LE CASE DEL POPOLO TOSCANE NELLA TORMENTA FASCISTA

Le fiamme che han distrutto le Case del popolo sono state l’inizio
d’un vasto incendio che minaccia di dar fuoco all’Europa.
(Angelo Tasca, 1938)

Non è certo un caso che, fra il 1920 e il 1923, anche in Toscana il primo obiettivo delle spedizioni fasciste, quasi sempre supportate dalle forze dell’ordine, furono le Case del popolo, costruite su iniziativa e con l’opera diretta dei lavoratori. Esse, infatti, dall’inizio del secolo rappresentavano, nelle città e forse ancor di più nelle campagne, un importante punto di riferimento per la socialità delle comunità locali e per le lotte della classe lavoratrice.
Le Case del popolo erano invise alla reazione filo-padronale in quanto offrivano occasioni di solidarietà e aggregazione sociale, alternative a quelle dell’osteria e della parrocchia. Al termine della giornata lavorativa e alla domenica, i lavoratori e le lavoratrici vi trovavano, oltre alla mescita, biblioteche popolari, spazi per pranzi sociali, feste, spettacoli, canto e ballo. Inoltre, vi si tenevano riunioni, inaugurazioni di bandiere dei sodalizi proletari e conferenze; talvolta erano anche sede delle Leghe operaie o bracciantili e, in qualche caso, della locale Camera del Lavoro.
Significativo il ritratto scritto dal repubblicano fiorentino Augusto Borchi nel 1921:

le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà .

In tale ambiente, potevano quindi incontrarsi e confrontarsi lavoratori e lavoratrici di diverse categorie, così come aderenti alle rispettive tendenze politiche (sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti o senza partito), anche se talvolta la convivenza poteva essere problematica:

La scissione di Livorno, seguita in Empoli da gravi defezioni tra i socialisti, e perciò anche da una perdita di prestigio dei socialisti stessi nelle organizzazioni economiche, creò uno stato di tensione gravissima fra socialisti e comunisti. I socialisti empolesi, riunitisi dopo la scissione, decretarono immediatamente lo sfratto ai «secessionisti», sistematisi in due stanze della Casa del Popolo; per tutta risposta la «Guardia Rossa», passata armi, bagagli e bandiera ai comunisti, occupava la Casa del Popolo vietando il passo ai socialisti. Il dissidio in merito ai locali fu risolto con un accordo, che prevedeva l’uso del primo piano da parte dei socialisti e del secondo piano da parte dei comunisti .

Sin dal 1920 si registrarono le prime spedizioni fasciste contro le Case del popolo (talvolta denominate Case dei lavoratori, degli operai o del proletariato), ma fu soprattutto a partire dagli inizi del 1921 che furono sistematicamente assaltate e distrutte, così come le sedi di altri organismi associativi del movimento operaio e bracciantile quali Camere del lavoro, Società operaie di mutuo soccorso, Cooperative di consumo, Circoli libertari di studi sociali, Circoli socialisti di cultura, Circoli repubblicani e pure cattolici, Biblioteche e Teatri popolari: le distruzioni erano pressoché quotidiane ed estese ad ogni territorio, con centinaia di strutture rese inagibili, saccheggiate o date alle fiamme, con numerose vittime.
Solo nel primo semestre del 1921, secondo i dati forniti dallo storico fascista Chiurco, e ritenuti incompleti da Angelo Tasca, risultano distrutte dagli squadristi almeno 59 Case del popolo, così come 100 Circoli di cultura, 10 Biblioteche popolari e teatri, 53 Circoli operai e ricreativi.
Nelle stesse testimonianze degli squadristi vi si trova puntuale resoconto, come ad esempio nel diario dello studente Mario Piazzesi della Disperata di Firenze che vanta la “baldanza” nel devastare, senza difficoltà, molte Case del popolo durante le scorrerie per le campagne toscane e umbre.

