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L’VIII Armata britannica nel Chianti

Per l’VIII Armata di Sua Britannica Maestà, la traversata del Chianti venne subito dopo il ciclo di combattimento culminato con l’ingresso tra le rovine di Arezzo il 16 luglio 1944, e subito prima dell’altro ciclo, che portò alla liberazione di Firenze, iniziatosi il 13 agosto.

Nei cimiteri militari britannici di Arezzo e di Firenze sono sepolti – rispettivamente – 1.266 e 1.632 caduti: totale quasi 3.000 cadaveri di ragazzi biondicci di capelli e con la pelle chiara degli Inglesi e dei Neozelandesi, oppure con la pelle color oliva scuro e gli occhi nerissimi degli Indù e a volte anche con il barbone nero e il turbante dei Sikh. Si calcolava che i feriti fossero, in genere, tre volte più dei morti. In paragone, quel mesetto che durò l’avanzata da Arezzo a Firenze attraverso il Chianti fu come un respiro, relativamente ai giorni di bufera che l’avevano preceduto e l’avrebbero seguito. Anche se fu un respiro pagato con qualcosa come 10.000 “casualties”: il termine tecnico inglese per indicare il complesso dei morti accertati, degli scomparsi e dei feriti.

Neanche l’avanzata nel Chianti, però, fu una piacevole escursione. A parte qualche sparatoria nei boschi ogni tanto con le retroguardie nemiche, c’era l’incubo delle mine, che i tedeschi avevano seminato dappertutto: magari dietro l’uscio di una casa perché chi vi entrava saltasse in aria oppure, con lugubre umorismo teutonico, sotto un cadavere perché chi lo voleva seppellire, lo andasse a raggiungere nell’altro mondo. E ogni tanto le belle sventole delle granate, perché un osservatore nascosto chissà diavolo dove, aveva scorto col cannocchiale la polvere sollevata da una nostra colonna di automezzi.

Un’estate toscana è sempre bruciata dal sole e molto calda. Ma quella del 1944 fu ancora più rovente del solito: per quei poveri ragazzi biondicci e con la pelle chiara, in battle-dress khaki e con l’elmetto a bacinella degli inglesi, doveva essere un supplizio farsi arrostire da quel sole feroce.

Chi scrive era allora uno scalcinato 2nd Leutenent I.F. (sottotenente delle Forze Italiane) e gironzolava in jeep sul fronte, col suo diretto superiore: un capitano inglese di cittadinanza, ma ebreo egiziano di stirpe, e quindi scaltro come solo un ebreo levantino può esserlo. L’uomo giusto al posto giusto, insomma, visto che lui ed io appartenevamo a un’unità di Intelligence Service, camuffata col nome fasullo di Psychological Warfare Branch (forse per buttare un po’ di polvere negli occhi ai “servizi” dei cugini americani?). L’ordine per noi era di tallonare, con la nostra jeep, la prima avanguardia di carri armati per il caso che ci fosse da scoprire “a caldo” qualcosa di interessante abbandonato dai nemici nella fretta di ritirarsi. I cingoli dei carri armati sollevavano veri “geyser” di polverone e lo gettavano sulla faccia, ridotta a un mascherone di sudore e sudiciume. E quelle sventole maledette delle granate arrivavano sempre più fitte e vicine, a mano a mano che si andava avanti. Infine, come Dio volle, arrivammo a una cittadina, che assomigliava a Pompei, tanto era ridotta in rovine dai bombardamenti aerei e di artiglieria e tanto era spopolata di abitanti: San Casciano in Val di Pesa.

Acquattata dentro le rovine di un ristorante, che ancora oggi esiste, c’era una compagnia di neozelandesi, che aspettava buio per scendere a dare un assalto verso il Ponte dei Falciani. Il relativo respiro che avevamo avuto durante la traversata del Chianti era finito. Eravamo daccapo in ballo. E bisognava ballarlo, sperando nel buon Dio perché ci facesse arrivare alla fine della danza senza buchi nella pelle.

L’articolo, scritto nel 2005 dal prof. Giorgio Speni per la rivista “inChianti” n. 2 di quell’anno, è stato gentilmente concesso da Gabriella Congedo.




12 giugno 1944: la strage di San Leopoldo

La strage di San Leopoldo, località prossima a Marina di Grosseto, è parte dei tragici eventi che accompagnarono la ritirata delle truppe germaniche lungo il litorale tirrenico, dopo la liberazione di Roma. Furono rastrellamenti, rappresaglie e azioni determinate a liberare le vie di comunicazione utili per la ritirata e colpire le formazioni partigiane. L’opera di repressione nella zona costiera fu di competenza del LXXV Corpo d’Armata tedesco. I fatti di Marina di Grosseto furono preceduti dalla strage di Roccalbegna, l’11 giugno, da rastrellamenti nella zona di Castiglione della Pescaia e nella frazione di Buriano, dove i tedeschi intendevano far terra bruciata intorno alla banda “Gruppo Tirli” del “Raggruppamento Monte Amiata”.

Casa sfollati

Casa delle famiglie sfollate a San Leopoldo

La mattina del 12 giugno 1944 un graduato e due militari tedeschi, incaricati di minare e far saltare il ponte sulla Fiumara di San Leopoldo, si recarono presso il casello del genio civile, dove viveva la famiglia del responsabile Fortunato Falzini. Sul posto si trovava anche una famiglia di sfollati, quella dei Lari, mentre a poca distanza vi era il podere dei Botarelli. I tedeschi gli ordinarono l’allontanamento dalla zona, malgrado   un regolare permesso di residenza per il controllo del livello delle acque che gli era stato concesso da un ufficiale tedesco. Difficile capire come la situazione degenerò. Secondo la ricostruzione del prefetto di Grosseto Amato Mati del 14 giugno 1945, i tedeschi aprirono il fuoco e uccisero Falzini e Giuseppe e Livio  Botarelli, padre e figlio. Al rumore degli spari, altri  tentarono la fuga lungo l’argine ma furono ugualmente colpiti: Olga e Giancarlo Lari, madre e figlio, uccisi sul posto, Roma Madioni, deceduta qualche giorno dopo per le ferite. Sopravvisse un altro ferito, Armando Lari, che aveva cercato scampo all’interno di una botola. Nel complesso furono sei le vittime civili. Ma non è questa l’unica versione che ci consegnano le carte. La relazione stilata dal sindaco di Grosseto Lio Lenzi il 22 luglio 1944 descrive un rastrellamento di reparti di SS, arrivate lì per minare il ponte sulla chiusa e poi la visita nella casa di Botarelli, dove l’avrebbero ucciso dopo aver mangiato e bevuto.

