1

CONFINI DIFFICILI

«Il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale…» come recita il titolo della legge istitutiva del marzo 2004, fa parte di quel calendario civile della nostra Repubblica che ormai si è consolidato all’interno dell’insegnamento della storia contemporanea nella scuola, calendario che nel suo insieme, si pensi anche al “Giorno della memoria”, racchiude in sé temi e problemi sia di carattere storiografico che di didattica della storia.

La rete degli istituti storici della resistenza non si è sottratta all’impegno che l’istituzione del Giorno del Ricordo richiedeva e tutt’ora richiede in termini di ricerca storica, di approfondimento dei canoni interpretativi e di mediazione didattica. Di conseguenza,un approccio alle vicende del Confine orientale non celebrativo ma la costruzione di una tappa di conoscenza che, depurata dall’insidiosa tendenza all’assolutizzazione di chiavi emotive e a semplificatorie focalizzazioni chiuse in ambiti cronologici ristretti, si avvalga di modelli esegetici e di ricostruzioni storiche di lungo periodo dove le drammatiche e dolorose vicende delle foibe e degli esodi siano inserite in un contesto di storia dell’Europa, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Non è un caso se, nell’ottobre dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge, si svolgeva a Torino un Corso di formazione per insegnanti e formatori sulla Storia della Frontiera Orientale, promosso dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia con l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste e con l’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Torino, primo momento di messa a punto e di verifica di un approccio di lungo periodo come si evince dal titolo del volume che ha raccolto gli atti di quell’evento (Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009). Ma il Confine orientale come laboratorio per la storia del Novecento con tutte quelle implicazioni sulla formazione dei docenti e di didattica sul campo che lo strumento laboratorio comporta, non può essere compreso senza far riferimento al lavoro pionieristico dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia che ben prima del 2004 si è impegnato sul terreno della promozione della ricerca, dell’attività editoriale nonché del rapporto con la scuola coniugando sul proprio territorio il nesso tra memoria, conoscenza storica e i luoghi che ne contengono le tracce (si veda il sito http://www.irsml.eu/ e per completezza dell’informazione anche il sito dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine: http://www.ifsml.it/blog2/ ).

La condivisione di iniziative e di contenuti, tratto peculiare della rete degli istituti, è stato il presupposto che ha generato l’impegno dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana su queste tematiche, impegno stimolato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea che nella nostra regione ha svolto un ruolo di apripista con un viaggio di studio ‘intorno al confine orientale’ nel 2009, preceduto da un intenso lavoro di preparazione iniziato nel 2005 (cfr.:Luciana Rocchi, La nostra storia e la storia degli altri: viaggio intorno al Confine Orientale, in Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Torino, Edizioni SEB 27, 2012).

Il Progetto Confini difficili. Storia e memorie del ‘900. Da Trieste a Sarajevo – partito, per la prima volta, nell’anno scolastico 2011-2012, proseguito negli anni successivi e tuttora in corso – non può essere compreso se non si tiene conto dell’esperienza maturata e del patrimonio comune prodotti dalla rete degli istituti attraverso una molteplicità di iniziative, di progetti, di strumenti didattici in circa un decennio e nasce dall’incontro tra l’ISRT e l’associazione culturale “pAssaggi di Storia” con lo scopo di proporre un percorso tematico e didattico per gli insegnanti delle scuole superiori del territorio fiorentino e toscano sulla storia e le memorie di alcuni confini difficili del secolo scorso per sostenere una cultura di pace e di dialogo. Si articola in un ciclo di lezioni, di cui per comprenderne l’importanza si elencano i titoli delle lezioni previste per marzo, aprile, maggio 2015: Balcani, stratificazioni storiche: lingue, religioni, nazioni; Proposte didattiche oltre i confini identitari aestovest; La seconda guerra mondiale tra Italia e Jugoslavia; La questione nazionale nella Jugoslavia socialista 1945–1991; Le guerre jugoslave 1991-1995, e in un viaggio-studio come riflessione e approfondimento della storia del territorio che va da Trieste a Sarajevo con particolare accento sulla questione delle memorie divise presenti nelle narrazioni del ‘900. Il prossimo viaggio, nel settembre 2015, toccherà, i seguenti luoghi: Gonars, Gorizia, Basovizza (Friuli Venezia Giulia); Lubiana (Slovenia); Jasenovac-Donja Gradina (Croazia e Bosnia Erzegovina); Prijedor, Kozara, Sarajevo (Bosnia Erzegovina).

La possibilità di conoscere direttamente i partner in Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina rappresenta un’opportunità per l’ISRT intenzionato ad allargare le collaborazioni anche a livello internazionale e per le scuole coinvolte interessate a conoscere queste realtà; quindi entra in gioco anche una valenza di scambio e cooperazione internazionale tra istituti di ricerca e associazioni che si occupano di storia e memorie.

Dopo il viaggio è previsto un convegno storico-didattico – si riportano i temi oggetto di quelli degli anni passati: Gli esodi forzati di popolazione in Europa centrale e in alto Adriatico alla metà del XX secolo (2012); Confini, identità, violenze in alto Adriatico e nei Balcani nel lungo XX secolo (2013); Nazioni in guerra, guerra in Europa. Da Sarajevo a Sarajevo: tra alto Adriatico e Balcani occidentali 1914-2014 (2014); L’alto Adriatico tra guerra e pace nel Novecento europeo (2015), destinato alla scuole e aperto alla cittadinanza. che rappresenta l’occasione per i docenti partecipanti al progetto di riportare, attraverso i materiali raccolti e rielaborati, le proprie riflessioni sulle tematiche affrontate e con il coinvolgimento attivo degli studenti delle proprie classi. L’incontro si caratterizza, infatti, non solo per la presenza di storici specialistici di queste tematiche che approfondiscono ulteriormente i temi già affrontati nel ciclo di lezioni ma per la presentazione dei lavori da parte degli studenti stessi ed è anche occasione per informare e coinvolgere nel progetto altri insegnanti.




Renicci d’Anghiari.

