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Contro discriminazioni e sfruttamento. Le scelte di Alessandro Sinigaglia

Alessandro Sinigaglia nasce in una villa nel comune di Fiesole il 2 gennaio 1902, la madre Cynthia White è una “negra” come si diceva allora, americana, protestante, cameriera della famiglia Smith, trasferitasi pochi anni prima dagli USA, il padre, David Sinigaglia, di famiglia ebrea, meccanico, assunto presso la villa, di nove anni più giovane della moglie. Il fatto che il bimbo nasca solo sei mesi dopo le nozze alimenta le malelingue,  si diffondono anche voci che sia figlio di figure ben più illustri di quella casa. Alessandro è quindi figlio di minoranze più o meno accettate, ma che avevano conosciuto segregazioni e che anche in quel momento sperimentavano diffidenze e disprezzo. I pregiudizi sulle donne nere ammaliatrici e selvagge certo concorrono ad alimentare le false voci sulla sua nascita. I primi anni trascorrono sereni alla Villa, figlio dei domestici formato alla cultura americana dalla madre. Ma dal 1908 con l’ingresso a scuola iniziano i problemi, ad inizio Novecento non facile essere accettato per chi è diverso. Lui poi è la sintesi perfetta dei pregiudizi: figlio di madre nera e padre ebreo.

Segue gli sconvolgimenti del suo tempo fra il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, un senso di crescente insofferenza per la condizione di serva della madre che peraltro muore nel 1920. Nel contesto del primo dopoguerra Alessandro è attratto dagli Arditi del popolo, anche se presto deluso dal rapido esaurirsi. Nel ’21 a seguito della volontà del padre di sposarsi in seconde nozze con un’ebrea e a fronte delle idee politiche del ragazzo, sono fatti allontanare dalla Villa. Vanno ad abitare in via Ghibellina n. 28 nel quartiere di Santa Croce, reso celebre da Pratolini nei suoi romanzi, ma il ragazzo vive male le scelte paterne.

Ad inizio ’22 è richiamato alla leva, marina, sommergibilista, è testimone della ferocia del bombardamento di Corfù nella crisi italo-greca del ’23 e ne è disgustato e anche per questo vuole lasciare e ci riesce dopo 21 mesi, congedo anticipato quale figlio unico di padre vedovo. Quando torna trova un’altra Firenze. Lavora come meccanico in vari stabilimenti. Dopo il congedo effettivo nel ’24 si avvicina al partito comunista non per scelta familiare, ma sente che la madre ne avrebbe capito l’ansia di libertà. Il suo primo impegno ufficiale sono le elezioni del ’24, quelle della legge Acerbo, ma tutto presto precipita fra l’omicidio Matteotti e la seconda ondata dello squadrismo in città a fronte di una sinistra e di un partito comunista peraltro segnati da divisioni interne e tattiche. Dopo l’instaurazione piena della Dittatura con le leggi fascistissime, sa di essere schedato anche se ancora non è diffidato né ammonito. La repressione sempre più capillare, l’assenza di informazioni con i fuoriusciti e il centro estero, il consolidarsi del regime rendono sempre più difficile la vita di chi si oppone integralmente al fascismo. Nel febbraio del ’28 la repressione distrugge la rete comunista fiorentina, Alessandro riesce a fuggire sfuggendo all’ondata di arresti, ma ormai è segnato. Alessandro lascia l’Italia, emigrando in Francia, anche per non mettere in pericolo le persone che lo hanno precedentemente aiutato. Per volontà del Partito, viene poi inviato in URSS, dove, come tutti si affida all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale, scoprendo la presenza di centinaia di italiani a Mosca. Assume l’identità clandestina di Luigi Gallone. Non mancano i pericoli, essendo presenti anche i fascisti, essendo stati ristabiliti i rapporti diplomatici fra i due paesi ed essendo quindi presente l’Ambasciata con tutte le sue strutture, compreso i reticolo dei fiduciari ben inseriti nei circoli degli immigrati politici. Lo tengono sotto controllo anche i comunisti per valutarne affidabilità, disciplina e ortodossia, a partire dalla temuta polizia segreta sovietica. Il desiderio di dare notizie di sé al padre lo tradisce. La censura fascista intercetta una lettera e accresce la sorveglianza sia sui contatti italiani sia su di lui Mosca. Intanto segue il corso di propaganda e si innamora, ricambiato, di una giovane russa, Nina di origini asiatiche, che lavora al Soccorso rosso e che gli insegna la lingua; è portato allo studio delle lingue, conosce già francese e inglese, nel 1930 diventa padre di una bambina, Margherita, un periodo sereno mentre nelle informative della polizia fascista è indelicato sempre più come soggetto pericoloso. Nei primi anni Trenta è “emissario” cioè inviato del partito in altri paesi, ma viene tradito da Luigi Tolentino ex funzionario dell’Internazionale comunista che denuncia centinaia di compagni in cambio di un rientro protetto in Italia. Intanto deve affrontare anche i mesi cupi delle repressioni staliniane fra fine ’34 e inizio ’35 che si abbattono anche su italiani accusati di non essere in linea con lo stalinismo, deve essere sempre più riservato e guardingo. Nella primavera del ’35 lascia la Russia per la Svizzera per l’ennesima missione, salutando Nina e la bambina. Non farà più ritorno in URSS. Viene infatti arrestato il 28 agosto a poche decine di chilometri dal confine italiano, probabilmente su delazione. Il governo elvetico comunque ne decreta l’espulsione ma senza consegnarlo all’Italia e passa quindi in Francia dove riesce a scomparire per i successivi tre anni. Si trasferisce a Parigi sede del Comitato centrale del PCdI in esilio, svolge attività da corriere anche in Italia ma per viaggi sempre molto brevi. Nel ’36, dopo il golpe dei generali, parte per la Spagna, assume il nome di battaglia di Sabino. Ad Albacete incontra i volontari antifascisti fra i quali il livornese Mazzini Chiesa. Conosce l’esperienza della lotta armata in una dimensione bellica nuova rispetto ad ogni altra precedente esperienza condotta in Italia prima o durante la clandestinità. In virtù delle esperienze fatte durante il servizio militare viene arruolato nella Marina repubblicana come tecnico silurista alla base navale di Cartagena, il porto più importante della Spagna, sottotenente di vascello viene imbarcato su un incrociatore, contribuendo alla riorganizzazione dell’arma navale. Immediato lo scontro non solo con i golpisti ma anche con i fascisti italiani che intervengono attaccando le navi con i sommergibili, attuando una guerra di pirateria assolutamente illegale sulla base delle norme del diritto internazionale. Per la conoscenza delle lingue è nominato ufficiale di collegamento fra il comando della marina repubblicana e un gruppo di consulenti sovietici. Costante il rapporto con Longo che informa puntualmente delle condizioni della marina. Viene poi inviato a Barcellona per operare la bonifica degli accessi del porto, ed assiste ai bombardamenti fascisti sulla città. A fronte del crollo della repubblica, come tanti, cerca riparo in Francia. Alessandro finisce nel campo di raccolta di Saint Cyprien nei Pirenei orientali all’interno di una comunità multietnica e multirazziale di spagnoli, italiani, polacchi, rappresentanti di oltre 50 paesi. Viene poi trasferito nel campo di internamento di Gurs, il più grande del sud della Francia: 28 ettari per 18.500 “ospiti” suddivisi in 362 baracche, arriverà ad accogliere 24.500 persone. A seguito dell’invasione nazista della Francia e del rifiuto di arruolarsi nei servizi ausiliari, viene condotto nel campo di Vernet, a 100 km dalla frontiera con i Pirenei, il campo peggiore di tutta la Francia per le condizioni igienico sanitarie, la violenza dei gendarmi e l’ambiente atmosferico. Dopo l’occupazione nazista il campo passa sotto Vichy che nei mesi successivi procede ai rimpatri degli antifascisti, che di fatto sono solo costi inutili. Alessandro torna in Italia in manette.

Viene condannato al confino: a Ventotene dove arriva il 14 giugno 1941. Il confino, come sottolineano molti storici, è l’arma peggiore che il regime usa contro gli oppositori. Al di là dell’allontanamento dalla propria residenza, il confino è sottoposto a vigilanza e regole stringenti e a un sostanziale isolamento anche all’interno della comunità dove è trasferito, ad esempio non può sedere in locali e osterie ma consumare al massimo al banco “in piedi e nel più breve tempo possibile”. I confinati sono circa 850, di questi i politici sono 650 (gli altri alcolizzati, spacciatori, usurai…) fra i quali nomi noti come Terracini, Pertini, Rossi, Secchia, per i quali è previsto un pedinamento costante da parte di un milite. Lo colpisce incontrare anche qui ebrei e persone di colore, fra i primi Spinelli, Colorni, Curiel, fra i secondi l’eritreo Menghistù. Ma lo colpisce anche la storia di una ragazza di 28 anni, Monica Esposito, salernita, mandata al confino perché accusata di essere andata a letto con nero, violando così la legge 882 del 13 maggio in tema di relazioni affettive interraziali. L’attacco naziata all’URSS scuote anche i confinati e riapre dialoghi fra i diversi gruppi politici. Nel novembre del ’41 riceve la notizia della morte del padre. Il Ministero degli Interni prima tarda a concedergli la licenza per il funerale poi quando gliela assegna è troppo tardi e così gliela revoca, essendo venuto meno il motivo. Il passare dei mesi rende sempre peggiori le condizioni di vita fra freddo, penuria di cibo (tanto che viene concesso ai confinati di coltivare la terra), malattie.

Estate ’43 gli Alleati si avvicinano e l’isola è colpita dai combattimenti, viene affondato il battello che consentiva i collegamenti. Sapranno della “caduta” di Mussolini solo il 26 luglio. Tuttavia il nuovo Governo, in perfetta continuità, non muta le direttive di ordine pubblico e mantiene il confino per anarchici e comunisti. Solo le proteste variegate spingono il capo della polizia a rettificare con nuova circolare del 14 agosto.