Cisterna dove sarebbero state uccise 5 persone da una bomba a mano lanciata dai tedeschi

Le altre cinque vittime sarebbero state uccise da una bomba a mano, gettata nella cisterna sotterranea dove avrebbero cercato rifugio, terrorizzate dalla morte di Botarelli. I morti furono seppelliti nell’argine del fossato di San Giovanni, mentre i feriti furono curati sul posto da un milite della CRI, a Grosseto prima di esser trasferiti. Al di là dell’esatta ricostruzione dei fatti, la presenza di civili sul posto fu probabilmente interpretata dai militari come trasgressione all’ordine di sfollamento della zona per ragioni strategiche. Dall’ottobre 1943, su dirette disposizioni di Hitler, era stata infatti disposta l’evacuazione della popolazione costiera per una profondità di 5 Km nel tratto Livorno-Napoli, per motivi strategico-militari. I civili dovevano lasciare il posto alle forze tedesche, perché fosse approntata la linea di difesa costiera utile a fronteggiare l’eventuale sbarco degli Alleati.

Nel caso di San Leopoldo, nell’unica ricostruzione storica finora pubblicata (Fulvetti, 2009), l’elemento scatenante la violenza potrebbe essere stato l’eccessivo numero di persone riparate presso il casello. Rimase e rimane tuttora ignota l’identità dei militari tedeschi autori della strage. Tra i familiari delle vittime, subito dopo la Liberazione, cominciarono a circolare accuse di complicità nei confronti di alcuni fascisti locali: otto persone, sospettate di aver sollecitato l’eccidio, ma prosciolte in istruttoria per l’impossibilità di avvalorare tali sospetti con elementi concreti.

lapide per le vittime S. Leopoldo 1

Particolare della lapide in memoria delle vittime, collocata nei pressi del pattinodromo di Marina di Grosseto

Se solo da alcuni anni questo frammento di storia è riemerso ed entrato nella memoria collettiva ufficiale, mentre era solo patrimonio di ricordi di singoli, testimoni diretti o indiretti, è certo a causa dell’assenza del percorso della giustizia, esito processuale dell’istruttoria. Quanto alla storiografia, poco o nulla era stato scritto nell’ambito degli importanti studi sulle stragi nazifasciste in Toscana, che ci sono stati consegnati dal gruppo di specialisti dell’Università di Pisa e da quanti furono coinvolti dalla Regione Toscana nell’attuazione di una legge (“Per salvare la memoria delle stragi nazifasciste in Toscana”). Uno straordinario vuoto di fonti scritte ha ostacolato le insistenti ricerche, promosse dall’Istituto storico grossetano e sollecitate anche dal Comune di Grosseto. A lungo nulla è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione nazionale, nulla dalla corposa documentazione presente nell’Archivio di Stato su fascismo, guerra e Resistenza. Solo fascicoli personali dei sospettati, frutto della prima istruttoria del CLN grossetano, hanno fatto una prima luce sull’accaduto, lasciando però insoddisfatto il desiderio di giungere a una cronaca certa e a una definitiva interpretazione delle responsabilità, dirette e indirette.

La lapide sul luogo della strage

La lapide in memoria delle vittime sul luogo della strage

Rimane indiscutibile il quadro interpretativo generale: la strategia deliberatamente attuata in applicazione delle direttive dei Comandi tedeschi ha lasciato una scia di sangue anche a San Leopoldo, alla vigilia della Liberazione della città di Grosseto, avvenuta tre giorni dopo, quando ormai le autorità civili e militari fasciste l’avevano abbandonata.

Il progetto nazionale di Atlante delle stragi nazifasciste, ormai in fase conclusiva, rivela qui un sovrappiù di utilità. Si aggiungerà alla restituzione di memoria che si è tradotta da qualche anno in un cippo e nel 71° anniversario della strage, in un pannello che trasformerà finalmente la Chiusa di San Leopoldo in un luogo da inserire tra gli itinerari della memoria.




L’esame di maturità in tempo di guerra

Primavera-estate 1944. Una fanciulla sta preparando gli esami di maturità. Si chiama Maria Mazzei e non ha ancora diciott’anni. Appartiene a un’antica famiglia fiorentina, una famiglia di intellettuali e di studiosi. Maria invece non ha molta voglia di studiare, è vivace, romantica e sognatrice. E come tante ragazze della sua età si confida a un diario, dove il suo stato d’animo oscilla fra lo sgomento per quanto sta accadendo e un’incontenibile gioia di vivere. In sottofondo, sempre, la preoccupazione per l’esame che incombe.
Mentre lei si affanna sui libri il mondo sta andando a ferro e fuoco. La guerra travolge uomini e cose e Maria si rende conto che il suo tempo di bambina è finito.

14 aprile ‘44 Fonterutoli [Il borgo e la villa di Fonterutoli, antica proprietà della famiglia Mazzei, sono situati 5 km a sud di Castellina in Chianti.]
Sono tornata ora da Firenze in macchina perché ieri hanno fatto scendere i passeggeri dalla Sita per i mitragliamenti. Ho finito la scuola. Mi hanno interrogata, sono passata e ora mi accingo a provare a fare l’esame di III liceo.

23 aprile ‘44
Ieri c’è stato un gran passaggio di apparecchi per due ore. Ero in giardino, mamma era in terrazza con la Viola che le insegnava a filare la lana. Ho guardato in su, dal giardino verso casa, in terrazza una vecchina ricurva alzava le braccia “segnando” il cielo con una croce, era la Viola che “contraddiceva gli aeroplani”.

25 aprile ‘44
Mio fratello Lapo, andato a Firenze ieri sera, è stato rispedito da papà a tutto razzo. Ieri alle 5 ½ di mattina hanno perquisito tutta la casa, si sono confusi visto la conformazione di casa nostra e non sono andati né in dispensa né in camera della nonna. Cercavano le armi. Dunque naturalmente niente esame a Firenze, è pericoloso, non rimane che dare gli esami a Siena ma dicono che i professori sono pestiferi. La leggenda racconta che il prof. di Storia fa dire “tutti i Papi all’indietrina” da oggi al Medio Evo.