A Renicci d’Anghiari, località della Valtiberina toscana, si trovava uno dei peggiori campi di concentramento d’Italia per numero di internati e per i comportamenti tenuti dal personale di sorveglianza. Destinato ad accogliere fino a novemila prigionieri di guerra, è adibito agli internati civili pur rimanendo sotto la competenza dell’amministrazione militare. All’arrivo degli antifascisti italiani (anarchici in gran parte) e degli slavi già confinati a Ventotene – dopo il 25 luglio 1943 – vi si trovano rinchiusi in 4.500, tutti prigionieri ‘ribelli’ deportati dalla Jugoslavia (sloveni, montenegrini, croati) catturati nelle operazioni di rastrellamento, talvolta accompagnati dalle famiglie. Ben 500 i militari addetti alla sorveglianza. Il regime di vita, secondo le testimonianze degli internati ma anche del cappellano incaricato dell’assistenza religiosa don Giuliano Giglioni, è bestiale al punto che lo stesso sacerdote riferisce nel suo diario, a proposito dei numerosi decessi per freddo, scarsa igiene, fame, dissenteria e altre malattie: “I primi furono seppelliti nel cimitero parrocchiale [alla vicina antica pieve di Micciano], ma dietro il mio interessamento presso il comune di Anghiari fu riadattato il vecchio camposanto”. Alcuni muoiono nonostante il tardivo ricovero negli ospedali di Castiglion Fiorentino, Anghiari, Subbiano e Sansepolcro. Alla fine il conto dei morti ammonta a 157. Il campo, dove non mancano neppure gli invalidi, gli adolescenti ed i bambini – “uomini di età dai 12 ai 70 anni” -, è diviso in tre settori ciascuno composto di 12 baracche e separati da inavvicinabili reti metalliche. Le persone sono stipate in 15 per ogni tenda e 250 per ogni baracca, ristrette in pagliericci infestati dai pidocchi. Le latrine sono all’aperto. Mancano vestiti e coperte. Tutt’intorno vi sono tre ordini di filo spinato di altezza varia intervallati e con altane di 4 metri per la sorveglianza armata e fari per l’illuminazione notturna. Le pattuglie di guardia nel loro giro disturbano continuamente il sonno dei prigionieri. Al mattino presto ed in qualsiasi condizione metereologica anche i malati sono costretti a presenziare per ore all’adunata per l’appello. Assomiglia parecchio a un ‘lager’ – il “campo n.97” secondo la numerazione assegnata dalle autorità militari – funzionante fin dal settembre / ottobre 1942 costituito da un primo nucleo di baracche a cui poi si era aggiunta una vera e propria tendopoli. In estate si lamentava la mancanza d’acqua potabile e d’inverno il freddo notturno ed il fango causato dalle piogge. Il vitto è scarso, costituito da una magra razione giornaliera di “qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere”; e spesso il tutto è integrato persino dalle ghiande, così come denuncia – ma invano – la Croce Rossa in un suo rapporto al ministero dell’interno.

La disciplina nel campo – una volta caduto il fascismo – è mantenuta dai ‘badogliani’, talvolta con il terrore e ricorrendo persino a finte fucilazioni. Dunque nel segno della continuità. Il 23 agosto nella piccola stazione di Anghiari sulla (oggi soppressa) linea secondaria per Sansepolcro, i nuovi arrivati possono già percepire la terribile situazione verso la quale sono stati sospinti: centinaia i soldati ed i carabinieri in assetto di guerra, fatti affluire sul posto per l’occasione, si incaricano senza troppi complimenti di perfezionare l’operazione di internamento degli antifascisti giunti da Ventotene. Iniziano i  maltrattamenti e le perquisizioni personali. Nel campo un reticolato separa i nuovi arrivati dagli slavi.

La presenza nel campo degli anarchici (e di alcuni comunisti istriani e giuliani) – che si aggiunge a quella di un altro gruppo di antifascisti italiani e sloveni appena giunti da Ustica – il loro risoluto atteggiamento di opposizione verso i soprusi perpetrati dal personale di sorveglianza, creano in qualche caso un relativo miglioramento delle condizioni di vita, specie nella disciplina. Per gli anarchici, in massima parte reduci dalla Spagna, risulta impossibile piegarsi alle ferree regole imposte da carabinieri e secondini. Contro la turbolenza dei nuovi arrivati non si esita a ricorrere ai mezzi repressivi più decisi quali le bastonature, la legatura al palo, la camicia di forza o il ricovero al Neuropsichiatrico di Arezzo. Da parte dei prigionieri tutti rimane comunque insopportabile l’idea che, caduto il fascismo, gli antifascisti debbano ancora rimanere reclusi.

L’8 settembre i prigionieri chiedono in massa le armi per opporsi all’occupazione tedesca e per tutto il giorno seguente si organizzano comizi nei vari settori. Le altre richieste formulate riguardano: la restituzione degli effetti personali sequestrati, la consegna di una radio, l’assunzione in proprio del controllo del campo, il rifiuto di sottostare agli obblighi dell’appello.

Sorge quindi subito l’esigenza di ristabilire l’ordine turbato fra i prigionieri. Il cappellano militare – l’istriano Antonio Zett – è fra i primi a sparare colpi di pistola in aria come avvertimento per i più turbolenti. Il colonnello comandante Pistone, il comandante in seconda ten. col. Fiorenzuola, ed il vice ten. Panzacchi “fascista di Bologna”, irritati anche per i canti sovversivi intonati in coro dai reclusi, non esitano a dare ordine di sparare sugli assembramenti e di piazzare le mitragliatrici. Segue una scarica di fucileria sugli insorti che provoca diversi feriti.

Per piegare la volontà dei rivoltosi il comando del campo minaccia, ed in parte attua, il taglio della già magra razione giornaliera di rancio. Dalla prefettura di Arezzo si conviene intanto sull’opportunità, per non alimentare ulteriormente il clima di tensione, di non ostacolare l’eventuale fuga ove questa fosse tentata da parte degli internati italiani o anche di ‘consentire’ un esodo programmato e controllato.

LA FUGA E LA RESISTENZA
Inizia la fase di dismissione progressiva della struttura concentrazionaria. L’11 settembre un gruppo di una decina di italiani viene prelevato e scortato dai carabinieri fino alla questura di Arezzo. Ma qui, anche a causa della grande confusione causata dall’arrivo quasi contestuale delle truppe germaniche, non ottenendo il foglio di via ed i documenti “necessari” promessi, il gruppo si disperde ed ognuno prende la via non facile di casa. A Firenze, dove nel giorno successivo alcuni sono giunti nel frattempo in treno e fortunosamente, gli ex internati apprendono con sgomento della avvenuta liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e solo per poco evitano di essere nuovamente arrestati, questa volta dai tedeschi che stanno  occupando la stazione.

Intanto, fra le migliaia di slavi e le poche decine di internati italiani rimasti ancora a Renicci, matura l’idea di organizzare una fuga in massa. Il progetto prende immediatamente corpo nel pomeriggio del 14 settembre quando all’improvviso compaiono tre autoblinde tedesche alle porte del campo. Alla fuga degli ufficiali segue quella dei soldati e quindi, una volta creati i varchi nel recinto, di “tutta la fiumana dei cinquemila internati che si riversa in tutte le direzioni”, con grande impressione della gente che abitava nelle vicinanze. Lunghe file di prigionieri affamati e malmessi si incamminano così verso l’Appennino seguendo, almeno nelle intenzioni, la direzione Adriatico-Jugoslavia. “Sul fare della sera – annota don Giglioni nel suo diario – il campo è rimasto deserto”.

Settecento degli sloveni fuggitivi sono invece catturati nei pressi di Bologna ed avviati nei lager in Germania; altri si aggregano alle formazioni partigiane nelle Marche e in Romagna, pochissimi riusciranno a raggiungere la Slovenia. La struttura recintata di Renicci è frequentata nei giorni seguenti da saccheggiatori alla ricerca di armi, coperte e indumenti militari. L’ex campo avrà ancora un uso limitato sotto la R.S.I., in particolare per internare i genitori dei renitenti.

Al momento della grande fuga il Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista, con l’aiuto di don Nilo Conti e di Beppone Livi di Anghiari, aveva disposto l’accoglienza e la sistemazione degli ex internati rimasti in zona ed il loro reclutamento nei nuclei partigiani già in via di formazione sui rilievi montuosi intorno al capoluogo e nelle vallate aretine.




