1

L’8 settembre di Bettino Ricasoli

L’Armistizio, la dissoluzione dell’esercito, Roma occupata dai nazisti nel racconto di Bettino Ricasoli.

La tragedia dell’8 settembre 1943 ha segnato un’intera generazione di Italiani.
Dopo l’annuncio dell’Armistizio centinaia di migliaia tra soldati e ufficiali, sparsi sui vari fronti di guerra, si trovarono di colpo privi di ordini, senza saper che fare né dove andare, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, non più alleati ma nemici.
Qualcuno riuscì a tornare a casa con mezzi di fortuna. Chi cercò di resistere, come i nostri soldati a Cefalonia e Corfù, venne massacrato senza pietà. Oltre 630.000 militari italiani, rastrellati o catturati con l’inganno, furono deportati in Germania.
Bettino Ricasoli aveva allora 21 anni. Richiamato alle armi nel gennaio del ‘43, alla fine di luglio era a Terracina per un periodo di addestramento prima di essere inviato al fronte. Qui lo colse l’8 settembre, quando non aveva ancora combattuto né sparato un solo colpo.
Il barone ha accettato di raccontare la sua personale avventura. Lucidità e chiarezza della narrazione, insieme all’eccezionalità delle circostanze di cui è stato testimone, rendono preziosa la sua testimonianza.

“C’era già stato lo sbarco a Salerno, Terracina e la ferrovia Roma-Napoli venivano spesso bombardate dall’aviazione alleata. Noi dovevamo sorvegliare la costa e agire se ci fossero stati degli sbarchi nel tratto fra il monte Circeo e Terracina. Lì ci prese l’8 settembre. Rimanemmo ai nostri posti, non sapendo esattamente cosa fare, tutte le comunicazioni con i comandi erano interrotte. Con i nostri ufficiali decidemmo di togliere gli otturatori ai cannoni per renderli inservibili, nel caso che i tedeschi si impossessassero di queste zone, e di andare a Sabaudia, dov’era il comando della divisione da cui dipendevamo. Vi arrivammo andando a piedi attraverso i campi durante la notte per non farci vedere. Eravamo convinti che i Tedeschi avrebbero opposto resistenza”.

Li attendono due sorprese. La prima è che a Sabaudia il comando di divisione non c’è più, dissolto come neve al sole. Increduli e confusi, i soldati decidono di tornare indietro e rioccupare le posizioni, per non rischiare di passare da traditori. Precauzione inutile, perché la postazione è deserta e dei comandanti non c’è traccia.
La seconda sorpresa è che i Tedeschi fuggono in maniera disordinata, con tutti i mezzi che riescono a trovare.

“Scappavano lungo la costa con chiatte, barche, barconi, soprattutto di notte. Andavano verso il nord. Vicino a noi c’era una postazione antiaerea tedesca. Una mattina un gruppo di soldati tedeschi che erano al servizio di questa postazione, armati fino ai denti, con collane di proiettili, vennero a dirci: “La guerra è finita, noi ci arrendiamo a voi”, proprio così. Noi non sapevamo cosa fare nemmeno di noi stessi, non avevamo più rifornimenti di cibo, non sapevamo più niente, eravamo abbandonati lì. Gli dicemmo: “Se volete restare con noi rimanete, ma non abbiamo nemmeno da darvi da mangiare”. Allora andarono via”.

Nei primi giorni dopo l’armistizio i Tedeschi che si trovano a sud di Roma attraversano una fase di smarrimento, con l’esercito alleato che incalza. Scappano verso il nord più velocemente che possono senza incontrare, purtroppo, nessuna resistenza. Ben presto si riorganizzano e riprendono il controllo della situazione.

“Per un certo numero di giorni anche i Tedeschi non sapevano cosa fare e si ritiravano. Secondo quello che potevamo giudicare noi dal nostro punto di vista, se a Roma ci fosse stata una volontà di combattere, se ci fosse stato un esercito organizzato e comandato in modo efficace, sarebbe stato possibile bloccarli. Dopo qualche giorno, a una settimana circa dall’armistizio, è arrivato nella nostra zona, fra il monte Circeo e Terracina, un ufficiale tedesco. Hanno emesso un proclama in cui si stabiliva che tutti i giovani in età militare dovevano consegnarsi alle autorità tedesche. A quel punto decidemmo di andar via”.

Rientrato in Toscana Bettino Ricasoli si ricongiunge ai familiari, che da Firenze si sono trasferiti nel loro castello a Brolio, presso Gaiole in Chianti. Dovrebbe essere una sistemazione abbastanza sicura, lontana dalle principali vie di comunicazione. Ma non è affatto sicura per il giovane, che a Gaiole è un personaggio molto in vista. Non avendo nessuna intenzione di arruolarsi nell’esercito di Salò, non gli rimane che nascondersi. Sceglie Roma, dove ha dei parenti che possono aiutarlo ed è più facile far perdere le proprie tracce.
Nella capitale occupata dai nazisti l’atmosfera è cupa. Repubblichini e tedeschi danno la caccia ai renitenti, gli scantinati sono pieni di sfollati, manca il cibo. Il Vaticano ricorre a un espediente per salvare un certo numero di giovani dai rastrellamenti: li arruola nella Guardia Palatina. Tra di loro c’è anche Bettino Ricasoli.

