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Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca

Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca (Lucca, Pacini Fazzi, 2018, Collana Storie e comunità dell’ISREC Lucca).

Fulvetti, che è è stato direttore per 5 anni dell’ ISREC LU, è professore associato di storia contemporanea presso il dipartimento di Civiltà e forme del Sapere dell’Università di Pisa e si occupa principalmente della seconda guerra mondiale. Recentemente impegnato nel progetto dell’Atlante nazionale delle stragi naziste e fasciste durante l’occupazione della penisola nel 1943-1945, Fulvetti è protagonista della stagione di studi che ha indagato la “guerra ai civili” in Italia e in Toscana. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio d’Amministrazione dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, al quale aderiscono gli Istituti Toscani della Resistenza e dell’Età Contemporanea che ne avevano promosso e sostenuto la candidatura.

Ventura, attuale direttore, succeduto a Fulvetti del quale prosegue la linea di condotta dell’istituto, è assegnista di ricerca presso l’Università di Pisa ed è specializzato negli anni dell’avvento del fascismo in Italia e in provincia.

Fulvetti e Ventura hanno coordinato un gruppo di ricerca composto da 14 studiosi che si sono divisi le schede sia su base territoriale che in accordo con i loro interessi.

Stefano Bucciarelli, attualmente presidente dell’ISREC LU, è stato docente e preside ed ha al suo attivo numerosi libri e saggi sulla storia politica e culturale del Novecento. Per questo volume si è occupato degli schedati viareggini. Sempre i viareggini sono stati curati da Filippo Gattai Tacchi, perfezionando presso la SNS di Pisa, e da Roberto Rossetti, che si occupa di didattica della storia ed è distaccato presso l’ISGRE LU, dove ricopre il ruolo di responsabile delle attività didattiche.

Marta Giusti, dottoranda presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Ateneo Pisano, ha ricostruito la vita di di 8 donne, mentre la nona è stata oggetto di studio da parte di Teresa Catilla, che collabora con l’ISREC LU, lavorando in particolare alla sistemazione del fondo archivistico. Catinella ha curato la scheda anche di Arturo Chelini, popolare bastonato dai fascisti lucchesi.

Rachele Colasanti, laureata in Storia contemporanea, sta seguendo a master in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna e per il volume ha curato le schede dei Versiliesi. Carlo Giuntoli, laureato con una tesi sulla violenza fascista e membro del direttivo dell’ISREC, si è occupato della Garfagnana. Su Massarosa ha lavorato Jonathan Pieri, dottorando in Scienze politiche presso l’Università di Pisa con un progettoche studia storia militare e storia dell’occupazione tedesca in provincia di Lucca. Gianluca Fulvetti si è concentrato su alcuni significativi percorsi esistenziali di antifascisti lucchesi.

Francesco Lucarini, che sta lavorando ad una tesi sulla storia del PCI in provincia di Lucca, si è occupato delle drammatiche vicende di due volontari antifranchisti.

Pietro Finelli, direttore scientifico della Domus Mazziniana, collaboratore con l’ISREC LU di cui è stato responsabile della didattica, ha studiato gli schedati repubblicani, mentre Armando Sestani, attualmente Vice Presidente dell’ ISREC LU ha curato le schede biografiche degli anarchici.

Infine alcuni casi particolari e significativi sono stati studiati da Andrea Ventura e da Federico Creatini, cultore della materia in storia contemporanea all’Università di Pisa e dottorando in Storia contemporanea all’Università di Bergamo.

Circa due anni fa, l’ISREC di Lucca ha avviato un progetto di ricerca sulla storia dell’antifascismo e della resistenza in provincia di Lucca. L’idea era -ed è- di colmare una lacuna di conoscenza storica e civile.

Il libro è nato da un progetto di ricerca svolto dall’ISREC Lucca sull’antifascismo  nel periodo in cui fu più intensa l’azione repressiva dell’autorità centrale verso tutte le voci di dissenso nei confronti del regime fascista, e ha come tema centrale i fascicoli relativi a uomini e donne della Provincia di Lucca conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Il lavoro è partito con una fase di raccolta e riproduzione sistematica dei fascicoli del Casellario Politico Centrale (ex Schedario dei sovversivi), lo strumento di controllo e repressione dei “sovversivi” inaugurato con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, insieme alla Polizia Politica e al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.

Il Casellario politico centrale è stato lo strumento di controllo e schedatura dei “sovversivi” che, inaugurato nel 1894 nell’Italia liberale, venne ripreso dal fascismo e integrato con i suoi organi repressivi nell’ambito della sua legislazione eccezionale. Era gestito dal personale del Ministero dell’Interno in raccordo con le prefetture e le questure e i Consolati per ciò che concerne coloro che lasciavano l’Italia, ma poi fu incrementato dagli strumenti repressivi entrati in atto con le cosiddette “leggi fascistissime”.

 Il casellario politico centrale porta, nel corso degli anni, all’apertura di oltre 150mila fascicoli personali. Tra di essi sono state individuate 1374 persone nate o residenti in provincia di Lucca. Rispetto a questo dato, operando aggiustamenti e integrazioni, è attualmente a disposizione una banca dati di circa 1600 nominativi, i cui fascicoli sono stati riprodotti presso l’ACS e sono adesso depositati su supporto digitale e consultabili presso l’archivio dell’ISREC LU. Il database, oltre alle generalità e ai dati anagrafici dello schedato, ne riporta il colore politico, il mestiere esercitato, gli estremi cronologici della sua schedatura, le condanne riportate, la sua eventuale emigrazione, l’eventuale partecipazione alla Guerra di Spagna, riferimenti della sua rete parentale, altre osservazioni notevoli. La funzione “CERCA” permette ricerche incrociate e la selezione di elenchi di schedati uniti da comuni caratteristiche.

Tuttavia le carte del casellario riportano poco o niente dell’antifascismo cattolico che appare invece una delle caratteristiche del territorio lucchese e una delle variabili che spiegano qui fra il 1943 e il 1945 l’ampia presenza di pratiche di resistenza civile.

Oltre cento tra i “sovversivi” dello schedario sono poi stati selezionati per la pubblicazione di Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario Politico Centrale. Per un dizionario:: biografico della provincia di Lucca.

Nel libro si trovano le informazioni sulla vita di 120 di questi antifascisti, 111 uomini e 9 donne, le cui parabole esistenziali sono restituite in forma biografica, in un linguaggio piano, lineare, mai retorico: individui rimasti troppo a lungo “anonimi”, ma anche personaggi noti, come Luigi Salvatori, il “padre” del socialismo versiliese; Giuseppe Del Freo, insegnante viareggino, maestro di generazioni di democratici e antifascisti e Guglielmo Pannunzio, avvocato e giornalista; il futuro onorevole e ministro Armando Angelini. Vi troviamo anche quattro sindaci del dopoguerra e quattro costituenti.