Cristo si è fermato in piazza Pitti

«Nel mezzo del cimitero si apriva una fossa, profonda qualche metro, con le pareti ben tagliate nella terra secca pronta per il prossimo morto. Una scaletta a pioli mi permetteva di entrarci e di risalire senza difficoltà. In quei giorni di calura avevo preso l’abitudine di scendere nella fossa e di sdraiarmi sul fondo… In quella solitudine, in quella libertà passavo delle ore». Così scrive Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli. Il cimitero è quello di Aliano, in provincia di Matera, dove il fascismo confinò l’intellettuale torinese nel 1935. Il camposanto era anche il luogo che non doveva oltrepassare. E qui, in un angolo, si fermava a dipingere, sorvegliato da una guardia che non lo perdeva mai di vista. Anzi, il cimitero è stato il primo soggetto che dipinse in questa terra abbandonata da Cristo e dagli uomini. In quello stesso angolo riusciva a scorgere la casa del confino, poco dopo la Fossa del Bersagliere dove i briganti avevano spinto un soldato che si era perso su questi monti. Ed è qui che Carlo Levi ha voluto essere sepolto, dopo la morte avvenuta nel gennaio 1975.

La casa del confino di Carlo Levi

La casa del confino di Carlo Levi

Per otto anni Carlo Levi raccontò i giorni del confino. Ma solo a Firenze, fra l’inverno del 1943 e l’estate del 1944, trovò la forza di scrivere Cristo si è fermato a Eboli, definito da Vittore Brancail libro più importante del nostro dopoguerra”. A Firenze Levi c’era già stato a vent’anni e c’era tornato poco dopo per fare il militare come allievo medico ufficiale nella caserma di via Monte Oliveto. Carlo Levi tornò a Firenze una terza volta nel 1941 indirizzato dalla donna che amava, Paola Olivetti, fiorentina, moglie di Adriano, l’industriale delle macchine da scrivere. Paola e la zia Drusilla, compagna di Eugenio Montale, gli trovarono uno studio nel piazzale Donatello. Ci doveva restare un mese. Si fermò, invece, per quattro anni.

Nell’autunno del 1943 trovò rifugio in casa di Anna Maria Ichino in piazza Pitti. In quell’appartamento Levi scrisse Cristo si è fermato a Eboli, mentre per le strade di Firenze si eseguivano retate di ebrei e si uccidevano renitenti alla leva. Dal cielo gli Alleati bombardavano gli scali ferroviari per impedire i rifornimenti ai tedeschi. Nella casa dove alloggiava Carlo Levi si riunì più volte la Commissione Stampa del Comitato Toscano di Liberazione nazionale. Ed è lì che venne ideata e preparata “La Nazione del Popolo”, organo del Comitato di Liberazione, diretto da Carlo Levi.

Un libro ricostruisce ora la vicenda umana e politica di Carlo Levi. Il volume, scritto da un giornalista, Nicola Coccia, è stato pubblicato da Ets e si intitola L’arse argille consolerai: Carlo Levi dal confino alla Liberazione di Firenze attraverso foto, testimonianze e documenti inediti (pagine 299, 15 euro).

Vi si racconta, fra l’altro, di un partigiano milionario, delle carognate dei fascisti in un convento di clausura, delle stragi di bambini e civili, dell’uccisione della donna più bella del mondo, di Manlio Cancogni portiere di un torneo di pallone nella villa di Mussolini, del furto della valigia di Carlo Cassola, dell’olio e della farina portati a Giorgio Bassani in fuga da Ferrara, dell’erede al trono finito a vendere motorini, del matrimonio della figlia di Amedeo Modigliani con l’uomo che si era gettato in acqua col cappotto per sfuggire all’arresto. Il libro parla soprattutto di Carlo Levi, medico, pittore, componente del Comitato Toscano di Liberazione, della donna che lo protesse, del bambino di cui fu padre putativo, della figlia segreta, della scrittura del Cristo si è fermato a Eboli. Ci sono testimonianze e foto mai pubblicate prima e anche un quadro molto significativo di quel periodo, rimasto chiuso in una stanza. E poi c’è la foto e la storia della persona che suggerì a Levi il titolo del suo capolavoro.
“L’arse argille consolerai” è il verso di una poesia che l’intellettuale torinese scrisse durante il confino ad Aliano. Ed è da quel paese che cominciano le ricerche di Nicola Coccia.

Nicola Coccia ha lavorato all’Avanti, al “Lavoro” di Genova, diretto da Sandro Pertini e per 30 anni alla Nazione dove si è occupato dei principali fatti di cronaca.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.




Egemonia e potere: 40 anni di governo comunista in provincia di Grosseto.

Grosseto e la sua provincia sono stati governati per tutto il secondo dopoguerra dal PCI; un governo egemonico, protagonista della modernizzazione e autore delle più importanti scelte politiche, economiche e sociali che ancora oggi caratterizzano questa provincia. Sin dalle prime consultazioni elettorali post-Liberazioe il PCI risultò partito di maggioranza relativa nel capoluogo e in molti comuni della  provincia di Grosseto. Amministrò con giunte di coalizione, mantenendo un’alleanza con il Partito Socialista che, al di là di brevi parentesi di cui si dirà più avanti, non venne rotta dall’inaugurazione dei governi nazionali e in qualche caso locali di centro-sinistra. Caso che ha una sua singolarità, l’ inaugurazione del  sostegno a una giunta a guida repubblicana già nei primi anni ‘70. Tema rilevante è il rapporto con la Democrazia Cristiana, partito egemone a livello nazionale, soggetto localmente rilevante in certi momenti storici, soprattutto nella fase di attuazione della Riforma Fondiaria.

Osservando la società grossetana tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 è facile notare una fitta trama di associazioni e di gruppi fortemente connotati da una più antica tradizione repubblicana, garibaldina, anarchica che mostra chiaramente un carattere identitario ribelle e sovversivo.

In questo contesto si svilupparono facilmente le idee socialiste e soprattutto quelle comuniste. Nel 1921 quando la frazione comunista decise la scissione dal Partito Socialista Italiano anche a Grosseto vennero immediatamente fondate numerose sezioni comuniste. Una sentita tradizione sovversiva della zona rendeva ancora forte l’attaccamento ideologico delle masse operaie e contadine locali al partito socialista; i comunisti non erano invece riusciti né a fare proselitismo né a strutturare il partito e nelle elezioni politiche del maggio 1921 i socialisti risultarono il primo partito in provincia; i comunisti non riuscirono a eleggere nessun deputato. Da lì a poco, sotto la spinta delle violenze fasciste, le sezioni comuniste si svuotarono velocemente e i pochi militanti rimasti si organizzarono in partito clandestino.

Dunque, da cosa deriva il consenso dei comunisti nel secondo dopoguerra?

È sicuramente fondamentale il periodo clandestino durante il regime, in cui il partito assume un ruolo dominante nella compagine antifascista. I comunisti grossetani, infatti continuarono sotto il fascismo la propria attività politica, tanto che un protagonista dell’epoca, Aristeo Banchi, detto Ganna, così descriveva la fortuna che i comunisti raccolgono in quegli anni:

“Il fatto che molti comunisti fossero arrestati e continuamente perseguitati nelle forme più diverse, attirò l’attenzione e la simpatia di molti, per lo più giovani, di tendenze politiche diverse e appartenenti alla media borghesia cittadina: studenti, impiegati, artigiani e commercianti. Il comportamento di questi uomini, tenaci, entusiasti della loro attività antifascista, onesti nel lavoro e nella vita, li fece riflettere e cominciarono ad interessarsi della loro attività e vollero conoscere questo Partito Comunista, che era riuscito, a differenza degli altri partiti che erano spariti, a dare speranza per periodi migliori” (Aristeo Banchi, Si va pel mondo).

