1

La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la riuscita stessa della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




“In clandestinità”

Abboccamenti e contatti alla ricerca di nuove adesioni, riunioni in luoghi appartati (una taverna, una bottega, un casolare, il folto di un bosco) per discutere la mutevole linea politica (l’unità d’azione, la bolscevizzazione, le tesi di Bordiga e quelle di Gramsci, il socialfascismo, i fronti popolari) modellate, volta a volta, secondo i dettami della Terza Internazionale. E contemporaneamente le scritte sui muri, il lancio di fogli ciclostilati per le strade di campagna e nei paesi, la diffusione dell’Unità e di altra stampa clandestina, la raccolta di soldi per aiutare i compagni carcerati, le fughe all’estero, gli arresti, gli interrogatori, gli anni di prigione e di confino, le amnistie seguite da nuove incarcerazioni.

In questa sequenza si può riassumere, non diversamente dal resto della Toscana e dell’Italia, la vicenda dei militanti comunisti senesi nel lungo periodo della clandestinità sotto il regime fascista. Una clandestinità iniziata precocemente poiché ben prima della legislazione eccezionale dell’autunno del 1926, l’azione combinata delle squadre fasciste e degli organi di polizia avevano messo di fatto oltre i margini della legge un’organizzazione che contava solo alcune centinaia di iscritti (la scissione di Livorno era stata nel Senese fortemente minoritaria), ma possedeva sul territorio una diffusione capillare che era ulteriormente cresciuta nel 1924, anno dell’adesione al PCd’I dei socialisti terzointernazionalisti di Giacinto Menotti Serrati, capeggiati, a livello locale, da Ricciardo Bonelli segretario della Federterra, il sindacato dei lavoratori agricoli che rappresentavano la grande maggioranza della forza lavoro della provincia. In quell’anno si contavano, infatti, una trentina di sezioni, dalla Val d’Elsa alla Val di Chiana, dal Monte Amiata al Chianti, dalla Val d’Orcia alla Val di Merse, insediate sia in alcuni dei centri maggiori, sia ancor più nelle frazioni rurali come S. Andrea a Montecchio e Rosia, Scorgiano e Gracciano, Ville di Corsano e Bettolle.

Due episodi possono essere portati ad esemplificazione di quanto appena detto. Un candidato nella lista di Unità Proletaria (comunisti e terzointernazionalisti) alle elezioni politiche del 1924 fu proprio il Bonelli. Tradito da un infiltrato, una settimana prima del voto era finito agli arresti perché in casa sua e nell’ufficio del suo negozio (faceva il fruttivendolo) la polizia aveva rinvenuto e sequestrato una grande quantità di opuscoli e giornali sovversivi, ovvero nient’altro che gli strumenti della campagna elettorale. Di sicuro Bonelli non sarebbe stato eletto (Unità Proletaria raccolse il 3,6% dei voti), ma la traduzione in carcere l’aveva comunque tolto di mezzo nell’ultimo scorcio di competizione. Di nuovo arrestato l’anno successivo, fu costretto ad andarsene da Siena insieme a suo fratello Gino che era segretario provinciale. In conseguenza di ciò, come annotava un rapporto interno al partito, l’organizzazione si era ridotta “al lumicino” poiché Gino Bonelli, «ripetendo quanto si è verificato in altre province d’Italia, colpite dalla reazione, non aveva comunicato agli altri compagni del centro federale gli indirizzi ed i nominativi ai quali ci si doveva rivolgere per mantenere i collegamenti» ed aveva costretto il nuovo segretario, Vittorio Bardini, a un complicato lavoro di ricucitura dei rapporti politici e organizzativi fra le diffidenze di quanti, una volta contattati, rispondevano che riconoscevano solo Bonelli e che avrebbero atteso da lui di sapere se altri erano effettivamente autorizzati a parlare a nome della federazione.

L’altro episodio riguarda Fosco Mazzoncini delegato senese al congresso nazionale di Lione del gennaio 1926. Il congresso provinciale, in forma molto ridotta (solo cinque le sezioni rappresentate, Siena, S. Andrea a Montecchio, Coroncina, Murlo, Gracciano, per un totale di 58 delegati) si era svolto in piena segretezza all’interno di una trattoria di Siena. Ma la federazione senese, nonostante le precauzioni adottate, mancò l’appuntamento con la storia del partito che segnò, secondo la storiografia ufficiale comunista, il momento decisivo del completamento del lungo e travagliato processo di formazione del PCd’I, poiché Mazzoncini, munito di passaporto falso, fu individuato ed arrestato alla frontiera di Domodossola.

Agli inizi del 1927, ormai sotto la dittatura conclamata, gli arresti colpirono una trentina di lavoratori, in prevalenza mezzadri, della zona compresa fra Sinalunga, Bettole, Guazzino, Foiano della Chiana, tutti accusati di complotto comunista, anche se probabilmente solo alcuni erano iscritti al partito e gli altri pagavano la colpa di essere stati fra i protagonisti delle vertenze sindacali per la riforma del patto colonico nel periodo 1919-1921.

All’inizio degli anni Trenta, Siena, con solo due sezioni (una in città e l’altra nella frazione di S. Andrea a Montecchio), non fu più in grado di ospitare la federazione che venne spostata a Poggibonsi, dove era già stata nel 1921 e dove i contatti con la Val d’Elsa fiorentina e con Empoli in particolare offrivano l’opportunità di un lavoro politico più intenso.

E proprio in sintonia con i militanti empolesi fu organizzata una delle azioni di propaganda più clamorose. Il 28 aprile 1930 due auto partirono contemporaneamente una da Empoli verso Colle Val d’Elsa e una da Poggibonsi verso Siena, gettando volantini che inneggiavano alla festa del 1° Maggio. I fascisti si lanciarono all’inseguimento di quella che ritenevano essere una sola auto (di colore rosso sostenevano) che appariva in contemporanea in luoghi diversi e distanti. Non riuscirono nel loro intento. In compenso nell’eccitazione e nella confusione della ricerca riuscirono a uccidere un giovane aderente al fascio poggibonsese.

Il partito a Poggibonsi era costituito dal comitato federale, dal comitato di settore a cui era affidato il compito di organizzare i corrieri verso Siena e Empoli, dalle cellule alle quali toccava la propaganda fra i lavoratori, contattandoli se necessario fin dentro il sindacato fascista. Esisteva inoltre la struttura del Soccorso Rosso che raccoglieva fondi talvolta addirittura alla luce del sole, come  nel caso di Azelio Lami che approfittava del suo lavoro stagionale di venditore di caldarroste per farsi dare qualche lira da destinare alle famiglie di chi era in prigione o al confino. Si pensò anche alla pubblicazione di un giornale che in effetti sarebbe uscito con il titolo “La Scintilla”.

Alcuni arresti nel 1932 (che si estesero anche a Siena), se ebbero l’effetto di eliminare dei  militanti e di spingerne altri verso l’emigrazione (dalla metà degli anni ’20 al 1943 i senesi sorvegliati all’estero furono 218, dei quali 113 comunisti, 53 socialisti, 24 anarchici, 28 antifascisti), non distrussero la rete che poté beneficiare di alcuni ritorni in seguito all’amnistia del 1933.

Una vera e propria catastrofe si verificò invece nel 1934, sia per la clamorosa violazione delle norme di sicurezza (due incontri campestri nel 1933, con bevute e canti, in occasione del 1° maggio e dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre), sia per la scarsa resistenza agli interrogatori (e alle percosse) da parte di alcuni degli arrestati. L’organizzazione comunista sembrò cancellata non solo nella Val d’Elsa, ma in tutta la provincia.