Variegato l’universo che confluisce fra i “sovversivi” nel periodo in cui la dittatura  inizia a fare i conti con gli anarchici, i socialisti, le Leghe e le Società di Muto Soccorso, i moti, gli scioperi e le sommosse, le Camere del lavoro, la violenza sociale e quella politica.

Tra i partigiani affluirono giovani renitenti alla leva e disertori,  donne e uomini spinti dall’insofferenza verso la guerra; sfollati dai bombardamenti che avevano sperimentato sulla propria pelle l’inefficienza, la corruzione, la prepotenza, i favoritismi, la violenza delle amministrazioni locali fasciste. La fame e le difficoltà quotidiane furono rilevanti per la “scelta” di molti. Il resto, in modo determinante, lo fecero l’occupazione tedesca, i repubblichini, i bandi draconiani della Repubblica di Salò e la brutale repressione degli oppositori.

Il campione degli antifascisti lucchesi -come la storia dell’antifascismo- pende dalla parte della Versilia (44%), l’area che possiede tradizioni più solide a sinistra, con diversi comuni che già prima del conflitto mondiale sono stati guidati da coalizioni di democratici, repubblicani, socialisti.

L’età media è di 33 anni. La più anziana è Maria Isolina Amantina, nata ad Altopascio nel 1858, colpita nel 1927 dalla repressione per aver imprecato pubblicamente contro la monarchia e Mussolini e per questo confinata poi in manicomio. Lei è una delle vittime di un fascismo che rafforza la tendenza a medicalizzare il dissenso politico e il ribellismo sociale.

Spesso le donne infatti erano considerate “la costola di Adamo”, di mariti, fratelli e padri e quindi non meritevoli di attenzione da parte della polizia, composta esclusivamente da uomini. Questo spiega perché molte di loro venissero mandate in manicomio e non subissero altri tipi di condanna.

Nonostante questa scarsa considerazione da parte fascista delle donne, il loro ruolo emerse con forza: raccoglievano soldi, sostenevano le famiglie colpite dalla repressione, conservavano e nascondevano documenti e materiale a stampa. Le donne, molte delle quali prive di preparazione politica, erano pronte a lasciare le mura domestiche e ad assumersi responsabilità nella sfera pubblica, mai conosciute prima.

Fra gli antifascisti lucchesi prevalgono le professioni proletarie (67,5%), il 18,1% sono commercianti e sopratutto artigiani che fanno delle loro botteghe il crocevia di attività, riunioni, racconti, e luoghi nei quali spesso si alimenta una alterità “esistenziale” del regine. Infine il 16,2 % appartengono a quello che possiamo chiamare antifascismo borghese e umanitario intellettuale e delle professioni.

Tra gli antifascisti sono maggioritari i comunisti, di cui la metà resta militante nel PCDI anche dopo le “leggi fascistissime”, in prevalenza all’estero. Inferiore e pari il numero di socialisti e di anarchici. Solo due i cattolici, una decina i repubblicani e i socialisti liberali che si legano alle attività di giustizia e libertà, in prevalenza all’estero. Per sopravvivere, infatti, molti sono costretti a lasciare l’Italia. Si sfruttano percorsi e reti di solidarietà spesso preesistenti, legati all’emigrazione per motivi di lavoro. E’ una vita difficile quella da clandestini ed emigrati. Sui 120 lucchesi, sono 39 (quasi uno su tre) coloro che per periodi più o meno lunghi transitano dalla Francia e frequentano i “fuochi comunitari antifascisti” (Parigi, Nizza, Marsiglia) nei quali molti proseguono il proprio impegno.

Da quando nell’ottobre 1936 nascono le Brigate Internazionali al marzo 1937 troviamo 16, dei 120 antifascisti lucchesi, che sono stati in Spagna. La loro età media è di 31 anni. Ma anche là non mancarono le difficoltà materiali e psicologiche legate alla sconfitta e alla “retirada”, con l’esperienza nei campi francesi, il disorientamento di fronte allo scoppio della seconda guerra mondiale, la pressione crescente dell’occupazione nazista, il tentativo di rientrare in Italia, sinonimo di detenzione.

Tra i 120 biografati di questo volume, troviamo 10 persone che combattono nella Resistenza e 9 che fanno parte dei comitati di liberazione nazionale. La maggior parte  prosegue il suo impegno anche alla fine della guerra, ad esempio come sindaci nominati dal CNL, e comunque nella ricostruzione e nella ripresa democratica.

E’ nel decennio prebellico che si colloca il picco delle “radiazioni”. Nel nostro campione sono 27 le persone inviate a Favignana, Ponza, Ventotene, Ustica, Pisticci, alle Isole Tremiti etc.

Il picco degli schedati lucchesi si raggiunge il 31 dicembre 1933, quando “sovversivo” era ormai da tempo considerato chiunque fosse appartenuto ai partiti disciolti o avesse manifestato, con l’azione o con la parola, dei convincimenti non allineati con le direttive e gli obiettivi del regime.

Questo dato lucchese è in linea con le statistiche nazionali. Secondo Renzo De Felice alla fine del 1930 in media venivano condotte 20.000 operazioni di polizia politica alla settimana in tutto il paese: arresti, sequestri di materiali a stampa, iscrizione negli schedari provinciali o in quello centrale, chiusura dei luoghi di ritrovo. I metodi utilizzati dalle forze dell’ordine spaziavano dagli interrogatori alle torture, dai pestaggi alle pressioni psicologiche e ai ricatti personali.

I 120 “schedati” lucchesi sono un esempio di come si può e si deve resistere ad una dittatura, nonostante la paura, e di quanto diversi, ma tutti ugualmente validi, sono i motivi e i mezzi per lottare per la democrazia, che, a differenza di quanto ingenuamente o semplicisticamente pensiamo, non è un possesso per sempre ma una conquista quotidiana.

Il lavoro non è concluso, anzi. Il prossimo passo, riguarderà lo studio, la riproduzione e l’acquisizione del fondo RICOMPART, relativo alle attività dell’Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (depositato nel 2012 sempre all’ACS).




“Mille non sono tornati”

È appena uscito (Novembre 2018), a cura di GD edizioni di Sarzana, il saggio Mille non sono tornati di Ezio Della Mea e Enzo Menconi,  che si colloca nell’ambito delle celebrazioni per la fine della Prima Guerra Mondiale.

Il volume, completo di un’appendice di mappe e di un CD con un data base, è di facile consultazione: i caduti sono suddivisi per frazione di nascita e/o domicilio e se ne raccontano le vicessitudini militari, l’eventuale prigionia, le circostanze del ferimento e della morte, e della inumazione. Esso ricorda tutti i caduti carraresi durante la Grande Guerra, 960 uomini ed una donna, Argentina Dell’Amico.

