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Memorie di bronzo, memorie di pietra.

Era il 16 settembre 1945 quando il popolo di San Lorenzo appose sulla fiancata dell’omonima chiesa una lapide per ricordare la fucilazione di sei civili da parte dei soldati tedeschi avvenuta il 12 settembre 1943. Era il primo dei “segni di memoria” posti a Pistoia per ricordare la guerra e la Resistenza.

Inizialmente il Comune, nonostante fosse governato da PCI e PSI, dimostrò una certa riluttanza a impegnarsi in questa politica, lasciando l’iniziativa ai singoli e alle associazioni. L’iniziativa della Giunta fu probabilmente bloccata dal conflitto tra la visione della Resistenza della DC, che dominava i centri finanziari locali e tendeva a presentare l’evento come una lotta per la libertà ormai conclusa, e quella del PCI, che vedeva la Resistenza come la tappa di un processo da portare avanti.

Vi fu così una divisione urbanistica tra il centro cittadino, dove il ricordo si concentrò sui civili e i partigiani morti per mano nazi-fascista, e le chiese di periferia, dove furono poste le lapidi dedicate ai soldati.

La risistemazione nel 1959 del quadrato dei caduti nel cimitero da parte del comune segnò la fine di questa prima fase conflittuale: per la prima volta la proposta fu accettata all’unanimità dal consiglio. In secondo luogo, dal 1959 al 1984 non fu inaugurato nessun monumento di grande portata. Questo atteggiamento non si traduceva nell’accantonamento della Resistenza, anzi. In quegli anni, anche a Pistoia le cerimonie per il 25 aprile vedevano la partecipazione di tutti i partiti ciellenisti e avvaloravano il concetto di Resistenza come “secondo Risorgimento”.

Vi erano dunque altre cause. Negli anni ’60 la maggior parte di chi voleva ricordare i propri cari lo aveva già fatto, mentre l’esperienza del centro-sinistra stemperò le tensioni politiche e la contesa sulla Resistenza.

Una nuova fase fu aperta dal Sacrario per i caduti di tutte le guerre, inaugurato al cimitero di Pistoia per commemorare tutti caduti nel 1984. Era l’unico progetto a volgere in quella direzione: le altre opere (come la scultura di Flavio Bartolozzi in Piazza San Lorenzo), inserite nel tessuto cittadino e dalla visibilità pronunciata, insistevano sulla partecipazione della popolazione alla Resistenza. La sensazione è che si cercasse di ribadire una politica memoriale posta in discussione dalla fine del «compromesso storico». Il tracollo della Prima Repubblica, con la scomparsa o la trasformazione dei partiti ciellenisti, procurò ulteriori sconquassi.

A causa dell’instabilità dell’amministrazione locale tra il 1985 e il 1992, una nuova politica della memoria fu elaborata solo verso la fine degli anni ’90. Protagonisti delle commemorazioni  furono i civili: lo scopo non era più condannare la repressione nazi-fascista, ma deplorare la guerra in quanto tale.

Anche la materialità del ricordo venne meno. Le grandi lapidi in marmo hanno lasciato spazio a piccoli riquadri in pietra e a cippi orizzontali. Quasi invisibili all’occhio distratto del cittadino, i nuovi segni testimoniano il desiderio di accostarsi alla quotidianità e all’umiltà delle vittime; ma, non marcando il paesaggio, corrono il rischio di consegnare all’oblio i nomi di chi si voleva ricondurre alla luce.

Chiara Martinelli è dottoranda presso l’Università degli studi di Firenze ed è membro dal 2007 della redazione della rivista «QF. Quaderni di Farestoria». Tra le principali pubblicazioni, si segnalano: Esigenze locali, suggestioni europee. L’istruzione professionale italiana (1861-1886), «Passato e presente», n. 93, 2014, Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, «Società e storia», n.137, 2012, Una città industriosa e la sua scuola: fondazione e primi anni di vita della Regia Scuola Industriale Antonio Pacinotti (1907 – 1924), Pistoia, I. S. R. Pt., 2010.




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.




Parlare di Norma, settant’anni dopo

Può stupire che siano occorsi settant’anni prima del tentativo di ricostruire compiutamente un episodio eclatante, come l’ uccisione di una donna medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, il 23 giugno 1944 a Massa Marittima, alla vigilia della Liberazione. Ma non più di tanto, in ragione di un contesto complicato da capire e narrare, e di una lotta resistenziale tra le più aspre del territorio.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

Era una giovane donna di ventitre anni Norma Parenti, nata a Monterotondo Marittimo, presso Massa Marittima. Fu “prelevata” dalla trattoria di famiglia insieme alla madre, trascinata via, lei sola trattenuta e barbaramente uccisa. L’arresto fu opera di soldati tedeschi, le sevizie e l’uccisione videro con certezza la partecipazione di fascisti. Le ragioni dell’arresto e della condanna a morte: l’aiuto offerto alle bande partigiane, l’audacia, percepita come sfrontata provocazione dalle autorità della Repubblica Sociale.

Ma non è stata scritta una biografia di Norma, né quando si cominciarono a scrivere storie di Resistenza, meno che mai quando le ondate revisioniste tesero a ribaltare stereotipi, sminuirla o reinterpretarla. Il primo e a lungo unico testo pubblico in memoria di Norma è un opuscolo dell’UDI, in cui è “giovane sposa e madre”, “avviata al suo doloroso calvario”. La richiesta della medaglia d’oro al valor militare indirizzata al Ministro della guerra il 12 gennaio 1945 dalla “Commissione dell’UDI per la Guerra” e le carte allegate danno conto di un impegno forte dell’UDI, del Partito Comunista massetano e del Comune fino a quella data. C’è tra i documenti una scarna relazione del comandante della banda Camicia rossa, Mario Chirici; null’altro finora è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione Nazionale.