Eppure, in modo largamente spontaneo e senza collegamenti, un nuovo gruppo sarebbe nato, fra il 1935 e il 1937, ad Abbadia S. Salvatore. Così ne raccontò la genesi Fortunato Avanzati: «Le adunate oceaniche […] avevano diffuso l’illusione che il fascismo fosse ormai imbattibile […]. Ma vi fu anche chi […] capiva che le cose stavano diversamente […]. Appunto questa riflessione stimolò me ed altri giovani badenghi a muoverci, dapprima ognuno per proprio conto […]. Poiché ognuno di noi era legato ad altri giovani nacquero nuove amicizie e, da qui un’ulteriore circolazione di idee. Ci lambiccavamo il cervello su che fare, commettendo ingenui errori come quello di ostentare il nostro antifascismo […]. Coltivavamo sempre qualche speranza di stabilire qualche contatto con l’organizzazione clandestina del partito comunista che ci avrebbe permesso di raggiungere la Spagna repubblicana».

Anche a Poggibonsi, nel 1941, ormai in piena guerra, sarebbero tornati ad incontrarsi alcuni oppositori del regime per ascoltare Radio Londra e Radio Mosca, scambiarsi informazioni e libri auspicando, secondo quanto riferiva un rapporto di polizia, la vittoria sovietica che avrebbe portato al trionfo della rivoluzione bolscevica in tutto il mondo.

Erano i segni di clandestinità rinascenti in un contesto diverso (quello delle guerre del fascismo) che da lì a due anni sarebbero state una delle molteplici radici della Resistenza.

 

Fonti d’archivio
Asmos, Casellario politico centrale, fascicoli di: Aiazzi Gino, Bonelli Gino, Bonelli Ricciardo, Borghi Pietro, Frilli Gastone, Rocchi Otello.
Archivio di Stato di Siena, Questura di Siena – III versamento, Bardini Vittorio.
Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Fondo dell’Istituto Gramsci, b. 457 e b. 1304.

Bibliografia
Avanzati Fortunato, Fatti e gente dell’Amiata, La Pietra, Milano 1989.
Bardini Vittorio, Vita di un comunista, Guaraldi, Firenze 1977.
Burresi Francesco-Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla Liberazione, Poggibonsi 209.
Detti Tommaso, La frazione terzointernazionalista e la formazione del Pci, in “Movimento operaio e socialista”, n. 4, ottobre-dicembre 1972.
Orlandini Andrea, L’antifascismo a Siena: le schede del Casellario Politico Centrale, in “Maitardi”, n. 3, 2011.




Ferdinando Targetti amministratore, antifascista, padre costituente

Nella serata di lunedì 22 marzo, con la collaborazione della Biblioteca Roncioniana di Prato e nell’ambito della Festa della Toscana, si è tenuto su piattaforma meet l’incontro “Ferdinando Targetti amministratore, antifascista e padre costituente“, dedicato al primo sindaco socialista di Prato (1912-1914). In quell’occasione Andrea Giaconi (vicepresidente del Coordinamento toscano dei Comitati per la promozione dei valori risorgimentali) ha intervistato Alessandro Affortunati (membro dell’omonimo Comitato pratese ed autore di vari contributi su Targetti, di cui ha redatto anche la voce relativa del Dizionario biografico degli italiani). L’intervista ha inteso ripercorrere i passi salienti della vita e dell’opera del politico socialista. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

Targetti proviene da una famiglia dell’alto ceto industriale pratese. Però aderì giovanissimo al Partito socialista. È possibile spiegare questa scelta ed in che misura essa può essere considerata anche più coerente di tante altre?

Sì, suo padre, Lodovico, era un grosso industriale laniero, uno dei fratelli, Raimondo, sarà sindaco liberale di Prato all’epoca del regicidio e, fra il 1922 ed il 1923, presidente della Confindustria. Ferdinando, invece, mostrò subito di non condividere i valori tipici dell’alta borghesia e si iscrisse al Partito socialista nel 1899, a diciotto anni, subito dopo i fatti di Milano. È probabile che le cannonate di Bava Beccaris non fossero estranee alla sua maturazione politica, ma le ragioni precise della sua scelta non si conoscono.

Forse, come talora accade, giocarono un ruolo anche fattori psicologici (il sottoscritto, ad esempio, si è orientato precocemente a sinistra anche perché, da bambino, il nonno paterno gli aveva raccontato della “domenica di sangue” di San Pietroburgo, nel 1905, delle povera gente presa a fucilate dalla truppa).

Certo è che Targetti fu davvero coerente con la  decisione presa: ne è prova il fatto che cedette la sua quota in ditta al fratello Gino, vivendo solo con i proventi della  professione di avvocato.

Targetti fu il primo sindaco socialista di Prato nel 1912, in un clima che, a livello di storia amministrativa era fatto (ce lo insegna Guido Melis) di revisione dei conti degli enti locali, di storno dei contributi per le spese degli organi centrali, di accantonamento delle opere di beneficenza e di delega alle associazioni di volontariato. In tal contesto, quali furono i suoi principali provvedimenti?

Targetti seguì un principio molto chiaro: ciò che gli premeva – ebbe a dire – era difendere gli interessi delle classi più deboli, nella convinzione che ciò equivalesse a fare del socialismo. Alla luce di questo principio-guida, la sua giunta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa.

Fra i provvedimenti varati, sono da ricordare almeno l’apertura di uno spaccio comunale, dove si vendeva il pane a prezzo calmierato, l’istituzione di un ufficio che, tra l’altro, esercitava anche funzioni di sorveglianza sui prezzi dei generi di prima necessità e l’approvazione di un progetto per la costruzione di blocchi di case popolari.

L’amministrazione Targetti termina alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1919 Targetti è eletto alla Camera dei deputati e nel 1920 diviene assessore nel Comune di cui era stato sindaco. Sono però anni in cui la violenza politica di matrice fascista sconvolge la quotidianità della vita civile (basti ricordare che nella sola Toscana sono concentrati un quinto di tutti gli atti di brutalità squadrista prima della Marcia: l’omicidio Lavagnini, i fatti di Roccastrada, la spedizione su Prato e Vaiano) Come reagì Targetti a questi tristi eventi?

Targetti fu risolutamente antifascista e non si fece intimorire dalle minacce: basti pensare che nel 1922 rifiutò di dare le dimissioni dalla carica di assessore nella giunta socialista presieduta da Giocondo Papi.

I fascisti lo odiavano e nel 1925 scampò alla “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3-4 ottobre 1925) solo perché fuori città: non avendolo trovato in casa, gli squadristi spararono ai suoi vestiti appesi nell’armadio, in segno di macabra rappresaglia.

Trasferitosi a Milano si impegnò nell’attività clandestina entrando a far parte del Gruppo Erba, che era in contatto col Centro socialista interno. Difese inoltre numerosi antifascisti e, nel processo contro gli assassini di Matteotti, rappresentò la famiglia come avvocato di parte civile.

Dopo l’8 settembre, dovette riparare in Svizzera, dove raccolse fondi a sostegno dell’opposizione in Italia, tenne conferenze e collaborò a varie testate antifasciste (la Libera stampa, del Partito socialista ticinese, e la Voce socialista, giornale clandestino dei socialisti italiani nella Confederazione).

Targetti appartenne ad un partito, quello socialista, che qualche storico ha definito “inquieto”, soggetto ad una dialettica aspra e profonda sino alle vicendevoli fratture. Lo stesso Targetti attraversò durante la sua carriera politica le esperienze del PSU e dello PSIUP. Esperienze che visse come conseguenza di momenti drammatici per il socialismo. La prima si colloca nel periodo della salita al potere del fascismo. Quale fu la sua posizione all’interno del PSU?