Lei ha una storia particolare, che merita di essere raccontata: il suo nome compare alla base di un piccolo obelisco che ricorda i caduti. Inizialmente si era pensato ad una crocerossina ma ulteriori ricerche hanno permesso di accertare che ella è morta durante la Seconda Guerra Mondiale, il 20 gennaio 1945, nella zona di Minucciano, in Garfagnana, dove si era recata con altre donne di Carrara per scambiare il sale con farina e altri prodotti. Lì viene a sapere del bombardamento di Carrara e decide di tornare a casa per verificare le condizioni dei suoi familiari. Trovandosi a ridosso della Linea Gotica, rimane uccisa dagli spari dei militari tedeschi.

L’idea di questo saggio è frutto di un’assenza, quella a Carrara, a differenza delle altre città italiane, di un ricordo dei suoi caduti durante la Prima Guerra Mondiale” afferma il coautore Ezio della Mea. Solo recentemente la Regione Toscana ha stanziato il finanziamento per il restauro di una lapide della Grande Guerra nel cimitero di Gragnana, perché eccessivamente deteriorata.

Ed è proprio dalle lapidi che la ricerca alla base di questo libro è iniziata, attraverso la loro ricognizione nei 13 cimiteri carraresi, dopo lo spoglio al Ministero della Difesa dell’albo d’oro dei caduti del ’15-’18. E qui scopriamo che solo in Toscana essi sono stati 46.162, “uomini a cui si deve guardare con rispetto e come ammonimento per il futuro, senza qualsivoglia esaltazione retorica e bellicistica”, scrive Enzo Menconi nella Prefazione.

Le forze combattenti andavano dai 18 (17 se partivano come volontari) ai 43 anni, ma accanto a loro c’erano gli operai militarizzati (dai 12 ai 60 anni). Inoltre, dopo Caporetto, fu necessario richiamare dalle leve di mare soldati per la leva di terra.

Nelle trincee del Carso, sulla Bainsizza, sull’altopiano di Asiago, sul Pasubio, sul Grappa, sul Piave, sull’Isonzo ma anche nella penisola balcanica e in Libia caddero circa 700.000 italiani. 800 erano di Carrara […] Oltre il 50% di quei soldati erano lavoratori del marmo”, scrive Enzo Menconi. Di questi 321, circa il 40 %, sono morti per malattia (prevalentemente broncopolmonite dovuta alle alquanto insalubri condizioni in trincea), 60 muoiono in prigionia (di cui 15 non si sa dove), i restanti per le ferite riportate.

Un esempio dei prigionieri deceduti in mano nemica, è Nicoli Bruno (classe 1895) sepolto a Mauthausen (nome divenuto tristemente noto in epoca nazista), poiché spirato a seguito di una malattia.

A Carrara sono morti anche 88 soldati non carraresi, perché vi erano due ospedali militari. Le cause del decesso riportate nelle cartelle cliniche recitano principalmente congelamento, oltre che ferite. Alcuni sono stati fucilati per i disturbi psichici dovuti ai traumi di guerra, come Arnaldo Bruschi. Egli era stato riformato alla leva e ritenuto idoneo solo ai servizi sedentari, ma, chiamato per la mobilitazione generale del marzo 1917, viene inviato come soldato nella compagnia zappatori. La sua morte è stata oggetto di plurime falsificazioni: sul sito OnorCaduti è riportato che è morto in azione sul Carso il 24 agosto, mentre l’ufficiale alla matricola del distretto militare di Massa trascrive nel Foglio Matricolare di Bruschi che egli “è morto per ferita da arma da fuoco non in combattimento” in analogia a quanto certificato nell’atto di morte del registro del reggimento. Le due annotazioni nascondono una tragica verità: il testimone, tenente Ilio Panzani, riferisce che quel 24 agosto il soldato Bruschi tentava di “scaricare l’arma”, gesto dovuto allo squilibrio mentale causato dalle fatiche precedenti e dalle traumatizzanti impressioni subite. Bruschi viene così condotto al posto di medicazione, con l’indicazione di qualche giorno di riposo. Ma i segni di squilibrio mentale proseguono ed un generale, presente sul posto, ne ordina la fucilazione. Il tenente Panzani, però, al termine della sua relazione scrive che il soldato Bruschi, nel periodo passato alle sue dipendenze “tenne sempre un’ottima condotta e mai ebbi a lamentarmi di lui per nessun motivo”.

Analogamente fucilato, il caporale Ferrari Luigi, ferito da arma da fuoco nei combattimenti di San Michele a Monfalcone. Condannato per diserzione di fronte al nemico, fu eseguita la pena della fucilazione alla schiena. Nessuna lapide lo ricorda, ma dopo la fine della guerra, gli è stata conferita la medaglia commemorativa nazionale. Citando de André: “ora che è morto la patria si gloria / d’una medaglia alla memoria”.

I soldati provenienti da Carrara combatterono principalmente sul Carso, a quota 83, vicino a Monfalcone, in una località non a caso chiamata Monte Calvario.

Ma diamo un nome e una storia ad alcuni di questi soldati. Ci piace ricordare i  fratelli Tusini (Alessandro e Lorenzo) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Alessandro muore il 26 giugno 1916 in combattimento sull’altopiano di Asiago; Lorenzo il 2 luglio colpito al cuore da un proiettile negli stessi luoghi dove, pochi giorni prima, era caduto il fratello minore.

Tristemente analoga la sorte dei fratelli Papini di Colonnata, Olinto (01.05.1892 – 24.10.1915) e Rodolfo (31.10.1894 – 01.11.1915) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Il primo, mentre tentava con il suo reggimento, il 90°, di guadagnare quota 1100, viene ferito all’addome da arma da fuoco e muore in ospedale a Tolmino il 24 Ottobre. La sua salma è stata poi trasferita a Caporetto. Il secondo, nel 12° reggimento di fanteria nella brigata Casale, avanza con i compagni sulla linea alle falde del Podgora, sui trinceramenti nemici, superando una prima linea, difesa tenacemente dagli avversari; il giorno dopo viene espugnata la seconda linea e il 28 ottobre, nonostante le avverse condizione meteorologiche, anche la terza. Ma Rodolfo il 1° Novembre sul Podgora, colpito da arma da fuoco durante un combattimento, cade. La salma attualmente giace al sacrario militare di Oslavia, senza una lapide che lo ricordi. I due fratelli, morti quasi nella stessa settimana, non sono mai stati neppure inumati vicini.

Diversamente i fratelli Pantera di Bergiola Foscalina sono sepolti uno accanto all’altro nel sacrario di Redipuglia (loculo 27347 e 27346), mentre a Borgiola una lapide li ricorda. Andrea è deceduto il 17 settembre 1917 in un ospedale da campo a seguito delle ferite da schegge di shrapnel; Emilio è morto il 12 Gennaio a Trieste nel 1920 a seguito di una malattia contratta quando ormai la guerra stava finendo.

Concludiamo rendendo onore al più giovane dei caduti: Galeotti Ercole. Aveva soltanto 14 anni e 7 mesi. Era operaio del Genio Militare della Prima Armata ed è morto per malattia nel piccolo ospedale da campo di Salò il 22 Ottobre 1918.