2 maggio ‘44
Hanno bombardato Firenze. È stato tremendo, il villino Passerini raso al suolo. Patrizia Passerini e la nonna sono morte, Giovannella ferita alle gambe. Il Teatro Comunale è in fiamme, tutta un’epoca della nostra vita felice che è passata. Tutto questo non finirà mai. Ogni giorno ce n’è una nuova! Devo studiare. Potessi passare ora, così alla scuola non ci penserei più!

4 maggio ‘44
Sto studiando Rousseau, devo leggere l’Émile. Fra una settimana a quest’ora avrò già fatto gli esami. Non so proprio come farò, non so niente, possibile in così pochi giorni!

21 maggio ‘44
Sono tornata ieri dal primo gruppo di esami. Greco e latino malissimo. Italiano e storia dell’arte molto bene. Ho dormito alla pensione Ravizza con Nanda Russo. Non ho punta voglia di studiare ancora fino a martedì.

27 maggio ‘44
C’è stato un mitragliamento al Trogolo [Fonte dell’acqua potabile]. Ero in giardino con la signora Foà che mi da ripetizioni di matematica. Eravamo sotto il pergolato alle scalette quando abbiamo visto degli aeroplani arrivare da dietro la Monsanese, in quel momento passavano due camion. “Vai, questi sono fritti” abbiamo detto la signora Foà ed io. Gli aerei giravano e uno è venuto proprio in linea diretta sul Trogolo. Ci siamo schiacciate per terra tra i due muriccioli, si sentiva “ta ta ta” fortissimo e secco secco. Appena finita la prima scarica siamo andate nella “stanza dei fiori”, poi c’è stata un’altra raffica.
I camion erano pieni di sfollati che hanno fatto in tempo a buttarsi giù nei cespugli. Nessun ferito. Pensare che c’erano due donne a prendere l’acqua, diversi bambini e gli uomini a lavorare nei campi. La gente urlava. Io ero piuttosto calma, poi vedendo la signora Foà agitata mi sono agitata anch’io.

4 giugno ‘44
Roma è stata liberata. Dopo Roma ci siamo noi. Allora, o è la tragedia, o la libertà!
Cosa succederà? Cos’è questa vita? Un susseguirsi di avvenimenti vuoti. Gente che si muove, che si accanisce per un capriccio, per egoismo. E io rimango qui muta a sognare. Oddio, sono partita per il fantastico paese dei castelli di Spagna! Anche col più grande temporale questi castelli non cadono, si affievoliscono forse, ma c’è un luogo della nostra mente dove, tra le nuvole, si erigono sempre guglie e torri altissime.

Congedo16 giugno ‘44
Gli alleati sono sbarcati in Francia ma non accenna per niente a finire. Non finirà mai e si sente una grande tristezza e stanchezza. É il tocco, a mezzanotte circa hanno mitragliato, qui alla strada di sopra. E due! Speriamo di passare la notte liscia.

8 giugno ‘44
Siamo tutti molto agitati. Non sappiamo se andare a Firenze o stare qui. Prepariamo bauli e bagagli. Mi sembra la partenza dei Rostov da Mosca [Il riferimento è al romanzo “Guerra e pace” di Lev Tolstoj]. I tedeschi requisiscono tutto. Tutti hanno un viso lungo e sconcertato. Noi tre meno. Io mi diverto, mi pare di leggere un libro di cui non posso leggere l’ultima pagina!

11 giugno ‘44
Siamo sfollati a Monteporcini con tutta Fonterutoli. Non si può uscire. Nei boschi ci sono prigionieri inglesi scappati e ronde tedesche.

13 giugno ‘44
Lapo è andato a Castellina a cavallo, a Malafrasca è stato fermato, gli hanno detto di tornare indietro perché i tedeschi facevano le retate, è tornato a tutto galoppo.

14 giugno ‘44
Sono tornata da Siena dove sono andata per gli esami. Storia e filosofia male, mi hanno chiesto tutto indietro! A matematica, fisica e chimica mi sono ritirata perché non ero abbastanza preparata, specialmente in meccanica e chimica.
Stamani sono andata in giardino come sempre quando lo studio è lontano mille miglia. Ho tagliato i fiori secchi e fatto i vasi in tavola. Dopo essere stata a contatto con la città, coi professori, con i fascisti, si apprezza cento volte di più una bella rosa e un bel cavallo sotto un cielo azzurro.
La cavalla nuova è realmente molto bella, si chiama Maila. Mi sento molto abbacchiata, come un senso di giovinezza che sfugge. Che stupida! Ho una gran voglia di rose, musica, primavera, cavalli. Tutto questo è molto romantico, ma chi è il giovane che non è romantico?

26 giugno ‘44 – Siena
Siamo sfollate la nonna, mamma, Fioretta e io, in casa Piccolomini in via del Capitano.

Congedo23 luglio ‘44
Stamani alle sette sono arrivati i “liberatori”. Eravamo a letto e abbiamo sentito un gran battimano, ci siamo affacciati alle finestre, abbiamo visto quattro carri armati con gli americani, poi i partigiani in borghese con una fascia tricolore al braccio. I senesi hanno tirato fuori le bandiere del Palio. Stanotte si era sentita una gran sparatoria di cannoni e proiettili che fischiavano sulla testa. È passato anche il famoso aeroplano che chiamano la Vedova, che ha ispezionato vicino al Duomo. Le truppe sono quasi tutte francesi e marocchine.

4 luglio ‘44
Le truppe aumentano, ce ne sono di tutti i colori, col turbante bianco, marocchini, negri.

16 luglio ‘44
Ieri finalmente sono venuti da Fonterutoli papà e Lapo. La casa è in buona parte distrutta. Non rimangono che il salotto verde e la cucina. La facciata è cascata e le camere sprofondate. Dall’ingresso si vede il cielo. La chiesa ha subito più o meno la stessa sorte, così la fattoria e le case intorno. Tutto il paese sfollato a Monteporcini è stato nel rifugio per 14 giorni con cannoneggiamento continuo. Ma il tremendo è che tutto è minato, non si può fare un passo. Il Bruni, marito della Leontina, alla Fonte vicino all’orto è uscito un attimo fuori strada e una mina gli ha portato via una gamba. Tullio, Nello e altri uomini sono stati portati via dai tedeschi. La cavalla Maila è stata portata via e Stellino è morto di fame. Lapo voleva cercarlo ma un ufficiale francese gliel’ha impedito per via delle mine.
La linea di resistenza era tra Fonterutoli – Vagliagli – Brolio. È tremenda l’idea di tornare lassù e dover ricostruire. Poter andare lontano, in un paese dove la guerra non esiste, dove tutto è calma e tranquillità. Dimenticare tutto, addormentarsi, svegliarsi e ritrovare tutto come prima.