Targetti si schierò subito a fianco di Matteotti, sostenendo la necessità della più recisa opposizione al fascismo, mentre un gruppo che faceva capo ai leader confederali riteneva possibile una “costituzionalizzazione” del fascismo stesso ed era quindi disposto ad una qualche forma di collaborazione col regime. Targetti, invece, non si fece mai nessuna illusione al riguardo.

Prima di passare al ruolo svolto nello PSIUP, è bene ricordare che Targetti fu anche un membro importante dell’Assemblea costituente e, per lungo tempo, vicepresidente della Camera dei deputati. Quali furono i suoi interventi più importanti alla Costituente?

In estrema sintesi, si può dire che Targetti sostenne la necessità di una costituzione “breve” (che fissasse cioè solo alcuni principi generali da attuarsi poi con leggi ordinarie), fu a favore delle regioni (memore dei guasti prodotti dal centralismo in Italia) e di una larga indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello stato.

Voglio poi ricordare che nel 1953 si dimise clamorosamente dalla carica di vicepresidente della Camera in segno di protesta contro la “legge truffa”, che violava il principio costituzionale dell’uguaglianza del voto, attribuendo di fatto un “peso” maggiore ai voti degli elettori delle liste apparentate.

Infine, perché decise di entrare nello PSIUP? E qual è la sua eredità come socialista?

Negli anni della seconda guerra mondiale Targetti aveva maturato il convincimento che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai suoi privilegi e che l’unità proletaria, cioè la più stretta unità d’azione fra socialisti e comunisti, fosse la condizione indispensabile per la difesa della democrazia, degli interessi dei lavoratori e per la realizzazione di riforme di struttura che facessero avanzare il Paese verso il socialismo.

L’alleanza del PSI con la DC, che comportava ovviamente la divisione a sinistra, la rottura con i comunisti, gli parve quindi inaccettabile, gli sembrò un passo che avrebbe finito con lo snaturare il PSI, riducendolo al ruolo di caudatario della DC al pari degli altri partiti di centro. Le ragioni della sua opposizione all’ingresso dei socialisti in un governo di centrosinistra organico e, quindi, della sua adesione allo PSIUP nel 1964 furono queste.

Quanto all’ultima parte della tua domanda, direi che la risposta ce la fornisce la biografia di Targetti stesso, cioè la biografia di uomo che ha lottato contro la dittatura, difendendo sempre la democrazia e gli interessi dei lavoratori nel segno di un socialismo non edulcorato.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




“Caro Ilio…”. Barontini nelle lettere di “raccomandazione” dei “compagni”

Nella carte dell’ex Federazione del Partito comunista di Livorno, custodite presso l’archivio dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea (Istoreco), c’è un fascicolo pieno di lettere scritte da comuni cittadini a Ilio Barontini (qui un profilo biografico). E’ un fascicolo di una certa consistenza. Si tratta infatti di settantatre lettere inviate all’attenzione di Ilio. Sin dall’incipit compaiono delle differenze tra gli scriventi. Ci sono quelli che iniziano la lettera, appellandosi all’ ”Onorevole” o “all’Onorevole senatore”; ci sono quelli che si appellano al “caro compagno”; ce ne sono alcuni che scrivono semplicemente: “Caro Ilio”. Talvolta incontriamo chi gli pone con molta  bonomia e ingenuità, se vogliamo, il problema che scrivendo si è posto: “Come bisogna interpellare Ilio Barontini, senatore della Repubblica, con il tu perché lo conosciamo e perché siamo compagni uniti dallo stesso ideale, con il lei o con il voi?”[1]

Cosa chiedono e cosa raccontano queste lettere? Perché sono due cose diverse: una problematica è collegata a ciò che chiedono, e un’altra è ciò che raccontano a noi che siamo lontani da quel periodo, oltre 70 anni, poiché le lettere partono dal 1944 e arrivano al 1950, cioè alla vigilia della morte dello stesso Barontini, avvenuta per un incidente stradale a Scandicci nel gennaio 1951.[2]

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Per prima cosa proviamo  a guardare in modo analitico a questo carteggio. I diversi mittenti che in maggioranza sono uomini anche se non mancano le donne, presenti in tredici casi, scrivono più spesso a penna che con una macchina da scrivere. Essere compilate a mano è una scelta ovvia: la macchina da scrivere era un lusso di pochi, pochissimi, e ancora più piccolo era il numero di coloro che sapevano utilizzarla.  Non solo per ragioni di reddito ma anche per problemi legati al livello, assai scarso di alfabetizzazione. Sono spesso vergate su carta non deputata, fogli di quaderno e poco più. Erano nella stragrande maggioranza persone semplici che scrivevano con testi profondamente sgrammaticati, con calligrafie improbabili, tipiche di chi non era abituato a tenere la penna in mano. La prosa, l’espressione comunicativa era comunque una prosa diretta, senza giri di parole, immediata.

Scrivevano per chiedere sostegno per le più diverse cause, anche se poi tutte le motivazioni sono raggruppabili ad uno stato di bisogno profondo. Lo scopo di aiuto invece che predomina è quello relativo al riconoscimento di una pensione. Si ragiona intorno a richieste inevase per pensioni di guerra (padre o marito morto ucciso dai tedeschi, figlio o marito invalido a causa di una bomba e simili) già inoltrate da molto tempo, talvolta da oltre due anni, tre, e non ancora arrivate in porto. Tutti gli scriventi denunciano una grandissima difficoltà economica e spesso anche la mancanza di un tetto sul capo. Talvolta sono richieste di consiglio e di aiuto per ottenere pensioni da lavoro, soprattutto pensioni per le attività lavorative svolte in Francia, soprattutto in Corsica e a Marsiglia, luoghi dove Barontini era stato a lungo presente come fuoriuscito, e chi domanda è evidentemente convinto che Barontini possa intervenire con efficacia. Sicuramente Ilio aveva conosciuto direttamente la realtà di quei contesti, e la durezza del lavoro in terra straniera come emigrante, poiché anche se la sua emigrazione fu sempre e solo politica, con incarichi speciali dalla direzione del Partito comunista, certo non poteva essergli sfuggita la dura realtà di tutti quegli emigrati che univano nella loro condizione, sia la difficoltà dell’emigrato sospetto alla forze dell’ordine, che quella del disoccupato, che cercava di entrare nel mercato del lavoro per sopravvivere.

Spesso l’aiuto per lavorare, guarda alla città labronica, ma talvolta la domanda rinvia anche ad altri centri della regione. Sono abbastanza presenti i comuni dell’isola d’Elba, ma compaiono anche luoghi lontani da Livorno come: Giulianuova, Sondalo, Bologna, Firenze, Roma, Modena, Volterra, Reggello, Cecina, Montescudaio etc. In quel lontano e pesantissimo secondo dopoguerra, a causa delle immani distruzioni belliche molti non hanno più trovato la possibilità di rientrare là dove lavoravano prima del 1940 e adesso cercano in Barontini un appoggio. Le richieste che si avanzano sono quasi tutte modeste. Si domanda lavoro come operai, come boscaioli nei cantieri di rimboschimento, come edili e poco più. Solo in alcuni casi, adducendo la maggiore istruzione che si può mettere in gioco, si chiede di fare l’impiegato, talvolta l’impiegato bancario e,  solo in un caso, questa richiesta è avanzata con un tono di aperta arroganza.

Ma ci sono anche domande di aiuto per ottenere la liquidazione di un credito da parte degli Americani che hanno prelevato da un magazzino–deposito, diverse tonnellate di carbone e poi hanno lasciato il debito insoluto. Un altro piccolo gruppo di missive riguarda un gruppo di militanti malati e ricoverati in un ospedale ortopedico di Bologna, il Putti, dove Barontini ogni tanto si recava in visita perché era diventato un istituto di assistenza per molti ex partigiani.