Di Norma in un intenso, breve richiamo parla Wanda Parracciani, staffetta sull’Amiata, fra le fondatrici dell’UDI, alla Conferenza organizzativa del PCI a Grosseto nell’agosto del 1944. Quella di Wanda è una relazione tutta politica sul ruolo delle donne nella ricostruzione; della loro Resistenza parla per legittimarne il ruolo in tempo di pace, perché, sostiene, “la donna non intende fermarsi a quello che ha fatto in circostanze eccezionali”. Norma è definita martire, eroina e “compagna”. In realtà è il marito a comparire nei documenti “rappresentante del P.C.I. nella Commissione epurazione” di Massa Marittima.

Frammenti della vicenda e qualche tratto della personalità si leggono negli anni Settanta, nel volume Donne e Resistenza in Toscana e nello studio di Marcella Vignali Clero e Resistenza nella Provincia di Grosseto. Si devono attendere i Duemila per trovare nella letteratura locale dati, testimonianze, ma non un organico studio. È così che si arriva a un risveglio di interesse nei dintorni di un appuntamento imposto dal calendario civile: il settantesimo. Il 2014 è l’anno della pubblicazione di un volume di testimonianze inedite, della produzione di un documentario, di due spettacoli teatrali. Si racconta del fortunoso ritrovamento di una scatola di fotografie di Norma, ora in mostra nel Palazzo del Comune, fonti per gli scritti e le rappresentazioni.

Un progetto in attesa di essere realizzato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea e dal Comune di Massa Marittima – Norma e le altre – pone domande su questa e altre figure femminili, per scavare nel tessuto della cultura civile e politica locale. Qui la tradizione mazziniana si era radicata nell’Ottocento con esiti importanti: un forte partito repubblicano, la nascita precoce del movimento sindacale, una presenza che attraversa un secolo di quella particolarissima cultura operaia, patrimonio dei lavoratori delle miniere. Ma Massa Marittima è anche luogo di lacerazioni forti: allo scontro consumatosi tra fascismo e antifascismo si sommerà già durante la Resistenza e nel dopoguerra il conflitto tra le due anime dell’antifascismo, la repubblicana e la comunista. Le donne danno prova di una maturità politica che le inserisce nella vita dei partiti e nelle istituzioni: consigliere, assessori nel tempo della ricostruzione. Ma anche testimoni dolenti e vittime di lutti – enorme quello della strage di Niccioleta, seguito da un processo che squassò le famiglie del villaggio minerario, ma con echi profondi nella stessa vicinissima Massa Marittima. Furono condannati non gli esecutori del massacro degli 83 minatori e i responsabili tedeschi della strategia del terrore, ma i fascisti, accusati di aver sollecitato e indirizzato i carnefici. Testimonianze raccolte in tempi diversi restituiscono una narrazione toccante, che disegna il clima di quello che doveva essere il tempo del superamento delle devastazioni della guerra totale, mentre più che altrove ne conservava profonde ferite.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

È stata scritta la storia della strage della Niccioleta e tuttora si continua a scavare. Della Resistenza, con una certa continuità si è parlato, anche polemicamente, e si è scritto. Su Norma il tempo dei silenzi è stato più lungo delle fasi di memoria. La distanza ha accresciuto la difficoltà di raggiungere un’interpretazione. Rigida e ferma nel suo essersi schierata a fianco delle bande partigiane e contro i fascisti e i loro alleati occupanti, quanto indefinibile rispetto alle categorie delle appartenenze politiche. Cattolica fervente, moglie di un comunista, sempre presente dove c’era da aiutare, nutrire, nascondere, convincere gli indecisi a raggiungere le bande alla macchia, seppellire morti partigiani. Scrisse Marcella Vignali che Norma era attiva nel Circolo Giovanna d’Arco dell’Azione Cattolica, distribuiva volantini con la falce e il martello e dopo la Liberazione “una delle più belle e attendibili testimonianze sulla personalità di Norma” fu offerta al Teatro Mazzini dal Vescovo di Massa Marittima.

La memoria recente di una massetana, bambina all’epoca, trasmette il pensiero della madre: “era un po’ impulsiva, la sua era una scelta dettata da una vitalità estrema, non una scelta politica”. Il suo racconto dei giorni dell’uccisione, del ritrovamento del cadavere e del funerale, raccolti dalla madre e dalle altre tocca i contorni umani: la disobbedienza di Norma al divieto di dare sepoltura al corpo del partigiano Guido Radi evoca l’archetipo femminile della legge del cuore – il sacrificio di Antigone. Tuttavia quella pietas è al confine tra pubblico e privato: la trasgressione all’ordine imposto dal potere nazifascista invia un messaggio che è anche politico a chi assiste al suo gesto.

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Norma Parenti con un bambino, probabilmente il figlio Alberto, s.d.

Così, dall’incerta definizione delle ragioni dell’agire di Norma emerge uno dei nodi più difficili da sciogliere per la Resistenza, sempre, a maggior ragione per la Resistenza femminile: la scelta. Gli scatti che la ritraggono descrivono una ragazza vivace, forse trasgressiva, certo molto bella. La retorica della “sposa e madre” e di una “eroina del secondo Risorgimento” – il linguaggio delle prime celebrazioni – si confonde con un’immagine di modernità che vediamo oggi, ma in tutta evidenza era presente anche allora. Forse è stato così che, passato il momento della compassione e dell’esaltazione del sacrificio necessario per la rinascita politica del paese, non è stato facile per nessuna delle parti assumersi, dandole una appartenenza, la memoria di Norma. C’è poi l’atrocità di quell’uccisione, delle sevizie che il corpo rivelò. La domanda sulla scelta di Norma è insieme domanda sulla scelta di lei come vittima, capro espiatorio, il più adatto a imporre uno sfregio tanto profondo da essere insopportabile a una città che aveva espresso un’opposizione tenacissima al nazifascismo: una ragione in più per spiegare la difficoltà a cimentarsi con una ricostruzione storica puntuale.

Finora, è l’intuito dell’artista – la regista e attrice Irene Paoletti – quello che forse ha saputo meglio restituire il clima cupo di terrore che fu preludio dell’orribile morte di Norma e la rabbiosa e meditata offesa con cui, ormai alla vigilia della rotta, il fascismo volle imprimere un marchio duraturo sulla città. È un caso, non unico, in cui l’arte aiuta la storia.