18 luglio ‘44
Ieri sono venute a trovarmi la Lucia ed Enzina raccontandomi tutte le storie di Fonterutoli.
Ormai questa è una vita che bisogna prendere con coraggio, conservare la propria dignità mantenendosi nelle disgrazie allegri, calmi e sereni in barba a tutti. Solo così si riprendono energie. “Non bisogna rimanere dei pulcini quando ci vogliono delle aquile” (Padre Crawley).

28 luglio ‘44
Sono ancora a Siena in casa Piccolomini. Gira la voce che sia stato trovato vicino a Livorno il corpo di Franco Stucchi. Non è possibile che Franco sia morto, era così poco maturo per la morte! Prima o poi lo vedremo tornate in via Santa Monaca o a Fonterutoli. L’ultima volta che è venuto a Fonte ha detto, riguardo a non so cosa: “Ché, ho scampato anche questa, sono troppo pelle dura!”.
Con questo è finita la vita di bambina beata dalla testa ricciuta, tempo felice e spensierato!

1 agosto ‘44 – Petraglia
Sono qui da Carlo e Giulia, c’è tranquillità per… studiare. Ma naturalmente ne ho pochissima voglia.
11 agosto ’44
È passato Francesco Griccioli – partigiano. Ci ha detto che Giovannella Passerini è morta di setticemia per le ferite del bombardamento.

28 agosto ’44
Lapo è venuto a prendermi. Stasera torno a Fonterutoli. Non ho proprio voglia di studiare. Mercoledì devo andare a Siena per la lezione.

24 settembre ’44 – Fonterutoli
Ieri è tornato Lapo da Firenze. C’è una gran fame, non si trova niente.
Si comincia ad avere notizie degli amici. Anche Diamante deve dare gli esami. Come vorrei che questi giorni fossero passati, ancora due settimane, è un’agonia sempre più lenta ma poi farò zompi fino al soffitto se sarò passata.

9 ottobre ‘44
Stamani ho fatto l’esame. Filosofia benino. Scienze male, il prof. ha scritto col lapis 4, poi lo ha cancellato e ha detto: vedremo. Matematica appena appena la sufficienza. Giovedì ci sarà greco.
Abbiamo avuto finalmente notizie degli zii e cugini. Tutti salvi.

14 ottobre ‘44
Ieri ho finito i miei esami. Fossi passata! Chissà… Ho qualche speranza. Oggi comincio la mia vita di libertà!

18 ottobre ‘44
Ripenso alle persone care che questa guerra si è portata via. Hanno trovato il corpo di Franco fucilato vicino a Volterra [Franco Stucchi Prinetti, partigiano, è stato fucilato dai tedeschi a Castelnuovo Val di Cecina il 14 giugno 1944 insieme al cugino Gianluca Spinola e ai due ex soldati Vittorio Vargiu e Francesco Piredda]. Anche Sandra Settepassi, mia compagna di banco al ginnasio, è morta “proditoriamente uccisa dai tedeschi con altre donne e bambini per una rappresaglia” [Sandra Settepassi è una delle 174 vittime dell’eccidio del Padule di Fucecchio (23 agosto 1944)], così era scritto sul giornale. Giovannella Passerini quando era a Fonterutoli diceva sempre che aveva paura dei bombardamenti e scherzando diceva che se moriva sarebbe venuta a farci visita come fantasma, la sera. Mio cugino Franco Fabbricotti è morto pochi mesi dopo il ritorno dalla prigionia in Germania, per meningite tubercolare.

19 ottobre ‘44
Sono passata, sono matura! Io, non andare più a scuola. Compio diciotto anni tra due mesi. Sono libera! Sono qualcuno! Ma tutto questo si perde nel nulla, nel tran tran dell’universo.




L’incendio di Brolio

Roma liberata e la collaborazione con il Governo Militare alleato nel racconto di Bettino Ricasoli.

Nella tarda primavera del ‘44 Roma è ancora occupata dai nazisti mentre il fronte è bloccato a Cassino.
Dopo l’Armistizio Bettino Ricasoli, non volendo aderire all’esercito di Salò, si è arruolato nella Guardia palatina del Vaticano. In questo modo è al sicuro dai rastrellamenti. Da molto tempo ha perso i contatti con i familiari, non sa più nulla di loro né riesce a far avere sue notizie. Ma una notte accade qualcosa…

“Finalmente cominciò la ritirata tedesca da Roma. Io mi trovai proprio sugli spalti di un terrapieno, che fa parte della Casa Generalizia dei Gesuiti, la notte fra il 3 e il 4 giugno del ‘44. Si vedevano i Tedeschi che venivano via con tutti i mezzi possibili e immaginabili su carretti, in bicicletta, in motocicletta, sulle automobili sequestrate, sui carri armati. Passavano lungo il Tevere e andavano verso nord. Per tutta la notte c’è stata una colonna disordinata di fuggitivi e poi, a un certo momento, è finito tutto. Dopo un’ora sono arrivati gli Alleati con le camionette. Faceva impressione vedere tutti questi mezzi, i carri armati. Ma il passaggio è stato completamente pacifico. Non credo che i tedeschi abbiano opposto, anche in altre parti di Roma, nessuna resistenza. Anzi, dopo tutto il rumore delle truppe in ritirata, prima dell’arrivo degli Americani c’è stato un periodo di assoluto silenzio. Capimmo che era la fine dell’esercito tedesco e che fra poco sarebbero arrivati gli Alleati. Infatti dopo un’ora cominciarono ad arrivare le prime truppe. Era mattina, il passaggio dei tedeschi era durato tutta la notte”.

Roma è finalmente libera. Ricasoli vorrebbe tornare subito a casa, è in ansia per la sorte dei familiari ma, con il fronte in rapido movimento, è impossibile trovare mezzi di trasporto. Per fortuna parla un ottimo inglese. Fa conoscenza con un certo colonnello Kennedy, destinato a essere il responsabile dell’agricoltura nel futuro Governo Militare alleato della Toscana. La persona giusta al momento giusto.