Ma il consenso verso i comunisti si accrebbe senza dubbio durante i difficili anni della Resistenza, quando il Partito comunista ebbe un ruolo predominante nella guerra partigiana; è in quei pochi mesi che vanno dall’8 settembre 1943 alla Liberazione nel giugno del 1944 che il Partito Comunista iniziò a costruire la propria egemonia nella provincia di Grosseto.

Una volta liberata, la provincia visse un periodo di grande fermento sociale ed economico con le numerose proteste dei contadini che chiedevano la terra e quelle dei minatori che volevano migliorare le proprie condizioni di lavoro ed economiche. È in questo contesto che il partito comunista locale riesce a legarsi con le masse popolari del territorio creando una solida e indissolubile base elettorale e di consenso per il futuro. Per i comunisti grossetani le lotte ebbero una duplice importanza, poiché, da una parte, furono il luogo dove si formò politicamente ed umanamente la classe dirigente che dopo pochi anni prenderà in mano il partito, e dall’altra, le lotte rappresentarono un’opportunità di crescita di consenso. Grazie ad un attento e duro lavoro di propaganda i comunisti grossetani riuscirono a mettersi alla guida di quelle battaglie; era grazie al lavoro di massa, come si diceva all’epoca, che il PCI riuscì a guidare le proteste e a condurle, attraverso le parole d’ordine che il partito stesso decideva, verso il voto comunista.

È necessario sottolineare che le lotte sociali in quei primi anni della Repubblica rappresentarono per un partito di massa come il PCI la vera e propria ragione d’essere: grazie a queste il PCI aumentava la propria forza e il proprio radicamento sociale. Ma non bisogna dimenticare che il PCI a Grosseto era anche un partito di governo che, fin dalla Liberazione, iniziò ad amministrare la quasi totalità degli enti locali. Non potendo prescindere dalle masse popolari e dalle proteste, questi due aspetti costringevano il PCI ad avere un duplice e parallelo modus operandi: da una parte, dovendo governare localmente il territorio, era obbligato a mantenere basso lo scontro sociale verso gli enti locali ma dall’altra parte, continuava a dirigere i movimenti di protesta e il conflitto sociale convogliando il malcontento contro il governo nazionale democristiano. La vera sfida che il PCI dovette affrontare nelle province come Grosseto, dove aveva un ruolo di governo, era quella di riuscire ad avere il monopolio della critica sociale subordinata alla propria idea politica.

Ma la costruzione del consenso comunista nel grossetano doveva passare anche da una capillare organizzazione territoriale e da una forte militanza.

Il PCI, fin dal primo congresso di Lione, aveva scelto una forma di organizzazione non verticistica ma basata su un forte rapporto con il territorio attraverso le federazioni, le sezioni e le cellule. Quest’ultime rappresentavano una vera e propria novità del movimento operaio italiano ed avevano lo scopo di propagare e diffondere le idee del partito sul territorio; con le cellule il partito poteva riuscire a conquistare e a coinvolgere le masse popolari. Il segretario della Federazione comunista Grossetana Guglielmo Nencini, nel Comitato Federale del 28 ottobre 1944 (uno dei primi dopo la liberazione di Grosseto) così riassumeva l’importanza dell’organizzazione cellulare del partito:

“La cellula è il tipo di organizzazione che più di ogni altro permette una intensa vita di partito, una più facile e continua opera di chiarificazione ideologica ed è quella che permette una maggiore tutela del partito contro ogni frazionismo o scissionismo. Ma non basta: la cellula è lo strumento più perfetto e potente di penetrazione politica nella massa popolare, è l’organismo che meglio di ogni altro permette al partito di orientare, guidare le classi popolari e quindi di stringerle attorno alla classe operaia in un blocco unitario veramente inscindibile” (Fondo Nencini, Isgrec).

Fin dalla Liberazione, nella provincia di Grosseto furono aperte numerose sezioni comuniste tanto che il PCI ben presto ottenne una enorme e capillare diffusione territoriale. Ogni paese, ogni città, aveva una sezione; soltanto a Grosseto fino alla prima metà degli anni ’80 si contavano ben 5 sezioni cittadine e altre 15 sparse per tutto il territorio comunale; mentre in provincia si contavano all’incirca altre 135 sezioni per un totale di circa 155 in tutta la Federazione. La nascita, e spesso la costruzione, delle sezioni comuniste era possibile grazie alle sottoscrizioni dei militanti che raccoglievano denaro o che spesso mettevano a disposizione del partito le proprie competenze o il proprio lavoro per la costruzione materiale delle sedi. sottoscrizione sedeLa vecchia sede della Federazione provinciale di Grosseto venne realizzata grazie alla sottoscrizione e al lavoro volontario dei militanti comunisti; una volta ultimata, venne inaugurata nel 1957 da Palmiro Togliatti. Stessa cosa avvenne per la Casa del Popolo di Bagno di Gavorrano che venne inaugurata nel 1973 da Pietro Ingrao.

Ovviamente l’organizzazione e la diffusione sul territorio non poteva reggere senza la militanza di migliaia di grossetani che accrebbero e favorirono l’egemonia comunista in provincia. I militanti comunisti, nei loro luoghi di lavoro e nei loro paesi di residenza donavano volontariamente e con passione il proprio tempo libero al partito, per migliorarne l’organizzazione, per le campagne elettorali e per le Feste de l’Unità.

La rigida morale comunista del primo dopoguerra obbligava i militanti ad una vita sobria e completamente donata alla causa comunista. Questi avevano il dovere, come si legge nell’articolo 9 dello Statuto del PCI del 1951, oltre a “partecipare regolarmente alle riunioni e a svolgere attività di partito secondo le direttive dell’organizzazione”, ad avere rapporti di lealtà e fratellanza con gli altri militanti; vigilare sulle buone sorti del partito e mantenere una “vita privata onesta, esemplare”. Il militante comunista, quindi, doveva dare l’esempio morale anche nella propria vita privata e aveva l’obbligo di “esercitare la critica e l’autocritica per il miglioramento della sua attività e di quella del partito” attraverso anche una continuo miglioramento della propria “conoscenza della linea politica e la propria capacità di lavorare per la sua applicazione”.

Purtroppo non è possibile descrivere uno scenario organico per quanto riguarda le iscrizioni dei militanti poiché mancano molti dati nell’archivio della Federazione comunista, conservato presso l’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea; tuttavia è possibile affermare che il numero degli iscritti in provincia di Grosseto rispecchiava le medie delle altre province toscane.

L’egemonia comunista non aveva bisogno solo di una forte base sociale su cui fondare la propria organizzazione, ma necessitava anche di rapporti stabili con le altre forze politiche locali. Infatti, senza una solida politica delle alleanze, il partito non avrebbe potuto mantenere la propria posizione.