“A un certo momento il Vaticano ha voluto mettere più al sicuro molti di quei giovani che erano a Roma nelle mie condizioni e ottenne dal comando tedesco di aumentare l’arruolamento delle proprie guardie palatine, per proteggere gli immobili extraterritoriali, che appartengono allo stato del Vaticano ma sono nella città di Roma.
In quell’occasione anch’io riuscii a entrare al servizio della Città del Vaticano, con l’obbligo di fare un turno di guardia ogni 10 giorni. Fui assegnato alla Casa Generalizia dell’ordine dei Gesuiti, che è dietro il colonnato di San Pietro e domina la collina che guarda il Tevere. Ci sono ancora le vecchie mura di Roma, il servizio consisteva nel passeggiare avanti e indietro su queste mura. Facevo il turno di guardia e mi occupavo di assistenza. Roma si riempì di sfollati dalle campagne che venivano su, spinti dall’avanzare del fronte. Venivano dal napoletano, da Cassino. Stavano accampati in questi tunnel, erano state organizzate delle mense che ottenevano dal Vaticano piselli secchi che venivano cotti e distribuiti. Me ne alimentavo anch’io. Giravo per Roma con una tessera che avrebbe dovuto proteggermi se fossi incappato in quelle che chiamavano le retate: i repubblichini chiudevano un gruppo di strade e passavano al setaccio tutti quelli che erano dentro; se trovavano qualcuno in età da militare veniva preso e portato via su al nord, si diceva nei campi di concentramento in Germania. Ma con la carta del Vaticano si era quasi sicuri”.

Nonostante la fame e il clima di oppressione Ricasoli è convinto, come tutti, che gli Alleati non tarderanno ad arrivare. Nell’autunno del ‘43 nessuno immagina che il fronte rimarrà bloccato a Cassino per sei lunghi mesi. E l’occupazione nazista della Capitale si trasforma in un incubo che sembra non aver mai fine.

(Prima parte della testimonianza di Bettino Ricasoli raccolta il 4 marzo 2004)

La seconda parte dell’intervista in “L’incendio di Brolio”.




Aperossa

L’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico con sede a Roma, è stato costituito alla fine degli anni settanta da un gruppo di intellettuali e registi tra cui  Cesare Zavattini che è stato anche il primo presidente, ed è divenuto Fondazione con DPR del 13 febbraio 1985.

logo aamod 1La Fondazione svolge attività scientifica e politico-culturale nel campo degli audiovisivi e della multimedialità, per favorire la costruzione di una memoria collettiva della vita sociale, delle lotte democratiche e dei loro protagonisti. Tra le sue finalità istituzionali più importanti, vi è la ricerca, la raccolta, la conservazione, la catalogazione e il restauro di documenti cinematografici, videomagnetici, digitali, sonori, grafici e fotografici su ogni tipo di supporto, sia a carattere documentario che di ricostruzione narrativa. Di uguale importanza è l’attività di studio, analisi, diffusione e riuso di tali documenti, affinché essi non rimangano «nelle scaffalature in una indeterminata attesa», come diceva Cesare Zavattini, ma divengano un bene culturale condiviso, stimolo di riflessione e conoscenza. Quindi, la Fondazione promuove ricerche e restauri, cura pubblicazioni specializzate, collabora a festival, organizza convegni, seminari, rassegne, mostre su temi legati alle sue aree di interesse istituzionale; realizza, inoltre, corsi di formazione con particolare attenzione alle figure professionali del documentalista e del film maker e ai temi connessi al settore archivistico. Il linguaggio filmico rappresenta uno straordinario strumento per analizzare, comprendere, rappresentare e comunicare la realtà: perciò la Fondazione sostiene, anche in collaborazione con altre strutture, la produzione di film a base d’archivio, e continua a documentare attraverso l’audiovisivo gli eventi del presente, incrementando così il proprio deposito di memoria. http://www.aamod.it/

L’anno scorso, avvicinandosi la ricorrenza del 70° della Liberazione, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico ha presentato all’Assessorato alla Cultura della Regione Toscana un progetto denominato “Aperossa”, finalizzato a realizzare una serie di iniziative legate all’idea che le proiezioni pubbliche e itineranti non solo abbiano ancora un senso, ma rappresentino una possibilità di comunicazione interessante e originale. http://aamod-aperossa.com/2015/04/08/laperossa-torna-in-toscana/

Queste proiezioni sono organizzate intorno all’Aperossa che cercherà di diventare segno e simbolo di una forma di partecipazione ed espressione artistica condivisa. Infatti, l’Aperossa non sarà soltanto il “veicolo” che porta, organizza e cura la proiezione di materiali audiovisivi legati al territorio, una specie di moderno cantastorie, ma diventa anche “centro di raccolta” di materiali privati come fotografie e filmini di famiglia e amatoriali, che saranno acquisiti dopo il rilascio di regolare ricevuta e restituiti ai legittimi proprietari dopo essere stati digitalizzati e messi in condizione di diventare patrimonio condiviso attraverso la loro messa in rete su un sito internet appositamente costruito. Le caratteristiche strutturali del mezzo, la mobilità e le dimensioni ridotte, fanno si che un’Aperossa attrezzata per le videoproiezioni può essere uno strumento agile e brillante per ascoltare e raccontare storie nelle strade, nelle piazzette, nei vicoli dei centri storici, in quegli spazi alle volte molto ristretti, ma ugualmente frequentati dalla gente, dagli anziani e dai giovani.

 L’Aperossa è stata presentata al pubblico il 17 maggio 2014 a Sesto fiorentino presso la sede dell’Istituto De Martino e ha iniziato il suo percorso di raccolta di testimonianze e di video proiezioni in giugno a San Quirico d’Orcia, Pienza, Monticchiello e poi Viareggio e Pietrasanta (16 e 19 settembre).