“Gli avevo detto che mi interessavo di agricoltura nell’azienda della mia famiglia e che ero studente di Agraria all’università di Firenze. Allora il colonnello mi chiese: “Se vieni con me, mi puoi aiutare e darmi dei consigli, perché io di agraria non me ne intendo”. Io accettai volentieri, e allora si combinò che lui mi portava con sé sulla sua jeep, e con questa, via via che il fronte avanzava, ci spostavamo in su lungo la costa. Stemmo a Santa Marinella per qualche tempo, poi andammo fino a Civitavecchia e poi su fino a Grosseto. Era la prima provincia della Toscana, il colonnello già si sentiva un po’ investito, anche se nelle province toscane il responsabile dell’agricoltura, che era lui per tutta la regione Toscana, non aveva un proprio corrispondente, un proprio ufficio per l’agricoltura, per cui doveva affidarsi agli uffici dell’alimentazione. Mi disse “Qui non ho nessuno a cui io possa dare delle istruzioni. Senti, se vuoi rimanere in una delle province toscane rimani, anzi, se hai qualche altro amico disposto a fare come te, io lo manderei in altre province. Io starò a Firenze e terrò i contatti attraverso voi”. Io accettai e scelsi Siena. Pensavo che i miei fossero ancora a Brolio, ma eravamo rimasti interrotti dalla guerra, non sapevo cos’era successo”.

Nella città di Siena appena liberata Bettino Ricasoli collabora con il Governo Militare Alleato. Ha il suo ufficio in Prefettura, alloggia con gli ufficiali, pur essendo un civile – il passaggio nelle Guardie Palatine comportava il licenziamento dall’esercito – e viene trattato come uno di loro.
In provincia invece si combatte ancora, i cannoni alleati piazzati sotto le mura sparano verso nord. Un giorno si sparge la voce che il castello di Brolio sta andando a fuoco…

“Sentii la gente che si era radunata nella piazza del Duomo che diceva: “A Brolio c’è stato un combattimento, è andato tutto distrutto”. Impressionato, andai subito sulle mura di Siena, a San Francesco, da dove si vede benissimo Brolio. La giornata era bellissima, chiara, e vidi effettivamente il castello in una nuvola di fumo rosso. Pensai “sta bruciando”. Proprio sotto Siena c’erano delle batterie di cannoni che sparavano in quella direzione. Ero molto preoccupato per la sorte dei miei. Immaginavo che fossero lì, ma avrebbero anche potuto essere andati via, non potevo saperlo. Dopo qualche giorno l’avanzata alleata proseguì abbastanza rapidamente e anche Brolio venne liberato. Alcuni ufficiali inglesi mi dissero: “Adesso si può andare, ti portiamo a vedere cos’è successo”.
Trovai il posto ridotto male, ma tutti i miei, i genitori, le mie quattro sorelle e il mio fratello minore, erano lì e stavano bene. Mi resi conto che quel fumo rosso che si vedeva da Siena era la polvere dei mattoni della facciata. Le cannonate, esplodendo sul mattone, davano una polvere rossa che tingeva le nuvole di fumo. Era quella la causa del rosso, non c’era stato nessun incendio”.

Ironia della sorte. Il castello è stato scelto come rifugio dalla famiglia Ricasoli e, per un certo periodo, anche da una cinquantina di contadini. Si rivela invece il luogo più pericoloso, l’unico edificio della zona ad essere preso di mira dalle cannonate. Per via della sua posizione elevata, i Tedeschi vi hanno stabilito un posto d’osservazione e da lì dirigono il fuoco delle artiglierie contro gli Alleati che, in risposta, cannoneggiano il castello per diverse ore al giorno.

“I tedeschi lì erano pochissimi, una pattuglia, pochi soldati che non avevano altro scopo che di dirigere il fuoco sulle colonne alleate che da lì potevano vedere. Volevano far credere che lì ci fosse una forza militare di una certa importanza. Stavano nelle cantine, e anche i miei familiari vi si erano rifugiati. Anzi, prima che gli alleati si avvicinassero, le mie sorelle avevano fatto amicizia con uno o due di questi ufficiali tedeschi e loro con i binocoli gli facevano vedere i movimenti dei carri armati alleati intorno a Siena. Le mie sorelle si divertivano, “si vede la guerra!” dicevano. A un certo momento sentirono il fischio di un obice che passava sopra le loro teste, allora i tedeschi dissero loro di mettersi al sicuro in cantina perché il gioco si faceva più pericoloso.
Il cannoneggiamento contro il castello durò parecchio, diverse ore tutti i giorni. Quando io arrivai a Siena era in pieno svolgimento. La liberazione del castello avvenne quattro-cinque giorni dopo”.

I primi ad entrare a Gaiole e nel castello come liberatori sono i Sudafricani. Gente civilissima e ottimi soldati, così li ricorda il barone. Dopo il passaggio del fronte, tutto intorno spuntano gli accampamenti. Brolio diventa zona di riposo per le truppe che hanno combattuto in prima linea e che periodicamente si alternano con quelle delle retrovie.
Il castello è danneggiato, ma le mura hanno resistito egregiamente alle cannonate. Qui come altrove ci si mette subito a riparare, a ricostruire.
Bettino Ricasoli continuerà a collaborare con il Governo Militare alleato per alcuni mesi. Il suo ufficio deve organizzare tutto il settore agricolo nella provincia di Siena. Lascia l’incarico a fine ottobre del ‘44 per riprendere gli studi di agraria che aveva dovuto interrompere.
La guerra non è finita, nel nord si combatte ancora. Ma nelle zone liberate si ricomincia a vivere.

(Seconda parte della testimonianza di Bettino Ricasoli, raccolta il 5 marzo 2004)

la prima parte dell’intervista in: L’8 settembre di Bettino Ricasoli




L’8 settembre di Bettino Ricasoli

L’Armistizio, la dissoluzione dell’esercito, Roma occupata dai nazisti nel racconto di Bettino Ricasoli.