A fine agosto ’43 Alessandro torna a Firenze. I comunisti sono fra i più organizzati, si ritrovano nella libreria di Giulio Montelatici in via Martelli o a casa di Fosco Frizzi in Santo Spirito, mentre fanno parte del Comitato interpartitico poi riorganizzato in CTLN dopo l’annuncio dell’armistizio. L’esperienza dell’attività clandestina rendono i comunisti consapevoli dei pericoli e pronti ad affrontare l’occupazione nazisti e i pericoli conseguenti. Nella riunione con Secchia del 14 settembre viene affidato ad Alessandro la responsabilità dell’organizzazione militare in città, così come in altre città della regione, come Arezzo dove invia il meccanico Romeo Landini, con cui aveva condiviso la guerra in Spagna, l’internamento in Francia, il confino a Ventotene. La scelta è dovuta alla valutazione delle sue esperienze del suo carisma e grande attivismo. Fascisti e nazisti sono consapevoli della sua pericolosità. Intanto il pci avvia l’organizzazione della propria struttura militare con le brigate Garibaldi in ottobre. Alessandro frequenta varie abitazioni di amici, cercando di sottrarsi al pericolo della cattura da parte di fascisti e nazisti, fra questi il direttore d’orchestra russo, ma con passaporto svizzero, Igor Markevitch. Contro lo strapotere nazifascista in città (segnato anche dalle razzie contro gli ebrei), i comunisti iniziano a pensare ad una strategia di lotta armata urbana, formando i GAP, istituti da fine settembre dal Comando centrale delle Brigate Garibaldi, ricalcando un tipo di lotta di resistenza armata diffusa in Francia, sia pur riadattata. Servono uomini di grande esperienza, a guidare i gap infatti di solito sono tutti ex volontari delle Brigate internazionali in Spagna, i componenti uomini di fede assoluta, consapevoli del rischio, con grandi capacità militari., fondamentale il coraggio e la segretezza (non devono conoscersi neppure fra di loro, se non i componenti di ogni piccola unità). Devono compiere attentati o azioni rapide, dimostrare che i nazifascisti non controllano le città, colpire bersagli simbolo. Il divieto di uso delle biciclette nelle città da parte dei nazisti è proprio conseguente a queste azioni, in quanto era il principale mezzo per agire e spostarsi. Alessandro dirige i GAP e coordina tutti i gruppi comunisti toscani. In provincia di Firenze azioni gappiste vi sono già in novembre in varie cittadine e conseguente è la riorganizzazione dei fascisti con la riorganizzazione della milizia nella nuova organizzazione della Guardia nazionale repubblicana. La prima azione dei GAP fiorentini è l’uccisione del ten. Col. Gino Gobbi capo della leva fascista e quindi simbolo del sistema militare imposto agli italiani per proseguire la guerra a fianco del nazismo, il 1° dicembre del ’43. La reazione è immediata all’alba del 2 dicembre cinque detenuti antifascisti sono fucilati alle Cascine (Oreste Ristori, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi, Orlando Storai). Il cardinale Della Costa condanna la violenza gappista difesa non solo dalla stampa clandestina comunista ma anche da quella azionista.

Su Alessandro pesano responsabilità sempre più complesse e solo lui ha l’esperienza necessaria ad affrontare quel tipo di lotta: dare indicazioni organizzative, di addestramento militare, gestire trasporto armi ed esplosivi, organizzare i gruppi, gestire le comunicazioni interne e con i vertici. Inizia a gestire anche contatti con gli operai delle fabbriche della città. 14 gennaio: gap fanno esplodere 9 ordigni in nove punti diversi della città contemporaneamente, impiegando di fatto tutti i gappisti e suscitando sconcerto fra fascisti e nazisti. La caccia ad Alessandro viene quindi affidata a due esponenti fra i più pericolosi della Banda Carità: Natale Cardini e Valerio Menichetti che con Luciano Sestini e Antonio Natali formano il gruppo dei così detti “4 santi” noto per i tratti di spietata ferocia. Il 17 gennaio attentato dei gap, fallito, al capitano della milizia Averardo Mazzuoli e interruzione in tre punti della ferrovia Firenze-Roma presso Varlungo. 21 gennaio bomba alla casa di tolleranza di via delle Terme, messa a disposizione di nazisti e fascisti. 27 gennaio sostegno allo sciopero alla Pignone, gli operai ottengono una distribuzione supplementare di tessere di pane, 30 gennaio bomba al Teatro La Pergola mentre è in corso una manifestazione fascista., 3 febbraio ucciso un sergente tedesco, 5 attaccata una pattuglia della GNR, uccisi due militi. Ad inizio febbraio avventori del bar Paszkosky picchiano una persona di colore. L’8 febbraio il noto tentativo di Tosca Bucarelli e Antonio Ignesti di mettere una bomba nel bar. Anche per consentire la fuga al compagno, la Bucarelli è catturata, torturata dalla Banda Carità, viene poi rinchiusa nel carcere di Santa Verdiana. 9 febbraio viene giustiziato un sergente della GNR alla Fortezza. L’11 febbraio un gap lancia sette bombe contro la sede della Feld Gendarmerie in via dei Serragli. Intanto Alessandro è   impegnato su più fronti organizzativi, a partire da uno sciopero operaio in risposta ai licenziamenti di dicembre ai danni degli operai rifiutatisi di trasferirsi a nord. 13 febbraio nuovi attentati sulla linea ferroviaria Firenze-Roma. La sera Alessandro ha fissato a cena con Antonio Lari vecchio amico e compagno, nella trattoria di via Pandolfini dove va a mangiare spesso. Ma entrano i “santi”, una spia ne ha denunciato la presenza. Vano tentare la fuga. Sinigaglia viene ucciso. Quando si sparge la notizia, tanti fiorentini scrivono sui muri scritte inneggianti ad Alessandro, tanto che è naturale e immediato che la 22 bis Brigata Garibaldi assuma il suo nome, sarà la prima ad entrare a Firenze per liberare la città.




“Caro Ilio…”. Barontini nelle lettere di “raccomandazione” dei “compagni”

Nella carte dell’ex Federazione del Partito comunista di Livorno, custodite presso l’archivio dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea (Istoreco), c’è un fascicolo pieno di lettere scritte da comuni cittadini a Ilio Barontini (qui un profilo biografico). E’ un fascicolo di una certa consistenza. Si tratta infatti di settantatre lettere inviate all’attenzione di Ilio. Sin dall’incipit compaiono delle differenze tra gli scriventi. Ci sono quelli che iniziano la lettera, appellandosi all’ ”Onorevole” o “all’Onorevole senatore”; ci sono quelli che si appellano al “caro compagno”; ce ne sono alcuni che scrivono semplicemente: “Caro Ilio”. Talvolta incontriamo chi gli pone con molta  bonomia e ingenuità, se vogliamo, il problema che scrivendo si è posto: “Come bisogna interpellare Ilio Barontini, senatore della Repubblica, con il tu perché lo conosciamo e perché siamo compagni uniti dallo stesso ideale, con il lei o con il voi?”[1]

Cosa chiedono e cosa raccontano queste lettere? Perché sono due cose diverse: una problematica è collegata a ciò che chiedono, e un’altra è ciò che raccontano a noi che siamo lontani da quel periodo, oltre 70 anni, poiché le lettere partono dal 1944 e arrivano al 1950, cioè alla vigilia della morte dello stesso Barontini, avvenuta per un incidente stradale a Scandicci nel gennaio 1951.[2]

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Per prima cosa proviamo  a guardare in modo analitico a questo carteggio. I diversi mittenti che in maggioranza sono uomini anche se non mancano le donne, presenti in tredici casi, scrivono più spesso a penna che con una macchina da scrivere. Essere compilate a mano è una scelta ovvia: la macchina da scrivere era un lusso di pochi, pochissimi, e ancora più piccolo era il numero di coloro che sapevano utilizzarla.  Non solo per ragioni di reddito ma anche per problemi legati al livello, assai scarso di alfabetizzazione. Sono spesso vergate su carta non deputata, fogli di quaderno e poco più. Erano nella stragrande maggioranza persone semplici che scrivevano con testi profondamente sgrammaticati, con calligrafie improbabili, tipiche di chi non era abituato a tenere la penna in mano. La prosa, l’espressione comunicativa era comunque una prosa diretta, senza giri di parole, immediata.

Scrivevano per chiedere sostegno per le più diverse cause, anche se poi tutte le motivazioni sono raggruppabili ad uno stato di bisogno profondo. Lo scopo di aiuto invece che predomina è quello relativo al riconoscimento di una pensione. Si ragiona intorno a richieste inevase per pensioni di guerra (padre o marito morto ucciso dai tedeschi, figlio o marito invalido a causa di una bomba e simili) già inoltrate da molto tempo, talvolta da oltre due anni, tre, e non ancora arrivate in porto. Tutti gli scriventi denunciano una grandissima difficoltà economica e spesso anche la mancanza di un tetto sul capo. Talvolta sono richieste di consiglio e di aiuto per ottenere pensioni da lavoro, soprattutto pensioni per le attività lavorative svolte in Francia, soprattutto in Corsica e a Marsiglia, luoghi dove Barontini era stato a lungo presente come fuoriuscito, e chi domanda è evidentemente convinto che Barontini possa intervenire con efficacia. Sicuramente Ilio aveva conosciuto direttamente la realtà di quei contesti, e la durezza del lavoro in terra straniera come emigrante, poiché anche se la sua emigrazione fu sempre e solo politica, con incarichi speciali dalla direzione del Partito comunista, certo non poteva essergli sfuggita la dura realtà di tutti quegli emigrati che univano nella loro condizione, sia la difficoltà dell’emigrato sospetto alla forze dell’ordine, che quella del disoccupato, che cercava di entrare nel mercato del lavoro per sopravvivere.

Spesso l’aiuto per lavorare, guarda alla città labronica, ma talvolta la domanda rinvia anche ad altri centri della regione. Sono abbastanza presenti i comuni dell’isola d’Elba, ma compaiono anche luoghi lontani da Livorno come: Giulianuova, Sondalo, Bologna, Firenze, Roma, Modena, Volterra, Reggello, Cecina, Montescudaio etc. In quel lontano e pesantissimo secondo dopoguerra, a causa delle immani distruzioni belliche molti non hanno più trovato la possibilità di rientrare là dove lavoravano prima del 1940 e adesso cercano in Barontini un appoggio. Le richieste che si avanzano sono quasi tutte modeste. Si domanda lavoro come operai, come boscaioli nei cantieri di rimboschimento, come edili e poco più. Solo in alcuni casi, adducendo la maggiore istruzione che si può mettere in gioco, si chiede di fare l’impiegato, talvolta l’impiegato bancario e,  solo in un caso, questa richiesta è avanzata con un tono di aperta arroganza.