Nel 2015, ha celebrato la memoria del 70° nel Rifugio antiaereo di Massa in collaborazione con la Provincia, il Comune, l’A.N.P.I e l’Associazione Sancio Pancia, il giorno successivo nella biblioteca civica di Carrara con il Comune e l’A.N.P.I. ed infine, per concludere il ciclo di eventi, il 25 aprile a Fosdinovo in collaborazione con il Comune e gli Archivi della Resistenza.

Nel corso delle celebrazioni dell’anno passato e in quello corrente, sono state realizzate diverse interviste a protagonisti dell’epoca e raccolte immagini e testimonianze che saranno utilizzate per produrre una serie di materiali audiovisivi da proporre nelle scuole dei territori nei quali si è mossa l’Aperossa con il fine di evitare di disperdere l’immenso patrimonio di fatti, testimonianze e memoria che la gente della Toscana ha saputo esprimere durante la guerra patriottica di Liberazione pagando un prezzo altissimo in termini di sacrificio e di atti di eroismo contro il nemico e l’oppressore.




Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.




Una tragedia (quasi) dimenticata

“Mamma ti voglio bene ritornerò. Vaiano. 1922. D.M.”

Queste poche criptiche parole incise su una gavetta rimasta impigliata nelle reti di pescatori greci negli anni ‘80 sono il primo, casuale, tassello di una grande storia dimenticata che la Fondazione CDSE e il Comune di Vaiano (Po) hanno contribuito a far riemergere e approfondire. Tutto iniziò (per il CDSE) con una telefonata dalla Puglia, era l’ottobre 2011: il Comune di Surbo (Le) contattava quello di Vaiano per chiedere notizie, cercare agganci in merito a poche frasi sconnesse incise su una gavetta ripescata in fondo al Mar Egeo. Il quadro che si prospetta appare drammatico, ma allo stesso tempo interessante: deportazioni tedesche, un naufragio, 4200 soldati italiani dispersi, una tragedia dimenticata… con grande impegno e passione si inizia la ricerca nei registri delle anagrafi e qualcosa viene trovato. Un nome, un ragazzo: all’atto n° 24 si scopre un aggancio, D.M. Dino Menicacci, nato a Vaiano il 27 febbraio 1922 e disperso in Mar Egeo l’11 febbraio 1944. Dopo quasi settant’anni la gavetta sommersa ritrova il suo soldato. La Fondazione CDSE inizia a fare le prime ricerche documentarie e d’archivio: si richiede il foglio matricolare e caratteristico al CEDOC, si contattano i discendenti del soldato ancora residenti sul territorio e si riesce a ricostruire una storia, sconosciuta anche ai familiari stessi: Dino Menicacci, 22 anni, è tra le circa 4200 vittime del naufragio del Piroscafo Oria, affondato a largo di Capo Sounion (Atene) in una notte di febbraio del 1944.

Ma cosa accadde precisamente tra l’11 e il 12 febbraio 1944? E perché questo, che è probabilmente il più grande disastro navale (bellico) mai avvenuto nel Mediterraneo, risulta essere un capitolo di storia poco conosciuto?

fam andreozzi12 febbraio 1944. È notte a largo delle coste di Rodi, il vecchio piroscafo Oria, stipato con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania, arranca nel mare in tempesta. Il mercantile norvegese, varato nel 1920 e requisito dai tedeschi all’inizio della guerra, era salpato dal porto di Rodi verso le 17,40 dell’11 febbraio 1944 con destinazione il Pireo, Atene. Sul piroscafo, oltre a un carico di bidoni di olio minerale e di gomme da camion, sono imbarcati oltre 4000 soldati italiani che dopo l’8 settembre 43 si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò e per questo erano stati rinchiusi in vari campi di lavoro e definiti IMI, internati militari italiani. Non “prigionieri”, ma IMI: la Germania hitleriana non poteva considerare prigionieri i militari in uniforme appartenenti ad una nazione che, formalmente, era ancora sua alleata (Mussolini era a capo della Repubblica Sociale Italiana nel Nord Italia). In più, la definizione di “Internati” permetteva di aggirare la Convenzione di Ginevra e rendeva difficile, se non addirittura impossibile che la Croce Rossa si potesse interessare di quei detenuti, che si trovarono così abbandonati alla mercé della Germania nazista. Questi soldati (secondo le stime dello Stato Maggiore Italiano i militari presenti a Rodi l’8 settembre 1943 ammontavano a circa 37.500 unità), una volta disarmati, furono invitati ad arruolarsi nelle divisioni dell’RSI: questa scelta poteva significare non solo avere salva la vita, ma anche tornare in patria e lì riscrivere il proprio destino; da un’iniziale adesione alla RSI, molti poi disertarono e salirono in montagna con la Resistenza antifascista. Fatto sta che la stragrande maggioranza degli IMI scelse consapevolmente di non aderire alla RSI, sminuendo ulteriormente agli occhi dei nazisti lo stato fantoccio di Mussolini e dando un fermo segnale dal forte valore antifascista.