CANNONATE CONTRO LE CASE DEL POPOLO

A copertura delle squadre “tricolorate” dei fascisti e dei nazionalisti vi era l’immancabile presenza di carabinieri, guardie regie e anche reparti del Regio esercito. Tale alleanza, in taluni casi, comportò persino l’impiego dell’artiglieria per espugnare alcune Case del popolo, come avvenuto a Siena il 4 marzo 1921 e a Casale Monferrato (AL) due giorni dopo. Analogamente, a Scandicci (FI) il 3 marzo era stata attaccata con mitragliatrici e un cannone da 75 mm. la sede della Società di Mutuo Soccorso costruita nel 1883 da operai, contadini, artigiani ed ex-garibaldini.
L’attacco del marzo 1921 alla Casa del popolo senese (che ospitava anche la Camera del Lavoro) fu sicuramente fra i più gravi. Per vincere la resistenza armata dei lavoratori che la difendevano, i fascisti ebbero bisogno dell’intervento dei carabinieri, affiancati da 200 soldati con due cannoni da 65 mm., mitragliatrici piazzate in piazza del Monte dei Paschi e due autoblindo. Contro la Casa del popolo furono lanciate bombe a mano, sparate alcune cannonate e almeno duemila colpi di fucile. Dopo la resa, i locali vennero incendiati con la benzina fornita dal Consorzio agrario; seguirono circa 80 arresti e violente rappresaglie. Questa la cronaca, pubblicata sull’«Avanti!» del 25 settembre 1921 (Dalla Toscana insanguinata):

Il segretario della Casa del Popolo [recte: Camera del Lavoro], Giulio Cavina, ora deputato [socialista], fu scovato nel suo ufficio a notte inoltrata e dopo che il cannone aveva operato una breccia nel muro dell’edificio operaio. Fu trascinato da basso, sotto i portici, percosso a sangue da tutti: i più feroci erano i carabinieri e gli ufficiali del Presidio. Quattro soldati, con baionetta inastata, furono messi alla sua guardia […] Intanto tutti gli ufficiali del Presidio, guidati dal capitano dei carabinieri Lucatelli, sfilarono davanti al Cavina strappandogli i peli della barba e schiaffeggiandolo. In breve […] fu tutto pesto e grondante di sangue e chiese un bicchiere d’acqua. Il capitano Lucatelli ed altri ufficiali dettero ordine che nessuno portasse l’acqua richiesta […] tutti i soldati e i carabinieri si dettero a bere il vino e i liquori presi nelle cantine della Casa del Popolo davanti al Cavina. Anche il capitano medico del Distretto, anziché curarlo […] si dette a dileggiarlo.

Il drammatico assedio sarebbe stato rievocato anche in versi dall’anarchica Virgilia D’Andrea nel 1922 :

Udite, udite, o miei compagni, a Siena
Città dolce e gentil romba il cannone.
Sessanta petti han fatto una catena
E d’ansia è la difesa e di passione.

Ma la bocca di fuoco arde sui volti
E s’apre un varco ne la Casa rossa:
Escono, i vinti, màdidi e sconvolti
E cadon, muti, su la terra smossa.

La difesa armata degli organismi e delle sedi del movimento d’emancipazione sociale rappresentò comunque un fatto abbastanza sporadico; si trattava infatti di una lotta impari non solo sul piano tattico, ma finanche su quello psicologico, come significativamente osservato da Angelo Tasca:

I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo […] La Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro «capitale», la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in fortezza, se si tiene alla casa […] Per i fascisti la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. Di queste oasi di socialismo che coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta più, alla fine della guerra civile, che un cupo deserto.