La tragedia dell’8 settembre 1943 ha segnato un’intera generazione di Italiani.
Dopo l’annuncio dell’Armistizio centinaia di migliaia tra soldati e ufficiali, sparsi sui vari fronti di guerra, si trovarono di colpo privi di ordini, senza saper che fare né dove andare, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, non più alleati ma nemici.
Qualcuno riuscì a tornare a casa con mezzi di fortuna. Chi cercò di resistere, come i nostri soldati a Cefalonia e Corfù, venne massacrato senza pietà. Oltre 630.000 militari italiani, rastrellati o catturati con l’inganno, furono deportati in Germania.
Bettino Ricasoli aveva allora 21 anni. Richiamato alle armi nel gennaio del ‘43, alla fine di luglio era a Terracina per un periodo di addestramento prima di essere inviato al fronte. Qui lo colse l’8 settembre, quando non aveva ancora combattuto né sparato un solo colpo.
Il barone ha accettato di raccontare la sua personale avventura. Lucidità e chiarezza della narrazione, insieme all’eccezionalità delle circostanze di cui è stato testimone, rendono preziosa la sua testimonianza.

“C’era già stato lo sbarco a Salerno, Terracina e la ferrovia Roma-Napoli venivano spesso bombardate dall’aviazione alleata. Noi dovevamo sorvegliare la costa e agire se ci fossero stati degli sbarchi nel tratto fra il monte Circeo e Terracina. Lì ci prese l’8 settembre. Rimanemmo ai nostri posti, non sapendo esattamente cosa fare, tutte le comunicazioni con i comandi erano interrotte. Con i nostri ufficiali decidemmo di togliere gli otturatori ai cannoni per renderli inservibili, nel caso che i tedeschi si impossessassero di queste zone, e di andare a Sabaudia, dov’era il comando della divisione da cui dipendevamo. Vi arrivammo andando a piedi attraverso i campi durante la notte per non farci vedere. Eravamo convinti che i Tedeschi avrebbero opposto resistenza”.

Li attendono due sorprese. La prima è che a Sabaudia il comando di divisione non c’è più, dissolto come neve al sole. Increduli e confusi, i soldati decidono di tornare indietro e rioccupare le posizioni, per non rischiare di passare da traditori. Precauzione inutile, perché la postazione è deserta e dei comandanti non c’è traccia.
La seconda sorpresa è che i Tedeschi fuggono in maniera disordinata, con tutti i mezzi che riescono a trovare.

“Scappavano lungo la costa con chiatte, barche, barconi, soprattutto di notte. Andavano verso il nord. Vicino a noi c’era una postazione antiaerea tedesca. Una mattina un gruppo di soldati tedeschi che erano al servizio di questa postazione, armati fino ai denti, con collane di proiettili, vennero a dirci: “La guerra è finita, noi ci arrendiamo a voi”, proprio così. Noi non sapevamo cosa fare nemmeno di noi stessi, non avevamo più rifornimenti di cibo, non sapevamo più niente, eravamo abbandonati lì. Gli dicemmo: “Se volete restare con noi rimanete, ma non abbiamo nemmeno da darvi da mangiare”. Allora andarono via”.

Nei primi giorni dopo l’armistizio i Tedeschi che si trovano a sud di Roma attraversano una fase di smarrimento, con l’esercito alleato che incalza. Scappano verso il nord più velocemente che possono senza incontrare, purtroppo, nessuna resistenza. Ben presto si riorganizzano e riprendono il controllo della situazione.

“Per un certo numero di giorni anche i Tedeschi non sapevano cosa fare e si ritiravano. Secondo quello che potevamo giudicare noi dal nostro punto di vista, se a Roma ci fosse stata una volontà di combattere, se ci fosse stato un esercito organizzato e comandato in modo efficace, sarebbe stato possibile bloccarli. Dopo qualche giorno, a una settimana circa dall’armistizio, è arrivato nella nostra zona, fra il monte Circeo e Terracina, un ufficiale tedesco. Hanno emesso un proclama in cui si stabiliva che tutti i giovani in età militare dovevano consegnarsi alle autorità tedesche. A quel punto decidemmo di andar via”.

Rientrato in Toscana Bettino Ricasoli si ricongiunge ai familiari, che da Firenze si sono trasferiti nel loro castello a Brolio, presso Gaiole in Chianti. Dovrebbe essere una sistemazione abbastanza sicura, lontana dalle principali vie di comunicazione. Ma non è affatto sicura per il giovane, che a Gaiole è un personaggio molto in vista. Non avendo nessuna intenzione di arruolarsi nell’esercito di Salò, non gli rimane che nascondersi. Sceglie Roma, dove ha dei parenti che possono aiutarlo ed è più facile far perdere le proprie tracce.
Nella capitale occupata dai nazisti l’atmosfera è cupa. Repubblichini e tedeschi danno la caccia ai renitenti, gli scantinati sono pieni di sfollati, manca il cibo. Il Vaticano ricorre a un espediente per salvare un certo numero di giovani dai rastrellamenti: li arruola nella Guardia Palatina. Tra di loro c’è anche Bettino Ricasoli.

“A un certo momento il Vaticano ha voluto mettere più al sicuro molti di quei giovani che erano a Roma nelle mie condizioni e ottenne dal comando tedesco di aumentare l’arruolamento delle proprie guardie palatine, per proteggere gli immobili extraterritoriali, che appartengono allo stato del Vaticano ma sono nella città di Roma.
In quell’occasione anch’io riuscii a entrare al servizio della Città del Vaticano, con l’obbligo di fare un turno di guardia ogni 10 giorni. Fui assegnato alla Casa Generalizia dell’ordine dei Gesuiti, che è dietro il colonnato di San Pietro e domina la collina che guarda il Tevere. Ci sono ancora le vecchie mura di Roma, il servizio consisteva nel passeggiare avanti e indietro su queste mura. Facevo il turno di guardia e mi occupavo di assistenza. Roma si riempì di sfollati dalle campagne che venivano su, spinti dall’avanzare del fronte. Venivano dal napoletano, da Cassino. Stavano accampati in questi tunnel, erano state organizzate delle mense che ottenevano dal Vaticano piselli secchi che venivano cotti e distribuiti. Me ne alimentavo anch’io. Giravo per Roma con una tessera che avrebbe dovuto proteggermi se fossi incappato in quelle che chiamavano le retate: i repubblichini chiudevano un gruppo di strade e passavano al setaccio tutti quelli che erano dentro; se trovavano qualcuno in età da militare veniva preso e portato via su al nord, si diceva nei campi di concentramento in Germania. Ma con la carta del Vaticano si era quasi sicuri”.

Nonostante la fame e il clima di oppressione Ricasoli è convinto, come tutti, che gli Alleati non tarderanno ad arrivare. Nell’autunno del ‘43 nessuno immagina che il fronte rimarrà bloccato a Cassino per sei lunghi mesi. E l’occupazione nazista della Capitale si trasforma in un incubo che sembra non aver mai fine.