piroscafo_oriaIl prolungarsi della guerra e l’acuirsi delle difficoltà per la Germania nazista, resero la situazione nel Dodecaneso sempre meno gestibile per i reparti tedeschi: anche solo sfamare (poco e male) tutti gli IMI era diventata una spesa insostenibile e il rischio di rivolte aumentava di giorno in giorno. A tutto questo si aggiungeva la quotidiana e pressante richiesta da parte della madrepatria di forza lavoro coatta. È questo il contesto in cui si inserisce il naufragio dell’Oria: dal settembre 1943 una direttiva del Führer aveva annullato “tutte le norme di sicurezza relative alla limitazione numerica degli imbarcati” e ordinato di sfruttare “lo spazio al massimo, senza curarsi delle eventuali perdite”. La Kriegsmarine iniziò il trasporto degli italiani seguendo tale direttiva. Il 23 Settembre avvenne il primo disastro. I piroscafi “Donizetti” e “Dithmarschen” e la Torpediniera “TA 10” vennero affondate. Si ebbero 1.584 morti fra gli internati in massima parte dovute alle inosservanze delle norme di sicurezza. A questi disastri fecero seguito quello del piroscafo Leda con 720 morti; del piroscafo Marguerita con 544 morti; della nave da carico Sinfra con 1.850 morti; della motonave Rosselli con 1.300 morti; del motoveliero Alma con 300 morti; del piroscafo Petrella con 2.646 morti.

OriawrecksiteCome si evince da questo drammatico elenco, la vicenda dell’Oria non è l’unica tragedia che coinvolse trasporti navali di truppe italiane dirette in Germania; quello che è certo è che un incidente o un “errore di navigazione” come è stato definito quello dell’Oria, sia passato alla storia come un evento di serie B, rispetto a quelle navi che furono invece affondate o silurate, e che quindi subirono quello che il senso comune tende a definire “un vero e proprio atto di guerra”.

Questa, a grandi linee e ancora con molte lacune a distanza di 70 anni, è ciò che sappiamo in merito al naufragio dell’Oria.

Un importante passo avanti nella ricostruzione delle vicende è stato compiuto dalla rete spontanea dei familiari nata su internet (www.piroscafooria.it) e dalla mailing list che raccoglie tutti i parenti finora rintracciati e li tiene aggiornati su tutte le iniziative e i passi avanti nella ricerca che vengono fatti a livello nazionale; parallelamente anche la Regione Toscana, nell’aprile 2013,  ha appoggiato il progetto di ricerca storica che il Comune di Vaiano (PO) e la Fondazione CDSE stanno portando avanti da circa due anni. Il progetto consiste nella ricostruzione degli eventi legati al naufragio del Piroscafo Oria e nell’individuazione delle famiglie delle vittime che ancora oggi non conoscono le circostanze in cui i propri congiunti trovarono la morte nel mar Egeo nel febbraio 1944. Grazie al sostegno della Regione siamo riusciti a contattare tutti i 287 comuni toscani e ad oggi 128 di questi hanno condotto una ricerca nelle loro anagrafi, aiutandoci a rintracciare ben 30 nominativi e altrettante famiglie toscane riconducibili al naufragio dell’Oria. In occasione del 70 anniversario (9/2/2014) la municipalità greca di Saronikos (sul cui territorio costiero avvenne il naufragio) ha eretto e dedicato un monumento in memoria dei caduti dell’Oria.

Attualmente, con la collaborazione della rete informale dei parenti delle vittime, a livello nazionale il CDSE è riuscito a rintracciare le famiglie di 206 soldati italiani morti nel naufragio dell’Oria; per arrivare a 4200 la strada è ancora lunga, ma speriamo che l’impegno e i buoni risultati ottenuti dalla Regione Toscana siano da esempio anche per le altre regioni italiane.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.




La Giornata del Ricordo a dieci anni dalla prima celebrazione

A distanza di 10 anni dalla prima applicazione della legge istitutiva della Giornata del Ricordo, vale la pena di dare uno sguardo d’insieme a quella che all’inizio fu una sfida per la rete degli istituti storici della Resistenza, oggi è un patrimonio di molte esperienze, che ci consegna anche un’eredità di riflessioni sul rapporto storia-memorie-usi pubblici della storia. La storia di “dolore ed esilio” delle popolazioni del Confine orientale era considerata storia negata; la scena fu occupata allora da conflitti di memorie e usi politici delle vicende di tutta quell’area: foibe, violenze, l’abbandono delle terre che ne erano state teatro: il lungo esodo da Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Nel tempo il fenomeno nazionale della crescita delle date del calendario della memoria ha fatto riflettere sulla creazione di quelli che Giovanni De Luna ha definito “pilastri dell’albero genealogico della nazione”, avvenimenti del nostro passato che si sceglie di ricordare, lasciandone cadere nell’oblio altri. Quella che la Giornata del Ricordo ha voluto sottrarre al silenzio ormai non è più una storia negata. Si sono moltiplicate ricerche nuove, la letteratura e la memorialistica prima a circolazione soprattutto locale hanno raggiunto grande visibilità, scuola e istituzioni puntualmente rispettano il dettato della legge.

partenze

Partenze di profughi da Pola, 1947

Quella di cui si tratta non è questione locale e concentrata tra le prime violenze delle foibe istriane -1943 – e l’esodo, ma parte di un dramma che ha coinvolto milioni di europei durante e dopo la seconda guerra mondiale, “laboratorio” della storia complessa del Novecento: tra guerre, violenze, foibe, diplomazia. Guido Crainz, in un libricino pensato per la buona divulgazione, parlò di «un calvario che ha riguardato milioni di persone […] fra tensioni e conflitti di lungo periodo, l’incubo del nazismo, le macerie materiali e ideali della guerra e i processi traumatici di costruzione di un’Europa ‘divisa’» (Il dolore e l’esilio, 2005). Rimanendo entri i limiti cronologici del Novecento, la Grande Guerra aveva lasciato tensioni legate alla nazionalità, nelle zone di confine tra Italia e paesi slavi, cresciute con i processi d’italianizzazione forzata imposti dal fascismo. Alla deflagrazione della seconda guerra mondiale si accompagnarono gli orrori della guerra fascista nei Balcani (il “testa per dente” contro i partigiani slavi della famosa Circolare 3C Roatta), l’occupazione tedesca del Litorale Adriatico, le Resistenze antifasciste italiana e slava e l’esplosione delle violenze. In forma più o meno sotterranea, l’ombra di quegli eventi s’allunga fino alle strategie della tensione dell’Italia repubblicana.