Pur essendo nate con spirito umanitario e di civile convivenza, le Case del popolo in numerose situazioni divennero comunque la sede ospitale e solidale per le prime organizzazioni unitarie dell’antifascismo militante, come avvenne ad Empoli dove, fin dal gennaio 1920, le ex-Guardie rosse costituirono, nella locale Casa del popolo, un corpo volontario armato per l’azione antifascista, mentre presso la Casa del popolo di Borgo Vittoria, a Torino, nel gennaio 1921, si riuniva la Federazione dei gruppi d’azione diretta rivoluzionaria, emanazione dell’USI (Unione sindacale italiana), con intenti sia difensivi che offensivi; altresì, sempre nel torinese, in alcune Case del popolo si organizzarono le squadre comuniste, come ad esempio, quella di Condove di Susa strettamente sorvegliata dalla polizia.
In seguito, dopo la loro comparsa a fine giugno 1921, gli Arditi del popolo difesero le Case del popolo e da queste furono accolti, così come ebbe a dichiarare Argo Secondari, loro fondatore:

fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi d’Italia non potranno avere con loro nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.

Ad Ancona la sezione ardito-popolare si costituì presso la Casa del proletariato e a Roma la sede centrale degli Arditi del popolo fu la Casa del popolo in via Capo d’Africa; tanto che, in un’intervista a Secondari, pubblicata su «L’Ordine nuovo» del 12 luglio 1921, si poteva leggere il seguente commento:

Il tenente Secondari risponde alle mie domande con molta cordialità, ma anche con grande impazienza. Giungono ogni tanto dalla periferia dei giovani operai Arditi, che portano notizie, chiedono informazioni, ordini. Questa sera ha luogo una riunione di capi-centuria alla Casa del Popolo. È perfettamente naturale che gli «Arditi del popolo» si riuniscano alla Casa del Popolo.

Con l’avvento del regime fascista e in particolare nel 1923 – l’anno della grande repressione contro l’antifascismo – le poche Case del popolo superstiti furono chiuse d’autorità e requisite per essere destinate a Casa del Fascio o sedi rionali del Fascio, così come previsto dal Decreto Legge che nel 1924 impose lo scioglimento delle S.M.S. e delle associazioni similari. In questo modo, ad esempio, a le Case del popolo di Siena e Settignano (FI) divennero Case del Fascio, così come a Colle Val d’Elsa, dove la Casa del popolo e il modernissimo Teatro del popolo furono soppiantati rispettivamente dalla Casa del Fascio e dal Teatro del Littorio, mentre a Piombino la Casa del popolo diventò Casa d’Italia, nonché sede del Fascio (oggi Commissariato di Polizia).
In molte località della Toscana, per finanziare le Case del Fascio, i lavoratori, le operaie e i contadini furono inoltre costretti a versare contributi in denaro, acquistare azioni o prestare manodopera gratuita, onde evitare ritorsioni.
Parallelamente ai decreti prefettizi di scioglimento e alle chiusure violente di Case del popolo e S.M.S., i Fasci usavano convocare i consiglieri e i responsabili di queste esperienze di democrazia proletaria, così come di quelle indipendenti, per indurli, sotto minaccia, a rassegnare le dimissioni. L’associazionismo democratico fu quindi del tutto soppiantato dalle strutture dell’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita con il Decreto legge n. 582 (significativamente datato 1° maggio 1925).
Il Dopolavoro operava, dichiaratamente, come organo di propaganda del regime, nel tentativo di affermare una propria politica sociale fra i lavoratori e i ceti popolari, attraverso paternalismo padronale e assistenzialismo demagogico, che ne confermava la subalternità. Nonostante una certa espansione, i Dopolavoro aziendali e Statali rimasero comunque – a differenza delle Case del popolo – istituzioni imposte e gestite dall’alto, in cui il «libero pensiero» era soppresso dal «clima spirituale della rivoluzione fascista».

IL PRIMO ASSALTO, LA PRIMA VITTIMA

Il primo assalto fascista ad una Casa del popolo in Toscana vide anche la morte di un suo difensore: il diciottenne Enrico Lachi (Monteriggioni 29 luglio 1902 – Siena 11 marzo 1920), figlio di Giulio e Giulia Pagni.
Nato in località Poggiolo (Fontesdevoli), la sua numerosa famiglia si era trasferita a Siena quando aveva quattro anni, in via Fiorentina 88. Giovanissimo, aveva iniziato a lavorare come operaio avventizio delle Ferrovie, subito attivo sul piano sindacale e politico, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista “Andrea Costa” e partecipando allo sciopero ferroviario del gennaio 1920.
Quel 7 marzo 1920 si trovava in prima fila a difendere la sede della Casa del popolo di Siena, costruita e inaugurata nel 1905 con il determinante contributo della Banca Cooperativa Ferroviaria e su iniziativa di ferrovieri e tipografi. L’edificio, in via Pianigiani, ospitava anche la locale Camera del lavoro e comprendeva una Biblioteca popolare, un Teatro, un Caffè e altre attività commerciali.