Ma ci sono anche domande di aiuto per ottenere la liquidazione di un credito da parte degli Americani che hanno prelevato da un magazzino–deposito, diverse tonnellate di carbone e poi hanno lasciato il debito insoluto. Un altro piccolo gruppo di missive riguarda un gruppo di militanti malati e ricoverati in un ospedale ortopedico di Bologna, il Putti, dove Barontini ogni tanto si recava in visita perché era diventato un istituto di assistenza per molti ex partigiani.

Lettera

Una delle lettere a Barontini conservate nell’Archivio Istoreco

Ci sono anche alune lettere di ex combattenti che desiderano il riconoscimento di una pensione, e poi incontriamo la richiesta di una donna, Simoncini Silvana, che desidera l’attribuzione della qualifica di partigiana combattente[3]. Una lettera importante anche per la sua eccezionalità. Come sappiamo dalla storiografia e dalle memorie, furono pochissime le donne che, pur avendo combattutto nei gruppi combattenti, chiesero poi di veder riconosciuto il loro impegno.

Un altro gruppo riguarda alcuni disoccupati delle Ferrovie dello Stato, licenziati per motivi politici per gli scioperi del 1920 e del 1921, che chiedono il reintegro o l’adeguamento della pensione[4]. Come possiamo comprendere una varietà significativa di contenuti, tutti contrassegnati però da un bisogno materiale che è anche la testimonianza di una ingiustizia sociale.

Al di là dell’oggetto della lettera è evidente la minore presenza di richieste provenienti dalla città labronica. Questo significa soltanto che i livornesi preferivano avere un colloquio diretto con Barontini poiché il senatore era spesso in città e non era difficile raggiungerlo in Federazione dove svolgeva con assiduità e autorità il compito di segretario. Egli era sì un grandissimo personaggio, che fra i militanti del suo partito emanava certamente ammirazione, rispetto, qualche volta anche timore, ma non agiva sui suoi interlocutori con la forza del mito. Era percepito, soprattutto dagli uomini e dalle donne della sinistra di Livorno, come “uno dei loro”, burbero quanto si voglia, ma diretto e senza atteggiamenti altezzosi.

Fra le altre c’è una lettera particolarmente commovente nella sua ingenuità. È stata scritta da una donna, De Santis Anna che, dal sanatorio di Villa Corridi a nome suo e anche dell’amica, Gina Freschi, scrive chiedendo del denaro:

[…] Siamo due ragazze molto giovani, che ci ha condotto in questo sanatorio di Livorno che ci ha colpito un male che non perdona, siamo orfane di padre e di madre e non abbiamo nessuno che ci aiuti… abbiamo tanto bisogno, che siamo veramente scalze di tutto, specialmente ora che siamo giunte all’inverno non abbiamo niente da coprirci…. Che siamo anche noi compagne. Il numero della tessera è 1064929. [5]

L’amica è di Roma anche lei è tesserata  al Pci ma ha lasciato a casa la tessera e la scrivente non può quindi indicare il numero a riprova della sua fede politica.

Accanto ad una missiva così diretta e semplice, la più semplice dell’intero deposito, ce n’è una che possiamo definire curiosa. Il mittente chiede al senatore comunista di parlare con Scelba perché vorrebbe entrare in Polizia.[6] Forse gli era sfuggito il clima della guerra fredda o riteneva Barontini capace di fare miracoli!

Ma cosa ci raccontano sulla vita, l’esistenza dei singoli, le condizioni di lavoro queste lettere? Molto anche senza darlo ad intendere, direi come un effetto secondario e quasi superfluo per il mittente e il destinatario di allora che condividevano lo stesso contesto di riferimento, ma non per noi, lettori di oggi, che, attraverso queste scritture, veniamo avvolti dalla durezza degli anni postbellici.

Il primo dato che emerge, forse anche un po’ scontato per chi si occupa regolarmente di storia, è la condizione di grande precarietà che attanagliava le famiglie italiane, sia sul piano delle abitazioni, ancora in gran parte distrutte, che su quello della possibilità di trovare un salario anche solo per la mera sopravvivenza fisica dentro quel presente. A riprova, ricordiamo che da una di queste missive, proveniente da Firenze, datata 1950, nella quale prende la parola un livornese. Costui, costretto per ordine dei tedeschi, allo sfollamento dal 13 novembre 1943, si trova ancora, dopo 7 anni, lontano da Livorno e non sa dove sbattere il capo. Dichiara fra l’altro che gli è terminata l’erogazione del sussidio per gli sfollati pari a £ 125, e senza quel piccolo aiuto, adesso è caduto in una condizione di prastrazione gravissima, senza casa, senza lavoro, senza sostegno alcuno.[7]

Questa lettera e molte altre simili, del deposito archivistico sul quale ragioniamo, ci racconta anche la farraginosità della macchina burocratica nazionale. Ricordiamoci che si trattava di una macchina organizzata dal fascismo – che ancora a distanza di 5 anni dalla fine del conflitto, così come non era riuscita ad attribuire la sacrosanta pensione alle vittime della guerra, aveva cominciato solo da poco una ricostruzione lenta e a macchia di leopardo e dal punto di vista complessivo si carretterizzava per una continuità significativa con il passato regime.[8]

Cantina Togliatti2

Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ma ci raccontano ancora di più e meglio. Ci raccontano la pesantezza del clima della ricostruzione dove accanto alla gioia per la fine del conflitto, la fine dei bombardamenti, va accostata la disperazione per la perdita della casa, la ricerca di un impiego là dove non si intravedevano possibilità a portata di mano perché non solo il tessuto urbano era andato distrutto ma anche le fabbriche, le officine, i porti, erano saltati in aria e, noi che scriviamo adesso, sappiamo che molte di queste attività lavorative mai più riprenderanno.

Ecco allora ecco la reiterata richiesta di partecipare ai cantieri di rimboschimento che furono un modo neppure troppo larvatamente assistenziale, ma assolutamente giustificato, di togliere disoccupati dalle strade. Ricordo che lo stesso Piano del Lavoro della Cgil[9] che voleva indicare verso quali attività indirizzare la ricostruzione, e che sottointendeva un progetto ponderato ed articolato, dall’altra parte però cercava e, in parte riuscì, a far partire una serie di attività lavorative – oggi si direbbero lavori socialmente utili – che tamponavano la disoccupazione dilagante, appesantita fra l’altro dal blocco dei salari. Così come il Piano Casa, cosiddetto Piano Fanfani[10], aveva come primo scopo esplicito la lotta alla disoccupazione.

Ma queste lettere ci dicono qualcosa di più soprattutto sull’etica di quelli che scrivevano. Queste persone, uomini e donne cercavano una risposta, una solidarietà, più che un appoggio clientelare rivolgendosi al proprio rappresentante politico di più alto grado, a quel politico che era così diverso da loro, inviato a rappresentarli in Parlamento e nell’Assemblea Costituente, ma così vicino alla loro comunità di appartenenza da potergli scrivere e “aprirgli il cuore”. Non si facevano richieste illegittime, non si chiedevano privilegi. Chiedevano di lavorare e lo facevano tramite il rappresentante locale del Partito più importante del mondo del lavoro di allora, il primo partito della città di Livorno, il Partito comunista italiano. Scrivevano sicuri che Ilio avrebbe preso nota, che avrebbe fatto direttamente o indirettamente qualcosa, e questo era anche confermato dalle stesse missive perché spesso i mittenti ritornavano sulla loro richiesta per ringraziare, per informare Barontini che qualcosa si era mosso, qualcosa si era risolto. Barontini veniva visto, cosa che oggi pare davvero lontana anni luce dalla realtà odierna – un politico non solo vicino alle persone, ma lui stesso persona in mezzo ad una massa di uomini che si ritenevano solidali per idee, per obiettivi, per percorsi di vita. Barontini era il loro migliore rappresentante, quello che si era evidenziato di più, che era salito più in alto, ma per coerenza, per coraggio, per intelligenza, senza camarille di potere, senza giochi di corrente, a  testa alta, e spesso anche controcorrente tra i suoi, e questo lo rendeva ancora più forte e più autorevole agli occhi dei militanti di base. Questi testi ci documentano anche come Barontini ebbe effettivamente una capacità di ascolto adatta a quei singoli ed umili mittenti, così come seppe ascoltare, in altri contesti, altri leaders, anche internazionali, rimanendo fedele a sé stesso e alla sua storia.

E in questo nostro presente, ci raccontano che un altro rapporto con la politica è possibile, sia dalla parte dei rappresentanti che dalla parte dei rappresentati. La storia non si ripete mai e neppure è abituata a progredire, ma è anche vero che potremmo provare con modalità diverse, adatte ai nostri tempi, a ricostruire perlomeno qualcosa di simile, ad avere fiducia negli eletti, a pretendere una selezione adeguata dei medesimi. Occorre però il coinvolgimento di tutti, che tutti si ritorni ad essere più soggetti partecipi e meno telespettatori.

 [1] Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Sottofascicolo di “Barontini Pci”: Raccomandazioni Lettera di Alberto De Pasquale dell’8 febbraio 1950, dal Cavo (Elba)

[2] Ilio Barontini (Cecina 1890-Scandicci 1950).

[3]Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Fascicolo Lettere a Barontini. Lettera del 29 maggio 1949 di Simoncini Bigongiari Silvana da Pisa.

[4] Ibidem. Si tratta di Ciurli Gino, Vaselli, Scappini di Empoli, il padre di Mario Piselli da Roma, Stefani Oreste, Luigi Guarnelfi da Roma, Modesti Arno di Montescudaio. Tutte lettere collocate tra il maggio 1948 e il luglio 1950.

[5] Ibidem. Lettera scritta a Livorno il 5 dicembre 1950. Scritta a mano e appellandosi a Barontini con: “all’onorevole”

[6] Ibidem. Lettera del 27 giugno 1950, da Giulianuova a firma di Santucci Vincenzo.

[7] Ibidem. Lettera del 28 maggio 1950 di Oscar Benedetti.

[8] Cfr. Claudio Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

[9] Fabrizio Loreto, Storia della Cgil. Dalle origini ad oggi, Ediesse, Roma, 2009.