“Qualche grinza dalla pancia si cominciò a levarla!”

All’indomani dell’8 settembre 1943, con l’inizio dell’occupazione tedesca e la nascita della RSI, la popolazione civile versiliese, già stremata da più di tre anni di lutti e sacrifici, comprese che l’unica speranza per una rapida fine del conflitto in corso, oltre all’attività partigiana, era costituita dagli Alleati: in loro si confidava, ascoltando in gran segreto i bollettini di Radio Londra, in attesa di conoscere i progressi più recenti della difficile risalita della penisola.

Durante il rigido inverno fra 1943 e 1944, l’avanzata angloamericana rimase bloccata lungo la Linea Gustav, mentre in Versilia la repressione nazista si faceva sempre più spietata, e la situazione alimentare ogni giorno più difficile: le razioni assicurate dalle tessere annonarie si assottigliavano, mentre dalla dieta scomparivano carne, sale, zucchero, farina di grano e pane bianco. Le autorità fasciste repubblicane si dimostravano incapaci di gestire le necessità quotidiane della popolazione civile, mentre con bandi e minacce provvedevano a sequestrare capi di bestiame e mezzi di trasporto, pretendendo inoltre la consegna di esose derrate per “necessità militari”. Il tracollo completo della situazione si ebbe con le ordinanze di sfollamento dell’estate del ’44, mentre le truppe angloamericane si facevano attendere, impiegando più di un mese per attraversare l’Arno.

Ma che cosa si aspettava dagli Alleati la popolazione versiliese? Come già detto, la preoccupazione fondamentale era quella del cibo: semplicemente, non si aveva di che mangiare, mentre i gruppi di sfollati crescevano, assottigliando sempre più le già scarse risorse delle Apuane. In secondo luogo, si aveva bisogno di medicine: molti, infatti, erano i versiliesi ammalati o indeboliti, sfiancati da anni di angosce e malnutrizione, negli ultimi mesi, per di più, costretti in condizioni di igiene e promiscuità intollerabili. In terzo luogo, tutti si aspettavano il ripristino di condizioni di vita più dignitose: la fine, insomma, del terrore di veder portati via i propri cari, a lavorare sui cantieri della Gotica, deportati in Germania, o, peggio ancora, giustiziati in feroci operazioni di rappresaglia. Si sognava, in altre parole, un ritorno alla normalità. Per farsi un’idea più chiara di quali potessero essere le aspirazioni di un ragazzo versiliese di quel tempo, si legga fra i “Materiali correlati” la vivida testimonianza del fortemarmino Fabio Giannelli, classe 1927.

Seravezza 5 Aprile '45,  mezzi corazati americani sparano ve

Seravezza 5 Aprile ’45, gli alleati preparano l’offensiva finale (fonte F. Bertozzi, cit., p. 192)

Nonostante le preghiere, i versiliesi dovettero attendere a lungo l’arrivo degli Alleati. Accolte con entusiasmo e trepidazione, le prime pattuglie in divisa verde oliva entrarono in Versilia il 19 settembre del 1944, quando i primi soldati americani misero piede a Pietrasanta e Forte dei Marmi: nel corso delle settimane successive, i reparti iniziarono la loro prudente opera di penetrazione dell’entroterra, sotto il tiro costante delle artiglierie tedesche arroccate sulle alture. In effetti, per i nuovi arrivati, prendere il controllo della zona si rivelò più difficile del previsto, e l’avanzata verso nord rimase a lungo impantanata ai piedi delle montagne, bloccata dalle temibili difese naziste.

In fatto di bisogni concreti, tuttavia, le truppe americane seppero pienamente soddisfare le aspettative della gente, che fantasticava da mesi sulla straordinaria abbondanza della macchina bellica statunitense: dove arrivarono, i soldati della “Buffalo” instaurarono fin da subito un legame schietto e cordiale con la popolazione del posto, non lesinando aiuti materiali ed assistenza medica.

Anzitutto, gli Alleati portarono del cibo, molto cibo, solitamente distribuito con generosità presso le cucine dei numerosi accampamenti del territorio: finalmente, dopo mesi di fame e sofferenze, i civili poterono tornare ad assaggiare il sale, lo zucchero, il caffè, il gustoso pane bianco – così diverso dall’insipido “pane nero” dei tedeschi -, e permettersi anche il lusso di assaporare vivande un tempo irraggiungibili, come la cioccolata e le noccioline americane.

Con grande meraviglia, i versiliesi scoprirono lo scatolame, fino ad allora mondo perfettamente sconosciuto: all’interno di lattine multicolori dalle forme più svariate, poterono trovare piselli, fagioli, carne di manzo in gelatina, tonno, sardine, e addirittura prodigiose “zuppe istantanee”. Sensazionale fu poi la rivelazione dei chewing gum e della “Coca-Cola”, novità assolute, che, in pochi mesi di “frequentazione”, seppero inserirsi nelle abitudini alimentari di tutti gli italiani.

Dal canto loro, le truppe alleate manifestarono di gradire vino, cognac e grappe alla frutta fatte in casa: in alcuni casi, li gradirono anche troppo, lasciandosi andare a risse, urlerie, a volte molestie ai danni di qualche ragazza della zona. In cambio di corvée, piccoli servizi di fatica, come il rifornimento di acqua potabile ai comandi o il trasporto di materiali e munizioni, i militari americani dispensavano volentieri birra e sigarette a chi avesse dato loro una mano: fu proprio così che molti versiliesi cominciarono a fumare, giovani compresi. Per i più piccoli, poi, i camion erano sempre ben forniti di biscotti e caramelle. Per approfondire, sono consultabili fra i “Materiali correlati” i ricordi del fortemarmino Mario Pellegrini, che, a quel tempo quindicenne, si ritrovò a trascorrere un lungo periodo a stretto contatto con le truppe afroamericane, vivendo anche momenti di gioia e spensieratezza, ricostruiti con parole semplici ed efficaci.

