaco Lavagnini, con la quale combatté – con nome di battaglia “Pietro” – dal novembre 1943 al luglio 1944.[24] A seguito delle elezioni del 3 marzo 1946, Angelo Tacconi fu nominato sindaco di Monticiano per il Pci.[25]

Condivise con il Tacconi non soltanto l’esperienza della lotta partigiana, ma anche quella di emigrato in Francia – assieme a migliaia di altri antifascisti italiani[26] – una figura di grande rilievo dell’antifascismo senese e, soprattutto, veneto, ossia Nello Boscagli.  Nato a Sinalunga il 16 aprile 1905, quest’ultimo già nel 1925 si trasferì in Francia assieme ai genitori Angelo e Rosa.[27] Dopo un breve periodo a Mosca, prese parte alla guerra civile spagnola, restando a combattere in Catalogna anche dopo il ritiro delle Brigate internazionali.[28] Nel corso degli anni Trenta Boscagli risedette a Roquebrune-Cap Martin, nelle Alpi Marittime, e continuò a svolgere attività antifascista. Nel 1932 fu iscritto al Casellario politico centrale su segnalazione del Consolato italiano nelle Alpi Marittime, che lo indicava come un antifascista particolarmente attivo.[29] Durante la Seconda guerra mondiale, al Boscagli venne affidato il comando dei maquisards dell’intera costa mediterranea, incarico che mantenne fino al settembre 1943 nonostante gravasse su di lui una condanna a morte in contumacia.[30] Rientrato in Italia, il Partito Comunista lo inviò in Veneto a supervisionare prima l’organizzazione dei nascenti gruppi di azione patriottica[31] e, successivamente, quella delle formazioni partigiane. Commissario politico e poi comandante della Brigata Garibaldi “Ateo Garemi”, con nome di battaglia “Alberti”, il Corpo volontari della libertà gli affidò in seguito il comando di tutta la zona dell’Altopiano di Asiago.[32] Dopo la guerra fu ispettore del Pci a Caserta e Teramo, e nel 1946 venne nominato primo cittadino di Sinalunga. Nel luglio del 1948, in seguito all’attentato a Togliatti, fu denunciato per aver preso parte agli scioperi[33] ed aver organizzato posti di blocco nelle strade del comune. Recluso per diciotto mesi nel carcere di Firenze, il Boscagli venne assolto dalla Corte di Assise di Siena e reintegrato nel proprio incarico nel giugno 1950.[34] Negli anni Sessanta si trasferì a Padova, dove trascorse il resto della propria vita fino al 1976, anno della morte.[35]

Ancora molto limitate risultano purtroppo le informazioni biografiche relative ad altri protagonisti della lotta di liberazione nella provincia senese. Tra questi vi è Ezio Santoni, nato a Chianciano nel 1898, incarcerato per reati politici nel 1921 ed inserito tra i sovversivi del Casellario politico centrale a partire dal 1938.[36] Il Santoni combatté nel Raggruppamento “Monte Amiata” dal giugno al luglio 1944, per poi ricoprire la carica di sindaco di Chianciano per conto del Cln, dimostrando «buone doti di capacità, rettitudine e interessamento nell’amministrazione della cosa pubblica»,[37] tanto da essere confermato nel ruolo nell’ottobre del 1946.

Carlo Sorbellini, classe 1919, anche lui partigiano del Raggruppamento “Monte Amiata” fin dal settembre 1943, scelse di continuare a lottare contro i nazifascisti anche dopo la Liberazione della provincia senese, arruolandosi volontario nel gruppo di combattimento “Cremona”. Dopo la guerra divenne fotografo e sindaco del suo comune di origine, San Quirico d’Orcia.[38]

Militò invece tra le fila della 23° Brigata “Guido Boscaglia” il sindaco di Radicondoli Gino Gazzei. Già membro del Comitato di Concentrazione Antifascista di Piombino, costituitosi ancor prima del crollo del Regime fascista,[39] il Gazzei dovette sfollare a Radicondoli, suo paese natale, nell’ottobre del 1943. Intellettuale socialista, proprietario di una fabbrica di specchi a Piombino ed una vetreria a Colle Val d’Elsa, dopo la guerra divenne direttore de La Martinella, organo della Federazione socialista senese. Nel marzo del 1946 il neoeletto consiglio comunale lo riconfermò sindaco, carica che già ricopriva dal luglio del 1944.[40]

Quella di Gino Gazzei, imprenditore ed intellettuale, rappresenta tuttavia un’eccezione nel contesto degli amministratori senesi del 1946; la maggior parte di questi svolgeva infatti professioni umili e possedeva un livello di alfabetizzazione talvolta piuttosto basso – limitandoci alle figure qui descritte, erano manovali con la terza elementare il Tacconi ed il Santoni, muratore il Boscagli, un falegname con la licenza elementare il Petrini, un fotografo il Sorbellini – per cui i documenti prodotti e le testimonianze scritte pervenuteci sono estremamente pochi e non facili da reperire. Tale dato testimonia tuttavia la determinazione con cui queste persone dovettero disimpegnare i compiti previsti dalle proprie cariche, nel già di per sé critico contesto sociale e materiale del secondo dopoguerra, in territori spesso devastati dai bombardamenti aerei e dai combattimenti terrestri, riuscendo a far fronte alle difficoltà quotidiane ed avviando la ricostruzione.