(Prima parte della testimonianza di Bettino Ricasoli raccolta il 4 marzo 2004)

La seconda parte dell’intervista in “L’incendio di Brolio”.




Aperossa

L’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico con sede a Roma, è stato costituito alla fine degli anni settanta da un gruppo di intellettuali e registi tra cui  Cesare Zavattini che è stato anche il primo presidente, ed è divenuto Fondazione con DPR del 13 febbraio 1985.

logo aamod 1La Fondazione svolge attività scientifica e politico-culturale nel campo degli audiovisivi e della multimedialità, per favorire la costruzione di una memoria collettiva della vita sociale, delle lotte democratiche e dei loro protagonisti. Tra le sue finalità istituzionali più importanti, vi è la ricerca, la raccolta, la conservazione, la catalogazione e il restauro di documenti cinematografici, videomagnetici, digitali, sonori, grafici e fotografici su ogni tipo di supporto, sia a carattere documentario che di ricostruzione narrativa. Di uguale importanza è l’attività di studio, analisi, diffusione e riuso di tali documenti, affinché essi non rimangano «nelle scaffalature in una indeterminata attesa», come diceva Cesare Zavattini, ma divengano un bene culturale condiviso, stimolo di riflessione e conoscenza. Quindi, la Fondazione promuove ricerche e restauri, cura pubblicazioni specializzate, collabora a festival, organizza convegni, seminari, rassegne, mostre su temi legati alle sue aree di interesse istituzionale; realizza, inoltre, corsi di formazione con particolare attenzione alle figure professionali del documentalista e del film maker e ai temi connessi al settore archivistico. Il linguaggio filmico rappresenta uno straordinario strumento per analizzare, comprendere, rappresentare e comunicare la realtà: perciò la Fondazione sostiene, anche in collaborazione con altre strutture, la produzione di film a base d’archivio, e continua a documentare attraverso l’audiovisivo gli eventi del presente, incrementando così il proprio deposito di memoria. http://www.aamod.it/

L’anno scorso, avvicinandosi la ricorrenza del 70° della Liberazione, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico ha presentato all’Assessorato alla Cultura della Regione Toscana un progetto denominato “Aperossa”, finalizzato a realizzare una serie di iniziative legate all’idea che le proiezioni pubbliche e itineranti non solo abbiano ancora un senso, ma rappresentino una possibilità di comunicazione interessante e originale. http://aamod-aperossa.com/2015/04/08/laperossa-torna-in-toscana/

Queste proiezioni sono organizzate intorno all’Aperossa che cercherà di diventare segno e simbolo di una forma di partecipazione ed espressione artistica condivisa. Infatti, l’Aperossa non sarà soltanto il “veicolo” che porta, organizza e cura la proiezione di materiali audiovisivi legati al territorio, una specie di moderno cantastorie, ma diventa anche “centro di raccolta” di materiali privati come fotografie e filmini di famiglia e amatoriali, che saranno acquisiti dopo il rilascio di regolare ricevuta e restituiti ai legittimi proprietari dopo essere stati digitalizzati e messi in condizione di diventare patrimonio condiviso attraverso la loro messa in rete su un sito internet appositamente costruito. Le caratteristiche strutturali del mezzo, la mobilità e le dimensioni ridotte, fanno si che un’Aperossa attrezzata per le videoproiezioni può essere uno strumento agile e brillante per ascoltare e raccontare storie nelle strade, nelle piazzette, nei vicoli dei centri storici, in quegli spazi alle volte molto ristretti, ma ugualmente frequentati dalla gente, dagli anziani e dai giovani.

 L’Aperossa è stata presentata al pubblico il 17 maggio 2014 a Sesto fiorentino presso la sede dell’Istituto De Martino e ha iniziato il suo percorso di raccolta di testimonianze e di video proiezioni in giugno a San Quirico d’Orcia, Pienza, Monticchiello e poi Viareggio e Pietrasanta (16 e 19 settembre).

Nel 2015, ha celebrato la memoria del 70° nel Rifugio antiaereo di Massa in collaborazione con la Provincia, il Comune, l’A.N.P.I e l’Associazione Sancio Pancia, il giorno successivo nella biblioteca civica di Carrara con il Comune e l’A.N.P.I. ed infine, per concludere il ciclo di eventi, il 25 aprile a Fosdinovo in collaborazione con il Comune e gli Archivi della Resistenza.

Nel corso delle celebrazioni dell’anno passato e in quello corrente, sono state realizzate diverse interviste a protagonisti dell’epoca e raccolte immagini e testimonianze che saranno utilizzate per produrre una serie di materiali audiovisivi da proporre nelle scuole dei territori nei quali si è mossa l’Aperossa con il fine di evitare di disperdere l’immenso patrimonio di fatti, testimonianze e memoria che la gente della Toscana ha saputo esprimere durante la guerra patriottica di Liberazione pagando un prezzo altissimo in termini di sacrificio e di atti di eroismo contro il nemico e l’oppressore.




Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.




Una tragedia (quasi) dimenticata

“Mamma ti voglio bene ritornerò. Vaiano. 1922. D.M.”

Queste poche criptiche parole incise su una gavetta rimasta impigliata nelle reti di pescatori greci negli anni ‘80 sono il primo, casuale, tassello di una grande storia dimenticata che la Fondazione CDSE e il Comune di Vaiano (Po) hanno contribuito a far riemergere e approfondire. Tutto iniziò (per il CDSE) con una telefonata dalla Puglia, era l’ottobre 2011: il Comune di Surbo (Le) contattava quello di Vaiano per chiedere notizie, cercare agganci in merito a poche frasi sconnesse incise su una gavetta ripescata in fondo al Mar Egeo. Il quadro che si prospetta appare drammatico, ma allo stesso tempo interessante: deportazioni tedesche, un naufragio, 4200 soldati italiani dispersi, una tragedia dimenticata… con grande impegno e passione si inizia la ricerca nei registri delle anagrafi e qualcosa viene trovato. Un nome, un ragazzo: all’atto n° 24 si scopre un aggancio, D.M. Dino Menicacci, nato a Vaiano il 27 febbraio 1922 e disperso in Mar Egeo l’11 febbraio 1944. Dopo quasi settant’anni la gavetta sommersa ritrova il suo soldato. La Fondazione CDSE inizia a fare le prime ricerche documentarie e d’archivio: si richiede il foglio matricolare e caratteristico al CEDOC, si contattano i discendenti del soldato ancora residenti sul territorio e si riesce a ricostruire una storia, sconosciuta anche ai familiari stessi: Dino Menicacci, 22 anni, è tra le circa 4200 vittime del naufragio del Piroscafo Oria, affondato a largo di Capo Sounion (Atene) in una notte di febbraio del 1944.