Guardando alla diffusione delle conoscenze nella società e nella scuola, il bilancio è di una crescita quantitativa di sapere, in parte di coscienza critica, indispensabile per distinguere il lavoro di onesta divulgazione dalle incursioni della politica in argomenti delicati, ancora vivi nelle memorie e nelle implicazioni con le storie di tempi vicinissimi a noi. Sapevamo poco, prima del 2005, degli oltre cento centri nazionali di raccolta profughi, dei luoghi della memoria, del viaggio del piroscafo Toscana e delle traversìe dei profughi (dalle stime tra 200.000 e 350.000), accolti anche in Toscana, in centri di raccolta – il più noto Laterina (AR), la cui esistenza è documentata fino al 1963. Non disponiamo di dati certi sugli arrivi: da un censimento del 1956 si rilevarono 6.074 presenze.

confineA dare strumenti per far crescere le conoscenze ha agito la risorsa-rete nazionale degli istituti storici della Resistenza, collegata anche ad associazioni e centri culturali, come la Società di Studi fiumani di Roma. Essenziale il contributo dell’Istituto regionale del Friuli Venezia Giulia, dalla cartografia del “Confine mobile” all’abbondante storiografia; l’Istituto piemontese organizzò nel 2005 a Torino un corso di formazione, da cui gli istituti toscani riportarono un patrimonio di sapere, inizio del percorso, ancora in atto, di studio, elaborazione didattica, invenzione di iniziative originali di studio e divulgazione. Fu momento di svolta un triennio di lezioni e laboratori che coinvolsero un gran numero di insegnanti, iniziativa istituzionale, sostenuta dalla Regione Toscana e dalla Direzione scolastica regionale, coordinata dall’Istituto di Grosseto in collaborazione con l’ISRT, premessa al viaggio di studio di un gruppo di insegnanti, uno per ciascuna provincia.

L’itinerario del viaggio, seguendo le tappe dei luoghi di memorie dolorose e del “confine mobile”, completò la mappa delle conoscenze. A Trieste, alla Risiera di San Sabba, le tracce dell’orrore dei forni crematori nazisti, accanto a quelle della violenza del fascismo di Confine – Narodnj Dom e Sinagoga. Ma lo sguardo su Trieste era diretto a trovare segni di una città-incrocio tra due linee di confine: nord-sud, est-ovest, confronto e convivenza plurisecolare tra culture. A Gonars ci fu la scoperta del lungo silenzio italiano sul campo di concentramento fascista per slavi, quasi introvabile, a oltre sessant’anni privo di un memoriale. L’Istria e Basovizza mostrarono i segni di altri orrori: gli infoibamenti di italiani, nella fase di persecuzione slava di italiani, nel contesto di un conflitto tra Resistenze e fascismi, ma anche nazionale. In Istria, le campagne dell’interno testimoniavano l’abbandono, porte e finestre chiuse da decenni in città come Albona la definitiva e quasi totale estinzione della comunità italiana. A Padriciano fu ultima tappa del viaggio il Centro raccolta profughi, temporanea dimora di chi aveva scelto di partire, lasciando oggetti, che oggi invece di farsi osservare come indizi di vita passata suscitano una sensazione di morte.

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Il racconto del viaggio è parte essenziale del ruolo che l’esperienza toscana ha avuto nel trasferimento di conoscenze e nella formazione culturale e civile nelle scuole toscane e in ambienti vari, non solo toscani. Un documentario, una mostra itinerante, la diffusione di strumenti didattici che ogni anno si sono affinati, “beni culturali durevoli”, che hanno impedito di disperdere l’eredità di un esperimento interessante, stimolando al contrario altro lavoro. Attualmente sono a fuoco altri temi di studio, altri itinerari, che hanno dilatato il tempo oggetto di interesse e di sperimentazione didattica fino all’epoca dell’esplosione delle nazioni nella ex-Jugoslavia, partendo dallo scoppio della Grande Guerra, come i viaggi a Sarajevo.

Un percorso durato dieci anni ha incrociato momenti storici e geo-politici diversi. Quello attuale richiede con urgenza la sottolineatura della lezione che i più riflessivi tra gli intellettuali nati e vissuti nelle terre di confine o esuli consegnano: il confine come luogo di confronto e non di scontro e negazione dell’altro, la diversità di culture come ricchezza, la conoscenza come mezzo necessario per misurarsi con memorie difficili e lutti non elaborati. Per questo abbiamo a cuore, tra le lezioni che una ricca e buona storiografia ha offerto, quella di Marta Verginella, storica italiana nell’Università slovena di Lubiana, doppia “identità”, in termini linguistici e culturali, per sensibilità vicina a protagonisti della grande letteratura di confine, come Claudio Magris. Conviene raccogliere le buone lezioni, proprio ora che il corso della storia presenta preoccupanti indizi di segno opposto, con forme inedite di violenza e rifiuto dell’altro, in cui l’Europa forse sperava di non doversi più imbattere.