[10] La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa el’Italia degli anni ’50 ( a cura di Paola Di Biagi), Donzelli, Roma, 2001

 




Gaetano Bresci

La sera del 29 luglio 1900, a Monza, il re d’Italia Umberto I si allontanava, a bordo di una carrozza scoperta, dalla palestra della società ginnica “Forti e liberi”, dove aveva premiato alcuni atleti. Ad un tratto, gli si avvicinò un giovane il quale, armato di una rivoltella, lo colpì a morte. Il giovane attentatore fu subito arrestato e identificato. Il suo nome era Gaetano Bresci, 31 anni, anarchico di Prato, della frazione di Coiano, di professione tessitore. Tornato da Paterson, negli Stati Uniti, dove era emigrato nel 1897, il Bresci aveva compiuto il gesto a seguito dei fatti del maggio 1898, quando il generale Bava Beccaris aprì il fuoco dei cannoni sulla folla che protestava per il rincaro del prezzo del pane, provocando 80 morti e 450 feriti e il monarca aveva premiato l’autore con la Gran Croce dell’ordine di Savoia, cercando di instaurare lo stato militare attraverso il governo del generale Luigi Pelloux. Era una cosa che l’anarchico pratese aveva ribadito più volte durante gli interrogatori: egli intese il gesto estremo per rendere giustizia alle vittime della strage di Milano e per opporsi a possibili regimi autoritari. Se il gesto in sé poteva dirsi esecrabile, rimaneva indubbio l’intento in funzione democratica che il suo autore aveva in mente. In quest’ottica, il Comune di Prato intese intitolare al Bresci una strada il 1 luglio 1976.

Il punto d’interesse diviene allora l’inquadramento della figura del tessitore anarchico, di quale fosse il suo contesto di formazione politico-sociale, delle inevitabili ricadute che su di esso vi furono dopo la morte del monarca, sull’inversa influenza che l’eco e il mito del Bresci hanno profuso negli ambienti libertari e cittadini (del suo paese natale) ed attraverso epoche e scuole politiche tra loro diverse. Gaetano Carlo Salvatore Bresci era nato a Prato il 10 novembre 1869 da Gaspare e da Maddalena Godi. Tessitore, come tanti cittadini della città del telaio, Bresci aveva passato una gioventù di lavoro tra spole ed orditi, al Fabbricone, la più grande industria tessile pratese e, successivamente, in imprese più piccole, lungo tutto un peregrinare tra Firenze, Compiobbi e Ponte all’Agna. Era in questo misto di laboriosità operaia e continui spostamenti che Bresci aveva visto la povertà delle campagne e maturò una l’insofferenza per l’ingiustizia contro gl’indifesi.

Ma l’esperienza personale si intrecciava ad una tradizione democratica e libertaria che a Prato aveva un senso comune di emancipazione popolare sin dai primi anni postunitari. Già da allora, i locali patrioti risorgimentali, guidati da Piero Cironi e, ben più a lungo, da Giuseppe Mazzoni erano i stati i padri fondatori di Società Popolari i cui statuti rovesciavano il rapporto mazziniano tra unità e libertà, facendo della prima un epifenomeno della seconda. La democrazia ebbe un suo primo punto di tangenza con l’anarchismo quando lo stesso Mazzoni conobbe personalmente Bakunin e ne divenne, per breve tempo, uno dei suoi principali referenti politici in Toscana. La stagione di contatto tra anarchia e democrazia laica fu di breve durata, si consumò tra la seconda metà degli anni Sessanta  e il 1871 e non corrispose ad un’evoluzione in senso libertario della sociabilità mazzoniana. Nondimeno l’avvicinamento tra le due sfere d’interesse dovette gettare i suoi semi. Meno di due anni dopo una prima sezione dell’Internazionale anarchica sorse anche a Prato. Sciolta dopo il tentativo insurrezionale organizzato dagli anarchici nel 1874, che dall’Emilia avrebbe dovuto irradiarsi a tutta la Penisola, si ricostituì alla fine del 1876. Insomma, il primo movimento anarchico pratese andò incontro ad una ridda di costituzioni e successivi scioglimenti di sezione che non ebbe soluzione di continuità sino almeno al 1892, quando, tramontata anche la quadriennale esperienza (1885-1889) del Nucleo Socialista Anarchico Amilcare Cipriani, fu il controverso personaggio di Giovanni Domanico a dare uno spessore più consistente al nucleo libertario cittadino. Era questo un gruppo che  rispecchiava la vocazione industriale di Prato non tralasciando gli antichi mestieri della città. In una lista stilata dalle autorità prefettizie di quegli anni, figuravano quaranta individui ritenuti anarchici attivi a Prato. Di essi, quasi la metà era impiegata nel settore tessile. La compenetrazione tra l’industria pratese e gli ambienti anarchici era quantomeno palpabile.

Fu in questo periodo e a tale ambiente che Bresci andò formando la propria personalità politica. Non a caso, il 2 ottobre 1892 si verificò un episodio che ebbe come protagonista il ventitreenne Gaetano Bresci, denunciato insieme ad altre quattro persone per aver preso le difese del garzone di un macellaio e condannato dal pretore a quindici giorni di reclusione. L’episodio è interessante perché dimostra che all’epoca – e quindi ben prima di emigrare negli Stati Uniti e di frequentare l’ambiente di Paterson – Bresci aveva già fatto proprie le idee anarchiche e conosceva esponenti del movimento libertario assai noti a livello cittadino: degli altri quattro imputati, infatti, tre (Artamante Beccani, Antonio Fiorelli ed Augusto Nardini) erano anarchici. Fu dunque il Bresci ad arricchire con le proprie idee il movimento negli Stati Uniti e non (o quanto meno non solo) l’anarchismo di Paterson a formare le idee di Bresci.

Stabilita la formazione di Bresci, è necessario comprendere le conseguenze avute dal suo gesto. Nel periodo che seguì il regicidio gli anarchici pratesi furono ovviamente esposti ad un intensificarsi della vigilanza e della repressione. Bresci morì (presumibilmente ucciso) nel carcere di Santo Stefano sulle isole Pontine, il 22 maggio 1901. Subito dopo l’attentato, a Prato furono operati diversi arresti, ma non per questo i libertari interruppero la loro attività, impegnandosi a fondo, negli anni successivi, nella campagna contro il domicilio coatto, nell’agitazione pro Acciarito e nei moti pro Ferrer. Più concretamente, come dimostrato in recenti pubblicazioni, il gesto di Bresci fu l’atto più eclatante dell’anarchismo pratese che, seppur presente fino almeno alla Liberazione, andò incontro ad una lenta ma costante discesa tanto da far affermare ad Anchise Ciulli, uno dei suoi più importanti esponenti, nel 1946 : « oggi questa città segue pochissimo le orme del suo grande figlio Gaetano». Molto più duraturo fu il mito di Bresci e la fascinazione avuta da più sponde.  Ed ancora nel secondo dopoguerra poteva essere letto non solo di celebrazioni anarchiche che accostavano Bresci a Malatesta e Pietro Gori, alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna, ma anche di alcuni timori prefettizi per manifestazioni in ricordo all’attentatore pratese. Di forte impatto e grande eco fu l’iniziativa che nel 1986 vide erigere a Carrara un monumento dedicato a Gaetano Bresci. Iniziative in ricordo del tessitore anarchico, per quanto in maniera sempre più episodica e onomastica, si sono svolte anche a Prato. A tal proposito è per lo meno da segnalare il ritrovo che portò nuclei anarchici a ricordare Bresci nella via a lui intitolata e a segnalare secondo quanto riportato da un volantino di allora che «Bresci rivive […] in ogni azione di chi si oppone all’arroganza e alla violenza del potere». Ed è in quest’ottica che la figura di Gaetano Bresci va ancora oggi intesa: uno sguardo che dia conto tanto allo studioso esperto quanto al curioso appassionato sia dei numerosi spunti e temi dei quali il mito dell’“anarchico venuto dall’America” è divenuto parte integrante sia della tensione sociale alla quale la sua figura sia stata soggetta con il passare il tempo.

 




Luigi Bertelli – Vamba

Luigi Bertelli, che diverrà famoso con lo pseudonimo di Vamba, nasce a Firenze il 19 marzo 1860, pochi giorni dopo il plebiscito che decretò con il suffragio universale maschile l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna. Cresce in una famiglia censita come benestante impregnato dalle aspirazioni e dalle idee del Risorgimento nazionale. Abbraccia gli ideali mazziniani e la fede repubblicana che lo porteranno, dopo una breve esperienza impiegatizia alle Ferrovie adriatiche del finanziere toscano Piero Bastogi, a intraprendere la strada di giornalista politico, osservatore attento e critico della vita nella capitale romana dove si era trasferito. La politica italiana, nel frattempo, era passata in mano ai governi della sinistra dopo che la destra storica di Minghetti era andata in crisi nella seconda metà degli anni ’70 proprio sul controllo statale delle Ferrovie e per l’abbandono  di alcuni suoi deputati tra i quali Ubaldino Peruzzi.  Agostino Depretis, mazziniano e anticlericale,  fu il principale interprete della sinistra fino a tutti gli anni ’80: quattro volte Presidente del Consiglio, insieme all’eliminazione dell’odiata tassa sul macinato e a importanti riforme sociali, per dar maggiore forza al governo, diede inizio alla politica del ‘trasformismo’ che accettava l’appoggio degli avversari. Bertelli, in questi accordi tra gli opposti schieramenti politici, vedeva gli interessi velati, l’arrivismo personale, la moltiplicazione delle spese dello stato e si diede a evidenziarli con l’ironia, con il disegno caricaturale, cercando sempre una relazione con la realtà dei fatti.
Il nostro scrittore scelse dunque di essere un’anima critica esterna al potere, sempre pronto a evidenziarne le debolezze con ironia e sagacia come un antico giullare. Assunse perciò il nome di Vamba clonandolo dal Wamba, giullare della corte di Cedric, deus ex machina di Ivanhoe  romanzo di Walter Scott. Produsse scritti satirici, disegni e caricature che trovarono accoglienza in «Capitan Fracassa», 1884-1887, «Barbabianca», 1887, «Don Chisciotte», 1887-1899, «Il pupazzetto», 1886-1890 del quale scrisse e disegnò interi numeri.  Rientrò a Firenze per dirigere il «Corriere italiano» nel 1889 ma non riuscì ad ottenere l’autonomia e indipendenza  desiderata. Fondò e diresse «L’O di Giotto» un settimanale spigliato, di facile lettura, aperto al teatro e alle arti che fustigava ironicamente negli scritti e nei disegni i vizi civili dei personaggi politici, le spese militari eccessive, l’adesione alla Triplice alleanza, il pareggio di bilancio elevato a idolo supremo dell’azione governativa .