Si rende vero onore a lui e a tutti i caduti se ci si impegna per un futuro diverso in una patria che veramente ripudia la guerra.

Questo libro è un monumento cartaceo ai caduti di una guerra di cui questo anno si celebra la fine, da alcuni vista come la quarta guerra di indipendenza e comunque l’ultima di unificazione nazionale. Tuttavia esso “non è e non vuol essere la celebrazione di una vittoria o il rinnovo di antiche contrapposizioni […] ma un piccolo contributo alla ricerca di quel comune legame di civiltà che unisce oggi i popoli di Europa, quel legame che le guerre, i totalitarismi e i nazionalismi non sono riusciti a cancellare”, afferma con vibrante convinzione Menconi.

La storia è un vaccino, ma, come i vaccini, ha bisogno di richiami.




Dirty dancing: balli “peccaminosi” alla Casa del popolo di Tobbiana

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, una novità esplosiva irruppe sulla scena musicale dell’Italia del Boom: il rock’ n’ roll faceva infatti la sua comparsa nella Penisola, dove avrebbe trovato un’intera generazione pronta a scatenarsi al suo ritmo dirompente.

Questa tendenza musicale proveniente dagli Stati Uniti andò subito diffondendosi nell’Italia del Miracolo: infatti, i giovani del Boom prediligevano, nei loro gusti musicali, suoni dai tratti “esotici” che, almeno all’inizio, provenivano da cantanti statunitensi (come Neil Sedaka e Paul Anka). Il rock’ n’ roll trovò di lì a breve un equivalente locale nei cosiddetti “urlatori”- Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Mina e molti altri – che sfidarono a colpi di grida e note musicali i cantanti melodici tradizionali. Questi nuovi ritmi contribuirono fortemente a definire l’identità di una generazione che considerava la sfera ricreativa come un luogo essenziale per la creazione della propria identità.

È dalla campagna che analizzerò il rapporto che si creò fra le Case del popolo e la diffusione, fra la generazione del Miracolo, della passione per la musica e per il ballo. Prendendo infatti come esempio la Casa del popolo di Tobbiana (posta nel comune di Montale, in provincia di Pistoia), vedremo come queste istituzioni ebbero un ruolo decisivo nell’accompagnare la gioventù di allora nei suoi “balli peccaminosi”.

Era il 1965 quando fu inaugurata la grande sala della Casa del popolo di Tobbiana. Adesso anche in paese c’era un luogo dove ritrovarsi per convegni, conferenze e… ballare!  La domenica, dalle 21.00 in poi, i giovani danzavano sulle note di Jimmy Fontana, di Don Backy, di Little Tony. La serata di inaugurazione fu un grande evento per il paese: nasceva così il Dancing La Roccia.

Molti amori sono nati sulle canzoni suonate al Dancing La Roccia, dove i cuori dei giovani palpitavano a ritmo di musica. Vi è da fare però un’importante precisazione. Ancora alla metà degli anni Sessanta, il paese di Tobbiana restava diviso fra lo schieramento comunista e quello democristiano. I democristiani evitavano di recarsi alla Casa del popolo, e proibivano ai loro figli di frequentarla: infatti, i giovani provenienti da famiglie democristiane non andavano al Dancing La Roccia. In particolare, erano le ragazze a non recarsi a ballare alla Casa del popolo del paese.

Ciò non accadeva solo a Tobbiana: infatti, le ragazze di provenienza democristiana non ballavano in generale. Ancora nel secondo dopoguerra, il ballo era visto dalla Chiesa cattolica come un “diabolico trattenimento”. I balli sono sempre dannosi, a maggior ragione per le donne. È l’essenza stessa del ballo che mette a repentaglio la virtù delle giovani: la vicinanza dei corpi avrebbe infatti portato a uno scoppio dei “bassi istinti” e, di conseguenza, a una relazione sessuale. Per le adolescenti, a cui è richiesta la salvaguardia delle verginità, la cosa migliore sarebbe perciò evitare i balli. Chi, al contrario, si reca a ballare, sa già di poter perdere l’illibatezza e, con essa, la possibilità di un matrimonio soddisfacente. Ma, anche se la verginità non dovesse essere perduta, anche la sola “compromissione coi balli” precluderebbe alla donna la possibilità di trovare un uomo disposto a sposarla: questo spiega il gran numero di sermoni cattolici che insistevano sul tema del ballo peccaminoso, destinato a condannare le impenitenti ballerine alla condizione di sedotte e abbandonate o inevitabili zitelle.

Certamente, alla metà degli anni Sessanta, il condizionamento della Chiesa sulla morale era ancora molto forte, soprattutto nei riguardi del sesso femminile. Del resto, la maggior parte della popolazione italiana avrebbe condiviso ancora a lungo la tradizionale mentalità maschilista e misogina, che prescindeva dal colore politico di appartenenza. Ma vi è da dire che, nei confronti della musica e del ballo, i comunisti potevano vantare, rispetto ai democristiani, una mentalità più aperta e un’esperienza ventennale, iniziata nell’immediato secondo dopoguerra.

Infatti, dopo la fine del conflitto, i primi locali danzanti “popolari” nacquero proprio nelle Case del popolo: e quella di Tobbiana non fece eccezione. Già nel 1947, la dirigenza prese in affitto un piccolo appezzamento di terreno dove costruire una pista da ballo all’aperto. Nacque allora il Dancing Fico Verdino, grazie al quale i paesani giovani e meno giovani poterono riscoprire la loro capacità di divertirsi dopo una guerra particolarmente dura e sanguinosa. Osservando i tobbianesi ballare al Fico Verdino, possiamo notare come la dirigenza della Casa del popolo non fosse mai stata chiusa nei riguardi della dimensione ricreativa – ma che, anzi, avesse creato essa stessa dei momenti di svago per tutta la popolazione. Il Dancing La Roccia pare essere la naturale evoluzione del piccolo Dancing Fico Verdino.

La direzione della Casa del popolo sapeva bene che la grande sala sarebbe divenuta il luogo dove i giovani avrebbero finito per ballare “a ritmo di rock”. Sebbene i ragazzi e le ragazze, al Dancing La Roccia, non restassero mai da soli senza gli adulti (gli attivisti “anziani”, i genitori che accompagnavano a ballare i loro figli), è indubbio che, in generale, da parte dei comunisti vi fosse una maggiore apertura riguardo ai “balli peccaminosi” che tanto preoccupavano la controparte democristiana e la Chiesa cattolica.

Insomma, possiamo dire che, per il paese di Tobbiana come per tante altre realtà simili, fu proprio la Casa del popolo a costituire il primo e più importante luogo di diffusione, fra i giovani, dell’amore per il ballo (peccaminoso!). Di lì a breve, ognuno di loro avrebbe preso la propria strada. Ma, nonostante il fatto che la vita li avrebbe poi portati verso altri luoghi ed esperienze, quei ragazzi e quelle ragazze non avrebbero mai dimenticato quei giorni spensierati trascorsi ballando alla Casa del popolo di Tobbiana.