Manifestazione comunista a ribolla (anni '50)

Manifestazione comunista a ribolla (anni ’50)

Osservando i risultati elettorali del PCI nelle varie elezioni amministrative, si notano due tendenze distinte. La prima mostra, dagli anni ’50 fino alle elezioni regionali del 1970, un sostanziale consolidamento del consenso elettorale del PCI, a scapito chiaramente sia delle opposizioni (DC, Psdi, Pli, Pri), che del principale alleato di sinistra ovvero il PSI. La seconda tendenza, che riguarda il periodo dal 70 fino alle fine del 90, mostra invece una lenta e parziale erosione del consenso elettorale comunista a favore degli alleati socialisti. Questa perdita di voti però non si traduce in una diminuzione di consenso e l’egemonia comunista rimane ben salda; piuttosto la lieve crisi elettorale va imputata alla crescente fortuna politica che il PSI vive in quegli anni.

Il PCI, quindi, costruì il proprio potere locale sull’alleanza strategica con il PSI, creando una sostanziale continuità di governo e dando alle istituzioni locali una forte stabilità politica. Questa alleanza non solo aveva radici ideologiche, ma si basava su un preciso accordo elettorale politico e programmatico che tra le altre cose prevedeva una ferrea e rigida distribuzione, sia delle cariche politiche elettive, che delle cariche di nomina politica nei vari enti locali e collaterali. Nella distribuzione di questi vari incarichi il PCI, forte del suo peso elettorale, faceva valere la propria egemonia ed aveva la meglio sugli alleati socialisti, creando così non pochi malcontenti. Leggendo i verbali dei Comitati federali comunisti di quegli anni è facile trovare numerose notizie a riguardo ma bisogna tenere ben presente che le nomine politiche all’interno degli Enti Locali erano una pratica diffusa, considerata normale ed erano soprattutto permesse dalla legge.

Spesso però le alleanze politiche locali venivano influenzate dalla politica nazionale, come nel caso dell’unificazione socialista del 1966 che portò all’allontanamento del PSI dalle giunte locali. Nel 1967, i socialisti uscirono dalla Giunta provinciale e i comunisti dettero vita ad monocolore con il Presidente Palandri; stessa dinamica avvenne nelle altre amministrazioni locali compreso il Comune di Grosseto. Nel comunicato stampa che i comunisti grossetani diffusero in quell’occasione si legge della grande preoccupazione comunista nel constatare che

“la gravità di questa decisione che avviene con motivi estranei ai problemi e agli impegni programmatici di quelle assemblee elettive nelle quali, da 20 anni e con un sensibile lavoro unitario, la collaborazione tra PCI e PSI ha consentito il conseguimento di estesi successi nell’interesse della città e delle masse popolari” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Per i comunisti grossetani la crisi dell’alleanza con il PSI era palesemente influenzata dalla politica nazionale ma metteva in serio pericolo la stabilità stessa dei governi locali:

“il disimpegno del PSI-PSDI unificati non è altro che il primo passo di una politica che obbiettivamente può portare le amministrazioni pubbliche grossetane a serie difficoltà, con la conseguenza immediata di sacrificare e ritardare soluzioni urgenti ed inderogabili e con il pericolo di aprire la via a gestioni commissariali in ossequio agli obbiettivi e alla volontà della DC di cancellare la posizione di potere delle forze di sinistra” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Il PCI, nonostante l’unificazione socialista e la crisi che ne scaturì, rimase al governo con le proprie forze e quando nel 1970 la riunificazione naufragò, i socialisti grossetani rientrarono in tutte le amministrazioni locali e la crisi poté dirsi conclusa. Se il rapporto con i socialisti fu continuo e costruttivo, ben diverso fu il rapporto politico con le altre formazioni democratiche locali.

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

Con il Partito repubblicano italiano, ad esempio, non ci fu mai una vera e propria alleanza politica-elettorale, nonostante il dialogo portato avanti dai comunisti dagli anni ’70 e che vide l’entrata dei repubblicani nell’amministrazione Valentini del Comune di Grosseto negli anni ’80.

Nonostante questo, il massimo punto di avvicinamento politico tra PCI e PRI, sia a livello politico, ma soprattutto mediatico, si ebbe nel 1974, durante le elezioni amministrative del Comune di Monte Argentario, quando Susanna Agnelli, eletta consigliera comunale per il PRI, ottenne l’astensione dei comunisti per varare la propria giunta. Quella di Monte Argentario, con l’astensione comunista a favore dell’amministrazione Agnelli, fu la prima esperienza di maggioranza alternativa all’alleanza social-comunista.

La crisi a livello nazionale che si andò a creare tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 tra il PCI e il PSI ebbe degli echi anche in provincia. Nel 1976 Aldo Tonini, Segretario provinciale del PSI, nel suo discorso durante il XXXI Congresso Provinciale descriveva i rapporti tra il PSI e il PCI “sempre tranquilli e senza problemi” pur tuttavia sottolineando un malcontento:

“in virtù della politica del compromesso storico che il PCI persegue ad ogni livello, nella ricerca costante di un rapporto privilegiato con la DC si verificano contrasti e tensioni all’interno della maggioranza di sinistra. In tempi anche recenti autorevoli esponenti comunisti locali hanno affermato che le difficoltà che di volta in volta sorgono nei rapporti tra PSI e PCI all’interno delle maggioranze sono dovute alla riottosità dei socialisti di fronte ad ogni ipotesi di allargamento delle maggioranze stesse e persino alla chiusura ed agli ostacoli verso ogni tentativo di realizzare un rapporto nuovo con le minoranze” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Quando poi, sulla scia dei successi elettorali nazionali, il PSI migliorò i propri risultati elettorali locali, la crisi tra i due alleati si fece ancora più palese soprattutto perché il PSI iniziò a chiedere sempre più peso e potere politico. A riguardo può essere utile la posizione democristiana che, dopo anni di isolamento, negli anni ’80 iniziò a cercare di scalzare il potere comunista, proponendo un accordo con i socialisti. Hubert Corsi, durante il Congresso provinciale della Democrazia Cristiana del 22 febbraio 1981, nel suo discorso da Segretario provinciale lamentava l’atteggiamento frontista e la chiusura politica del PCI, affermando che il PCI “è stato abile a cedere certe posizioni [al PSI], talora anche contro la logica elettorale, pur di coinvolgerlo in un’alleanza di carattere generale” in modo da soddisfare “le crescenti aspettative di potere” ottenendo in cambio “certezze e potere”; il PSI di contro, nella lettura democristiana “è stato abile a cercare di trarre dalle difficoltà del tradizionale alleato, il maggiore vantaggio; assicurandosi posizioni di forza superiore alla propria forza elettorale”.

Tra minacce di maggioranze alternative e miraggi pentapartitici, la crisi tra PCI e PSI si rese ancora più palese quando nel 1988 problemi di natura giudiziaria coinvolsero membri socialisti della giunta comunale.

In quella situazione però furono chiari almeno due aspetti: da una parte le opposizioni e i socialisti non avevano una forza tale per rappresentare una vera alternativa al governo comunista; dall’altra invece, ancora una volta, risultò evidente, a Grosseto e in provincia, come il PCI fosse l’unica forza egemonica.