Enormi progressi si registrarono anche da un punto di vista sanitario: nelle retrovie del fronte, i nuovi arrivati allestirono subito diversi ospedali da campo, dove medici ed infermieri di grande umanità assistettero civili feriti e ragazzi denutriti, distribuendo cure, farmaci e sapone, altrimenti introvabili: merito capitale, gli Alleati portarono la penicillina, miracoloso antibiotico che permise di salvare la vita di moltissimi sfollati versiliesi, debilitati da mesi di pessima igiene e malnutrizione.

Nel successivo inverno di battaglia lungo la Linea Gotica, le truppe angloamericane seppero dunque normalizzare i rapporti interpersonali, restituendo alla gente di Versilia quella rassicurante dimensione di quotidianità, che da troppo tempo aveva perduto: scomparso il timore della violenza arbitraria, recuperata la pienezza e la dignità del corpo, i versiliesi seppero affrontare con rinnovato slancio i residui mesi del conflitto, in attesa di poter far ritorno alle proprie case, e di rimettere assieme i pezzi della propria esistenza.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 




28 novembre 1944: si scioglie la Divisione Garibaldi Lunense

A tre mesi dalla sua formazione, la Divisione Partigiana Garibaldi Lunense, attiva nel territorio garfagnino e lunigiano ancora sotto occupazione nazifascista, si trova, alla metà di novembre del 1944, di fronte a un bivio: rispettare il proclama Alexander – che chiede la cessazione di operazioni militari su vasta scala – e proseguire in attività di sabotaggio contro le strade e i ponti della Garfagnana, oppure portare fino in fondo un’azione per la quale i preparativi sono in corso già da un mese. Il piano è così descritto dal comandante della 1° Brigata Garfagnina, Abdenago Coli:

trasferire il Comando di Divisione da Monte Tondo a Foce di Careggine, costituire nelle immediate retrovie nemiche una zona partigiana comprendente il territorio del Comune di Careggine e parte del territorio di Castelnuovo Garfagnana, fare affluire nella zona da altri reparti della Divisione gli uomini necessari all’attuazione del piano (i 360 uomini della I Brigata erano pochi per la bisogna), richiedere al Comando Alleato un aviolancio di giorno garantendo la sicurezza della zona, aviolancio che avrebbe dovuto rifornirci di armi, munizioni e vivere in scatola; non appena ottenuto il lancio, tentare lo sfondamento del fronte tedesco con conseguente liberazione della Garfagnana”.

E’ un’idea non soltanto ambiziosa, ma probabilmente pure oltre la capacità militare della Garibaldi Lunense. Per organizzarla, il comandante di Divisione Anthony John Oldham, un ex maggiore dell’esercito inglese fuggito da un campo di prigionia dopo l’armistizio, e il commissario di guerra Roberto Battaglia, già da metà ottobre si sono trasferiti da Monte Tondo a Foce di Careggine. Affinché il tutto possa funzionare, è indispensabile che i partigiani da nord e le truppe alleate da sud agiscano in modo coordinato.

I rischi militari sono evidenti, ma i comandanti della Garibaldi Lunense da un lato sono anche desiderosi di mostrare agli angloamericani il loro potenziale offensivo e, dall’altro lato, attraversano un momento di oggettiva difficoltà: agendo in zona occupata da truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italiana, gli approvvigionamenti alimentari sono problematici, i rifornimenti di armi e munizioni sono molto scarsi e, con l’arrivo dell’autunno, anche le condizioni sanitarie peggiorano giorno dopo giorno. Un’offensiva sul fronte, per quanto difficile, è la carta che viene deciso di giocare.

L’azione prevede che il grosso dei partigiani attivi in Lunigiana si sposti in Garfagnana e, dopo un aviolancio alleato con i rifornimenti necessari, parta un attacco in due punti del fronte, sulle Apuane, nei pressi della Pania Secca, tra Molazzana e Vergemoli: il passo delle Rocchette, a quota 999, e Monte d’Anima, a quota 832. L’aviolancio avviene il pomeriggio del 22 novembre.

Tra il 22 e il 23 novembre, un gruppo di una cinquantina di uomini del 3° Battaglione (soprannominato “Casino” per la quantità e l’efficacia delle azioni) guidati da Giovanni Battista Bertagni coglie di sorpresa un gruppo di bersaglieri aggregati alla divisione San Marco, a quota 999 e li cattura: il varco sulla linea Gotica è aperto e i prigionieri vengono dallo stesso Bertagni consegnati agli americani a Vergemoli; questi però non approfittano della situazione. Così i partigiani devono ripiegare. Ma l’azione li ha convinti che l’impresa è possibile. E così, nella notte tra il 26 e il 27 novembre scatta l’operazione che dovrebbe essere decisiva: Bertagni deve riconquistare la quota 999, un’altra colonna diretta da Oldham ha l’obiettivo del Monte d’Anima, mentre da sud devono arrivare gli alleati.

Va quasi tutto storto.Soltanto Bertagni porta a termine la missione, riconquistando la quota assegnatagli. Gli altri falliscono e gli americani non si muovono come dovrebbero.

Il giorno 28 è chiaro a tutti che il piano non ha avuto buon esito e la sera viene deciso ufficialmente lo scioglimento della Divisione Garibaldi Lunense, per l’impossibilità materiale di continuare a operare nelle condizioni in cui si è trovata nelle ultime settimane: centinaia di partigiani giunti a rinforzo dalla Lunigiana tornano, sbandati, da dove sono venuti; Bertagni si congiunge agli americani e ai Patrioti Italiani dell’XI Zona di Manrico Ducceschi “Pippo” da dove proseguirà la sua lotta partigiana; Oldham, Battaglia, Coli e molti altri attraversano il fronte con l’idea di ricostituire un reparto da sud, ma gli alleati li portano prima a Viareggio e poi a Firenze e per loro la guerra di Liberazione di fatto finisce lì; altri partigiani ricostituiranno due piccole formazioni collegate l’una ai Patrioti Apuani di Pietro Del Giudice e l’altra alle Brigate Garibaldi operanti a Reggio Emilia, compiendo nei mesi successivi azioni di sabotaggio tra i Comuni di Castelnuovo di Garfagnana, Pieve Fosciana, San Romano, Piazza al Serchio e Sillano.