Daniela Faralli si è laureata all’Università di Firenze in storia contemporanea, con una tesi sulle case del popolo negli anni ’50 e ’60. Attualmente è consigliere dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.




La rete dei piccoli paesi

Emilio Lussu e Nuto Revelli

Lussu e Revelli sono uomini di straordinario profilo nel nostro Novecento. In modo diverso tra loro, anche per età, sono stati significativi della Resistenza, della battaglia contro le guerre, e figure di alto valore morale. Li ho conosciuti entrambi, ma solo di Emilio – che aveva 52 anni più di me – sono stato amico. Nuto lo ho incontrato sulla strada delle fonti e della storia orale, Emilio nella sinistra socialista sarda e nel PSIUP. Di entrambi ammiro i libri che hanno scritto Emilio come grande testimone e protagonista, Nuto oltre che come testimone e protagonista anche come ricercatore capace di restituire la coralità delle voci contadine. Grandi libri i loro, tradotti in tante lingue. Un pezzo dell’ Italia che ci piace sia conosciuta nel mondo. La rete dei piccoli paesi, che è un coordinamento informale tra soggetti che hanno interesse a scambiarsi esperienze, li coinvolge  entrambi.

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Panorama di Armungia con nuraghe in alto (foto di Simone Mizzotti)

Armungia

La rete è nata infatti, nella forma attuale, dopo che l’Associazione Nazionale Bianchi Bandinelli che si occupa del patrimonio culturale ha dato un premio all’Associazione Casa Lussu riconoscendone la attività di “tutela come impegno civile”. Era il 2016, ho collaborato con Casa Lussu di Armungia (in provincia di Cagliari, il paese natale di Emilio Lussu) a realizzare un convegno-festa per il premio che coinvolgesse varie realtà simili a Casa Lussu, ovvero realtà in cui il lavoro culturale cerca di dare nuova vita a paesi a rischio tracollo demografico. Armungia ha oggi circa 400 abitanti tanti anziani e pochi bambini. Qui Tommaso Lussu, nipote di Emilio, romano, è tornato, riabitando la casa degli antenati (conservata in stile tradizionale) e dedicandosi alla tessitura a mano imparata sul posto da una donna novantenne , grande tessitrice alla maniera antica. Il suo ritorno con la compagna Barbara (nipote della tessitrice) ha avviato ad Armungia un piccolo processo di ripresa di iniziative, un lento ri-orientamento di una realtà rassegnata alla marginalità e allo spopolamento. Il premio è stato del 2016 e nel 2018 si è tenuto il terzo festival Un caffè ad Armungia che mette insieme progetti culturali di qualità,  esperienze di vari piccoli paesi e varie artigianalità. Ad Armungia c’è un museo del paese e un Museo di Emilio e Joyce Lussu, tracce di una storia culturale significativa, ma – senza la vitalità portata dalla nuova iniziativa – anche quei musei rischiavano di essere dei morti-viventi.

Paraloup e Soriano

A partire dalle iniziative  di Armungia, ci siamo messi in contatto con  Paraloup, che  è un rifugio di montagna che nel 1943 fu la sede iniziale della prima banda partigiana di Giustizia e Libertà, di cui facevano parte oltre Revelli anche Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco. La Fondazione Revelli lo ha restaurato e fatto rivivere impegnandolo sui temi del riabitare la montagna. A Paraloup la rete dei piccoli paesi ha conosciuto anche il progetto di mettere on line le interviste di Nuto che hanno dato fondamento ai libri Il mondo dei vinti e L’anello forte.  Un altro incontro la rete lo aveva fatto a Soriano Calabro in provincia di Vibo Valenzia, un paese di maggiore consistenza demografica, ma in forte calo, che investe sui musei, sulla sua storia di terremoti ma anche sulla produzione alimentare e dolciaria di qualità. La Calabria è terra di piccoli paesi abbandonati, Vito Teti ne ha raccontato, in vari libri e anche in una costante militanza per il ritorno, nei blog e su Facebook. Riace è un paese simbolo dell’accoglienza e della integrazione progettata dei migranti. I piccoli paesi della Calabria e Paraloup avevano già una loro ‘rete del ritorno’, condividendo progetti di rivitalizzazione dei paesi e impegni per ‘restare paese’, resistendo allo svuotamento e alla desertificazione.

Monticchiello - Teatro povero - "Quarantanniquaranta", scena della Resistenza [2006]

Monticchiello – Teatro povero – “Quarantanniquaranta”, scena della Resistenza [2006]

Monticchiello

Nella nuova rete abbiamo coinvolto anche Monticchiello, una frazione di Pienza, luogo anche della battaglia di Monticchiello, episodio significativo della resistenza senese. Qui da  più di 50 anni è nato il Teatro Povero di Monticchiello che usa l’autodramma’, un teatro in cui i testi sono riflessioni sul destino della comunità e gli attori sono i membri di essa. Esso si è costituito in Cooperativa per difendersi dall’esodo e per creare condizioni di vivibilità per gli anziani e anche  di inclusione per migranti. È forse la realtà più consolidata della rete, anche se la sua situazione demografica resta sul confine. Qui  nel 1999 fu rappresentato l’autodramma Quota 300 (300 è  l’indicatore del crollo demografico e della perdita di tutti i servizi) in polemica con le amministrazioni pubbliche.   Nel tempo l’autodramma si è rivelato un modo di ‘porre il centro in periferia’ (una espressione di Adorno sulla scrittura di Benjamin, che abbiamo adottato a emblema della rete). Tutti gli anni, i protagonisti del teatro e con loro la gente dei posto e dei dintorni, diventano una frontiera dei temi caldi del mondo e del fronte delle piccole comunità. Infatti si tratti della memoria contadina, dell’agricoltura moderna, del capitalismo finanziario, del turismo invasivo, o dello spopolamento, a Monticchiello se ne discute. Il teatro ha un po’ il ruolo di assemblea ateniese. Al tempo stesso il teatro – come messa in scena della comunità – è uno dei modi diffusi nella rete per ‘farsi centro’ per ‘essere nella storia’.

Altavalle ed altri

Ed è così che succede anche in altri centri della rete: ad Altavalle, un paese del Trentino, nato dall’unificazione di due paesi, e anche a Introd, in Val d’Aosta. In entrambi i luoghi si fa teatro storico e comunitario sulla propria memoria e identità locale.