Lettera

Una delle lettere a Barontini conservate nell’Archivio Istoreco

Ci sono anche alune lettere di ex combattenti che desiderano il riconoscimento di una pensione, e poi incontriamo la richiesta di una donna, Simoncini Silvana, che desidera l’attribuzione della qualifica di partigiana combattente[3]. Una lettera importante anche per la sua eccezionalità. Come sappiamo dalla storiografia e dalle memorie, furono pochissime le donne che, pur avendo combattutto nei gruppi combattenti, chiesero poi di veder riconosciuto il loro impegno.

Un altro gruppo riguarda alcuni disoccupati delle Ferrovie dello Stato, licenziati per motivi politici per gli scioperi del 1920 e del 1921, che chiedono il reintegro o l’adeguamento della pensione[4]. Come possiamo comprendere una varietà significativa di contenuti, tutti contrassegnati però da un bisogno materiale che è anche la testimonianza di una ingiustizia sociale.

Al di là dell’oggetto della lettera è evidente la minore presenza di richieste provenienti dalla città labronica. Questo significa soltanto che i livornesi preferivano avere un colloquio diretto con Barontini poiché il senatore era spesso in città e non era difficile raggiungerlo in Federazione dove svolgeva con assiduità e autorità il compito di segretario. Egli era sì un grandissimo personaggio, che fra i militanti del suo partito emanava certamente ammirazione, rispetto, qualche volta anche timore, ma non agiva sui suoi interlocutori con la forza del mito. Era percepito, soprattutto dagli uomini e dalle donne della sinistra di Livorno, come “uno dei loro”, burbero quanto si voglia, ma diretto e senza atteggiamenti altezzosi.

Fra le altre c’è una lettera particolarmente commovente nella sua ingenuità. È stata scritta da una donna, De Santis Anna che, dal sanatorio di Villa Corridi a nome suo e anche dell’amica, Gina Freschi, scrive chiedendo del denaro:

[…] Siamo due ragazze molto giovani, che ci ha condotto in questo sanatorio di Livorno che ci ha colpito un male che non perdona, siamo orfane di padre e di madre e non abbiamo nessuno che ci aiuti… abbiamo tanto bisogno, che siamo veramente scalze di tutto, specialmente ora che siamo giunte all’inverno non abbiamo niente da coprirci…. Che siamo anche noi compagne. Il numero della tessera è 1064929. [5]

L’amica è di Roma anche lei è tesserata  al Pci ma ha lasciato a casa la tessera e la scrivente non può quindi indicare il numero a riprova della sua fede politica.

Accanto ad una missiva così diretta e semplice, la più semplice dell’intero deposito, ce n’è una che possiamo definire curiosa. Il mittente chiede al senatore comunista di parlare con Scelba perché vorrebbe entrare in Polizia.[6] Forse gli era sfuggito il clima della guerra fredda o riteneva Barontini capace di fare miracoli!

Ma cosa ci raccontano sulla vita, l’esistenza dei singoli, le condizioni di lavoro queste lettere? Molto anche senza darlo ad intendere, direi come un effetto secondario e quasi superfluo per il mittente e il destinatario di allora che condividevano lo stesso contesto di riferimento, ma non per noi, lettori di oggi, che, attraverso queste scritture, veniamo avvolti dalla durezza degli anni postbellici.

Il primo dato che emerge, forse anche un po’ scontato per chi si occupa regolarmente di storia, è la condizione di grande precarietà che attanagliava le famiglie italiane, sia sul piano delle abitazioni, ancora in gran parte distrutte, che su quello della possibilità di trovare un salario anche solo per la mera sopravvivenza fisica dentro quel presente. A riprova, ricordiamo che da una di queste missive, proveniente da Firenze, datata 1950, nella quale prende la parola un livornese. Costui, costretto per ordine dei tedeschi, allo sfollamento dal 13 novembre 1943, si trova ancora, dopo 7 anni, lontano da Livorno e non sa dove sbattere il capo. Dichiara fra l’altro che gli è terminata l’erogazione del sussidio per gli sfollati pari a £ 125, e senza quel piccolo aiuto, adesso è caduto in una condizione di prastrazione gravissima, senza casa, senza lavoro, senza sostegno alcuno.[7]

Questa lettera e molte altre simili, del deposito archivistico sul quale ragioniamo, ci racconta anche la farraginosità della macchina burocratica nazionale. Ricordiamoci che si trattava di una macchina organizzata dal fascismo – che ancora a distanza di 5 anni dalla fine del conflitto, così come non era riuscita ad attribuire la sacrosanta pensione alle vittime della guerra, aveva cominciato solo da poco una ricostruzione lenta e a macchia di leopardo e dal punto di vista complessivo si carretterizzava per una continuità significativa con il passato regime.[8]

Cantina Togliatti2

Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ma ci raccontano ancora di più e meglio. Ci raccontano la pesantezza del clima della ricostruzione dove accanto alla gioia per la fine del conflitto, la fine dei bombardamenti, va accostata la disperazione per la perdita della casa, la ricerca di un impiego là dove non si intravedevano possibilità a portata di mano perché non solo il tessuto urbano era andato distrutto ma anche le fabbriche, le officine, i porti, erano saltati in aria e, noi che scriviamo adesso, sappiamo che molte di queste attività lavorative mai più riprenderanno.

Ecco allora ecco la reiterata richiesta di partecipare ai cantieri di rimboschimento che furono un modo neppure troppo larvatamente assistenziale, ma assolutamente giustificato, di togliere disoccupati dalle strade. Ricordo che lo stesso Piano del Lavoro della Cgil[9] che voleva indicare verso quali attività indirizzare la ricostruzione, e che sottointendeva un progetto ponderato ed articolato, dall’altra parte però cercava e, in parte riuscì, a far partire una serie di attività lavorative – oggi si direbbero lavori socialmente utili – che tamponavano la disoccupazione dilagante, appesantita fra l’altro dal blocco dei salari. Così come il Piano Casa, cosiddetto Piano Fanfani[10], aveva come primo scopo esplicito la lotta alla disoccupazione.

Ma queste lettere ci dicono qualcosa di più soprattutto sull’etica di quelli che scrivevano. Queste persone, uomini e donne cercavano una risposta, una solidarietà, più che un appoggio clientelare rivolgendosi al proprio rappresentante politico di più alto grado, a quel politico che era così diverso da loro, inviato a rappresentarli in Parlamento e nell’Assemblea Costituente, ma così vicino alla loro comunità di appartenenza da potergli scrivere e “aprirgli il cuore”. Non si facevano richieste illegittime, non si chiedevano privilegi. Chiedevano di lavorare e lo facevano tramite il rappresentante locale del Partito più importante del mondo del lavoro di allora, il primo partito della città di Livorno, il Partito comunista italiano. Scrivevano sicuri che Ilio avrebbe preso nota, che avrebbe fatto direttamente o indirettamente qualcosa, e questo era anche confermato dalle stesse missive perché spesso i mittenti ritornavano sulla loro richiesta per ringraziare, per informare Barontini che qualcosa si era mosso, qualcosa si era risolto. Barontini veniva visto, cosa che oggi pare davvero lontana anni luce dalla realtà odierna – un politico non solo vicino alle persone, ma lui stesso persona in mezzo ad una massa di uomini che si ritenevano solidali per idee, per obiettivi, per percorsi di vita. Barontini era il loro migliore rappresentante, quello che si era evidenziato di più, che era salito più in alto, ma per coerenza, per coraggio, per intelligenza, senza camarille di potere, senza giochi di corrente, a  testa alta, e spesso anche controcorrente tra i suoi, e questo lo rendeva ancora più forte e più autorevole agli occhi dei militanti di base. Questi testi ci documentano anche come Barontini ebbe effettivamente una capacità di ascolto adatta a quei singoli ed umili mittenti, così come seppe ascoltare, in altri contesti, altri leaders, anche internazionali, rimanendo fedele a sé stesso e alla sua storia.