Storie di confino: il poggibonsese Angiolo Corsi

La letteratura che riguarda il confino di polizia può annoverare contributi di personaggi di primissimo livello del panorama antifascista, sia politico sia culturale. Tra le testimonianze più importanti ci sono quelle di Carlo Levi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, ma i numeri riguardanti i confinati durante il fascismo furono importanti e influenti (circa 15 mila persone) e non interessarono solo gli antifascisti ma tutti coloro i quali erano ritenuti particolarmente pericolosi per l’ordine pubblico.

Anche in provincia di Siena furono effettuate numerose assegnazioni al confino, dal 1926 in poi, che cercarono di colpire l’ossatura delle strutture clandestine del partito comunista e, in misura minore, del partito socialista e del movimento anarchico. Tra le diverse forme di limitazione della libertà (carcere, confino, internamento, ammonizione, sorveglianza speciale, diffida), il confino riguardò 129 antifascisti per una condanna a 380 anni complessivi. Secondo quanto riportato da Rineo Cirri (L’antifascismo senese nei documenti della polizia e del Tribunale Speciale 1926-1943), nel complesso furono 699 le persone che tra il 1926 e il 1943 subirono un deferimento al Tribunale speciale; “ad ognuno di questi antifascisti sono collegate vicende umane, storie dolorose di famiglie e di gruppi di persone con le loro sofferenze, i loro dolori e i loro drammi ma anche le speranze di una parte della popolazione di vivere in una società più giusta”.

corsi

Angiolo Corsi

Alcuni personaggi di primo piano della lotta antifascista e anche del periodo di ricostruzione democratica in provincia di Siena hanno raccontato in libri, memorie e diari le proprie esperienze al confino, e tra gli altri Fortunato Avanzati “Viro” e Mauro Capecchi “Faro”. Per ricostruire le biografie e i percorsi personali e politici di altri militanti è invece necessario ricorrere ad altri tipi di fonte, come le note giudiziarie, gli atti dei Tribunali speciali, le carte di prefetture e i verbali di carabinieri e poliziotti. In questo contributo il personaggio di cui si racconteranno le vicissitudini è Angiolo Corsi, nato nel 1905 a Poggibonsi, di professione falegname.

Corsi fu arrestato per la prima volta il 26 luglio 1932 a Poggibonsi, all’età di 27 anni; la scheda  personale nel Casellario Politico Centrale del 28 agosto 1932 riporta queste informazioni: “Cicatrice sopracciglio sinistro, mancante falange mano, abbigliamento solito: da operaio. E’ di regolare condotta morale e immune da pendenze e precedenze penali. In precedenza non aveva mai dato luogo a rilievi in line apolitica né di nutrire sentimenti contrari al regime. Essendo venuto a risultare che faceva parte del comitato federale comunista costituitosi clandestinamente in Poggibonsi ed era in relazione con funzionari e fiduciari del partito stesso, distribuiva la stampa sovversiva e distribuiva materiale di propaganda. Raccoglieva gli oboli per il soccorso alle vittime politiche e loro famiglie e prendeva parte alle riunioni clandestine del partito. Funzionava anche da corriere per il collegamento e trasporto di stampa sovversiva tra Empoli- Poggibonsi e Siena. Per tale reato pende tuttora provvedimento penale a di lui carico. Esercita il mestiere di falegname, da cui trae i mezzi di sussistenza.

Nonostante questi dettagliati indizi a suo carico, Corsi fu prosciolto per insufficienza di prove. L’arresto successivo avverrà nell’aprile del 1934 per “compartecipazione a organizzazione comunista” e l’8 giugno sarà condannato a cinque anni di reclusione di cui due di libertà vigilata. Fu condotto al carcere di Roma il 10 febbraio 1935 e, dopo la sentenza del 5 aprile 1935, la condanna fu confermata ma gli saranno condonati due anni.

Il 20 febbraio 1937 gli venne concesso l’indulto, revocato però solo due mesi dopo dal Tribunale di Siena. Le notizie successive risalgono poi al 25 luglio 1940, quando una nota riservata della prefettura di Siena, firmata dal prefetto, dispose la scarcerazione e il foglio di via alla volta di Avellino; questa volta Corsi fu accusato per avere pronunciato frasi disfattiste sulla posizione dell’Italia in guerra.

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il comune scelto fu quindi Teora (Avellino), dove Corsi giungerà il 27 luglio 1940. Lì ebbe diversi problemi nel rapportarsi alle autorità locali del regime; appena giunto a Teora scrisse, infatti, al questore di Avellino per richiedere il rimborso di 25 lire per il viaggio effettuato da Avellino alla volta di Teora dai suoi familiari più stretti (moglie e figlio). La lettera riporta evidenti errori grammaticali, ma contiene una puntuale lamentela sui torti subìti, sui quali Corsi aveva informato anche Questura di Siena e comune di Poggibonsi.

Il questore di Avellino, Vignali, risponde in modo molto seccato con una nota al podestà di Teora in cui dice: “Il soprascritto Angelo Corsi ha fatto pervenire alla R. Questura di Siena un esposto con il quale, usando una forma alquanto altezzosa, chiede di essere rimborsato delle spese che la moglie ha sostenuto per il tratto di viaggio da Avellino a Teora e cerca di polemizzare e di fare ricadere la colpa al Municipio di Poggibonsi e alla R. Questura di Siena. […] Si prega di richiamare il C. a tenere un comportamento più corretto e a scrivere, sempre che gli capiterà di scrivere ad autorità costituite, con la forma dovuta e senza alterigia.

Il 9 ottobre 1941 Corsi chiese di essere trasferito ad altra località (la richiesta fu però respinta) e il 9 gennaio 1942 lo stesso Corsi chiese 35 lire per la risolatura delle scarpe, ormai consumate e non adatte al rigido inverno dell’Appennino. Il questore Vignali respinse anche questa richiesta. L’assegnazione al confino terminò il 22 febbraio 1942 e così Corsi potè far ritorno a Poggibonsi, dove non terminerà la sua attività politica.

Corsi, infatti, ricoprì un ruolo nevralgico nell’organizzazione dei primi gruppi di combattimento in Valdelsa, occupandosi anche del reclutamento e della formazione dei giovani più vicini alle strutture clandestine del P.C.I., come testimonia un giovane collega del Corsi, Fortunato Fusi, ricordandone le vicende.

Dalle notizie fornite dai colleghi falegnami della ditta Lucita di Poggibonsi e dalle memorie di Treves Frilli, figura di riferimento del C.L.N. e del P.C.I. a Poggibonsi, emerge un carattere molto aspro e diretto, che procurerà a Corsi diversi grattacapi anche nella quotidianità della vita politica del dopoguerra, come è rintracciabile nella corrispondenza tra Corsi e i dirigenti locali del P.C.I. a Poggibonsi negli anni Cinquanta e Sessanta.

Quella di Angiolo Corsi, pur rappresentando solo una tessera del mosaico che può ricomporre la storia dell’antifascismo popolare, è una vicenda indicativa e sintomatica di come la scelta della militanza antifascista non badava a spese, a costo di dover subire il carcere o il confino.