La Garfagnana verrà liberata solamente il 20 aprile 1945.

Feliciano Bechelli si è laureato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca. Giornalista pubblicista, è direttore responsabile della rivista dell’Istituto “Documenti e studi”.




Firenze in Guerra, 1940-1944

Il 23 ottobre, alle ore 17.00, si aprirà a Palazzo Medici Riccardi la mostra storica Firenze in guerra, 1940-1944; l’evento è promosso dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana col sostegno della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze. Documenti, immagini, voci, filmati, nonché fotografie provenienti dall’Archivio Foto Locchi animeranno un ampio percorso espositivo ideato dagli architetti Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti. Intrecciando storie individuali e esperienze collettive, la narrazione attraverserà i primi anni di guerra fino agli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, quando la città e la provincia furono violentemente investite dal conflitto.

Uno spazio di condivisione interattiva sarà garantito dal progetto Memory Sharing, che ha l’obiettivo di raccogliere e valorizzare documenti, fotografie, storie di vita relative agli anni del conflitto. Tutti possono contribuire al progetto, rivolgendosi alla postazione allestita all’interno della mostra oppure partecipando online, attraverso il sito www.firenzeinguerra.com (in costruzione).

Al Rondò di Bacco, nel complesso monumentale di Palazzo Pitti, un film sonoro e la serie completa delle fotografie scattate dall’architetto Nello Baroni permetteranno di immergersi nell’esperienza dei “giorni dell’emergenza”, quando migliaia di fiorentini furono costretti a lasciare le case del centro storico per rifugiarsi nelle sale di Palazzo Pitti.

La mostra, curata da Valeria Galimi e Francesca Cavarocchi – con la supervisione scientifica di Enzo Collotti – si snoderà attraverso tre scenari: la città della guerra (1940-1943), la città dell’occupazione (1943-1944) e la città della Liberazione.

Fin dagli anni ’20 il regime assegna al capoluogo toscano un ruolo chiave nel progetto di fascistizzazione della cultura: importante polo accademico e editoriale, Firenze ospita una serie di riviste e istituzioni di rilievo nazionale, dal “Selvaggio” al “Bargello”, fino al Maggio musicale. Nella seconda metà degli anni ’30 la città diviene una delle sedi privilegiate nella produzione e diffusione della pubblicistica antisemita.

I primi tre anni di guerra hanno un impatto crescente sulla vita quotidiana dei fiorentini. Mentre migliaia di cittadini partono per i vari fronti, l’intera popolazione è chiamata a mobilitarsi per sostenere lo sforzo bellico, ad esempio attraverso le periodiche raccolte di ferro, metalli e vettovaglie destinate ai soldati. Il razionamento dei beni alimentari si fa sempre più severo, affiancato dalla rapida crescita del mercato nero. Gli stessi spazi pubblici si trasformano progressivamente, in seguito alle misure di protezione antiaerea sui monumenti o alla creazione degli ‘orti di guerra’ nei giardini e nelle piazze.

La seconda visita di Hitler alla città, il 28 ottobre 1940, si tiene in un’atmosfera cupa e spettrale, molto diversa dai festeggiamenti inscenati nel 1938, quando era stato celebrato il rafforzamento del patto fra i due regimi. Nei primi anni di guerra Firenze diventa una delle ambientazioni privilegiate degli incontri volti a rinsaldare l’alleanza con Berlino e gli altri paesi dell’Asse; frequenti sono gli eventi culturali e le manifestazioni giovanili interalleate, con l’obiettivo di sottolineare il contributo della civiltà italiana al Nuovo ordine europeo perseguito dal Reich tedesco.

Dall’8 settembre 1943 gli occupanti e la Repubblica Sociale Italiana (RSI) tentano di attuare uno stretto controllo del territorio, mentre iniziano i bombardamenti e le condizioni di vita della popolazione si fanno sempre più difficili. L’area metropolitana di Firenze spicca nel quadro regionale sia per la complessità del suo tessuto economico e sociale sia per la concentrazione di strutture tedesche e repubblichine; una circostanza che contribuisce a spiegare l’intensità della persecuzione antiebraica, nonché più in generale l’efficacia degli apparati repressivi (ad esempio in seguito agli scioperi del marzo 1944). In città e nei dintorni si va nel frattempo riorganizzando un esteso tessuto antifascista, che trova la sua specificità nell’ampia articolazione delle posizioni culturali e politiche e nel coinvolgimento di settori sociali differenziati; il capoluogo, sede del Comitato toscano di liberazione nazionale, si distingue per la pluralità e la ricchezza delle reti resistenziali, che affiancano all’iniziativa più propriamente militare (specie nell’arco collinare e appenninico) un ampio spettro di attività, dalla raccolta di informazioni fino al soccorso ad ebrei, renitenti, ex prigionieri alleati.

Gli angloamericani raggiungono la Toscana a metà giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma. A partire dalla metà di luglio la provincia di Firenze è teatro di intensi e lunghi combattimenti, prima sulle colline a Sud del capoluogo e poi in città: attuando la chiamata all’insurrezione da parte del CTLN, i partigiani sono protagonisti della battaglia per la liberazione del capoluogo, anticipando di alcune ore l’entrata degli Alleati e sostenendo per circa un mese lo scontro coi tedeschi e i “franchi tiratori”. Fallite definitivamente le trattative per la “città aperta”, il 30 luglio le forze tedesche impongono l’evacuazione del settore circostante i Lungarni, a cui fa seguito fra il 3 e il 4 agosto la distruzione dei ponti e di un’ampia area attorno al Ponte Vecchio. Nel mese di agosto la linea del fronte si assesta per lunghi tratti attorno alla linea dell’Arno, mentre le propaggini settentrionali della provincia saranno liberate solo nella seconda metà di settembre, quando le forze alleate raggiungeranno la linea Gotica. In provincia la ritirata dell’esercito tedesco ha come effetto notevoli distruzioni di fabbricati e vie di comunicazione ed è accompagnata da diffuse violenze e spoliazioni.