E in questo nostro presente, ci raccontano che un altro rapporto con la politica è possibile, sia dalla parte dei rappresentanti che dalla parte dei rappresentati. La storia non si ripete mai e neppure è abituata a progredire, ma è anche vero che potremmo provare con modalità diverse, adatte ai nostri tempi, a ricostruire perlomeno qualcosa di simile, ad avere fiducia negli eletti, a pretendere una selezione adeguata dei medesimi. Occorre però il coinvolgimento di tutti, che tutti si ritorni ad essere più soggetti partecipi e meno telespettatori.

 [1] Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Sottofascicolo di “Barontini Pci”: Raccomandazioni Lettera di Alberto De Pasquale dell’8 febbraio 1950, dal Cavo (Elba)

[2] Ilio Barontini (Cecina 1890-Scandicci 1950).

[3]Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Fascicolo Lettere a Barontini. Lettera del 29 maggio 1949 di Simoncini Bigongiari Silvana da Pisa.

[4] Ibidem. Si tratta di Ciurli Gino, Vaselli, Scappini di Empoli, il padre di Mario Piselli da Roma, Stefani Oreste, Luigi Guarnelfi da Roma, Modesti Arno di Montescudaio. Tutte lettere collocate tra il maggio 1948 e il luglio 1950.

[5] Ibidem. Lettera scritta a Livorno il 5 dicembre 1950. Scritta a mano e appellandosi a Barontini con: “all’onorevole”

[6] Ibidem. Lettera del 27 giugno 1950, da Giulianuova a firma di Santucci Vincenzo.

[7] Ibidem. Lettera del 28 maggio 1950 di Oscar Benedetti.

[8] Cfr. Claudio Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

[9] Fabrizio Loreto, Storia della Cgil. Dalle origini ad oggi, Ediesse, Roma, 2009.

[10] La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa el’Italia degli anni ’50 ( a cura di Paola Di Biagi), Donzelli, Roma, 2001

 




Il grossetano Marino Magnani: dalla militanza socialista all’ingresso nel Pcd’I

Magnani, nato a Sasso d’Ombrone presso Cinigiano, l’11 gennaio 1883, già giovanissimo studente a Siena aveva avviato il suo impegno politico aderendo al Circolo socialista “Figli di operai”. Entrò nel PSI a 17 anni, poi fece parte del circolo giovanile socialista di Grosseto, di indirizzo sindacalista rivoluzionario: era presente alla fine del 1912 fra i relatori al convegno dei giovani socialisti rivoluzionari grossetani, incaricato di trattare il terzo punto all’odg “La gioventù rivoluzionaria di fronte al PSI”.1 Sebbene la sua scheda personale del Casellario politico dichiarasse che «in pubblico frequenta poca la compagnia dei suoi correligionari», il comunista grossetano Aristeo Banchi lo ricorda presente all’inaugurazione del monumento a Francisco Ferrer di Roccatederighi, nel settembre 1914, realizzata grazie a una sottoscrizione popolare. In seguito, Magnani si allontanò dai sindacalisti per rientrare nel PSI, dove diede impulso alla diffusione dei circoli giovanili legati al partito.2

Nel 1915 risultava già schedato nel Casellario politico, sebbene non avesse ancora ricoperto cariche pubbliche, per la sua militanza socialista e come «fervente propagandista» contro la guerra. Forte infatti il suo impegno antinterventista, legato alla mobilitazione crescente in Maremma: «durante i primi mesi del 1914 si organizzò infatti una vasta campagna fatta di scritti su “Il Risveglio” e di manifestazioni a favore del soldato Massetti (feritore del proprio colonnello per protesta contro la guerra di Libia), richiuso in manicomio militare», nella quale si distinse il giovanissimo Magnani, insieme a Emilio Zannerini. Ricordano infatti Carlo Cassola e Luciano Bianciardi che in Maremma, «nel complesso del partito prevalse una forte coscienza antimilitarista che aveva nei giovani la propria punta di diamante. Questi convocarono un proprio congresso provinciale il 6 ottobre, ove il rifiuto della guerra continuò a essere al centro del dibattito».3

L’imponente e rapido sviluppo del movimento giovanile socialista maremmano è in effetti legato direttamente alla mobilitazione contro la guerra: l’affermazione dei giovani socialisti, fra cui Magnani, è da mettere in relazione con l’intensa attività di propaganda antimilitarista che essi svolsero a partire dal 1914. È probabilmente da ascriversi a questo clima l’opuscolo La nostra guerra che Marino Magnani pubblicò per la Federazione giovanile socialista grossetana nell’ottobre 1914; l’opuscolo, stampato a Siena, finì in distribuzione nel 1916, quando si era in pieno conflitto bellico, provocando un ulteriore interessamento delle autorità nei confronti di Magnani: sequestrato il libello, fortemente antinterventista, il Procuratore del Re presso il Tribunale del Regno di Grosseto, sollecitato da Siena dove l’opuscolo era stato stampato, non ritenne tuttavia che offrisse serie basi per un procedimento penale, in quanto antecedente all’ingresso in guerra e quindi più «raccolta di dottrine» che tentativo diretto di «turbare la compagine dello Stato nel momento presente».4

L’attività della Federazione giovanile socialista di Grosseto, di cui Magnani era nel frattempo diventato segretario, continuò poi, dal 1915, con l’azione per la costituzione dei circoli socialisti infantili e della federazione femminile della provincia. Un’azione in cui Marino Magnani fu direttamente implicato, già a partire dalla riunione dei dirigenti indetta per promuoverli nel gennaio 1916, così come nei successivi sviluppi sul territorio (ad esempio, a Montepescali «tentava, ma con esito negativo per lo scarso numero di adesioni, di costituire una Sezione femminile socialista»). Un impegno rilevato anche dalle segnalazioni su di lui prodotte dalle autorità giudiziarie che pure nel 1915 notavano che, «malgrado l’attività spiegata», la costituzione di associazioni femminili «non ebbe felice risultato».

Nel gennaio dell’anno successivo, tuttavia, in qualità di segretario della Federazione giovanile socialista grossetana, Magnani portava l’adesione incondizionata delle Sezioni giovanili e dei Fasci giovanili al XV Congresso provinciale socialista tenutosi a Follonica e nella primavera, l’8 aprile, al I Congresso femminile socialista tenutosi a Follonica assisteva alla costituzione della Federazione femminile della Maremma di cui era stato uno degli organizzatori. Di li a poco i giovani socialisti grossetani poterono convocare il I Congresso regionale femminile socialista toscano, contribuendo così a dare una forte spinta al movimento delle donne socialiste della regione; ancora nel 1919, infatti, nel II Congresso regionale, su 16 sezioni rappresentate, ben 9 appartenevano alla provincia di Grosseto.5Cattura

Magnani era contemporaneamente impegnato nel “Comitato del soldo al soldato” e ad opera sua vennero organizzate a Grosseto collette per i soldati più poveri. Continuò nel frattempo anche la sua attività di collaborazione con “Il Risveglio” e, nel dicembre 1916, divenne direttore di un nuovo foglio periodico, “Il grido dei giovani”, organo della Federazione giovanile. Con la guerra però arrivarono anni di flessione per il movimento giovanile socialista maremmano. Scrive il fratello di Magnani, Manfredi, su “Il Risveglio”: «le continue chiamate alle armi hanno assottigliato in modo impressionate le nostre forze che trovasi adesso ridotte ai minimi termini nel significato più vasto e completo dell’espressione. E siamo quindi in pochi!»6 Del 1917, quindi, è il trasferimento di Magnani a Milano, poi a Brescia dove, debitamente sorvegliato dalla polizia, iniziò a lavorare come segretario alle dipendenze della Lega metallurgica.