12 giugno 1944: la strage di San Leopoldo

La strage di San Leopoldo, località prossima a Marina di Grosseto, è parte dei tragici eventi che accompagnarono la ritirata delle truppe germaniche lungo il litorale tirrenico, dopo la liberazione di Roma. Furono rastrellamenti, rappresaglie e azioni determinate a liberare le vie di comunicazione utili per la ritirata e colpire le formazioni partigiane. L’opera di repressione nella zona costiera fu di competenza del LXXV Corpo d’Armata tedesco. I fatti di Marina di Grosseto furono preceduti dalla strage di Roccalbegna, l’11 giugno, da rastrellamenti nella zona di Castiglione della Pescaia e nella frazione di Buriano, dove i tedeschi intendevano far terra bruciata intorno alla banda “Gruppo Tirli” del “Raggruppamento Monte Amiata”.

Casa sfollati

Casa delle famiglie sfollate a San Leopoldo

La mattina del 12 giugno 1944 un graduato e due militari tedeschi, incaricati di minare e far saltare il ponte sulla Fiumara di San Leopoldo, si recarono presso il casello del genio civile, dove viveva la famiglia del responsabile Fortunato Falzini. Sul posto si trovava anche una famiglia di sfollati, quella dei Lari, mentre a poca distanza vi era il podere dei Botarelli. I tedeschi gli ordinarono l’allontanamento dalla zona, malgrado   un regolare permesso di residenza per il controllo del livello delle acque che gli era stato concesso da un ufficiale tedesco. Difficile capire come la situazione degenerò. Secondo la ricostruzione del prefetto di Grosseto Amato Mati del 14 giugno 1945, i tedeschi aprirono il fuoco e uccisero Falzini e Giuseppe e Livio  Botarelli, padre e figlio. Al rumore degli spari, altri  tentarono la fuga lungo l’argine ma furono ugualmente colpiti: Olga e Giancarlo Lari, madre e figlio, uccisi sul posto, Roma Madioni, deceduta qualche giorno dopo per le ferite. Sopravvisse un altro ferito, Armando Lari, che aveva cercato scampo all’interno di una botola. Nel complesso furono sei le vittime civili. Ma non è questa l’unica versione che ci consegnano le carte. La relazione stilata dal sindaco di Grosseto Lio Lenzi il 22 luglio 1944 descrive un rastrellamento di reparti di SS, arrivate lì per minare il ponte sulla chiusa e poi la visita nella casa di Botarelli, dove l’avrebbero ucciso dopo aver mangiato e bevuto.

Cisterna dove sarebbero state uccise 5 persone da una bomba a mano lanciata dai tedeschi

Le altre cinque vittime sarebbero state uccise da una bomba a mano, gettata nella cisterna sotterranea dove avrebbero cercato rifugio, terrorizzate dalla morte di Botarelli. I morti furono seppelliti nell’argine del fossato di San Giovanni, mentre i feriti furono curati sul posto da un milite della CRI, a Grosseto prima di esser trasferiti. Al di là dell’esatta ricostruzione dei fatti, la presenza di civili sul posto fu probabilmente interpretata dai militari come trasgressione all’ordine di sfollamento della zona per ragioni strategiche. Dall’ottobre 1943, su dirette disposizioni di Hitler, era stata infatti disposta l’evacuazione della popolazione costiera per una profondità di 5 Km nel tratto Livorno-Napoli, per motivi strategico-militari. I civili dovevano lasciare il posto alle forze tedesche, perché fosse approntata la linea di difesa costiera utile a fronteggiare l’eventuale sbarco degli Alleati.

Nel caso di San Leopoldo, nell’unica ricostruzione storica finora pubblicata (Fulvetti, 2009), l’elemento scatenante la violenza potrebbe essere stato l’eccessivo numero di persone riparate presso il casello. Rimase e rimane tuttora ignota l’identità dei militari tedeschi autori della strage. Tra i familiari delle vittime, subito dopo la Liberazione, cominciarono a circolare accuse di complicità nei confronti di alcuni fascisti locali: otto persone, sospettate di aver sollecitato l’eccidio, ma prosciolte in istruttoria per l’impossibilità di avvalorare tali sospetti con elementi concreti.

lapide per le vittime S. Leopoldo 1

Particolare della lapide in memoria delle vittime, collocata nei pressi del pattinodromo di Marina di Grosseto

Se solo da alcuni anni questo frammento di storia è riemerso ed entrato nella memoria collettiva ufficiale, mentre era solo patrimonio di ricordi di singoli, testimoni diretti o indiretti, è certo a causa dell’assenza del percorso della giustizia, esito processuale dell’istruttoria. Quanto alla storiografia, poco o nulla era stato scritto nell’ambito degli importanti studi sulle stragi nazifasciste in Toscana, che ci sono stati consegnati dal gruppo di specialisti dell’Università di Pisa e da quanti furono coinvolti dalla Regione Toscana nell’attuazione di una legge (“Per salvare la memoria delle stragi nazifasciste in Toscana”). Uno straordinario vuoto di fonti scritte ha ostacolato le insistenti ricerche, promosse dall’Istituto storico grossetano e sollecitate anche dal Comune di Grosseto. A lungo nulla è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione nazionale, nulla dalla corposa documentazione presente nell’Archivio di Stato su fascismo, guerra e Resistenza. Solo fascicoli personali dei sospettati, frutto della prima istruttoria del CLN grossetano, hanno fatto una prima luce sull’accaduto, lasciando però insoddisfatto il desiderio di giungere a una cronaca certa e a una definitiva interpretazione delle responsabilità, dirette e indirette.

La lapide sul luogo della strage

La lapide in memoria delle vittime sul luogo della strage

Rimane indiscutibile il quadro interpretativo generale: la strategia deliberatamente attuata in applicazione delle direttive dei Comandi tedeschi ha lasciato una scia di sangue anche a San Leopoldo, alla vigilia della Liberazione della città di Grosseto, avvenuta tre giorni dopo, quando ormai le autorità civili e militari fasciste l’avevano abbandonata.

Il progetto nazionale di Atlante delle stragi nazifasciste, ormai in fase conclusiva, rivela qui un sovrappiù di utilità. Si aggiungerà alla restituzione di memoria che si è tradotta da qualche anno in un cippo e nel 71° anniversario della strage, in un pannello che trasformerà finalmente la Chiusa di San Leopoldo in un luogo da inserire tra gli itinerari della memoria.




13 aprile 1921: l’assassinio di Carlo Cammeo, segretario della Federazione socialista di Pisa

A Porta Nuova, in via Contessa Matilde sull’edificio della Circoscrizione n. 6, è posta una lapide che porta il seguente testo:

“Per sicaria mano fascista / cadeva assassinato / il 13 aprile 1921 / Carlo Cammeo / glorificando col sangue / la santità della scuola / e la sua fede nell’idea socialista / la giunta municipale di Pisa / all’alba della libertà / interpretando i sentimenti della cittadinanza”.

L’edificio in cui è murata la lapide è l’ex scuola dove insegnava Carlo Salomone Cammeo (nato a Tripoli il 6 maggio 1897) e dove fu assassinato. La via che oggi dall’incrocio di Porta Nuova si congiunge a Piazza Manin è dedicata al militante socialista e, dove è sepolto Cammeo – ebreo e ateo –, sul monumento funebre è incisa una falce e martello su di un libro aperto, caso unico per il cimitero israelitico. A parte la strada, la lapide e la tomba con i suoi simboli, oggi a Pisa resta ben poca cosa della memoria di Cammeo. All’epoca dei fatti il suo nome però era ben conosciuto e nonostante la giovane età aveva alle spalle già un discreto curriculum vitae, tanto da ricoprire ruoli importanti ai vertici del Partito socialista. La sua tragica morte segnò una svolta nella storia politica e sociale della città della torre pendente, che fu contrassegnata negli anni seguenti dall’affermarsi della violenza fascista e statale contro il movimento dei lavoratori e le sue organizzazioni politiche.