Il periodo dell’emergenza e del passaggio del fronte è certo quello che maggiormente si staglia nella memoria dei fiorentini. Per comprendere a pieno l’impatto sulla vita quotidiana delle popolazioni e le trasformazioni sociali e culturali innescate dal conflitto è necessario tuttavia allargare lo sguardo agli anni precedenti, perché è nei primi anni di guerra che si accumulano processi e trasformazioni destinati ad esplodere nell’estate del ’44 e nei mesi successivi alla liberazione, quando si inizierà un lento ma decisivo processo di ricostruzione e democratizzazione della vita pubblica.

Informazioni sulla mostra:

Palazzo Medici-Riccardi 24 ottobre 2014 – 6 gennaio 2015

10:00 – 18:00 (chiuso il mercoledì)

Rondò di Bacco 24 ottobre 2014 – 4 gennaio 2015

 Venerdì 15:00 – 17:30 / sabato e domenica: 11:00 – 17:30

 Ingresso libero

 Per Informazioni, prenotazioni e visite guidate tel. 055.284296 dal lunedì al venerdì 10:00 – 15:00

 




Un altro 8 settembre. La liberazione di Pistoia

Alla fine dell’estate del 1944 Pistoia portava ben visibili i segni, materiali ed immateriali, della guerra. Colpita da stragi ed eccidi di civili – dalla strage di piazza San Lorenzo del 12 settembre 1943 fino agli impiccati a Montale il 4 settembre 1944 – bombardata più volte dall’ottobre ’43, svuotata dagli sfollamenti in campagna, la città ed il suo territorio furono investiti da un passaggio del fronte prolungato, dovuto alle attività di rallentamento messe in atto dei tedeschi, che stavano ancora ultimando la costruzione delle fortificazioni difensive sulla Linea Gotica, ed al maltempo.

Le truppe Alleate, un esercito multietnico composto da americani, inglesi, sudafricani, indiani, brasiliani ecc…, si erano attestate nella zona dell’empolese alla fine di agosto, riuscendo a passare l’Arno ai primi di settembre, ma sempre in maniera precaria, dovendo affrontare le asperità delle piogge che mandarono in piena il fiume distruggendo i ponti di barche del genio militare. Il Comando di Kesselring era ancora a Monsummano Terme, prima di essere trasferito alla Villa di Celle e di lì poi sugli appennini a Maresca. I tedeschi ostacolavano gli alleati contendendo loro ogni frazione con azioni di pattuglie che prendevano contatto per poi sganciarsi rapidamente. Al tempo stesso portavano avanti azioni di guerra ai civili, culminate nel padule di Fucecchio il 23 agosto, con 174 morti.

Sul territorio vennero a incrociarsi tre diverse strategie. La lenta ritirata tedesca sulle montagne, l’azione delle pattuglie alleate di avanguardia e l’attività delle formazioni partigiane. Già dal 12 giugno era stato infatti costituito un Comando di piazza unico per tutte le formazioni dipendenti dal Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN), per un totale, tra brigate e formazioni, di 23 unità garibaldine e 24 classificate come di Giustizia e Libertà, oltre a 14 gruppi socialisti e comunisti nella zona di Pescia. Esisteva inoltre la formazione di Ducceschi “Pippo”, che operava con una certa autonomia.
liberazione pistoia via abbi pazienzaLe formazioni furono in gran parte dislocate intorno al capoluogo per procedere poi all’ingresso in città. Secondo il Comando: «Il giorno 7 settembre, quando ancora le truppe tedesche si trovavano nei sobborghi di Pistoia, fu decisa dal comando di piazza l’occupazione della città. Parteciparono all’operazione tutte le formazioni non impegnate per la loro dislocazione in altri settori. L’operazione, che costò perdite notevoli, riuscì brillantemente e la città fu tenuta per quattro giorni con continue azioni di fuoco contro distaccamenti e pattuglie tedesche, sotto intenso bombardamento, fino all’arrivo delle truppe alleate. La maggior parte delle formazioni continuarono quindi le azioni contro il nemico fino allo scioglimento del comando (20 settembre 1944)».
Il CPLN ebbe come strategia politica quella di portare avanti autonomamente la liberazione del capoluogo e, dove possibile, dei paesi e delle frazioni, per dimostrare non solo la propria capacità militare ma anche quella politica e amministrativa. Come scrisse lo stesso Comitato: «il CLN dispose il concentramento delle formazioni operanti in città per l’occupazione di tutti i punti strategici ed edifici pubblici, assumendo la direzione della cosa pubblica per evitare ogni pericolosa vacanza di poteri. Il giorno 8 settembre l’occupazione del capoluogo era ultimata e il servizio di ordine pubblico disimpegnato in modo egregio dai patrioti, mentre nelle località periferiche continuava la lotta fra pattuglie partigiane in esplorazione avanzata e retroguardie tedesche».