La rete è anche attraversata dai musei che, in questi contesti, diventano dei presidi utili per le politiche locali di rinascita. A Introd il Museo etnografico Maison Bruil fa rete tra i produttori del cibo locale e ne facilita la vendita e la certificazione, fa quindi comunità  locale come altrove fa il teatro. A Cocullo è invece la grande festa religiosa di San Domenico che si svolge col protagonismo dei ‘serpari’ esperti del territorio. Nella rete entrano anche interlocutori diversi, spesso attraverso dei giovani che, seguendo la traccia dei nonni e/o dell’infanzia,  tornano a vivere nei luoghi.E’ questo  il caso di Padru,  piccolo paese vicino a Olbia in Sardegna, dove  nella frazione Sa Pedra bianca è nata l’associazione Realtà virtuose che lavora sulla qualità ambientale e sulla memoria dell’uso del territorio, costruendo eventi e documentando anche la ‘fonosfera’, l’ambiente sonoro. Invece in provincia di Rieti il Comune di Flamignano attraverso la sua pro-loco, si connette portando nella rete una diversità biologico-agricolo-gastronomica: la lenticchia di Rascino. Mentre i diversi piccoli paesi dolenti e spopolati dell’Appennino calabro che si rianimano d’estate con processioni, concerti, feste, eventi culturali, sono rappresentati dal lavoro sul territorio e dai libri ed articoli di Vito Teti, antropologo dell’Università della Calabria. Vito Teti  abita a San Nicola di Crissa da quando è nato, ha avuto il padre emigrato in Canada e la vita universitaria a Roma. La sua scelta di restare-tornare è un modo di porre il centro in periferia. In questo orizzonte di piccole realtà ci sono tanti festival, il ruolo di registi, fotografi, appassionati, che animano queste comunità periferiche (ad esempio tra i compagni di ‘rete’ Dordolla, Topolò, Portis, nel Friuli) che cercano di dare senso ai luoghi che si vanno perdendo.

Coscienza di luogo

Queste esperienze hanno come cornice comune il dibattito sul territorio, sul ruolo della città, delle produzioni agricole e artigiane, il rilancio delle zone interne con le agricolture basate sui prodotti ad origine protetta, e la progettazione di un’offerta turistica e gastronomica di alta qualità e differenza locale. Le accomuna  anche la lotta contro la distruzione del territorio e la sua marginalizzazione. Il Presidente Mattarella ha riconosciuto che occorre fare uno sforzo collettivo perché i cittadini delle isole e delle aree di montagna e marginali possano essere cittadini come quelli delle metropoli o delle città di pianura. Esiste un gap di cittadinanza che lo è anche di democrazia. E le città che crescono in modo irrazionale e rischiano di perdere il rapporto con la qualità ambientale e con le fonti primarie della vita tendono a esplodere,  e si rende necessario un  riequilibrio di cui le piccole comunità oggi in via di ri-abitazione si sentono una sorta di avamposto. Su questi temi un importante punto di riferimento analitico è quello degli scritti di Alberto Magnaghi sulla ‘coscienza di luogo’, ma anche la prospettiva territorialista elaborata da Giacomo Becattini sulla base dell’esperienza dei distretti toscani.  Dal 2017 un modo di incontrarsi della rete è quello delle pagine di una rivista on line Dialoghi Mediterranei che viene realizzata a Mazara del Vallo. Dal n. 27 del  settembre 2017 fino all’ultimo numero, il 33, ci sono stati interventi di vari protagonisti della rete accompagnati da miei editoriali. Nel mio editoriale del n. 27 c’è anche una bibliografia di riferimento. La sezione della rivista si chiama “Il centro in periferia”.




Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955)

“Sento ancora dentro, impressa per sempre, la gioia del primo 8 marzo che festeggiammo in campagna, con tutte le altre.
Partecipavamo agli infuocati ed interminabili dibattiti del PCI. Eravamo giovani, ma avevamo tanto entusiasmo e senso di responsabilità.
Venivamo dalla Resistenza, avevamo visto gli orrori della guerra e volevamo un mondo migliore.”
[Didala Ghilarducci in occasione della morte dell’amica Wanda Breschi, «Il Tirreno», Viareggio 3 gennaio 2007.]

Negli anni del secondo conflitto mondiale in Italia, quando lo stravolgimento sociale divenne insostenibile, le donne si fecero perno e collante di ciò che restava del nucleo familiare, continuando a svolgere i compiti di cura ai quali erano state designate, lavorarono nelle fabbriche, nei servizi pubblici, si fecero staffette senza indugio, nonostante i rischi e i molti pericoli.

Dopo anni di dittatura e guerra, furono protagoniste prima silenziose e poi appassionate dell’alba democratica, in un mondo ormai caratterizzato dalla distruzione, morale e materiale. Ma proprio in quegli anni cruciali in cui vennero decisi i criteri dello sviluppo economico e la ricostruzione del paese, che tipo di scelta compirono quelle donne che con il voto erano ormai cittadine a pieno titolo?

Queste le premesse che hanno dato vita a Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955), il volume di Alessandra Fulvia Celi e Simonetta Simonetti in uscita nella collana Quaderni della Commissione Regionale per le Pari Opportunità della Toscana. “Ricostruire”, perché l’Italia era un paese annientato nelle sue strutture tangibili, ma anche nel tessuto relazionale. Moltissimi gli orfani che vivevano per strada, i profughi, i reduci esausti. Le prime donne che si impegnarono nella ricostruzione furono quelle che erano uscite dall’azione partigiana o dalla militanza cattolica. Ma a queste pioniere tante altre si unirono, spesso agendo dalle associazioni, che divennero luoghi di crescita e formazione: le donne che provenivano da piccole realtà furono spronate alla lettura, perché alcune erano digiune su argomenti quali i diritti e il significato di essere cittadine. Tante, dopo l’associazionismo, entrarono in politica, arricchite dell’esperienza di condivisione di ideali e obiettivi con le compagne. Le cattoliche, le partigiane, le donne dell’UDI, quelle del CIF in un primo momento unirono le forze e riorganizzarono scuole, asili, mense, punti di riferimento per gli sbandati e per le famiglie che cercavano di ripensare a una normalità.

Celi e Simonetti, con un vasto lavoro di ricerca negli archivi (Prefettura; Archivio del Partito comunista italiano; archivi nazionali e locali di UDI e CIF; archivi storici comunali) nonché presso l’archivio privato di Maria Eletta Martini, e ancora attraverso interviste e raccolta di materiale iconografico, hanno tratteggiato in modo incisivo le storie di donne delle province toscane e ne hanno raccolto le preziose testimonianze.
Le realtà locali, quindi, appaiono come un laboratorio di verifica, spesso di criticità, delle strategie decise a livello nazionale da associazioni e partiti ed emerge chiaramente quanto fossero diversi gli approcci, ma comuni gli obiettivi, nelle diverse zone della nostra regione. Nei territori di montagna, ad esempio, le associazioni si impegnarono in diverse campagne che consistevano nel dare possibilità ai bambini orfani o che vivevano in estrema povertà, di passare l’inverno presso famiglie che avevano mezzi sufficienti. Questo tipo di esperienza, come molte altre di tipo assistenziale, era percepita dalle donne come urgentissima, «Erano le cose spicciole che necessitavano: cibo e vestiti e riparo per vivere, e noi riuscivamo, attraverso le nostre reti, a procurarli».