Il fervore delle idee radicali repubblicane non abbandona Bertelli che inizia a provare anche nuove vie. Molti aderenti al movimento risorgimentale che non avevano visto concretizzarsi gran parte delle loro aspirazioni ideali nella nuova nazione, si erano dedicati all’educazione del popolo: il fiorentino Pietro Dazzi, accademico della Crusca, diede vita alle Scuole del popolo; Carlo Lorenzini,  il famoso Collodi, fondatore e direttore di uno dei maggiori giornali umoristici della metà dell’Ottocento «Il lampione», volontario combattente nelle guerre d’Indipendenza,  si dedicò all’educazione dei giovani con Giannettino, Minuzzolo e le Avventure di un burattino che fecero assurgere Pinocchio a emblema della presa di coscienza di sé nel processo di crescita. Il torinese Edmondo De Amicis pubblicò Cuore nel 1886 che divenne la summa etico morale degli ideali risorgimentali laici. Senza dimenticare Ida Baccini con il grandissimo successo del suo Memorie di un pulcino, 1875, che utilizza l’antromoporfismo per affascinare i giovani lettori. Bertelli pubblica nel 1896 il suo primo libro di lettura per ‘giovanetti’: Ciondolino, storia di una ragazzo insofferente alle regole che aspira alla libertà del mondo animale e in particolar modo delle formiche, ma viene trasformato in una formichina e scopre le regole, il lavoro, l’organizzazione del formicaio e della sua ‘società’. Un processo di apprendimento fondamentale per la crescita e per la partecipazione cosciente alla vita.  L’autore non si limita al solo messaggio etico ma coglie l’occasione per iniziare una vera e propria divulgazione scientifica entomologica.

Il polemista ironico Bertelli-Vamba, sempre più disilluso dalla politica praticata nelle istituzioni e dal qualunquismo degli adulti, concentra ora le sue capacità nel messaggio educativo verso il mondo giovanile ideando, nel 1906 con l’editore Bemporad, un nuovo settimanale, «Il giornalino della domenica». Leggero, illustrato con disegni di qualità e foto, ricco di rubriche con interventi di scrittori affermati e di giovani intellettuali dal carattere spigliato, si propone di creare una comunità giovanile con organi associativi, tematici e decisionali per preparare alla vita adulta. I giovani vengono invitati a diventare attori della propria esistenza e a produrre un notiziario, «Il passerotto», per provare a esprimere opinioni e idee.  «Il giornalino della domenica» ha una confezione elegante a colori e un costo elevato (25 centesimi contro i 10 del «Corriere dei ragazzi») e si rivolge alle famiglie del ceto medio coinvolgendole non solo nell’acquisto della pubblicazione, ma nel messaggio pedagogico che si vuol trasmettere contro le ‘finzioni’ del mondo adulto.  In questo ambito Bertelli-Vamba viene a conoscenza di un racconto americano A Bad Boy’s Diary pubblicato dalla scrittrice progressista Metta Victoria Fuller sotto lo pseudonimo di Walter T. Gray e tradotto da Ester Modigliani con il titolo Memorie di un ragazzaccio. Bertelli-Vamba ne riprende la forma di diario e nasce Giannino Stoppani: dà una continuità temporale agli episodi che vedono questo ragazzino protagonista nel dissacrare l’ordine fasullo e formale degli adulti e affermare, scherzando, irriverenti verità non sempre accettabili. È un successo, Il giornalino di  Gian Burrasca esce a puntate su «Il giornalino della domenica» e poi in volume sempre da Bemporad nel 1912, la prima di centinaia di edizioni. Mentre il governo elimina gli ultimi ostacoli, di censo e istruzione, al voto universale maschile e nazionalizza le ferrovie aprendo a riforme sociali, Bertelli-Vamba fonda la sua repubblica tra i lettori de «Il giornalino della domenica» per liberare le energie della gioventù avvalendosi di numerosi intellettuali che condividono il suo intento. Tra questi ricordiamo: I. Baccini, P. Calamandrei, L. Capuana, E. De Amicis, G. Deledda, R. Fucini, D. Garoglio, P. Mantegazza,  U. Ojetti, G. Pascoli, D. Provenzal. Aveva parlato a tutti i giovani italiani, anche a quelli delle terre ancora nell’Impero austriaco, creando un legame personale e una immedesimazione nell’irredentismo.  Se il successo culturale del «Il giornalino della domenica» è indubbio, le vendite non sono sufficienti a sostenerlo e nel 1911 è costretto a chiudere. Bertelli continua l’attività scrivendo un libro scolastico per le scuole elementari, Il giardino, e articoli polemici anti-imperiali e di rivendicazione antiaustriaci nel clima sempre più aspro dell’interventismo e della prima guerra mondiale.

Nel dopoguerra è affascinato dall’esperienza fiumana di D’Annunzio e dalla costituenda Repubblica del Carnaro che mescola patriottismo, eroismo, volontarismo e aspirazioni sociali e di democrazia. Vi trascorre alcuni mesi alla fine del 1919. L’Italia usciva dalla guerra fortemente indebitata e Bertelli-Vamba volle impegnarsi per il successo del Prestito nazionale, il primo per la ricostruzione e la vita, dopo i tanti investimenti governativi per la guerra e la morte. Girando il paese per propagandare il Prestito, nel 1920 contrasse l’influenza spagnola, l’epidemia  che proprio cent’anni fa stava falcidiando le popolazioni di tutto il mondo, e morì a 60 anni a Firenze il 27 novembre 1920.

Fu sepolto al cimitero delle Porte Sante e il monumento funebre venne commissionato allo scultore Libero Andreotti.  I necrologi e i ricordi furono numerosi e retorici:  vogliamo citare tra i tanti un brano di Piero Calamandrei, già giovane autore del  «Giornalino della domenica», su un numero unico del Comitato delle città redente: “… L’insegnamento di Vamba si compendia in due concetti: Patria e Umanità. Il suo programma, schiettamente mazziniano, non si fermava alla Patria: come l’amor della famiglia fu per lui il punto di partenza per ascendere a un più ampio senso di solidarietà nazionale, così dall’idea di Patria egli trasse l’ispirazione per assurgere all’idea di una Umanità pacificata nella fratellanza di tutti i popoli liberi. …




Fotografie di soldati ebrei durante la Grande Guerra

Non c’è libro di storia che non sottolinei come la Grande Guerra fu una specie di spartiacque nella vicenda ebraica italiana, e non solo in quella. I cittadini italiani di religione ebraica, che da pochi decenni avevano ottenuto la completa emancipazione ed erano diventati in tutto e per tutto uguali agli altri, corsero in gran parte volontari per il fronte.

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Foto 2. Giorgio Cividalli, documento (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Poiché il loro livello di alfabetizzazione era assai più elevato rispetto alla gran massa degli italiani, si trovarono spesso nelle file dei sottufficiali, degli ufficiali superiori ed anche al vertice della struttura militare. Questa constatazione è vera soprattutto per gli ebrei piemontesi che per primi poterono uscire dai ghetti e che, numerosi, si iscrissero alle Reali Accademie per fare la carriera militare. In qualche modo questa scelta costituiva anche un riconoscimento di lealtà nei confronti di Casa Savoia. È altrettanto nota la partecipazione, che possiamo definire “civile”, delle donne ebree alla causa della Grande Guerra. Cercarono e raccolsero fondi per i soldati più disagiati, prepararono sciarpe e calzini da inviare al fronte, parteciparono attivamente alla propaganda interventista, scelsero il ruolo di madrine di guerra. Sostennero in mille modi la causa bellica.[1] E queste considerazioni che si possono estendere anche ad altri gruppi minoritari, fu sicuramente la novità nel panorama della mobilitazione generale.

Del resto gli stessi numeri ci raccontano come la partecipazione fu estesa e diffusa: considerando il fatto che la popolazione ebraica presente nella penisola era, fatto qualche possibile aggiustamento, di 35.000 individui, di questi 5.500 parteciparono al conflitto. Tra costoro, 450 erano toscani.[2]

Quello che invece è perfettamente sovrapponibile con gli altri soldati partiti per il fronte è la loro reazione di fronte allo scenario che si parò loro davanti. Una fonte utile per riconoscere e riflettere su questa omogeneità con tutti gli altri soldati del fronte, sono le fotografie che scattarono una volta giunti nello spazio bellico.

Il confronto si può fare con facilità con il bel libro curato da Marco Ruzzi per l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo.[3]

Le fotografie del periodo immediatamente precedente la partenza per il fronte sono spesso foto prese dall’alto, con un atteggiamento che testimonia anche una certa retorica. Come i soldati schierati in ordine perfetto dentro il cortile della Reale Accademia militare di Torino, dentro uno spazio che parla già di guerra, ma in qualche modo è uno spazio asettico, pulito, ordinato. Qualcosa di molto lontano dalla realtà della guerra che ciascuno di loro, volontario o meno, sperimentò in prima persona. (si veda la foto 1)

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Foto 3. Giorgio Cividalli in trincea (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Una volta al fronte i soldati ebrei si comportarono come tutti gli altri. Forse partirono entusiasti, ma presto cominciarono a perdere l’enfasi iniziale perché la guerra si dimostrò molto più dura di quanto ciascuno di loro poteva aver immaginato. Come si rappresentarono, soprattutto per i cari familiari che li attendevano a casa? All’inizio in posa davanti all’obiettivo, con la divisa ordinata e con lo sguardo fiero. Poi lentamente il paesaggio bellico prese il sopravvento. Ma anche lo stesso spazio nel quale erano immersi era così diverso dalle loro case e dalle loro abitudini. Ricordiamoci che la stragrande maggioranza di questa piccola minoranza viveva in città. Era una minoranza urbana sia per abitudini che per nascita. E adesso i giovani maschi presenti al fronte avevano come compagnia le montagne di dolomia, il paesaggio innevato, i cavalli e i mezzi bellici: cannoni, mitragliatrici, postazioni, trincee, costruzioni artificiali fatte dopo aver con ogni evidenza disboscato gli spazi, o case vuote e abbandonate dalla popolazione locale che era stata costretta ad uno sfollamento forzato. (Si vedano le foto 2, 3, 4)

Nonostante tutto ciò le foto che si inviano a casa vogliono mostrare uno scenario positivo, vogliono rincuorare i genitori, le fidanzate, le giovani mogli. Per dare questa impressione di positività si ricorre alle foto con gli amici più stretti, quelli con i quali si condivide tutto, quelli che ci sono accanto quando si rischia la vita.