Occorre però chiarire che le carte di polizia che via via lo segnalano sembrano spesso confondere la sua attività con quella per alcuni versi parallela del fratello Manfredi,7 classe 1885, anch’egli schedato come propagandista rivoluzionario, attivo nella Sezione giovanile socialista di Grosseto. Anche Manfredi pubblicava articoli su “Il Risveglio” (dove ai due ci si riferisce talvolta come ai «fratelli Magnani») e svolgeva propaganda antimilitarista; venne inoltre segnalato al Congresso giovanile socialista toscano tenutosi a Pisa nel luglio 1918, designato come a capo del movimento giovanile e femminile in Toscana, insieme ad altri tre “sovversivi” di Firenze. A quella data entrambi i fratelli Magnani risultavano trasferiti nel Nord Italia: a Milano e poi a Torino Manfredi; a Milano e poi a Brescia Marino, ma entrambi incaricati come segretari della Federazione nazionale metallurgici. Al di là del dubbio sulla confusione relativa a queste vicende, resta da rilevare un dato interessante proprio nell’attivismo politico del contesto familiare.

A Marino e Manfredi, infatti, si aggiunge un terzo fratello, Mantilio,8 macchinista ferroviere residente ad Antrodoco (in provincia di Rieti), anch’esso schedato nel Casellario politico perché «prima dell’avvento del fascismo professò apertamente idee comuniste, prendendo parte a tutti i movimenti e gli scioperi ferroviari propugnati dal Sindacato rosso». I tre fratelli, del resto, parevano alle autorità «seguire i principi politici del proprio padre», Michele Magnani,9 classe 1858, descritto nel suo fascicolo del CPC come «uno dei più ferventi e accaniti comunisti residenti in questo luogo e mai ha tralasciato di fare propaganda sovversiva, sia pure spicciola, specialmente fra i contadini che egli ha facile occasione di avvicinare per la sua professione di causidico». Nel 1922 anch’egli, avvocato dei poveri, fu aggredito dai fascisti grossetani, che lo caricarono, seppur settantenne, di pugni e bastonate, ferendolo a un occhio; e ciò nonostante, nel suo fascicolo personale, veniva ammonito nel 1926 «per l’azione deleteria che ha compiuto e continua a compiere con pertinace ostinatezza in odio all’azione dei poteri dello Stato» e nel 1935 per le autorità era da considerarsi «ancora di idee sovversive».

Non stupisce quindi il crescente impegno politico del figlio Marino, accompagnato da un radicalizzarsi delle sue posizioni: è della primavera del 1919, un articolo su “Il Risveglio”, intitolato Massimo e Minimo, in cui, in vista del XVI Congresso provinciale socialista di Follonica, Magnani scriveva: «noi siamo contro le fisime riformistiche di molti nostri compagni, anche se illustri, i quali non sanno rinunciare al loro sogno di un socialismo di maniera, buon ragazzone tutto lindo, computo e agghindato il quale batta con le nocche delle dita debitamente inguantate alle porte della società borghese chiedendo sommessamente e con tutta umiltà il permesso di entrare. Noi, invece, (e gli insegnamenti ci vengono da Marx e da Engels) sappiamo che il nostro “scopo non potrà essere raggiunto che colla caduta violenta di tutti gli ordinamenti sociali finora esistenti”».10 Nel frattempo, apprezzandone vivamente l’attività fra gli operai, il segretario della Federazione Impiegati Operai Metallurgici (FIOM), Bruno Buozzi, lo aveva chiamato a far parte della Segreteria nazionale. Ruolo che Magnani preferì, con una precisa scelta di campo verso il sindacato, rispetto alla contemporanea offerta, caldeggiata da Costantino Lazzeri, dell’incarico di Segretario nazionale della Federazione giovanile socialista.11

La guerra aveva sconquassato le organizzazioni sindacali, in particolare le strutture di coordinamento provinciale ed era il momento di ricostruirne la trama organizzativa. La prima categoria a rimettersi in movimento in tal senso era stata in Maremma quella dei minatori con la nascita della Federazione interprovinciale, che raccoglieva, oltre a rappresentanze toscane e umbre, entrambi i bacini minerari della provincia, quello massetano-gavorranese e quello amiatino. In occasione del Convegno del 6 aprile 1919, i delegati di 2500 operai aderenti alla Federazione giunsero alla formulazione di un Memoriale unico, contenente gli obiettivi per i quali i minatori avrebbero combattuto nei mesi successivi, e stabilirono l’adesione della Federazione alla FIOM.12 La direzione della Federazione fu assunta da Pietro Ravagli, un vecchio socialista di Roccatederighi, e dallo stesso Magnani. Quando l’agitazione in Maremma aumentò a causa dell’irrigidimento delle posizioni della Società Montecatini, che aveva il controllo di quasi tutti gli impianti maremmani, fu proprio Magnani, quindi, che un nuovo Convegno dei minatori inviò a Roma per tentare un accordo con i rappresentanti delle società minerarie. Al fallimento di quel tentativo in extremis seguirono tre mesi di mobilitazione e di scioperi, dai quali il movimento uscì, se non completamente vittorioso, in ogni caso estremamente rafforzato.

L’anno successivo vide la nascita della Federazione italiana Addetti alle Miniere (FIAM), la cui Federazione regionale, con sede a Grosseto, fu costituita nell’agosto 1920. Alla segreteria fu chiamato Marino Magnani, che nel frattempo era impegnato anche sul piano più strettamente politico del dibattito interno al partito socialista, aderendo alla frazione Marabini Graziadei, favorevole alla fondazione del Partito comunista. Scrivono Cassola e Bianciardi che «forse la separazione fra “uomini ugualmente cari” risultò ancor più drammatica a Grosseto, allorché la battaglia politica all’interno del PSI vide contrapporsi massimalisti e comunisti, unitari e scissionisti, mentre i pochi riformisti rimasero ai margini del dibattito. Comunque, la radicalità espressa dal movimento nei mesi precedenti ebbe come manifestazione politica la massiccia adesione al Partito comunista d’Italia di tutta la nuova leva dei quadri della Federazione giovanile e il 26 per cento degli iscritti in precedenza al Psi».13 Fra le organizzazioni sindacali più importanti, si dichiararono comunisti Primo Lessi, segretario della Camera del lavoro di Grosseto, e Marino Magnani, per la FIAM. Magnani divenne fin da subito segretario della Sezione di Grosseto e collaborò quindi all’organizzazione del I Congresso provinciale comunista di Grosseto.

In data 13 marzo 1921, il Congresso vide la presenza dei circoli giovanili di quasi tutta la provincia; le sezioni sul territorio, infatti, a quella data erano già 31 e altre se ne stavano formando. Segretario fu nominato Magnani, mentre Enrico Ferrari assunse la presidenza del Congresso che dichiarò costituita la Federazione comunista provinciale, con un direttivo composto fra gli altri da Marino Magnani per Grosseto. Ed è ancora Magnani a occuparsi del movimento giovanile e di quello femminile: rammenta che 55000 giovani su 60000 sono entrati nella Federazione comunista e osserva che «se in provincia scarseggiano gli elementi adatti [all’opera di consolidamento delle sezioni], vi è però una gran fede in tutti».14 Magnani, che da poco è diventato direttore del nuovo giornale “L’Idea comunista”, organo del neo-nato partito grossetano, si occupa poi della questione della stampa, richiamando i compagni al dovere di garantire anche nella provincia la vita di un foglio «di propaganda e di battaglia per sostenere e diffondere le nostre idealità».