 Note

[1]Per un quadro generale cfr. N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana. Laterza; Roma-Bari, 1990 (ediz. orig. 1966); P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, vol. I. Einaudi; Torino, 1989; G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi. Donzelli; Roma, 2016.
[2]Cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Bollati Boringhieri; Torino, 1991.
[3]N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana…, p. 32.
[4]Sulle vicende e le peculiarità del fenomeno resistenziale in Toscana cfr. N. Labanca, Toscana, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I. Einaudi; Torino, 2000, pp. 455-464.
[5]Cfr. M. G. Rossi, Il secondo dopoguerra: verso un nuovo assetto politico-sociale, in G. Mori (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana. Einaudi; Torino, 1986, pp. 675-708.
[6]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946 in Toscana. La fondazione del predominio del PCI, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 20, 1988, pp. 10-13. Per maggiori informazioni sulle elezioni svoltesi in Toscana nel 1946 e nel 1948, le norme adottate ed i risultati cfr. M. Gabelli, Toscana elettorale 1946 e 1948. Estratti di legislazione, risultati ed eletti, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 20, 1988, pp. 199-309.
[7]M. Caciagli, L’apporto elettorale dei mezzadri, in Alle origini di una provincia “rossa”. Siena tra Ottocento e Novecento. Meiattini; Monteriggioni, 1991, p. 47.
[8]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946…, p. 24.
[9]Per maggiori informazioni sull’argomento si rimanda a D. Pasquinucci, Siena fra suffragio universale e fascismo. Il voto politico e amministrativo dal 1913 al 1924, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 29, 1993, pp. 5-75; T. Detti, Ipotesi sulle origini di una provincia “rossa”: Siena tra Ottocento e Novecento, in Alle origini di una provincia “rossa”…, pp. 19-28.
[10]Sul tema cfr. A. Nuti, La provincia più rossa. La costruzione del partito nuovo a Siena (1945-1956). Protagon; Siena, 2003, pp. 23-34.
[11]Per maggiori informazioni si rimanda alla vasta bibliografia esistente sul tema. Cfr. soprattutto T. Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena. 8 settembre 1943 – 3 luglio 1944. Olschki; Firenze, 1976; C. Biscarini, V. Meoni, P. Paoletti, 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena…; P. Plantera, Brigata partigiana. Storia della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini” e riferimenti ad altre unità partigiane che operarono in provincia di Siena e in territori limitrofi. ANPI; Siena, 1961; V. Meoni, Ora e sempre resistenza. Scritti e testimonianze su Montemaggio, Monticchiello e la Resisenza in terra di Siena. Effigi; Arcidosso, 2014.
[12]A. Orlandini, Elettori ed eletti: le scelte di voto dal 1946 al 1963, in A. Orlandini (a cura di), La nascita della democrazia nel senese. Dalla Liberazione agli anni ’50. Atti del convegno, Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996. Regione Toscana; Firenze, 1997, pp. 196-198.
[13]Cfr. sul tema D. Pasquinucci (a cura di), Società e politica a Siena nella transizione verso il fascismo, 1919-1926. Nuova Immagine; Siena, 1995; G. Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922. Il Leccio; Siena, 2015.
[14]D. Preti, Tra crisi e dirigismo: l’economia toscana nel periodo fascista, in G. Mori (a cura di), La Toscana…, pp. 625-630.
[15]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946…, p. 15.
[16]I dati presentati costituiscono parte dei risultati di un progetto di ricerca promosso dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea e finalizzato alla creazione di una banca dati sui sindaci e gli amministratori comunali della provincia di Siena eletti nel 1946. Si tratta di uno studio non ancora concluso, per cui le informazioni riportate non devono essere intese come definitive. Elenco di seguito le collocazioni archivistiche del materiale raccolto fino a questo momento, sul quale si basano i dati numerici di seguito presentati. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Casellario politico centrale [d’ora in poi ACS, MI, DGPS, CPC]: Begni Vincenzo, b. 437; Boscagli Nello, b. 776; Gazzei Dino, b. 2321; Lucherini Ciro, b. 2866; Malacarne Guido, b. 2945; Roncucci Virgilio, b. 4404; Santoni Ezio, b. 4593, f. 135341; Severini Angelo, b. 478, f. 089910; Tacconi Angelo, b. 4998, f. 063653;Vegni Guido, b. 5340, f. 011506. Archivio di Stato di Siena, Prefettura. Ufficio di Gabinetto 1935-1957 [d’ora in poi ASSi, Pref. Uff. Gab.], b. 211 (f. 1-10), b. 212 (f. 11-14), b. 213 (f. 15-22), b. 214 (f. 23-30), b. 215 (f. 31-34).