In uno di questi piccoli fondi fotografici[4] sono presenti alcune foto dello stesso soldato, Giorgio Cividalli[5], quando dopo la guerra, in compagnia di amici e della giovane moglie, ritorna sugli stessi luoghi. Le foto sono scattate davanti alle stesse montagne sulle quali si è combattuto. Chissà forse per rendere meglio l’idea di cosa ha significato per questo fiorentino, borghese, giovane, vivere e lottare a 2.000 metri di altitudine. È un po’ come tornare sul luogo del delitto. (Si veda la foto 5)

Ma nessuno di loro, o perlomeno pochissimi, soprattutto quelli che si erano riconosciuti nel pacifismo di un loro correligionario più famoso e più avvertito, Giuseppe Emanuele Modigliani, smentirono mai quella scelta, che continuarono a rivendicare anche a decenni dalla fine del conflitto. In questo pensiamo pesi molto anche la loro estrazione borghese, poiché per le testimonianze che abbiamo delle classi popolari il discorso è assai più articolato e complicato.

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Foto 4. Giorgio Cividalli in montagna (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

E per questa adesione alla vecchia scelta ci soccorrono le immagini in divisa militare, quando oramai la guerra è lontana, foto scattate in uno studio in totale tranquillità, lontanissimi dalle granate e dal freddo, dai pidocchi e dalle malattie che quella guerra sporca, disumana come mai altre prima, aveva fatto loro conoscere.

Pensiamo alla bella foto di Carlo Castelli, farmacista partito per la guerra e combattente della sanità[6] (si veda la foto 6) o quella di Carlo Alberto Viterbo che posa accanto alla giovane sposa in abito da ufficiale della Grande Guerra[7]. E la loro identificazione è evidentemente molto forte considerando anche il fatto che ciascun ebreo si trova, una volta giunto al fronte, a sparare contro probabili correligionari che combattono sull’altro fronte. Ebrei contro ebrei.

Nonostante questo le foto ci raccontano una identificazione pressoché totale con la causa italiana, mai venuta meno. Identificazione del resto condivisa anche dalle donne ebree, quelle donne che si erano mobilitate per dare assistenza e conforto ai soldati partiti per il fronte. Scriveva una di loro, a molti anni di distanza, quando si sentiva abbandonata dallo Stato italiano sotto le bombe, in fuga dalla sua casa, perseguitata e perseguibile proprio perché ebrea:

”Ho amato l’Italia con tutte le forze dell’animo mio. Nell’altra guerra ho fatto quanto era in me per concorrere in qualche modo alla vittoria delle armi italiane: ho passato si può dire la vita negli ospedali, ho lavorato per mandare pacchi ai soldati, la sera fino a mezzanotte. E quando sono venute le terribili giornate di Caporetto ho pianto di dolore e di vergogna.

Avrei dato la vita per salvare l’Italia!”[8]

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Foto 5. Giorgio Cividalli in montagna dopo la guerra (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Eppure Emma De Rossi nei Castelli aveva il primogenito al fronte, Carlo, e sicuramente tremava per la sua sorte. Ma l’adesione all’impresa bellica era stata così forte e partecipata che anche nella tormenta della Seconda guerra e della persecuzione antiebraica, il ricordo rimaneva vivo e veniva rivendicato in nome di una italianità che il fascismo poi aveva calpestato. Perché quella loro partenza entusiasta, spesso anche dalle colonie italiane per combattere contro gli austroungarici, fu poi sconfessata totalmente dallo stato totalitario di Mussolini che in ottemperanza alle sciagurate Leggi razziste del 1938, li espulse da ogni rango dell’esercito italiano[9].

[1] Cfr. la Sezione 01, Gli ebrei toscani e la Grande Guerra 1915-1918, del Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, Ets, Pisa, 2016, pp. 34-35, e 52-53.

[2] Il conteggio è possibile attraverso la lettura analitica del testo di Pierluigi Briganti, Il contributo militare degli ebrei alla Grande Guerra 1915-1918, Silvio Zamorani editore, Torino, 2009.

[3] Cfr. La Grande Guerra. Fotografie dal fronte, note da Cuneo e dalle città “irredente”, a cura di Marco Ruzzi, Primalpe, Cuneo, s.d.

[4] Si tratta si documentazione raccolta dall’Istoreco di Livorno durante la preparazione della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, archiviata presso l’archivio dell’Istituto stesso.

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Foto 6. Carlo Castelli da ufficiale (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Orefice)

[5] Le foto della famiglia Cividalli ci furono donate dalla signora Sara Cividalli figlia del soldato Giorgio di cui ragioniamo in questo testo.

[6] Cfr. il Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, cit., p.33.

[7] Ibidem, p.33.

[8] Emma De Rossi, Pensieri e diario giugno 1943-novembre 1945, in Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Comune di Livorno, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000, p.181.

[9] Cfr. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, Il Registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 125-129 e Alberto Rovighi, I militari di origine ebraica nel primo secolo di vita dello stato italiano, USSME, Roma, 1999.




Le Stanze della Memoria di Siena si rinnovano

La vecchia caserma della Guardia nazionale repubblicana di Siena, luogo famigerato in quanto sede di reclusione e torture di antifascisti dall’ottobre del 1943 fino alla liberazione, era stato trasformato in percorso museale nel 2007, grazie soprattutto alla volontà di Vittorio Meoni, fondatore e presidente dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea che oggi porta il suo nome.

In questi primi anni di esistenza, la casermetta – appellativo con cui è ancora nota ai senesi – o le Stanze della Memoria se si vuol essere più rigorosi, ha avuto migliaia di presenze, soprattutto da parte dei giovani delle scuole. I visitatori hanno potuto approfondire in questi ambienti le varie tematiche di storia locale, e non solo, come per esempio il lavoro a inizio ‘900, l’istaurazione della dittatura fascista, le leggi razziali, la Shoah, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione; tuttavia la particolare tipologia del percorso museale, posto in una città come Siena – ancorata alle proprie tradizioni ma anche storicamente votata all’accoglienza – ha posto, sin dalla sua apertura, la sfida costante dell’aggiornamento necessario per dialogare con un pubblico multiculturale e multietnico.
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All’esigenza di rinnovamento, recentemente, l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea, ente che gestisce le Stanze della Memoria, ha deciso di rispondere su tre piani, ossia la multimedialità, l’allestimento e l’accessibilità da parte di un’utenza che non sempre conosce la lingua italiana; tutto ciò è stato possibile grazie al contributo della Regione Toscana, a una convenzione con il dipartimento di informatica dell’Istituto di istruzione superiore “Tito Sarrocchi” di Siena, a donazioni di oggetti da parte di collezioni private, nonché alla disponibilità di alcuni volontari.

Il primo intervento ha interessato il sito web dell’Istituto Storico della Resistenza senese all’interno del quale, la pagina ‘Stanze della Memoria’ è stata arricchita con un accesso virtuale e aperto a tutti al percorso museale (qui il link) proposto sia in lingua italiana che in inglese. Sempre dal punto di vista multimediale, per i visitatori ‘fisici’ sono state messe a disposizione delle video-audio-guide su tablet che permettono di approfondire i contenuti del percorso con la possibilità di operare delle scelte relative agli argomenti d’interesse.

L’intervento sull’allestimento ha riguardato due aspetti, ossia la cartellonistica e l’oggettistica. Nel primo caso sono stati attinti documenti e immagini dall’archivio dell’Istituto storico per arricchire il percorso iconografico di testimonianze ma anche di dati e di carte geografiche. Per quanto riguarda invece l’oggettistica si è proceduto sia al restauro di alcuni pezzi, ma anche a esporre dei cimeli donati da collezioni private.IMG-20200929-WA0005_resized

La sfida dell’aggiornamento è tuttavia costante. L’obiettivo principale delle Stanze della Memoria che, come tutti i musei del nostro Paese deve combattere quotidianamente con budget limitati e spese di gestione elevate, è quello di allargare ancora il teatro della propria utenza sia in presenza che virtuale. Per fare ciò, l’Istituto storico della Resistenza senese si sta già muovendo per realizzare un percorso virtuale in altre lingue straniere e per incrementare ancora la collezione da proporre all’utenza in modo tale da consolidare ulteriormente la propria presenza tra le istituzioni culturali del territorio.

Il percorso museale delle “Stanze della Memoria” si trova a Siena in via Malavolti 90 ed è aperto al pubblico martedì e giovedì dalle 9:00 alle 13:00 nonché il mercoledì e il venerdì dalle 15:30 alle 18:30.

Per informazioni e contatti: stanzedellamemoria@gmail.com

Articolo pubblicato nell’ottobre 2020.




Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




Una campagna elettorale fiorentina ad “alta conflittualità”.

La parte clerico-moderata si prepara con alacrità all’assalto di Palazzo Vecchio. L’«Unione Liberale», che ne è l’organo, sta per essere sollecitamente battezzata e per entrare in guerra aperta. Tra le forze reazionarie si serrano le file, e non v’è dubbio che la lotta elettorale imminente sarà tra le più vivaci che si ricordino in Firenze: sarà anche altrettanto grave nelle sue conseguenze, e decisiva per la fisionomia politica della città.

Noi sentiamo di non esagerare affatto la portata di questa battaglia (…) Sin che sulla torre di Palazzo Vecchio sventola la bandiera della Democrazia, il fermento di vita nuova per cui le forze democratiche si risollevano in ogni angolo della Regione non può spegnersi e ritornare nella quiete mortale, che la democrazia fiorentina ha tanto cooperato a interrompere col suo esempio e col suo richiamo. Una democrazia stabilmente insediata al governo di Firenze irraggia il calore della sua energia sino ad ognuna delle nostre terre.[1] 

 

Il 5 maggio 1910, anticipando l’imminente convocazione dei comizi per il rinnovo parziale del Consiglio comunale fiorentino, «L’Opinione Democratica», quotidiano fondato e diretto dal futuro Gran Maestro della Massoneria, Domizio Torrigiani, chiamava a raccolta contro il probabile assalto dei clerico-liberali le forze della Democrazia fiorentina, le quali da tre anni governavano Palazzo Vecchio. L’Unione dei Partiti Popolari, un’alleanza bloccarda stipulata tra socialisti, repubblicani, radicali e demo-sociali, aveva infatti clamorosamente vinto le elezioni amministrative generali fiorentine del 1907, spezzando l’intramontabile egemonia dei liberali moderati fiorentini e mandando al governo della città due giunte di sinistra guidate, la prima (1907-1909), dall’avvocato Francesco Sangiorgi – primo Sindaco popolare della città – e la seconda (1909-1910) dal medico anatomista Giulio Chiarugi, entrambi appartenenti al piccolo gruppo dei demo-sociali.