Il 7 marzo 1920, approfittando di un corteo di protesta di ex-combattenti, i fascisti riuscirono a farlo parzialmente deviare verso la Casa del popolo, simbolicamente presidiata dai carabinieri. Infatti, i fascisti – armati – poterono vandalizzare i locali del Caffè, mentre i carabinieri bloccavano i pochi lavoratori schierati a difesa della Casa del popolo. In questa fase, in piazza della Posta, un appuntato dei carabinieri sparò con la rivoltella colpendo Enrico Lachi che stava affrontando un fascista. Soccorso all’interno del Caffè e subito trasportato all’Ospedale civico, Lachi sarebbe morto alle 0.45 dell’11 marzo, dopo giorni di sofferenze.

Contro le violenze dei fascisti e dei carabinieri, subito iniziò uno sciopero prima spontaneo e poi proclamato unitariamente dalla Camera del lavoro, dalla Sezione socialista, dal Circolo giovanile socialista, dal Circolo anarchico Germinal e dalla Federazione socialista. Lo sciopero risultò generalizzato e al comizio, tenutosi la sera dell’8 marzo, in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti), intervennero gli onorevoli Grilli e Bisogni; il segretario della Camera del lavoro. Giulio Cavina; Meini per il Partito socialista e Guglielmo Boldrini per gli anarchici: comune fu l’accusa contro, oltre ai fascisti, tutte le autorità, di cui chieste le dimissioni. I funerali di Lacchi si svolsero sabato 13 marzo, con la partecipazione di quindicimila persone. Sin dalla sera precedente la sua salma era stata esposta presso il Circolo di Cultura della Casa del popolo. Tra le tante corone risaltava una con la dedica «Alla vittima del piombo regio. Le donne del popolo». Inoltre vi erano quelle del Personale di Macchina e Depositi Locomotive, del Personale Viaggiante, dei compagni di lavoro dell’Officina ferroviaria, dei Soci della Pubblica Assistenza. L’ultimo saluto fu affidato a Bisogni per i socialisti, a Boldrini per gli anarchici e a Carlucci per i giovani socialisti. Nei giorni seguenti gli Operai delle officine ferroviarie inviarono una lettera pubblica al dirigente reclamando spiegazioni sul licenziamento di Lachi l’indomani del suo mortale ferimento.
La sua tomba si trova ancora al cimitero del Laterino, appena dietro la cappella centrale.

La Casa del popolo di Siena avrebbe subito altri tre assalti: il 4 maggio 1920, il 4 marzo 1921 e il 23 maggio 1921; nel 1923, dopo l’avvento del fascismo, fu estorta e trasformata in Casa del Fascio. Dato che, dopo le devastazioni, l’edificio necessitava di lavori di ristrutturazione, la Casa del Fascio contrasse un mutuo con il Monte dei Paschi, ma il debito non sarebbe mai stato onorato. Per recuperare il danno, la Banca acquisì gli immobili gravati da ipoteca, e contemporaneamente acquistò Palazzo Ciacci, in via Malavolti, donandolo nel 1936 alla Federazione fascista. Quella che era stata la Casa del popolo venne quindi venduta al Consorzio Agrario a un prezzo irrisorio. Il Partito fascista mantenne la propria sede a Palazzo Ciacci sino alla fine; fu qui la famigerata Casermetta in cui, nel periodo della Repubblica Sociale, centinaia di oppositori al regime, ebrei e partigiani senesi furono imprigionati, interrogati e torturati.