brigata bozziIl passaggio del fronte interessò la provincia per tutto il mese, con sequenze di eventi quasi quotidiane. Il 2 settembre una prima pattuglia Alleata raggiungeva Monsummano, ritirandosi subito, mentre altre Ponte Buggianese e poi Chiesina Uzzanese, quest’ultima insieme ai partigiani. Il 3 settembre era la volta di Larciano. Il 3 e 4 settembre Borgo a Buggiano veniva prima liberata, poi rioccupata, infine liberata di nuovo dai partigiani e dalla truppe Alleate (secondo alcune fonti è il 7). Tra il 4 e il 7 settembre gli Alleati si attestavano sul Montalbano, mentre i partigiani presidiavano la zona di Quarrata. Il 5 settembre una pattuglia toccava Cantagrillo. Il 6 settembre fu constatato che il ponte sull’Ombrone a Bonelle era stato distrutto. Pieve a Nievole e Montecatini vennero raggiunte tra il 7 e l’8 settembre, ma Montecatini Terme era già stata liberata dai partigiani il 6 e Serravalle il 7. L’8 settembre veniva presa Ramini ed i partigiani sostenevano uno scontro a fuoco con i tedeschi a Marliana.
Il 12 i reparti sudafricani arrivarono a Pistoia, che era ancora sotto il fuoco delle artiglierie tedesche stanziate sugli appennini. Il fronte avanzato della Linea Gotica – Castello di Cireglio, il passo della Collina e Femminamorta – era in grado di tenere sotto tiro la piana. I tedeschi nell’approntarlo non si risparmiarono la distruzione di paesi e tratti di bosco, per avere visuale o per bloccare le strade. Questa sorte toccò a Cireglio (14 luglio) e a Croce a Uzzo. Il viadotto di Piteccio, paese già distrutto dai bombardamenti Alleati, fu fatto saltare dai tedeschi il 24 luglio. Nei pressi del ponte alla Svolte, sopra la valle della Brana, fu sistemato un cannone montato su materiale ferroviario che veniva riparato all’interno di una galleria della ferrovia e in grado di colpire la città.

alleati in piazza del duomo pistoiaIntorno al 10 di settembre la Liberazione delle zone di pianura era cosa fatta, si cominciava a risalire gli appennini. Cominciava l’esperienza di retrovia del fronte che si prolungò fino all’aprile ’45. Frattanto, l’11 settembre si toccava Marliana e si cominciava la scalata dell’appennino anche da Candeglia, scontrandosi con i tedeschi a Valdibure. Un primo tentativo di gettare un ponte sull’Ombrone a nord di Pistoia falliva. Scontri avvenivano all’inizio dell’appennino appena sopra Pistoia, intorno a Villa Philipson e alla torre di Catilina. Il 13 settembre i britannici riuscivano ad arrivare a Piazza e il 14 a Tobbiana. Ancora al 18 settembre i tedeschi erano in grado di colpire con i cannoni i ponti sull’Ombrone, come avvenne a Calcaiola. Serra fu presa il 22 e Femminamorta il 24. Il 26 era la volta del passo della Collina, Pracchia e San Marcello, mentre Maresca e Campotizzoro, sede della SMI, erano state liberate dai partigiani il 22. Il 1° ottobre gli americani arrivavano a Cutigliano e Piteglio. La zone più alte dell’Abetone e Pianosinatico rimasero invece in mano ai tedeschi. Il fronte si fermava.

I CLN si occuparono di gestire la transizione. A Pistoia l’AMG si insediò solo il 24 settembre,. Nella relazione del Comitato troviamo: «in questo lasso di tempo il CLN, che aveva funzioni di Governo, provvide alla riorganizzazione delle amministrazioni locali, attuandola nel rispetto del fondamentale canone democratico: la separazione dei poteri. La magistratura entrò immediatamente in funzione con la più completa indipendenza. La Giunta Comunale agì nella sua sfera con la massima autonomia, per quanto fosse espressione del CLN, e così la Deputazione provinciale. Tutti gli Enti Pubblici, dalla Questura alle Guardie di Finanza e i Carabinieri, dall’Intendenza di Finanza e il Consorzio Agrario e alla SEPRAL, dalla Camera di Commercio all’Ospedale, alla Camera del Lavoro, al Provveditorato agli studi, ripresero la loro normale attività». Le attività dei CLN continuarono nei mesi successivi, non solo a Pistoia ma anche in molti comuni, avviando la fase di transizione alla democrazia.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




La liberazione di Pisa, 2 settembre 1944

«S’accompagnarono l’ameriani noi fino a Ripafratta, poi a Ripafratta si girò e si andò diretti a Pisa, a Pisa si andò a Piazza del Duomo e ameriani non c’era nessuno, i primi […] s’arrivò prima noi e poi arrivarono l’ameriani. […] A Pisa non erano ancora entrati». Questa è la testimonianza di Duilio Cordoni, allora diciassettenne partigiano della formazione “Nevilio Casarosa”, su ciò che successe il giorno della liberazione di Pisa, il 2 settembre 1944. Il brano è tratto da un colloquio che ho avuto la scorsa estate presso la sua abitazione, per la preparazione di un libro sulla guerra a San Giuliano Terme.

A distanza di tanti anni da quel periodo, il racconto di Cordoni ripropone un preciso intento polemico, che nel corso dell’intervista è emerso in maniera esplicita: smentire una versione dei fatti che vuole che furono invece gli Alleati ad arrivare per primi sotto la torre, seguiti solo in un secondo momento dalle forze organizzate della Resistenza. Dietro alla contesa sul primato dell’arrivo in città, questione che in sé rivestirebbe un interesse marginale, c’è in gioco la discussione sul ruolo che i partigiani e il CLN locale ebbero in occasione della liberazione di Pisa. Al momento dell’arrivo degli Alleati quali erano a livello locale le forze organizzate che potevano credibilmente rivendicare il ruolo di interlocutori privilegiati per la costruzione di una Pisa non più fascista?

Il problema è certamente complesso e per affrontarlo correttamente sarebbe necessaria una riflessione ben più articolata. Proviamo però a fornire rapidamente una fotografia della condizione in cui si trovavano le strutture della Resistenza nella fase finale dello stallo del fronte sul fiume Arno, nella seconda metà dell’agosto 1944, settanta anni fa.