Scioperare contro Hitler: una testimonianza

All’inizio del 1944 la direzione del PCI per l’Alta Italia riunì i rappresentanti dei comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e decise di organizzare uno sciopero generale nelle regioni del triangolo industriale. L’iniziativa venne poi discussa con gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ed estesa al Veneto, all’Emilia ed alla Toscana. Alla data stabilita (1° marzo 1944) circa un milione di lavoratori entrò in lotta, dando vita al più grande movimento di massa verificatosi in Europa sotto l’occupazione nazista. Pieno di rabbia, Hitler ordinò personalmente a Rudolph Rahn, suo ambasciatore a Salò, di far deportare il 20% degli scioperanti, ed anche se «il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per ‘difficoltà tecniche’ inerenti ai trasporti e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica» (Pietro Secchia-Filippo Frassati, Storia della Resistenza, vol. I, Roma, Editori riuniti, 1965, p. 476), tuttavia settecento operai vennero deportati da Torino e varie centinaia da Milano.

In Toscana, a causa di ritardi verificatisi nella preparazione, l’agitazione cominciò il 3 marzo. A Prato lo sciopero, appoggiato da tutti i partiti antifascisti, fu preparato dal PCI nel primo bimestre del 1944. I repubblichini risposero con i rastrellamenti alla buona riuscita dell’agitazione: centotrentasette persone vennero deportate nei campi di sterminio tedeschi (Ebensee, Gusen, Hartheim, Mauthausen … ): i superstiti furono soltanto ventuno.
Tra i principali organizzatori dello sciopero vi fu Renzo Martelli, un coraggioso combattente antifascista che nel 1941 era stato arrestato e deferito al Tribunale speciale, riportando una condanna a sette anni di reclusione con sentenza del 28 aprile dell’anno successivo (su Renzo Martelli, oggi scomparso, cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. III, H-M, Milano, La pietra, 1976, ad vocem). Il 9 settembre 1991 Renzo mi rilasciò un’intervista sui giorni dello sciopero a Prato che venne pubblicata alcuni anni dopo da Azione sindacale. Periodico della CGIL di Prato nel numero del 31 luglio 1997. Ne riproponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento con lievi modifiche.

Nel libro Un popolo alla macchia (Roma, Editori riuniti, 1975) Luigi Longo scrive che gli scioperi del marzo ’44 furono decisi dalla direzione del PCI per l’Alta Italia unitamente ai comitati di agitazione che avevano diretto gli scioperi del ’43. Questa iniziativa venne poi approvata dai CLN (pp. 134-135). Quale organismo decise lo sciopero a Prato?

A Prato fu il CLN che deliberò lo sciopero su proposta dei comunisti. Parallelamente alla discussione che si svolgeva all’interno del CLN, il PCI organizzò alcune riunioni in località La Catena [Quarrata, N.d.C.], per discutere gli aspetti organizzativi dello sciopero. A tali riunioni prese parte Giuseppe Rossi, segretario provinciale del partito. A Prato i principali organizzatori dello sciopero furono – oltre al sottoscritto – Dino Saccenti, Bruno Rosati, Cesare Rosati, Alimo Gori ed Alberto Innocenti.

Sempre Luigi Longo afferma che lo sciopero generale fu attuato nelle principali città dell’Alta Italia il 1° marzo 1944 (p. 136), e che in Toscana esso cominciò due giorno dopo “per il ritardo nella preparazione” (p. 139). Da che cosa dipese questo ritardo?

Tale ritardo fu dovuto alla difficoltà di raggiungere, a proposito della proclamazione dello sciopero, l’unanimità in seno al CLN (che non deliberava a maggioranza, ma, per l’appunto, all’unanimità). Lo sciopero avrebbe comunque avuto luogo perché il PCI era deciso ad organizzarlo anche senza l’appoggio degli altri partiti ciellenistici. La proposta comunista di indire lo sciopero fu sostenuta soprattutto dai socialisti e dagli azionisti. Gli altri erano più tiepidi. I democristiani si pronunciarono a favore dello sciopero, ma il loro apporto sul piano organizzativo fu poi molto limitato.

Aspetti organizzativi. Come venne preparato lo sciopero a Prato? Come furono avvisati gli operai e che cosa fu fatto perché l’astensione dal lavoro fosse la più ampia possibile?

Nei 3-4 giorni che precedettero lo sciopero il PCI costituì delle squadre che agivano durante il coprifuoco lasciando dei manifestini sui davanzali delle finestre, sotto le porte, in campagna, ecc. La notizia dello sciopero fu inoltre diffusa oralmente. Infine il PCI organizzò, la mattina del giorno in cui lo sciopero doveva cominciare, dei posti di blocco, formati da 3 o 4 uomini armati, sulle principali vie di accesso alla città (io facevo parte del nucleo che si trovava alla Madonna del Berti). Lo scopo era quello di rimandare indietro gli operai che si recavano al lavoro, ma solo facendo opera di persuasione, evitando naturalmente minacce o violenze. Le armi servivano nel caso in cui fossimo stati sorpresi dai nazifascisti. Da rilevare che alcuni operai decisero di andare regolarmente in fabbrica senza darci ascolto.

Quali erano gli obiettivi dello sciopero?

Pace e libertà per il popolo italiano. Non furono allora avanzate rivendicazioni di carattere salariale, ecc. L’obiettivo prioritario era la liberazione del Paese.

Quale fu l’estensione dello sciopero? Grosso modo, quante fabbriche ne furono interessate e quanti furono gli scioperanti?

Lo sciopero riuscì bene. Ci furono delle defezioni, ma nella maggioranza delle fabbriche non si lavorò. Sarebbe tuttavia scorretto parlare di astensione generale dal lavoro.