Anche dopo la Liberazione, la Casa del popolo non venne mai restituita ai lavoratori senesi, e tutt’ora è sede del Consorzio Agrario; a Enrico Lachi, invece, è stata dedicata una piazza del quartiere senese di Petriccio.

 




L’eccidio di Berceto tra luci ed ombre: quando la Storia non è univoca

Una delle vicende forse più tristi, dal forte impatto morale e ancora controverse, verificatasi nelle campagne tra Monte Giovi e Pratovecchio, verso gli Appennini, è sicuramente quella di Berceto, piccola località del comune di Rufina, in provincia di Firenze, tappa del Sentiero della Memoria.

Immagine satellitare di Berceto. Fonte: Google Maps

Nel periodo tra marzo e aprile del 1944, sul Monte Giovi si riunirono pian piano vari nuclei di combattenti, fra cui il gruppo Lanciotto Ballerini proveniente da Monte Morello. Per tutto l’inverno dovettero sopportare non solo il freddo, ma soprattutto le varie marce forzate di spostamento, rese necessarie dai continui rastrellamenti operati dalle milizie repubblichine e dai reparti nazisti della divisione Hermann Goering, fatti giungere nel centro Italia con funzioni antipartigiane [1].

Ai primi d’aprile, tedeschi e repubblichini misero in atto un rastrellamento su vasta scala nella zona tra la Calvana e il monte Falterona. Incendi, distruzioni ed uccisioni indiscriminate caratterizzarono quell’operazione di polizia con l’intento di dissuadere i contadini della zona a dare aiuto ai partigiani.

Furono proprio costoro a subire le più gravi conseguenze per il sostegno dato alla causa della Resistenza. I contadini, inoltre, erano spesso succubi di un apparato agrario dominato dai grandi latifondisti, coadiuvati da fattori asserviti al regime, controllori attenti del territorio [2].

È in tale clima che avvenne l’eccidio di Berceto.

Lunedì 17 aprile del 1944, infatti, a Berceto, non distante da Pomino, sempre nel comune di Rufina, arrivarono sette uomini, che si definirono partigiani sbandati. In quei giorni, nella zona di Pomino, era presente in perlustrazione una formazione partigiana comandata da Pietro Corsinovi detto “Pietrino” (a cui faceva capo il gruppo Lanciotto Bellerini). La formazione aveva lasciato ad inizio aprile il Monte Morello, spostandosi in direzione del Falterona. Dopo i fatti di Vallucciole (frazione di Stia, in provincia di Arezzo) di Pasqua, stava rientrando verso Rufina. Corsinovi dette ordine di muoversi verso il passo della Consuma, attraverso il quale sperava di giungere al Pratomagno. Durante il trasferimento però, la squadra di Romolo Moretti “Capitan Tempesta” rimase indietro: lui riuscì a ricongiungersi con i compagni, ma sette dei suoi uomini si erano fermati in una casa colonica di Berceto, all’alba del 17 aprile [3].

Questi uomini, tutti tra i 19 e i 22 anni, erano saliti sul Monte Morello dopo l’8 settembre: tre erano fiorentini, Osvaldo Toci del Medico, detto “Sindic”, il suo futuro cognato Dino Bolognesi “Onid” e Carlo Uttummi; due erano di Carmignano, come Mauro Chiti e Adelindo Bocci; uno di Campi Bisenzio, tale Guglielmo Chiti “Teotiste”. Il settimo era un disertore austriaco della Wermacht, che si era unito agli altri solo da poco [4].

Questi chiesero al signor Lazzaro Vangelisti, uno dei coloni della vicina fattoria di Pomino dei marchesi Frescobaldi, cibo e ospitalità e pernottarono lì, nonostante Vangelisti stesso e i paesani, anch’essi coloni, avessero detto loro di non trattenersi a lungo, onde evitare rischi.

Vecchia foto di Lazzaro Vangelisti a Berceto Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [2ª edizione]

 

Vangelisti nei giorni precedenti si era già mostrato solidale con i soldati alleati e i partigiani, fatto forse noto ad Uttummi e al Tesi. Quel giorno però Vangelisti si mostrò diffidente. Era infatti noto che i soldati della Divisione Göring fossero impegnati sui rilievi dei monti Morello, Falterona, Giovi e nell’area del Casentino in una grande operazione di rastrellamento antipartigiano.