Ma cosa accadde precisamente tra l’11 e il 12 febbraio 1944? E perché questo, che è probabilmente il più grande disastro navale (bellico) mai avvenuto nel Mediterraneo, risulta essere un capitolo di storia poco conosciuto?

fam andreozzi12 febbraio 1944. È notte a largo delle coste di Rodi, il vecchio piroscafo Oria, stipato con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania, arranca nel mare in tempesta. Il mercantile norvegese, varato nel 1920 e requisito dai tedeschi all’inizio della guerra, era salpato dal porto di Rodi verso le 17,40 dell’11 febbraio 1944 con destinazione il Pireo, Atene. Sul piroscafo, oltre a un carico di bidoni di olio minerale e di gomme da camion, sono imbarcati oltre 4000 soldati italiani che dopo l’8 settembre 43 si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò e per questo erano stati rinchiusi in vari campi di lavoro e definiti IMI, internati militari italiani. Non “prigionieri”, ma IMI: la Germania hitleriana non poteva considerare prigionieri i militari in uniforme appartenenti ad una nazione che, formalmente, era ancora sua alleata (Mussolini era a capo della Repubblica Sociale Italiana nel Nord Italia). In più, la definizione di “Internati” permetteva di aggirare la Convenzione di Ginevra e rendeva difficile, se non addirittura impossibile che la Croce Rossa si potesse interessare di quei detenuti, che si trovarono così abbandonati alla mercé della Germania nazista. Questi soldati (secondo le stime dello Stato Maggiore Italiano i militari presenti a Rodi l’8 settembre 1943 ammontavano a circa 37.500 unità), una volta disarmati, furono invitati ad arruolarsi nelle divisioni dell’RSI: questa scelta poteva significare non solo avere salva la vita, ma anche tornare in patria e lì riscrivere il proprio destino; da un’iniziale adesione alla RSI, molti poi disertarono e salirono in montagna con la Resistenza antifascista. Fatto sta che la stragrande maggioranza degli IMI scelse consapevolmente di non aderire alla RSI, sminuendo ulteriormente agli occhi dei nazisti lo stato fantoccio di Mussolini e dando un fermo segnale dal forte valore antifascista.

piroscafo_oriaIl prolungarsi della guerra e l’acuirsi delle difficoltà per la Germania nazista, resero la situazione nel Dodecaneso sempre meno gestibile per i reparti tedeschi: anche solo sfamare (poco e male) tutti gli IMI era diventata una spesa insostenibile e il rischio di rivolte aumentava di giorno in giorno. A tutto questo si aggiungeva la quotidiana e pressante richiesta da parte della madrepatria di forza lavoro coatta. È questo il contesto in cui si inserisce il naufragio dell’Oria: dal settembre 1943 una direttiva del Führer aveva annullato “tutte le norme di sicurezza relative alla limitazione numerica degli imbarcati” e ordinato di sfruttare “lo spazio al massimo, senza curarsi delle eventuali perdite”. La Kriegsmarine iniziò il trasporto degli italiani seguendo tale direttiva. Il 23 Settembre avvenne il primo disastro. I piroscafi “Donizetti” e “Dithmarschen” e la Torpediniera “TA 10” vennero affondate. Si ebbero 1.584 morti fra gli internati in massima parte dovute alle inosservanze delle norme di sicurezza. A questi disastri fecero seguito quello del piroscafo Leda con 720 morti; del piroscafo Marguerita con 544 morti; della nave da carico Sinfra con 1.850 morti; della motonave Rosselli con 1.300 morti; del motoveliero Alma con 300 morti; del piroscafo Petrella con 2.646 morti.

OriawrecksiteCome si evince da questo drammatico elenco, la vicenda dell’Oria non è l’unica tragedia che coinvolse trasporti navali di truppe italiane dirette in Germania; quello che è certo è che un incidente o un “errore di navigazione” come è stato definito quello dell’Oria, sia passato alla storia come un evento di serie B, rispetto a quelle navi che furono invece affondate o silurate, e che quindi subirono quello che il senso comune tende a definire “un vero e proprio atto di guerra”.

Questa, a grandi linee e ancora con molte lacune a distanza di 70 anni, è ciò che sappiamo in merito al naufragio dell’Oria.

Un importante passo avanti nella ricostruzione delle vicende è stato compiuto dalla rete spontanea dei familiari nata su internet (www.piroscafooria.it) e dalla mailing list che raccoglie tutti i parenti finora rintracciati e li tiene aggiornati su tutte le iniziative e i passi avanti nella ricerca che vengono fatti a livello nazionale; parallelamente anche la Regione Toscana, nell’aprile 2013,  ha appoggiato il progetto di ricerca storica che il Comune di Vaiano (PO) e la Fondazione CDSE stanno portando avanti da circa due anni. Il progetto consiste nella ricostruzione degli eventi legati al naufragio del Piroscafo Oria e nell’individuazione delle famiglie delle vittime che ancora oggi non conoscono le circostanze in cui i propri congiunti trovarono la morte nel mar Egeo nel febbraio 1944. Grazie al sostegno della Regione siamo riusciti a contattare tutti i 287 comuni toscani e ad oggi 128 di questi hanno condotto una ricerca nelle loro anagrafi, aiutandoci a rintracciare ben 30 nominativi e altrettante famiglie toscane riconducibili al naufragio dell’Oria. In occasione del 70 anniversario (9/2/2014) la municipalità greca di Saronikos (sul cui territorio costiero avvenne il naufragio) ha eretto e dedicato un monumento in memoria dei caduti dell’Oria.

Attualmente, con la collaborazione della rete informale dei parenti delle vittime, a livello nazionale il CDSE è riuscito a rintracciare le famiglie di 206 soldati italiani morti nel naufragio dell’Oria; per arrivare a 4200 la strada è ancora lunga, ma speriamo che l’impegno e i buoni risultati ottenuti dalla Regione Toscana siano da esempio anche per le altre regioni italiane.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.