Quale fu la durata dello sciopero? A questo riguardo le cose non sono del tutto chiare.

Lo sciopero cominciò il 4 marzo e si concluse il 7 col rientro graduale degli operai nelle fabbriche. Il 10 io fui incaricato dal centro fiorentino del partito di riorganizzare una formazione partigiana nei dintorni di Vicchio [la Compagnia Ceccutti, N.d.C.] e partii alla volta del Mugello. Ora, se lo sciopero fosse stato ancora in corso a quella data o nei giorni immediatamente precedenti (8 e 9 marzo) io, che ne ero stato uno degli organizzatori, non avrei evidentemente lasciato Prato. Ciò sarebbe stato alquanto strano.

Quale fu il comportamento degli industriali? Anche a questo riguardo le cose non sono del tutto chiare (cfr. Alessandro Affortunati, Vaiano e la sua Casa del popolo. Il movimento operaio nella Valle del Bisenzio, Prato, Pentalinea, 2000, pp. 75-76).

Gli industriali lavoravano per i tedeschi. Essi guardarono quindi con sfavore allo sciopero, ma non mi risulta che le loro responsabilità siano state particolarmente pesanti. Ci furono comunque degli episodi (per esempio al Lanificio Campolmi) che diedero adito a sospetti.

Carlo Ferri ne La valle rossa (Vaiano, Viridiana, 1975, p. 95) scrive che lo sciopero provocò l’interruzione di ogni collegamento fra la città ed i partigiani. A questo riguardo ci fu dunque una carenza organizzativa che si risolse nella mancanza di coordinazione fra la città e la formazione che si trovava ai Faggi?

Lo sciopero creò indubbiamente degli scompensi, ma una formazione partigiana deve essere autonoma. I partigiani che si trovavano ai Faggi dovevano dunque risolvere da soli il problema dei rifornimenti. Non potevano aspettarsi di ricevere allora particolari aiuti dalla città.

Secondo quali modalità ebbero luogo i rastrellamenti attuati dopo lo sciopero?

Non furono seguite modalità particolari: i tedeschi catturavano tutti quelli che capitavano loro a tiro. Va sottolineato il fatto che i repubblichini ebbero gravissime responsabilità nei rastrellamenti perché erano loro che conoscevano bene i luoghi, le fabbriche e le persone.

A tanti anni di distanza quale bilancio ritieni di poter fare dello sciopero del marzo ’44?

Lo sciopero sollevò il morale della gente nonostante le deportazioni. Dimostrò che agire era possibile, se se ne aveva la volontà, ed è significativo il fatto che, dopo la fine dello sciopero, il numero delle persone che salivano in montagna aumentasse. A Prato, come nel resto del Paese, lo sciopero del ’44 fu una tappa importante della lotta di liberazione.




“Voci, suoni e storie della Resistenza”

L’Istituto Ernesto de Martino, grazie a un finanziamento della Regione Toscana, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, realizzerà il progetto “Voci, suoni e storie della Resistenza. Una progetto di ricerca e di valorizzazione delle fonti orali negli archivi toscani” con il compito di censire, restaurare e valorizzare la memoria storica della lotta di Liberazione in Toscana conservata negli “archivi orali” pubblici e privati della regione.

Nel corso degli anni sotto la spinta di diverse e convergenti aspettative (scientifiche, politiche, artistico-espressive, identitarie-locali, generazionali-formative) si è sviluppata una pratica diffusa di ricerca istituzionale e “dal basso” per ricostruire la memoria del periodo della Resistenza; tali materiali sonori sono disseminati in numerosi archivi pubblici e privati, presso enti, associazioni, istituti, biblioteche o singoli ricercatori e appassionati. Molto spesso, purtroppo, sono conservati senza una necessaria cura archivistica e senza l’assistenza tecnica necessaria per la loro fruizione, spesso al limite della stessa possibilità di conservazione, vista la fragilità dei supporti magnetici e l’ingente costo della tecnologia, delle risorse e delle competenze necessarie per il lavoro di digitalizzazione dei nastri a bobina. In tal modo questa ingente mole di documenti e di fonti storiche, che rappresenta un patrimonio culturale di inestimabile valore, resta perlopiù inaccessibile e sconosciuta, anche agli stessi addetti ai lavori, nonostante le potenzialità d’uso e di divulgazione pubblica che le fonti sonori consentono in ambito formativo e artistico e grazie agli strumenti del web.

Per la realizzazione del progetto “Voci, suoni e storie della Resistenza” l’Istituto Ernesto de Martino ha previsto un lavoro articolati in diverse fasi:

  1. Monitoraggio e censimento delle fonti. Una ricerca capillare sulla consistenza e la dislocazione dei documenti attraverso un monitoraggio che possa connettersi al censimento regionale toscano degli “archivi orali” realizzato nel 2007 grazie al volume “I custodi delle voci“ entrando nel merito dei materiali già censiti, per aggiornare e ampliare tale strumento archivistico con una ulteriore messa a punto sul campo, in modo da realizzare un inventario complessivo delle fonti orali sulla Resistenza presenti nella Regione Toscana.
  2. Descrizione, salvataggio, digitalizzazione dei materiali. L’Istituto Ernesto de Martino sulla base dei risultati ottenuti selezionerà il materiale da restaurare e digitalizzare, realizzando presso il laboratorio tecnico dell’Istituto il riversamento in copia digitale dei materiali analogici prescelti. In tal modo sarà possibile convogliare nell’Archivio sonoro dell’Istituto de Martino copia dei materiali digitalizzati, mentre gli originali e una copia digitalizzata torneranno ai soggetti proprietari. In tal modo verrà creato un punto di raccolta regionale delle fonti sonore della ricerca sulla Resistenza da rendere fruibile con un pubblico accesso e una libera consultazione.
  3. Analisi e studio dei materiali. Sulla base dei risultati del lavoro svolto sarà possibile realizzare uno studio dei materiali in grado di fornire un quadro storico della ricerca e dei suoi sviluppi e un inventario archivistico complessivo delle fonti raccolte. L’Istituto de Martino realizzerà un dossier finale che assieme al quadro conoscitivo e documentario appronterà delle ulteriori linee di sviluppo e di valorizzazione del materiale raccolto.
  4. Fruibilità e valorizzazione. L’Istituto de Martino renderà fruibili tali materiali e li renderà consultabili presso la propria sede, previo accordo con i proprietari e i donatori; sarà inoltre possibile la valorizzazione di tale documentazione storica grazie alle attività culturali (formative e scientifiche) e agli eventi pubblici (convegni, feste, concerti, dibattiti) organizzati dal nostro Istituto in collaborazione con le istituzioni pubbliche, le università, gli enti locali e le associazioni culturali della società civile.

 In direzione delle finalità espresse dal progetto vi chiediamo di fornire la vostra preziosa collaborazione mettendovi in contatto con l’Istituto Ernesto de Martino per segnalare i materiali da censire e per effettuare un sopralluogo e una verifica dello stato dei materiali. In allegato trovate una scheda di censimento che vi preghiamo di compilare e di aiutarci a far circolare.




Memorie di bronzo, memorie di pietra.

Era il 16 settembre 1945 quando il popolo di San Lorenzo appose sulla fiancata dell’omonima chiesa una lapide per ricordare la fucilazione di sei civili da parte dei soldati tedeschi avvenuta il 12 settembre 1943. Era il primo dei “segni di memoria” posti a Pistoia per ricordare la guerra e la Resistenza.

Inizialmente il Comune, nonostante fosse governato da PCI e PSI, dimostrò una certa riluttanza a impegnarsi in questa politica, lasciando l’iniziativa ai singoli e alle associazioni. L’iniziativa della Giunta fu probabilmente bloccata dal conflitto tra la visione della Resistenza della DC, che dominava i centri finanziari locali e tendeva a presentare l’evento come una lotta per la libertà ormai conclusa, e quella del PCI, che vedeva la Resistenza come la tappa di un processo da portare avanti.

Vi fu così una divisione urbanistica tra il centro cittadino, dove il ricordo si concentrò sui civili e i partigiani morti per mano nazi-fascista, e le chiese di periferia, dove furono poste le lapidi dedicate ai soldati.

La risistemazione nel 1959 del quadrato dei caduti nel cimitero da parte del comune segnò la fine di questa prima fase conflittuale: per la prima volta la proposta fu accettata all’unanimità dal consiglio. In secondo luogo, dal 1959 al 1984 non fu inaugurato nessun monumento di grande portata. Questo atteggiamento non si traduceva nell’accantonamento della Resistenza, anzi. In quegli anni, anche a Pistoia le cerimonie per il 25 aprile vedevano la partecipazione di tutti i partiti ciellenisti e avvaloravano il concetto di Resistenza come “secondo Risorgimento”.

Vi erano dunque altre cause. Negli anni ’60 la maggior parte di chi voleva ricordare i propri cari lo aveva già fatto, mentre l’esperienza del centro-sinistra stemperò le tensioni politiche e la contesa sulla Resistenza.

Una nuova fase fu aperta dal Sacrario per i caduti di tutte le guerre, inaugurato al cimitero di Pistoia per commemorare tutti caduti nel 1984. Era l’unico progetto a volgere in quella direzione: le altre opere (come la scultura di Flavio Bartolozzi in Piazza San Lorenzo), inserite nel tessuto cittadino e dalla visibilità pronunciata, insistevano sulla partecipazione della popolazione alla Resistenza. La sensazione è che si cercasse di ribadire una politica memoriale posta in discussione dalla fine del «compromesso storico». Il tracollo della Prima Repubblica, con la scomparsa o la trasformazione dei partiti ciellenisti, procurò ulteriori sconquassi.

A causa dell’instabilità dell’amministrazione locale tra il 1985 e il 1992, una nuova politica della memoria fu elaborata solo verso la fine degli anni ’90. Protagonisti delle commemorazioni  furono i civili: lo scopo non era più condannare la repressione nazi-fascista, ma deplorare la guerra in quanto tale.

Anche la materialità del ricordo venne meno. Le grandi lapidi in marmo hanno lasciato spazio a piccoli riquadri in pietra e a cippi orizzontali. Quasi invisibili all’occhio distratto del cittadino, i nuovi segni testimoniano il desiderio di accostarsi alla quotidianità e all’umiltà delle vittime; ma, non marcando il paesaggio, corrono il rischio di consegnare all’oblio i nomi di chi si voleva ricondurre alla luce.

Chiara Martinelli è dottoranda presso l’Università degli studi di Firenze ed è membro dal 2007 della redazione della rivista «QF. Quaderni di Farestoria». Tra le principali pubblicazioni, si segnalano: Esigenze locali, suggestioni europee. L’istruzione professionale italiana (1861-1886), «Passato e presente», n. 93, 2014, Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, «Società e storia», n.137, 2012, Una città industriosa e la sua scuola: fondazione e primi anni di vita della Regia Scuola Industriale Antonio Pacinotti (1907 – 1924), Pistoia, I. S. R. Pt., 2010.