I partigiani non si decisero a ripartire e, anzi, si fermarono a farsi rammendare e sistemare i vestiti dalle donne del posto, mostrandosi -secondo la testimonianza di Vangelisti- ostili, fatto che aveva destato in lui, ex post, sospetti sulle reali intenzioni dei ribelli.

Come temuto però, poco dopo, giunsero a Berceto gli uomini della Göring, tra i quali alcuni militi della 92° Legione GNR di Firenze, distaccati a Dicomano [5]. Cinque partigiani vennero catturati, due dei quali, Guglielmo Tesi e Mauro Chiti, fucilati all’istante. Gli altri, stando ai loro racconti, colpiti da un calcio, avrebbero perso l’equilibrio e sarebbero caduti, evitando così le raffiche di mitra che uccisero gli altri due ragazzi. Furono dapprima portati alla Consuma, poi a Firenze, nella Fortezza da Basso, quindi alle Murate, dove sarebbero stati torturati, prima di riuscire a fuggire, per ricongiungersi con i ribelli [6].

Nel frattempo, a Berceto, la furia dei soldati si era abbattuta sulla famiglia Vangelisti, ritenuta fiancheggiatrice dei partigiani: la moglie di Lazzaro, Giulia, assieme a quattro figlie, vennero seviziate e uccise , mentre la loro abitazione fu data alle fiamme. Lo stesso copione venne adottato nei confronti delle famiglie Ebicci e Soldeti, vicine dei Vangelisti: furono uccisi i coniugi Alessandro e Isola Ebicci, poi Fabio e Iolanda Soldeti, rispettivamente nonno e nipote, e le loro case date alle fiamme [7]. Sopravvissero solo coloro che al momento dell’eccidio si trovavano al lavoro nei campi.

Giulia Vangelisti con le quattri figlie. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [2ª edizione]

I due partigiani colpiti a morte. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Gli Ebicci e i Soldeti. Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Elina Vangelisti, una delle figlie di Vangelisti sopravvissuta alla strage, così racconta le ore successive:

«I corpi delle vittime furono sistemati al coperto e ricomposti con la collaborazione della Signora Ada Barducci, una vedova amica di famiglia, giunta nel primo pomeriggio a dare aiuto» [8]. I corpi delle vittime, come lo stesso Vangelisti ha raccontato, era stati infatti martoriati [9].

Più tardi, sempre durante i rastrellamenti antipartigiani per indebolire la popolazione civile, i tedeschi uccisero a Cigliano, non distante da Berceto, un pastore, Giuseppe Poggiolini, e un partigiano non identificato.

Il giorno seguente, il 18 aprile, le salme furono sistemate nelle casse di castagno e il giorno successivo sepolte in un’unica fila al cimitero di Pomino come testimonia l’atto di morte della parrocchia redatto dal sacerdote don Fanetti [10].

Non erano ancora stati identificati però i due partigiani uccisi, quindi furono tumulati senza nome. Sette mesi dopo, terminata la guerra, le autorità del C.L.N. invitarono degli esponenti della Resistenza campigiana a riconoscere i due partigiani morti nella strage di Berceto. Guglielmo Tesi era infatti originario di Campi Bisenzio e fu identificato per le sue fattezze fisiche [11].

Molte le polemiche sorte dopo la fine della guerra sui fatti di quel triste giorno. Secondo Corsinovi si sarebbe trattato di una «malvagia rappresaglia» dei nazifascisti, in risposta a quello che chiamò un «combattimento» armato, a causa del quale la formazione partigiana avrebbe subito ingenti perdite [12]. In realtà non ci sarebbe stato un vero e proprio conflitto a fuoco precedente, bensì, come ha scritto Fusi, l’eccidio rientrerebbe nella «guerra ai civili», oramai in atto da settimane nel territorio toscano [13].