Ulteriore momento di confronto, fondamentale, fu quello del Consiglio generale delle Leghe della Camera del Lavoro che si tenne a Grosseto il successivo 20 marzo, quando con 9800 voti contro 5600 venne decisa l’adesione alle posizioni comuniste e confermata la scelta della segreteria. In quell’occasione Magnani dichiarava, come comunista, di essere «incondizionatemente per l’unità proletaria» e riaffermava la «ferrea volontà» di rimanere «a viva forza, magari con i denti, attaccati alla Confederazione generale del lavoro». Parole rafforzate dal manifesto della Camera del Lavoro di Grosseto, affidato sul “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921 alle parole di Primo Lessi, che ribadiva alle leghe, ai sindacati, alle cooperative: «nei nostri sindacati c’è posto per tutti. Abbiamo un concetto larghissimo delle libertà di opinione politica. Questa dovrebbe essere una garanzia per convincere tutti a lavorare per l’unità sindacale».15

idea comunistaDi li a poco, però, anche in provincia di Grosseto dilagò la violenza squadrista. Su “L’Idea comunista” del 27 marzo 1921 Magnani consapevolmente scriveva che «il Partito comunista, pur essendo contro la violenza individuale e la guerriglia a base di incendi e distruzione, ha semplicemente sostenuto e sostiene che la massa si prepari (spiritualmente e materialmente) per l’urto finale e decisivo». Una violenza che, ovviamente, si rivolse proprio contro Magnani: durante la “conquista” squadrista di Grosseto, quando numerosi antifascisti furono obbligati a sottoscrivere dichiarazioni di sottomissione che venivano affisse ai muri, «fu pure affisso un manifesto diffamatorio contro il dirigente sindacale Magnani».16

Nel luglio, però, dopo che la spedizione squadrista contro Roccastrada aveva suscitato lo sdegno di tutta Italia, la situazione divenne più incerta. Anche a Grosseto ci fu chi aderì al tentativo di sottoscrivere un “patto di pacificazione” e fra coloro che partecipavano agli incontri finalizzati a tale iniziativa c’era Marino Magnani, in qualità di rappresentante della FIAM. Ma l’accordo, sottoscritto il 2 agosto a Roma, per Grosseto rimase lettera morta. Da quel momento, quindi, la situazione locale per i “sovversivi” si fece complessa e incerta e moltissimi antifascisti si trasferirono nelle grandi città. Magnani fu invitato a dimettersi da segretario della FIAM e dal Pcd’I; al suo rifiuto fu costretto a prendere la via dell’esilio. Obbligato ad abbandonare la Maremma, Magnani si rifugiò inizialmente a Torino, dove scrisse qualche articolo su “L’Ordine nuovo” e strinse amicizia con Gramsci. Rientrò poi in Toscana per tentare di riorganizzare Sezioni di partito, ma fu nuovamente costretto ad allontanarsi: si rifugiò a Tivoli e a Roma dal 1924, dove fu uno dei militanti più attivi del Comitato dei profughi comunisti. E’ probabilmente lui il “buttero maremmano” che narra la cronaca delle ripetute violenze fasciste sulle colonne de “Il comunista”, nuovo quotidiano del Pcd’I edito a Roma, di cui risulta corrispondente.

Fu arrestato infine a Roma, il 16 dicembre 1926: il 5 gennaio successivo cominciava per lui la lunga e drammatica vicenda del confino (condannato a 5 anni), prima alle Tremiti, poi a Ustica, quindi a Lipari.17 Solo nell’agosto 1929, in occasione della morte del fratello Mantilio, poté fruire di una breve licenza per tornare a Grosseto. Nell’ottobre dello stesso anno, infine, fu liberato condizionalmente e fatto accompagnare a Grosseto, ma, “attenzionato” dalla Questura, lasciò poco dopo la città per traferirsi a Roma dove trovò lavoro come impiegato in una società privata. Seppur continuamente vigilato, da quel momento in poi non parve dar luogo a rilievi per la condotta morale e politica.

In seguito, invece, Magnani partecipò attivamente alla lotta di Liberazione, prendendo parte all’azione di Torpignattara, forse quella in cui venne ucciso il commissario Stampacchia, ritenuto il maggior responsabile del clima di terrore che i tedeschi hanno imposto alla popolazione e alle organizzazioni resistenti. Nel 1944 rientrò a Grosseto dove all’unanimità «i lavoratori della provincia, grati a lui per la coraggiosa e instancabile attività, per l’atteggiamento dignitoso e coerente tenuto di fronte al fascismo, lo elessero segretario della Camera confederale del lavoro».18 Fu anche consigliere comunale e assessore dal 1946 al 1950. Candidato nelle liste del Partito comunista nel collegio XVII ( Siena-Arezzo-Grosseto), fu eletto all’Assemblea costituente con 6.796 voti e proclamato il 7 giugno 1946.

l'unità 08.06.1946

l’unità 08.06.1946

Alcune sue interrogazioni riguardarono fatti della provincia di Grosseto, cui continuava a essere rivolto il suo sguardo, con un’attenzione per tematiche a lui molto vicine: un’interrogazione scritta per il rifiuto del Questore del capoluogo maremmano di concedere licenza d’affissione a manifesti della Federazione comunista; un’altra circa il trasferimento imposto a un funzionario dell’Ufficio elenchi nominativi dei lavoratori e per i contributi agricoli unificati, misura dovuta per Magnani al fatto di aver svolto attività sindacale. Un intervento, inoltre, su una questione locale molto nota: la revisione della condanna a morte di Ivo Turchi emessa dal Tribunale militare alleato di Livorno per aver commesso atti che, in occasione del tragico bombardamento alleato su Grosseto del giorno di Pasqua del 1943, avevano provocato la morte di un aviatore il cui apparecchio era stato abbattuto dalla contraerea.19

Nel ricordo che fece di lui l’on. Tognoni alla Camera si legge che «successivamente, anche per le privazioni, per le percosse subite, per le difficoltà incontrate nella vita durante il periodo fascista, l’onorevole Magnani cominciò a perdere le proprie capacità di lavoro e di attività: il suo fisico era minato dalla malattia, che poi l’ha portato alla morte».20 Conclusasi nel gennaio 1948 l’esperienza parlamentare, Magnani si ritirò dall’attività politica di primo piano. Diresse il movimento cooperativo nella provincia di Grosseto e fu Segretario provinciale dell’Associazione nazionale perseguitati politici antifascisti. Morì il 23 settembre 1964.


BIBLIOGRAFIA:

Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018.

Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.

Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.

Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.

Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.

AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988

Il Risveglio

L’idea comunista

A. Dal Pont, S. Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano 1983, ad indicem

ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani

ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo

ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio

ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele


NOTE:

1 Sulla complessa questione locale del rapporto fra PSI e sindacalismo rivoluzionario, cfr. Fabrizio Boldrini, Minatori di Maremma. Vita operaia, lotte sindacali e battaglie politiche a Ribolla e nelle Colline metallifere (1860-1915), Effigi, Roccastrada 2006.