La guerra civile scatenata dai fascisti, con la complicità di buona parte delle forze dell’ordine dello Stato liberale, fu una risposta politica e militare alle lotte del “Biennio rosso” (1919-1920). Il primo dopoguerra fu caratterizzato da una grande partecipazione popolare, spesso spontanea, alle lotte di rivendicazioni salariali e sociali. Si era creato un clima diffuso di attesa per un cambiamento radicale della società, si aspettava l’esplodere della rivoluzione, com’era successo in Russia nel 1917 e questo aveva fortemente intimorito le classi dirigenti che sembravano impotenti a contrastare tale movimento. La nascita del fascismo toscano, la riorganizzazione delle organizzazioni padronali e la ripresa su vasta scala della repressione statale coincise con il declinare dell’iniziativa politica delle forze della sinistra che non seppero cogliere l’occasione per dare una svolta al paese. La violenza fascista e statale aprì un periodo, che per numero di vittime e di distruzioni, potremmo definire il “Biennio nero” (1921-1922) e che segnò la fine della democrazia liberale.

La Toscana nei primi mesi del 1921 fu attraversata da uno scontro violentissimo tra le squadre di fascisti, organizzate soprattutto dalla direzione fiorentina del movimento, e le forze della sinistra, anarchici, comunisti, socialisti e sindacalisti. Angelo Tasca in un suo noto volume sulla nascita del fascismo afferma che nei primi sei mesi del 1921 in Toscana furono distrutti 137 edifici: 11 case del popolo, 15 camere del lavoro, 11 cooperative, 70 circoli socialisti e comunisti, 24 circoli operai e ricreativi, 2 società mutue, 1 sindacato operaio e 3 redazioni di periodici.

Pisa non fu esente da quest’ondata di violenza. Il fascismo locale, riorganizzatosi da poco dopo una prima infruttuosa esperienza, guidato dal capitano Bruno Santini, ex ardito di guerra originario di Carrara, aveva raggiunto la notorietà all’inizio del 1921 con l’attacco alla nuova Giunta provinciale guidata da Ersilio Ambrogi socialista – poi comunista –. Il fascismo trovò consensi fra gruppi di studenti, ex militari, liberi professionisti, esponenti delle forze dell’ordine – soprattutto carabinieri – e giovani esponenti delle principali famiglie benestanti tra cui alcuni della comunità ebraica.

Il 25 marzo 1921 da Pisa una squadra di fascisti parte dirigendosi a Lucca e precisamente a Ponte a Moriano. Scopo della missione è di dar man forte ai camerati locali per togliere dalla sede del circolo ricreativo socialista il simbolo dei “soviet”, cioè la falce e martello. L’obiettivo è raggiunto ma gli operai avuta notizia del fatto corrono in paese e i fascisti si danno alla fuga; alcuni di loro rimangono staccati dal gruppo principale a causa di un guasto all’autocarro su cui viaggiano e ben presto vengono circondati dagli operai. Nasce una rissa e alla fine a terra rimane ferito mortalmente il fascista pisano Tito Menichetti. Sulla dinamica della sua morte ci sono versioni discordanti, il processo, che si tenne un anno dopo i fatti, individuò come unico responsabile il ferroviere Giuseppe Neri, originario di Castagneto Carducci, che subisce una condanna a 17 anni e 7 mesi di reclusione.

Pisa venne listata a lutto, un manifesto fascista invitava allo scontro:

“Cittadini. Si muore per voi. Si muore per salvare la nostra Italia travagliata dalla rovina e dal terrore ove tentano di trascinarla i folli criminali del comunismo e dell’anarchia per ricondurla sulla via della pace e del lavoro. Fascisti! Il corpo sanguinante di un’altra giovane vita si frappone fra noi ed i nostri nemici. Nessuno pianga. Nessuno si pieghi di fronte alla bara. Tutti in piedi! Con la fronte alta giuriamo. Tito Menichetti sarà vendicato! Senza pietà!”.

Lo stesso Bruno Santini durante i funerali incita pubblicamente alla vendetta.

Carlo_CammeoCarlo Cammeo scrisse un articolo sul settimanale socialista pisano «L’Ora nostra» del 1° aprile 1921, in risposta alle minacce fasciste, nel quale si richiamavano le responsabilità di chi, sulla morte di Tito Menichetti, stava imbastendo una “indegna speculazione patriottica”. È un j’accuse che espone il giovane socialista alla reazione fascista, che non si farà attendere. Un nuovo articolo di Cammeo, uscito sul numero successivo del settimanale, nel quale si ironizzava sulla partecipazione di alcune donne alle marce fasciste, fa scattare la vendetta fascista: la mattina del 13 aprile Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti raggiungono la scuola dove sta insegnando Cammeo e con una scusa lo invitano ad uscire dalla classe. Il maestro appena raggiunto il cortile è fatto segno di due colpi di pistola, sparati dal fascista Elio Meucci, cade a terra esangue, di fronte ai bimbi terrorizzati, mentre il gruppo di fascisti si dilegua repentinamente.

L’autore dell’assassinio è uno studente di farmacia dell’Università di Pisa mentre le due donne sono figlie di alti ufficiali del distaccamento militare. In particolare la Lupetti, che pochi mesi dopo per i suoi meriti sarà nominata segretaria del fascio femminile, è figlia del comandante del presidio militare. I fascisti responsabili della morte di Cammeo, grazie alla complicità delle autorità e all’interessamento del sottosegretario alla giustizia Arnaldo Dello Sbarba, saranno tutti prosciolti dall’accusa di omicidio. Le coperture di cui beneficia il gruppo di fuoco rappresentano la testimonianza dell’intreccio che da subito s’instaura fra i gruppi di fascisti locali, le autorità militari e quelle di carabinieri e guardie regie. Questo stretto rapporto è testimoniato anche dal prefetto di Pisa De Martino che in una missiva del 21 aprile al presidente del consiglio Giolitti testimoniava questa complicità.

Le organizzazioni della sinistra pisana – la Federazione prov.le socialista, il Gruppo comunista, la Camera del lavoro confederale (CGdL), la Camera del lavoro sindacale (USI), i Sindacati ferrovieri, la Lega Proletaria e l’Unione anarchica pisana – firmano un manifesto di condanna dell’assassinio di Carlo Cammeo e proclamano due giorni di sciopero generale.

I funerali di Cammeo sono imponenti per partecipazione popolare e di associazioni, alcuni esponenti politici prendono la parola, tra gli altri il segretario della Camera del lavoro (CGdL) Giuseppe Mingrino, il socialista Amulio Stizzi, il repubblicano Italo Bargagna e l’anarchico Gusmano Mariani. Questa volta sono funerali di classe, proletari, a rimarcare ormai il netto distacco tra il movimento operaio organizzato da una parte e lo Stato e le forze reazionarie dall’altra.