I partiti, invece, sembravano non andare al cuore del problema, «Dovevamo sensibilizzare prima gli uomini […]. Incontravamo resistenze che venivano dai compagni. Gli asili nido, la maternità, erano argomenti che loro ritenevano di poca importanza. Da lì discussioni a non finire e, naturalmente, ciò significava arrestare o almeno rallentare il nostro lavoro».
Il paese aveva grande bisogno di cambiare il modo di fare assistenza e concepire un moderno Stato sociale. All’indomani della pace, invece, era fermo alle riforme tentate dal passato regime. L’infanzia, ad esempio, veniva per lo più gestita dall’OMNI o dagli istituti religiosi, ma le donne combatterono affinché l’assistenza sociale divenisse un’attività democratica e lo fecero attraverso le associazioni e la politica.

Molte furono le delusioni: la passione si scontrò, nella pratica dell’agire politico, con modelli culturali radicati e rigidi. I compagni uomini non si dimostravano del tutto convinti della presenza femminile nelle file dei partiti: persino all’interno della Costituente, le donne trovarono ostacoli e ostilità da parte di alcuni. Mancavano prove concrete di fiducia, eppure molte di loro avevano partecipato attivamente alla Liberazione. «Credo proprio di interpretare il pensiero di tutte noi consultrici invitando a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole […] ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse, ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica e giustizia sociale».

Celi e Simonetti delineano con grande cura la realtà contraddittoria e dura nella quale dovettero muoversi le donne impegnate in politica e nelle associazioni negli anni del dopoguerra e negli anni Cinquanta. Ma dal loro lavoro emerge soprattutto la grande passione, la dedizione, la consapevolezza e la forza che ha dato vita alle grandi battaglie delle donne italiane.




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




Gli archivi dello sport in Toscana: un patrimonio da salvare

Lo sport nasce subito visibile: foto, giornali, filmati, periodici e programmi tv, accompagnano le discipline e celebrano i campioni. Eppure questa visibilità non esaurisce la memoria dello sport, esiste una memoria ancora “oscura”, quella rappresentata dagli archivi delle società sportive che, così diffuse sul territorio toscano, come su quello nazionale, sono capaci di disegnare il sorgere e l’espandersi nel corso del Novecento di un fenomeno sociale che coinvolge, in modo diretto e indiretto, le nostre vite. La vigilanza messa in opera dalla Soprintendenza Archivistica per la Toscana nei confronti degli archivi dello sport in Toscana dal punto di vista cronologico comprende due fasi, la prima tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’80 del Novecento e la seconda apertasi con la metà degli anni Duemila. Dal punto di vista dell’oggetto di vigilanza un unicum è il rapporto costante con una società sportiva, la Mens Sana 1871 di Siena, attivo dalla fine degli anni ’50 del Novecento; legati a contingenze del momento sono stati, invece, i rapporti con altre società sportive.

I primi tentativi di censimento
Un primo tentativo di censimento di archivi dello sport, senza esito di rilievo, fu intrapreso a metà degli anni ’60. Il soprintendente pro tempore di allora, confidando nella collaborazione dei direttori degli archivi di stato di alcune province, chiese informazioni sulla presenza di archivi di società sportive anteriori al Novecento nelle rispettive città. Gli archivi di stato coinvolti furono i seguenti: Grosseto, Lucca, Massa, Pisa, Pistoia. Le risposte inviate indicarono solo per Pisa e per Lucca la nascita di società sportive ante 1900 (nello specifico una a Lucca e tre a Pisa) ma segnalarono la assenza di documentazione d’archivio. Circa venti anni dopo, tra il 1984 e il 1987 la Soprintendenza si attivò nei confronti di alcune società come la Lega Navale Italiana e il Club Alpino, entrambi per la sola provincia di Firenze, la UISP sezione di Prato, i Canottieri Pisa, il Siena Calcio, senza però che fossero emanati singoli provvedimenti di tutela.

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Il “modello” Mens Sana e l’A.C. Fiorentina
La Mens Sana 1871, che aveva ricevuto, nei confronti del proprio archivio, una nuova dichiarazione di “notevole interesse storico”, la n. 380 del 1981, accompagnata da un elenco di consistenza, che sostituiva quelle già precedentemente emesse nel 1959 e nel 1965, permaneva l’unica società la cui dirigenza teneva e – detto per inciso – ancora tiene rapporti aperti con la Soprintendenza Archivistica per migliorare conservazione e fruibilità del proprio archivio.
All’inizio degli anni 2000, nello specifico nell’anno 2002, fu effettuata una visita presso l’A.C. Fiorentina al momento del passaggio di proprietà dovuto al fallimento della precedente gestione ai fini di valutare la tipologia di documenti presenti e ribadire ai curatori la necessità di salvaguardare la conservazione dell’archivio nella sua integrità.

Il censimento del 2010
Si deve alla Regione Toscana, a partire dalla seconda metà degli anni 2000, la volontà di approfondire la conoscenza storica sulla pratica sportiva nel territorio regionale attraverso convegni specifici e il finanziamento, del censimento, pubblicato nel 2010, “delle fonti e degli archivi dello sport toscano” attuato dalla Società Italiana di Storia dello Sport con il coinvolgimento della Soprintendenza Archivistica. Diviso per province e ordinato cronologicamente per data di fondazione, ogni società sportiva che avesse compiuto al momento della pubblicazione almeno cinquanta anni dalla fondazione era presa in considerazione. Grazie al censimento è stato possibile conoscere numero e tipologia delle società sportive toscane ancora in attività e avere informazioni di base sugli archivi societari.

Il convegno Archivi dello sport a Siena
In occasione della giornata di studi Gli archivi dello sport: documenti per la storia di Siena nel Novecento (2 aprile 2014) la Soprintendenza Archivistica ha voluto effettuare un ulteriore censimento, attraverso l’invio di un questionario, sulla tipologia di documentazione archivistica presente negli archivi delle società sportive presenti in provincia di Siena, con l’esclusione di quelle oggetto di apposita comunicazione, usando proprio il suddetto censimento. Sui 27 questionari inviati, sono pervenute quattro risposte, quelle relative a due squadre di calcio: la Sinalunghese di Sinalunga e la Chiantigiana di Gaiole in Chianti, una relativa al gioco del tamburello, la polisportiva Turrita e l’Associazione dei Cronometristi Senesi, che ha sede a Siena.

Logo e foto d'epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa)

Logo e foto d’epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa-Carrara)

La situazione degli archivi dello sport nel 2014
Dalle risposte risalta l’assenza di conservazione di documentazione “antica” che non sia o iconografica o “museale” mentre i più antichi documenti d’archivio “cartacei” risalgono al massimo a venti anni indietro. Per specificare, le società non conservano nel tempo documentazione contabile o amministrativa in senso lato, compresi i carteggi dei dirigenti e i tesserini degli associati, ma quasi esclusivamente trofei e fotografie. Nessuna società è dotata di un locale dedicato ad archivio o a museo, possiede solo un armadio posto in sala riunioni o in sala di presidenza che ha funzione di contenitore di archivio e tanto meno è presente una persona che ha incarichi di conservatore/archivista. Il fatto che solo quattro società abbiano risposto all’indagine mostra anche la mancanza di interesse o di consapevolezza nei confronti della trasmissione della testimonianze della propria attività nel tempo.