2 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseeto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
3 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, Laterza, Bari 1956.
4 ACS CPC b. 2927 f. 14718 Marino Magnani.
5 Adriano Arzilli, La provincia di Grosseto prima dell’avvento del fascismo: situazione socio-economica, mezzadri, braccianti, minatori, sindacati, partiti, Editrice Il mio amico, Roccastrada 1998, p. 190.
6 Manfredo Magnani, Nel movimeno giovanile socialista. SERRIAMO LE FILE, in “Il Risveglio” del 21 luglio 1918.
7 ACS CPC b. 2927 f. 45147 Magnani Manfredo.
8 ACS CPC b. 2927 f. 1511 Magnani Mantilio.
9 ACS CPC b. 2927 f. 87525 Magnani Michele.
10 Marino Magnani, Massimo e Minimo, in “Il Risveglio” del 2 marzo 1919.
11 Ivano Tognarini, “Marino Magnani”, in I deputati toscani all’assemblea costituente. Profili biografici, a cura di Pier Luigi Ballini, Consiglio regionale della Toscana, 2018, p. 393.
12 AA.VV., Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie e contadine nel grossetano. Contributi di storia sociale, Ediesse, Roma 1988, p. 118.
13 Carlo Cassola, Luciano Bianciardi, I minatori della Maremma, cit.
14 Congresso provinciale comunista di Grosseto, in “L’Idea comunista” (anno 1 n. 2) del 27 marzo 1921.
15 Movimento sindacale, Camera confederale del Lavoro di Grosseto e provincia: Alle leghe! Ai sindacati! Alle cooperative!, in “Il Risveglio” del 6 febbraio 1921.
16 Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma, 1900-1925, Cinque lune, Roma 1987.
17 Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino: le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, La Pietra, Milano 1983.
18 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, in Camera dei deputati, IV legislatura, Discussioni, Seduta del 29 settembre 1964, p. 10056.
19 Il 26 aprile 1943, lunedì di Pasqua, Grosseto subì il suo primo bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale. Ne avrebbe subiti altri 18, ma questo sarà sempre ricordato per il tragico prezzo di vite civili che costò. Morirono infatti 134 grossetani, tra cui decine di bambini uccisi mentre stavano giocando sulle giostre di un Luna Park situato appena fuori Porta Vecchia (cfr. La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del lunedì di Pasqua del 1943, in www.grossetocontemporanea.it/la-ricerca-storica-sul-bombardamento-del-lunedi-di-pasqua/).
20 Mauro Tognoni, Commemorazione dell’ex deputato Marino Magnani, cit., p. 10057.

 




Lungo l’aspra via dell’idea

A Livorno!
Ancora una tappa. È necessario. Lungo l’aspra via dell’Idea ogni tanto ci fermiamo, raccogliamo le forze, le passiamo in rassegna, ci volgiamo indietro, la guardiamo intorno e davanti, vicino e dietro.
Qualcuno stanco per l’asperità del terreno si ferma e ritorna, gli altri riprendono la marcia in file serrate che si ingrossano sempre di più strada facendo.

Così, il 4 gennaio 1921, «L’Avvenire» salutava il congresso di Livorno, dove, più divisi che mai, i socialisti erano chiamati a votare l’adesione alle 21 condizioni poste per l’ingresso nella Terza Internazionale. Organo della federazione circondariale socialista e dotato di una storia ultratrentennale, il settimanale era allora gestito dalla corrente maggioritaria nel partito: quei “socialisti massimalisti” che, rappresentati dal direttore de «L’Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, avevano inizialmente guardato con favore sia al ruolo guida della Russia rivoluzionaria sia alla Terza Internazionale.

Molti erano però i motivi che stavano incrinando gli entusiasmi. La disgregazione dei partiti socialisti francesi e tedeschi suscitava analoghe paure per il partito italiano; decisivi erano stati anche i dubbi sulla possibilità di organizzare una rivoluzione in breve tempo, esibiti dall’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Soprattutto il mancato appoggio dei massimalisti scavò un fossato profondo tra di loro e le frange più radicali: il gruppo torinese di «Ordine Nuovo» (rappresentato da Gramsci, Terracini e Togliatti), gli “astensionisti” campani di Amedeo Bordiga e l’eterogenea «terza componente» tosco-emiliana.

Se dal panorama nazionale spostiamo lo sguardo su quello pistoiese poco netta fu, a questo proposito, la posizione de «L’Avvenire», impegnato in quanto organo ufficiale del PSI locale a giostrarsi tra le sue litigiose correnti. Confusa era anche la situazione politica locale: nel 1919 la giunta clerico-moderata di Arrigo Tesi era stata commissariata per irregolarità nella gestione dei magazzini comunali e venne destituita. Tra il maggio e giugno  1919 erano stati organizzati numerosi scioperi tra i lavoratori dell’industria; il 4 luglio, durante la manifestazione contro il caro-vita, un esasperato gruppo di lavoratori assaltò il centrale Emporio Lavarini.

Come il direttivo nazionale, anche quello del PSI locale era discorde sulla linea da adottare. Buona parte della rivista – gestita allora da Pietro Querci – e del gruppo dirigente pistoiese era legata ai serratiani. A Capostrada forti erano i bordighiani, mentre in montagna il punto di riferimento era Savonarola Signori, sindacalista di simpatie ordinoviste e sindaco di San Marcello tra 1921 e 1922. Roccaforte dei riformisti era invece la Camera del Lavoro, presieduta da Alberto Argentieri.

Se l’editoriale A Livorno!, auspicava sì una scissione, ma a destra, i comunisti erano infatti favorevoli a creare un partito autonomo. Tra questi figurava l’autore de I comunisti al congresso di Livorno (pubblicato il 15 gennaio 1921), ON-DA:

Credo – scriveva infatti – che la frazione comunista, già a [sic] Partito Politico vibrante di vita e di fede, a Livorno debba iniziare la sua battaglia, non nell’orbita del passato, ma lontano da questo per un principio di purezza e di vitalità.

Ugualmente orientata verso la scissione a sinistra era la corrente riformista. Nel suo editoriale Da Genova a Livorno (pubblicato il 22 gennaio) V., nel ricordare le precedenti scissioni (quella degli anarco-sindacalisti, negli anni ’90; dei sindacalisti rivoluzionari, nel 1904; della minoranza favorevole all’intervento nella guerra italo-turca, nel 1912), bollava quella futura «una dolorosa ineluttabilità».

L’esito del congresso minò il complesso equilibrio del PSI pistoiese. La mancata adesione alla Terza Internazionale – che li rigettava a favore del PCd’I – contrastava con gli entusiasmi per la Rivoluzione russa e la convinzione di essere il partito più radicale dell’Europa occidentale. Con la scissione acquistavano un peso maggiore i riformisti e la CGL. Per di più, entro pochi mesi dal congresso, gli iscritti alle singole federazioni dovevano decidere se restare nel PSI o migrare nel PCd’I: scarsa era quindi la consapevolezza di quali strutture sarebbero rimaste ai socialisti.

Questo disorientamento ben emerse nel primo editoriale sull’argomento il 19 febbraio 1921. «Il Congresso della Terza Internazionale»,

non potrà nulla addebitare al nostro Partito Socialista Italiano, il più puro, il più intransigente partito socialista del mondo e finirà col conservarci nei ranghi, perché tenemmo e terremo il nostro posto con onore.

Fu questa una convinzione che venne ribadita anche nei mesi successivi, quando il voto del 10 marzo tra gli associati pistoiesi sancì il passaggio della sede e del settimanale al Pcd’I. Mentre con il numero 19 marzo «L’Avvenire» diventava l’“Organo della Federazione circondariale comunista”, gli esuli socialisti confluivano ne «L’Avvenire socialista», che ancora il 12 marzo ribadiva la vicinanza tra socialisti e comunisti:

I proletari che amano la causa rivoluzionaria non possono voler la divisione del Proletariato, sia pure nel solo campo politico. L’unione fa la forza!

Una condivisione messa fortemente in dubbio dall’altro elemento della diade. «Il partito socialista» chiosavano infatti i comunisti sul primo numero de «L’Avvenire»

prima e durante la guerra non à [sic] dimostrato chiaramente di possedere qualità rivoluzionarie […]. Il dopoguerra à [sic] poi lumeggiato tutta l’impotenza rivoluzionaria di questo partito […]. Ed allora come si fa a chiamare ancora rivoluzionario questo partito socialista?