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Domizio Torrigiani, futuro Gran Maestro della Massoneria. Fu candidato nella lista popolare alle elezioni amministrative fiorentine del 1910 quando diresse il quotidiano elettorale “L’Opinione Democratica” (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Salite al potere con un programma in undici punti nel quale erano state richieste fra le altre cose la municipalizzazione dei servizi pubblici, una riforma tributaria a base progressiva, la laicizzazione delle opere pie, la refezione scolastica gratuita e l’insegnamento laico, le forze popolari avevano dato vita nei tre anni di loro governo a un’esperienza amministrativa di grandi novità in campo sociale e culturale. Tra le principali realizzazioni delle due giunte bloccarde si potevano annoverare: il rilancio dell’edilizia popolare, l’organizzazione di inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche, una larga opera di risanamento igienico-sanitario (che vide la costituzione dell’Istituto di igiene del comune, la costruzione di un nuovo impianto per il servizio di nettezza urbana e il progetto per il nuovo ospedale di Careggi), la laicizzazione dell’istruzione e dei nosocomi (l’insegnamento religioso nelle scuole fu reso facoltativo e negli ospedali si sostituirono le suore-infermiere con del personale laico appositamente formato), infine misure straordinarie volte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico cittadino (fu istituito l’Ufficio comunale di Belle Arti e Antichità, il Museo del Risorgimento e la Galleria d’arte moderna, nonché avviati i lavori di restauro di Palazzo Vecchio). Queste ed altre misure più propriamente “politiche”, quali il sussidio annuo concesso alla Camera del Lavoro cittadina o l’intitolazione nel 1909 della via dell’Arcivescovado al pedagogista libertario spagnolo Francisco Ferrer Guardia, avevano contribuito a segnare una profonda discontinuità nel governo cittadino rispetto alle precedenti amministrazioni rette dai liberali fiorentini.

Il sorteggio di venti consiglieri su sessanta – tredici popolari (tra cui l’avvocato Giuseppe Pescetti, primo deputato socialista toscano, e Sebastiano Del Buono segretario della Camera del Lavoro di Firenze) e sette monarchici (più due dimissionari) – da rinnovarsi con la convocazione dei comizi fissata per il 19 giugno 1910 rappresentò per l’amministrazione popolare la prima effettiva prova elettorale dopo il successo del 1907. Considerazioni politiche e opposte progettualità municipali si intrecciavano in vista delle urne, riaccendendo la tradizionale conflittualità tra “liberali” e “popolari”, i primi ansiosi di modificare gli equilibri municipali nella speranza di poter rientrare in possesso del governo della città e i secondi decisi invece a consolidare la loro esperienza amministrativa. La giunta Chiarugi a quell’appuntamento aveva cercato di giungere mettendo al sicuro alcuni importanti provvedimenti, quali un progetto di riscatto dei ponti di ferro cittadini e la costruzione di alcuni edifici scolastici, ottenendo però per tutta risposta l’intervento della Giunta Provinciale Amministrativa, controllata dai liberali, la quale bloccò e poi rigettò il progetto di bilancio preventivo per il 1910, agendo, a detta dei popolari, con finalità elettorali. Già in precedenza, la portata finanziaria dei progetti varati dalla giunta Sangiorgi avevano prodotto evidenti difficoltà per l’amministrazione bloccarda, sollevando persino contrasti e dissidi entro i tre partiti popolari alleati.

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L’avvocato Francesco Sangiorgi, primo sindaco popolare di Firenze eletto nel 1907 (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Nonostante alcune incertezze inziali, alle elezioni parziali del giugno 1910, l’alleanza popolare tra socialisti, repubblicani e demo-sociali venne riconfermata. Il 26 maggio presso la Fratellanza Artigiana d’Italia si tenne l’assemblea delle commissioni elettorali dei tre partiti popolari nella quale si sancì la suddivisione dei seggi all’interno della lista comune, assegnandone 11 ai socialisti, 6 ai repubblicani e 3 ai demosociali. Tra i nomi in lizza, oltre a quelli del Pescetti e di Del Buono, vi erano anche quelli del già citato Domizio Torrigiani (presentato contemporaneamente candidato alle provinciali per il mandamento di Santa Maria Novella), dell’avvocato Michele Terzaghi, direttore del settimanale della federazione socialista fiorentina «La Difesa», del libraio Oreste Gozzini e dell’ex radicale Alfredo Brogi, entrambi candidati repubblicani. Più tardi vennero diffusi un manifesto unico nel quale si difendevano le posizioni conquistate durante la gestione popolare del comune in «fede al programma» del 1907.

Sul fronte opposto, i liberali si presentavano alle urne con una formazione inedita, esito di una profonda e radicale rifondazione delle strutture organizzative del partito avviatasi all’indomani del pesante fallimento subito in occasione delle elezioni politiche del 1909, quando essi avevano perduto contro i candidati dei popolari in tre dei quattro collegi cittadini. Il 30 gennaio 1910 era stata infatti costituita l’Unione Liberale affidata alla presidenza del marchese trentasettenne Filippo Corsini che veniva a raccogliere, rifondendole, tutte le vecchie gradazioni monarchie fiorentine: dai moderati appartenuti alla Patria, Re, Libertà e Progresso (la vecchia associazione dei consorti toscani creata nel 1882) ai democratici della Federazione Democratica Costituzionale, dai giovani liberali borelliani al gruppo degli ex-radicali riuniti attorno alla figura di Lorenzo Piccioli-Poggiali, l’ex ferroviere passato dall’internazionalismo delle origini a posizioni di liberalismo progressista. Si trattava in sostanza di un soggetto nuovo cui corrispondeva una politica di rottura col vecchio moderatismo toscano e di opposizione tanto ai clericali quanto al socialismo. Tra le linee programmatiche del neocostituito sodalizio liberale si trovavano alcune aperture a ipotesi di intervento pubblico nella vita economica, l’ammissione di alcune forme di municipalizzazione dei servizi, un potenziamento dell’istruzione e dell’educazione nazionale e laica intesa anche come base di accesso a una cittadinanza politica più consapevole funzionale a una prossima introduzione del suffragio universale maschile. Sul piano tattico elettorale, invece, veniva dichiarata la piena indipendenza d’azione del sodalizio, che lo poneva perciò a netta distanza dai «partiti che in politica si fanno sgabello della fede e dell’organizzazione religiosa»[2].

Filippo Corsini

Il marchese Filippo Corsini, presidente dell’Unione Liberale ed eletto sindaco di Firenze alle elezioni del novembre 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, “Firenze fra l’800 e ‘900: da Porta Pia all’età giolittiana”, Le Monnier, Firenze, 1984)

Si trattava di una dichiarazione importante, in quanto per la prima volta veniva espressamente negata la volontà di proseguire sulla strada delle intese clerico-moderate che invece in precedenza avevano spesso caratterizzato la condotta elettorale dei liberali. Simili dichiarazioni urtarono però i clericali del Comitato Cattolico Elettorale cittadino i quali votarono in risposta un ordine del giorno di condanna, salvo poi proporre una propria lista di venti candidati, nove dei quali erano in comune con la lista presentata dall’Unione Liberale. Coincidenza questa che spinse i popolari a rivolgere ai liberali le consuete accuse di clerico-moderatismo. Tra i candidati dell’Unione, al posto dei tradizionali esponenti del patriziato fiorentino che da decenni fornivano i quadri del partito liberale, si trovavano invece per lo più esercenti, commercianti, imprenditori, come gli industriali Giovanni Berta e il fotografo Vittorio Alinari, e persino impiegati subalterni come Giuseppe Mariotti o il ferroviere Virgilio Fontebuoni.

La montante campagna elettorale si dimostrò subito tesa, dando corso nei giorni immediatamente precedenti le elezioni a una serie di tafferugli e incidenti. Dopo che a favore dei popolari erano giunte adesioni da parte degli impiegati postelegrafonici e dell’Associazione del personale dipendente del Comune, una rappresentanza dissidente di quest’ultima organizzò una riunione elettorale presso il Gambrinus nella quale intervennero circa trecento tra impiegati e salariati comunali e al termine della quale fu votato a maggioranza un ordine del giorno di adesione alla lista dell’Unione Liberale. Una serie di disordini scoppiò prima e dopo la riunione nell’adiacente piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza della Repubblica). Qui

[…] Alcuni giovani della Unione Liberale si sono soffermati sotto i portici, ed i numerosi popolari che facevano aia dalla parte del Paskowski hanno intonato il Miserere e l’Ave Maria. Gli altri hanno risposto con grida di abbasso ed i popolari hanno cominciato allora a cantate l’Inno dei lavoratori e l’Inno repubblicano.[3]

Poco dopo altri gruppi di sostenitori delle opposte fazioni, direttisi in Piazza del Duomo, si azzuffavano in Piazza dell’Olio facendo intervenire la pubblica forza.

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Gaetano Pieraccini, medico e deputato socialista eletto nelle file dei popolari alle elezioni amministrative fiorentine del 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, cit.)

Negli stessi giorni, l’affissione dei manifesti elettorali nelle vie del centro e specialmente in Piazza Duomo e intorno al Palazzo Arcivescovile diviene spesso occasione per il formarsi di manifestazioni spontanee che procedendo incalzate dalla polizia terminano solitamente o in via Martelli (quelle popolari) sotto la redazione dell’«Opinione Democratica» o in via Ricasoli (quelle liberali) sotto la sede dell’Unione Liberale. Quasi ogni volta scoppiano nei cortei tumulti, tafferugli e persino episodi di scontri armati, come accade ad esempio il 19 giugno in via Ricasoli, quando a seguito di alcuni colpi di pistola esplosi nella folla rimangono feriti alcuni manifestanti e vengono di conseguenza effettuati alcuni arresti.

Preannunciatesi con tali segni di conflittualità, quelle del 19 giugno 1910 furono tra le elezioni municipali fiorentine più partecipate dei precedenti due decenni, registrando un’affluenza alle urne del 64%. Il voto assegnò una netta vittoria alla lista dell’Unione Liberale, che vide eleggere tutti e venti i propri candidati. I quattro posti di minoranza vennero occupati invece da candidati popolari: due socialisti uscenti vennero riconfermati (il Pescetti e il ferroviere Alessandro Alessandrini) e due repubblicani (Gozzini e Brogi).