 La “Nevilio Casarosa” si era disarticolata dopo l’attacco a sorpresa dei tedeschi al campo base, all’alba del 10 agosto 1944: i suoi componenti si erano dispersi in vari gruppi, senza più un’organizzazione paragonabile a quella avuta in precedenza. L’obiettivo immediato dei partigiani divenne la mera sopravvivenza, in primo luogo evitare di cadere nuovamente nei rastrellamenti tedeschi, come quello condotto il 24 agosto 1944 dalla 16ª Divisione SS sul monte Faeta: a partire dal versante lucchese, con l’aiuto di alcuni italiani della Brigata Nera “Mussolini” forniti di mascherine per coprire il volto e giacche mimetiche tedesche, una cinquantina di militari perlustrarono le baracche degli sfollati, fucilarono una decina di sospetti e arrestarono una sessantina di uomini. Proprio in una di quelle baracche, in località San Pantaleone, la moglie del comandante della Casarosa Ilio Cecchini stava dando alla luce una figlia, mentre intorno «si avvertivano spari e raffiche sempre più frequenti e grida»: lo stesso Cecchini «aveva lasciato la formazione partigiana nella notte sperando di poter assistere alla nascita della nostra creatura ma le urla disperate della gente terrorizzata per la cattura dei loro uomini e l’avvicinarsi degli spari lo indussero a lasciarci improvvisamente» (le citazioni sono prese da un dattiloscritto redatto dalla stessa moglie di Cecchini, Anna Maria, conservato presso l’archivio familiare).

artigiani pisa

Addestramento della formazione “Nevilio Casarosa”. Luigi Salani detto “il Biondo” in primo piano con la pistola, a destra Uliano Martini. (Proprietà Adriana Salani)

Se sul Monte Pisano dunque la situazione era drammatica, in condizioni non migliori si trovava la cittá di Pisa, dove poche migliaia di abitanti si erano concentrate nelle case tra il Duomo e Porta a Lucca, intorno all’Ospedale Santa Chiara e all’Arcivescovado, le uniche strutture che riuscirono con enormi sforzi a offrire un minimo di assistenza a una popolazione stremata. Qui faceva quotidianamente la spola con il Comando Tedesco il responsabile dell’amministrazione comunale di Pisa, il cattolico antifascista Mario Gattai, nominato dopo la fuga del prefetto alla fine di giugno dal vice prefetto, di comune accordo con l’arcivescovo Gabriele Vettori. Mentre Gattai cercava disperatamente di organizzare un comitato di alimentazione efficiente e provava a trattare con i nazisti per permettere un minimo di agibilitá alla vita in cittá, i rapporti con l’organizzazione antifascista clandestina guidata dai comunisti non erano semplici. Nelle pagine del suo diario, Gattai scriveva il 16 agosto 1944: «non sono nemmeno in contatto con quelli del Comitato di Liberazione; non già perché io non voglia, ma perché questi illustri anonimi che vivono nelle cantine non hanno sentito la necessità di farsi avanti. […] Mi sento sempre più solo ad affrontare la situazione». Pochi giorni dopo, il 23 agosto, un giornale clandestino antifascita – probabilmente redatto dai comunisti – lo accusò di essere responsabile delle deportazioni degli uomini avvenute in quei giorni, proprio per i suoi contatti continui con il Comando tedesco. Lo sfogo di Gattai diventava qui virulento: «la redazione del foglio deve stare in una cantina, ove non batte il sole e ove i trogloditi che la abitano ignorano che i tedeschi hanno il potere di prendere uomini e donne e chi vogliono e cosa vogliono, e che se non ci fossi io – con l’aiuto di alcuni sacerdoti e dei pochi miei compagni di lavoro – ad attutire con molta politica e molta fatica le loro prepotenze e a pensare ai bisogni della popolazione, questa avrebbe dovuto soffrire ben più di quanto ha sofferto finora. Fuori dalle cantine, prendetevi il vostro lavoro e la vostra responsabilità e poi parlate!».

 Credo che si possa affermare che la fine di agosto segnò da molti punti di vista il momento più difficile nella vita della città di Pisa, non ultimo per la confusione politica in un contesto in cui i margini di azione non andavano oltre il tentativo di sopravvivere. Chi ebbe le idee più chiare a proposito furono i responsabili regionali del partito comunista in clandestinità. Il gappista fiorentino Alvo Fontani riferì ai militanti pisani le direttive impartite dal centro regionale in vista dell’arrivo degli Alleati: «fare il possibile per affermare comunque una presenza della resistenza alla liberazione di Pisa, facendo di tutto per evitare uno scontro con le truppe di copertura della ritirata tedesca». In città però non erano presenti gruppi capaci di svolgere questo compito; era necessario quindi rivolgersi ai partigiani che stavano sul Monte Pisano e «chiedere che almeno cinquanta o sessanta […] si preparino e siano pronti al momento opportuno a marciare su Pisa». Fontani si trasferì sui monti insieme a Ruggero Parenti, responsabile della federazione comunista di Pisa, «sotto una tenda, in una posizione che ci permette, per quanto possibile, di controllare almeno parzialmente la situazione» (le citazioni sono tratte dalle memorie di Fontani). I giorni seguenti furono impiegati per organizzarsi in vista del momento della liberazione.

La mattina del 2 settembre, una volta iniziato l’attraversamento dell’Arno all’altezza di Cascina da parte delle truppe angloamericane, i partigiani inquadrati da Fontani e Parenti scesero dal Monte: alcuni, tra cui Duilio Cordoni, guidarono i soldati alleati in un territorio ormai abbandonato dai tedeschi verso Ripafratta, altri proseguirono su Pisa, dove attesero con pazienza l’allontanamento delle ultime squadre di occupanti. Quando poi arrivò il grosso delle truppe alleate, nel pomeriggio del 2, la Prefettura, la Questura e il Palazzo del Comune erano già nelle mani del Cln di Pisa e dei partigiani. Molti di loro in seguito si arruolarono nelle truppe di liberazione, all’interno del Corpo di Volontari della Libertà, e continuarono la guerra verso Nord. Solo allora si poterono ricomporre le forze di chi aveva scelto il compito della organizzazione clandestina armata e chi invece si era votato alla missione di assistere la popolazione, che poco avevano comunicato nei giorni precedenti. Questo dualismo fu riconosciuto e formalizzato nella prima Giunta comunale nominata dagli Alleati, che ebbe come sindaco Italo Bargagna, comunista partigiano, e come vicesindaco proprio Mario Gattai.