[17]Sul tema in generale cfr. G. Tosatti, L’anagrafe dei sovversivi italiani: origini e storia del Casellario politico centrale, in Le carte e la storia n. 2, 1997, pp. 133-150.
[18]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 212, f. 13. 13 aprile 1946, lettera del comandante dei carabinieri di Siena al Prefetto di Siena, prot. 30/6 Ris. Pers.
[19]Per maggiori informazioni sulla figura di Ruggero Petrini cfr. T. Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena…, passim; P. Plantera, Brigata partigiana…, pp. 202-204.
[20]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 9 gennaio 1943, verbale interrogatorio di Tacconi Angelo presso la Questura di Siena.
[21]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. Scheda biografica.
[22]I documenti del Casellario Politico ne parlano come di «un covo di antifascisti e di denigratori dell’Italia». Cfr. ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 25 gennaio 1943, nota dattiloscritta, prot. 1976/63653.
[23]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 1 maggio 1943, appunto per il CPC del Capo della sezione prima.
[24]http://www.istoresistenzatoscana.it/partigiano/Angelo/Tacconi/5221 [le fonti digitali citate nel presente saggio sono state consultate per l’ultima volta in data 20 dicembre 2018].
[25]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 213, f. 18. 12 aprile 1946, lettera del comandante della compagnia esterna dei carabinieri di Siena al Prefetto di Siena, prot. 35/II Div. Ris. Pers.
[26]Cfr. in generale S. Tombaccini, Storia dei fuoriusciti italiani in Francia. Mursia; Milano, 1988; L. Rapone, I fuoriusciti antifascisti, la Seconda guerra mondiale e la Francia, in Les Italiens en France de 1914 à 1940. Ècole Francaise de Rome; Roma, 1986, pp. 343-384.
[27]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. Lista degli amministratori comunali di Sinalunga.
[28]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli.
[29]ACS, MI, DGPS, CPC, Boscagli Nello, b. 776. 18 novembre 1932, telespresso del Console generale di Nizza a Ministero dell’Interno, Ministero degli Esteri, Ambasciata italiana a Parigi, prot. 9211.
[30]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[31]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. 23 ottobre 1946, dichiarazione di Boscagli Nello. I comunisti di vecchia data come il Boscagli, con una lunga esperienza di guerriglia maturata in Francia, furono coloro cui si affidò il Partito comunista per la creazione dei primi Gap a partire dal settembre 1943. Sull’argomento cfr. S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza. Einaudi; Torino, 2014.
[32]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[33]In generale sull’argomento cfr. A. Orlandini, Luglio 1948. L’insurrezione proletaria in provincia di Siena in risposta all’attentato a Togliatti. Cooperativa editrice universitaria; Firenze, 1976; G. Serafini, I ribelli della montagna. Amiata 1948: anatomia di una rivolta. Editori del Grifo; Montepulciano, 1981.
[34]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. Lista dei procedimenti penali a carico dei sindaci.
[35]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[36]ACS, MI, DGPS, CPC, Santoni Ezio, b. 4593. 9 ottobre 1938, lettera del Prefetto di Siena al Ministero dell’Interno, prot. 018676 P.S.
[37]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 211, f. 9. 7 novembre 1946, lettera dalla tenenza dei carabinieri di Chiusi al Prefetto di Siena, prot. 1/34 Ris. Pers.
[38]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 214, f. 29. 5 maggio 1946, lettera del comandante della compagnia dei carabinieri di Montepulciano al Prefetto di Siena, prot. 8/78 Div. Ris. Pers.
[39]L. Pasquinucci, Piombino medaglia d’oro. Una battaglia di verità e giustizia. Pacini; Ospedaletto, 2008, p. 8.
[40]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 214, f. 24. 16 maggio 1946, lettera della tenenza dei carabinieri di Colle Val d’Elsa al Prefetto di Siena, prot. 107/4 Ris.




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

mariamaddalenarossi

Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio
Maria De Unterrichter Jervolino
Maria De Unterrichter Jervolino
[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.