Per i popolari si trattò di un duro colpo che spinse il sindaco Chiarugi, la sua Giunta e tutta la vecchia maggioranza popolare a presentare in tronco le proprie dimissioni come atto di responsabilità morale di fronte alla sconfitta. Con il governo municipale dimissionario, Palazzo Vecchio fu affidato al commissario prefettizio Alfredo Ferrara a cui spettò traghettare l’amministrazione verso nuove elezioni, stavolta generali, fissate per il novembre del 1910. Il rinnovo di tutti e sessanta i consiglieri costituiva per i liberali una grande occasione per mettere in mora l’esperienza delle due giunte popolari e ambire così a riprendere il controllo di Palazzo Vecchio dopo tre anni di assenza. La battaglia elettorale venne inaugurata nella sostanza dallo stesso commissario prefettizio Ferrara con la pubblicazione del bilancio di previsione per il 1911 del Comune nel quale veniva indicato un deficit di un milione e duecentomila lire, stimato a incrementare fino a due milioni e mezzo; con questo documento, tacciato subito dai popolari come un “bilancio elettorale”, si metteva sostanzialmente all’indice la gestione finanziaria delle due precedenti giunte popolari. Per concentrare il fuoco contro il presunto malgoverno dei popolari, l’Unione Liberale, oltreché continuare a fare affidamento su «La Nazione», il vecchio foglio dei moderati toscani, stampò e fece uscire per tutto il periodo elettorale un proprio quotidiano, «La Gazzetta Liberale».

Il nuovo giornale 16 giugno

Un articolo de “Il Nuovo Giornale” del 16 giugno 1910 riporta la notizia di scontri e disordini verificatisi tra elettori popolari e liberali.

Riconfermando nel proprio manifesto il suo programma di «democrazia liberale», l’Unione presentava una lista di maggioranza di 48 candidati con nomi rappresentativi delle più varie tendenze (liberali di destra come Paolo Guicciardini, Alessandro Chiappelli o il nazionalista Enrico Corradini, liberali di sinistra come Mario Aglietti, il futuro sindaco di Firenze Orazio Bacci, Piccioli-Poggiali, Guido Mazzoni e borelliani quali Ademiro Campdonico) che per il loro assortimento non mancarono di suscitare da parte degli avversari l’accusa di costituire una sorta di «arcobaleno che va dal violetto cupo» per non dire «nero», «fino al giallo chiaro e al roseo tendente invano al rosso»[4]. Seguivano poi da parte dei popolari le solite accuse di taciti accordi stabiliti dai liberali con i cattolici e mantenute anche dopo che questi ultimi ebbero dichiarato la loro formale estraneità dalla contesa elettorale.

Entro il fronte popolare, nel frattempo, la situazione si era particolarmente complicata, facendosi strada tra i tre partiti la tentazione di rompere l’unità bloccarda in nome di una linea di intransigenza elettorale. La rottura si ebbe a seguito dell’XI Congresso socialista svoltosi a Milano tra il 21 e il 25 ottobre 1910, dove venne sanzionata la responsabilità dei repubblicani per aver scisso durante le vertenze agrarie scoppiate in Romagna «le forze dell’organizzazione operaia a vantaggio della reazione capitalistica». In ragione del rifiuto delle accuse mosse dai socialisti, la sezione repubblicana fiorentina decise di rinunciare a qualunque trattativa elettorale con i “partiti affini”, maturando pertanto la decisione di uscire dall’alleanza popolare. La defezione dei repubblicani ridusse perciò i contraenti dell’unione popolare a due, dopo che socialisti e demo-sociali ebbero riconfermata la decisione di presentarsi alle elezioni assieme. Mentre perciò i repubblicani presentarono una propria scheda di minoranza, socialisti e demosociali votarono una lista comune di maggioranza di 48 candidati.

Gazzetta 12 nov

“La Gazzetta Liberale”, il foglio dell’Unione Liberale, attacca la gestione popolare del comune di Firenze (12 novembre 1910)

Come già nel turno precedente di giugno, anche stavolta la campagna elettorale raggiunse un’intensità inedita. Senza riguardi fu la lotta per la diffusione delle schede elettorali, l’affissione di manifesti e la mobilitazione degli elettori organizzata quest’ultima ciascuno secondo le proprie possibilità. L’Unione Liberale – riportava sarcasticamente un giornale avverso – aveva disposto ad esempio

che tutti gli elettori unionisti vadano domani mattina a votare in veicolo. Sono stati mobilitati molti fiacres e un grandissimo numero di automobili. Per accedere a questi veicoli vari sono state stampate tessere speciali, di diversa forma e di diverso colore, classificando gli elettori a seconda della loro importanza.[5]

Un gran numero di comizi ed assemblee si susseguirono le une alle altre nei giorni e nelle settimane precedenti il voto, registrando una partecipazione massiva senza precedenti. La sera del 24 novembre, ad esempio, furono circa settemila i sostenitori che si riunirono alla Palestra Ginnastica Fiorentina per assistere alla grande adunanza elettorale dei popolari inaugurata dal segretario della Camera del Lavoro Sebastiano Del Buono. Non da meno i sostenitori dei liberali che in circa cinquemila la sera precedente avevano preso d’assalto il Salone della Pergola per assistere alla manifestazione organizzata dall’Unione Liberale. Numerosi anche i contraddittori organizzati tra sfidanti, come quello tenutosi nella sede dell’Associazione Aurelio Saffi tra il socialista Gaetano Pieraccini e il repubblicano Gino Meschiari. Decisamente in grande stile il “confronto all’americana” che, sotto lo sguardo vigile di poliziotti in borghese infiltrati nel pubblico, si svolge il 25 novembre presso il Teatro della Pergola tra “popolari” e “liberali” nel quale prendono parola e si affrontano sui rispettivi programmi i principali candidati dei due partiti in lotta. Senza precedenti, sono anche però gli incidenti e gli episodi di violenza registratisi al margine di alcuni assembramenti elettorali. Il più eclatante è sicuramente l’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini, per la quale la stampa di partito fece ricostruzioni del tutto contraddittorie, scatenando una raffica di accuse da ambo le parti. Secondo il racconto offerto dalla stampa popolare, il medico e deputato socialista, recatosi ad assistere con regolare invito all’adunanza dell’Unione Liberale, sarebbe stato bastonato all’ingresso della sala da alcuni liberali riportando lesioni alla testa e venendo ricoverato a Santa Maria Nuova. Per la stampa liberale, invece, il Pieraccini sarebbe stato erroneamente colpito da alcuni suoi stessi compagni di partito durante il tentativo di entrare senza invito all’adunanza organizzata dagli avversari col celato intento di recare disturbo.

Fieramosca 25 nov Pieraccini

Si riporta la notizia dell’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini all’ingresso del salone della Pergola in occasione di un’adunanza elettorale dell’Unione Liberale (“Il Fieramosca”, 25 novembre 1910)

Il 27 novembre, con una percentuale di affluenza del 62,5%, il voto riconfermò ampiamente la vittoria della lista dell’Unione Liberale, i cui candidati ottennero tutti i 48 seggi di maggioranza. Di questi, 26 facevano ingresso per la prima volta in Consiglio. Tra di loro vi erano: il figlio del deputato Francesco Guicciardini, Paolo, tra i fondatori assieme al senatore Guido Mazzoni (altro eletto) dell’Unione Liberale; il letterato Alessandro Chiappelli; il medico igienista e fotografo Giorgio Roster; lo storico e museologo Giovanni Poggi; i già citati Orazio Bacci ed Enrico Corradini; Giotto Dainelli, figlio del generale ed ex consigliere comunale Luigi e altri ancora. Seguivano quindi i dodici consiglieri di minoranza eletti nella lista dell’Unione dei Partiti Popolari il primo dei quali in ordine di elezione era staccato dall’ultimo dei liberali di circa tremila voti. Tre di questi erano eletti per la prima volta (i socialisti Giuseppe Del Bene, Vincenzo Pugliese e Giovanni Fantechi) a cui si aggiungevano i demosociali Francesco Sangiorgi, Giulio Chiarugi e Vittorio Tarchiani e i socialisti Diego Garoglio, Carlo Corsi, Alessandro Alessandrini, Giovanni Pescetti, Adolfo Capaccioli e Gaetano Pieraccini.

L difesa 12 nov

I socialisti fiorentini rinnovano l’alleanza elettorale dei partiti popolari per le elezioni amministrative del novembre 1910 (“La Difesa” 12 novembre 1910)

Proclamati i nuovi eletti, a capo della nuova amministrazione fu designato dalla maggioranza consiliare il presidente dell’Unione Liberale Filippo Corsini, eletto nuovo sindaco di Firenze nella adunanza del 12 dicembre 1910. Dopo tre anni di gestione popolare del comune, i liberali tornavano così alla guida della città. I propositi del nuovo corso municipale dichiarati in un apposito manifesto affisso alla cittadinanza nel quale ci si augurava che da quelle elezioni potesse avere inizio per l’amministrazione cittadina «un’era nuova di lavoro fecondo, al quale tutti gli eletti, così quelli della maggioranza come quelli della minoranza portino senza ire, senza rancori, il contributo della loro assidua e diligente operosità»[6], sarebbero però stati presto smentiti. A fronte dell’aggravarsi della situazione sociale e politica del paese si sarebbe assistito negli ultimi anni dell’età giolittiana all’approfondirsi della crisi di rappresentatività della classe liberale italiana e della sua incapacità di tenere il passo con le trasformazioni sociali ed economiche del paese. Il protrarsi del conflitto politico tra liberali e popolari (socialisti soprattutto), sarebbe infatti divenuta di lì in poi, e almeno sino all’avvento del fascismo al potere, una costante anche della scena fiorentina.

 

[1] Si serrano le file, «L’Opinione Democratica», 5 maggio 1910.

[2] All’Unione Liberale, «Fieramosca», 26 maggio 1910.

[3] Tafferugli, colluttazioni e squilli di tromba per un’adunanza al Gambrinus, «Il Nuovo Giornale», 16 giugno 1910.

[4] La lista dell’Unione e “la vecchia minoranza”, «Fieramosca», 20 novembre 1910.

[5] Caste elettorali, «Fieramosca», 26 novembre 1910.

[6] L’adunanza del gruppo consigliare dell’Unione Liberale, «L’Unità Cattolica», 2 dicembre 1910.