Percorsi per il futuro: un patrimonio da salvare
Pur dallo scarso numero di archivi censiti è possibile, dare una idea di come possa essere composto un archivio di società sportiva nel 2014: presenza di trofei, raccolte di fotografie, presumibilmente non ordinate, assenza di documentazione cartacea “antica” ossia antecedente alla metà degli anni ’90 del Novecento. Di fronte a un risultato non incoraggiante ma non inaspettato, due possibili strade possono, allora, essere individuate per garantire la trasmissione della memoria dello sport a livello locale: il deposito dei documenti più antichi delle società sportive presso gli archivi comunali competenti per territorio, accogliendo una nuova serie di archivi dello sport come archivi aggregati; incontri con i presidenti di società provincia per provincia – organizzati in collaborazione con enti o istituzioni – al fine di chiarire ai responsabili la necessità e l’importanza di conservare la propria memoria ordinatamente oltre il ricordo “visibile” del trofeo o della foto, evitando scarti periodici e arbitrari giustificati solo con una “cronica mancanza di spazio” delle sedi.

 




Antiche villeggiature, la grande scoperta della Val di Bisenzio

Le Antiche villeggiature, un articolato progetto regionale di ricerca e memoria partecipata, condotto dalla Fondazione CDSE (Centro di documentazione storico etnografica) in Val di Bisenzio, ha portato alla luce un suggestivo racconto collettivo che ha come sfondo gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento e vede protagonisti, tra gli alti, Amelia e Joe Rosselli con i loro figli, Aldo, Carlo e Nello. La pubblicazione Antiche Villeggiature: Val di Bisenzio e Montepiano tra Ottocento e Novecento è curata da Annalisa Marchi, Alessia Cecconi, Luisa Ciardi e Cinzia Bartolozzi che hanno condotto una ricerca accurata e minuziosa.

Vacanze e vacanzieri della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento vengono raccontati per la prima volta in una pubblicazione, stracolma di curiosità, luoghi, personaggi e fascinose foto d’antan (sono addirittura 254). Con dovizia di particolari vengono alla luce gli aspetti della svolta turistica che vede protagonisti gli Appennini, da Prato fino a Bologna.

La solida e curiosa borghesia della Belle Epoque – fiorentina ma non solo – elegge Montepiano a buen retiro estivo mentre la sezione del Club Alpino italiano contribuisce a promuovere la Vallata con iniziative, escursioni e pubblicazioni.

Incontriamo Amelia e Joe Rosselli, scrittori come Renato Fucini e poi musicisti, professionisti e industriali. Dall’Inghilterra, dalla Germania e dagli Stati Uniti, alla ricerca di esperienze originali, arrivano turisti dai gusti raffinati. Tutto verrà raccontato tra luglio e agosto attraverso un ricco calendario di iniziative pubbliche, presentazioni e spettacoli teatrali nei Comuni di Vernio, Cantagallo e Vaiano. Due le mostre documentarie e fotografiche in programma (a Migliana e all’Archivio di Stato di Prato).

Sorprendenti i legami tra l’ebraica e cosmopolita famiglia Rosselli (trasferitasi a Livorno da Roma nel Settecento) e Montepiano. Amelia Pincherle (è la zia di Alberto Moravia) e il marito Joe Rosselli scoprono Montepiano nel luglio 1896: Aldo, il loro primo figlio, ha soltanto un anno. Negli anni a venire trascorreranno qui molti periodi di vacanza e montepianine saranno le balie di Carlo e Nello Rosselli: Maria Morganti e Virginia Mazzetti. “Sai che qui in paese tutti si ricordano di voi quando eravate a Montepiano? C’è il padrone della mia pensione che si rammenta con molto affetto di voi, i Nathan…”, scrive da Montepiano Nello Rosselli alla madre Amelia nel 1919.

L’aria buona e la tranquillità che poteva offrire la villeggiatura a Montepiano era stata scelta proprio pensando al piccolo Aldo, nato nel luglio 1895 a Vienna, dove Amelia e Joe si stabilirono appena sposati. A Montepiano trascorreranno le loro vacanze per diversi anni sia i Rosselli che i Nathan. La madre di Joe, Henrietta Nathan era inglese e sorella di quell’Ernesto Nathan famoso per essere stato, prima l’erede testamentario di Mazzini, e poi per essere eletto, a inizio Novecento, sindaco di Roma con il blocco popolare. A Londra, dove Mazzini sopravvisse grazie agli aiuti delle famiglie Nathan-Rosselli, il padre di Joe, Sabatino Rosselli, aveva aperto un ufficio di cambio nella City. “Stando al corpus delle numerose lettere rinvenute presso il Fondo Rosselli (conservato all’Archivio di Stato di Firenze) Amelia inizia a frequentare Montepiano qualche anno prima di trasferirsi a Firenze.- si legge nel volume –  Le trame di intimità e le note di costume che affiorano nelle lettere aprono finestre luminose e contribuiscono a ricostruire un pezzo della storia della villeggiatura a Montepiano, nonché frammenti privati dell’epopea della famiglia Rosselli”.

La svolta turistica della Vallata e di Montepiano, quest’ultima già famosa a Firenze per il suo straordinario burro, è legata all’affermazione della nuova cultura della villeggiatura di fine Ottocento. Decisivo è il completamento, tra il 1885 e il 1892, della Strada Maestra che finalmente collega San Quirico a Montepiano. Non è davvero un caso che proprio nel 1892, a Montepiano, si registri un boom di 500 turisti.

Sono tre giovani della sezione fiorentina del Club Alpino italiano: Michele Gemmi, Giuseppe Ricci e Luigi Alessandri i promotori della stagione d’oro dell’Alta Valle. A far da pioniere alla svolta turistica è però Emilio Bertini che con la sua instancabile attività fa conoscere e amare la Val di Bisenzio di cui pubblica una guida che resta una pietra miliare del genere. Le iniziative di moltiplicano: nel 1879 la sezione del Cai di Firenze, insieme a quella di Bologna, organizza una doppia traversata Bologna – Prato. “Con l’arrivo dei villeggianti comparvero locande, trattorie e i primi affittacamere e furono pubblicate guide con itinerari e indicazioni – raccontano le autrici – Per i decenni a venire la Val di Bisenzio avrebbe richiamato italiani e stranieri, letterati ed artisti, industriali e scienziati, personaggi che spesso lasciarono nei loro scritti pubblici e privati ricordi e tracce affascinanti della loro villeggiatura. Montepiano, che si arricchì di ville e villini e ospitò anche numerose colonie terapeutiche”.