Secondo la testimonianza di Lazzaro Vangelisti, mosso dalla voglia di vendetta e per il grande dolore, nel gruppo di partigiani che aveva trovato rifugio presso il suo capanno, vi erano una o più spie (“falsi partigiani”) al servizio dei tedeschi, forse allertati dall’allora fattore, poi portato a processo dallo stesso Vangelisti. Basandosi sui propri ricordi, sulle spiegazioni ricevute e suggestionato da varie illazioni, Vangelisti accusò di aver ordito tale vendetta, coadiuvato da alcuni dei sette partigiani, il marchese Frescobaldi, proprietario della tenuta di Pomino e il suo fattore, Giuliano Franciolini, animati da simpatie fasciste e, a suo dire, desiderosi di fargli pagare il suo sostegno alla Resistenza [14].

Aveva mosso già tali accuse nell’aprile del 1945, quando venne interrogato allo Special Investigation Branch britannico che indagava sul caso. Lo stesso farà poi con le autorità italiane nel dopoguerra. Ne nacque una vicenda giudiziaria, sia nei confronti dei tre partigiani superstiti, sia verso il Frescobaldi e il fattore, che sfociò in un processo durante il quale «L’Unità», organo ufficiale del Pci, difese il partigiano Sindic e gli altri due accusati con un’inchiesta molto documentata. La sentenza del processo non lasciò adito a dubbi perché Sindic e gli altri vennero assolti con la formula più ampia, ovvero «per non aver commesso il fatto» [15]. Nel novembre del 1948, infatti, la sezione istruttoria della Corte di Appello di Firenze concluse che le accuse mosse verso il Frescobaldi, il fattore e i partigiani di Corsinovi erano infondate [16].

Nessuna giustizia, dunque, ha ripagato per i dolori di quel giorno, mentre luci e ombre caratterizzano , anche perché la verità giudiziaria non ha sostenuto la tesi di Vangelisti. La vicenda di Berceto è, difatti, caratterizzata da «reticenze giudiziarie e operazioni politico-culturali di rimozione di fatti ed episodi», storie troppo scomode nel secondo dopoguerra, come ha scritto l’oramai ex sindaco di Rufina Mauro Pinzani [17].

Come chiaramente scrive Fusi, si può dubitare -come fece Vangelisti- che le accuse da lui mosse fossero state insabbiate per motivi politici, dovuti alle forti polarizzazioni della politica italiana d’allora, come avvenne per altri crimini dei nazifascisti. Tuttavia, in mancanza di prove verificabili, resta lacunosa la ricostruzione dei fatti e resta difficile ipotizzare che un simile eccidio sia stato pianificato così nel dettaglio [18].

Come per molti altri eccidi, le popolazioni martirizzate hanno sempre cercato verità, senza contestualizzare però l’evento, difficile da accettare e metabolizzare, ricercando cause razionali.

Vera Vangelisti con una vecchia foto del padre Fonte: Vangelisti Lazzaro, Immagini, in Una vita trascorsa sotto tre regimi

Lazzaro Vangelisti, per avere una qualche giustizia, ha lottato a lungo con la figlia Vera, sopravvissuta alla strage e autrice di un libro, La strage di Berceto (DEA, Firenze, 2013), mentre lui ha affidato le proprie memorie biografiche e i ricordi di quel giorno ad un altro testo, intitolato Una vita trascorsa sotto tre regimi (Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [1ª edizione 1979]). Il titolo parla da sé: Vangelisti racconta la vita che aveva vissuto durante la Prima Guerra mondiale, poi sotto il fascismo e con la Seconda Guerra mondiale, infine, quando aveva dovuto lottare ancora per avere giustizia [19].

Copertina della prima edizione del testo di Vangelisti, presentato da Vasco Pratolini, che conobbe tale testo grazie a Don Masi, prete molto vicino a Lazzaro Vangelisti.

Il libro di Vangelisti va dunque letto come una testimonianza delle atrocità commesse dai nazifascisti e come «esempio di una lacerante ricerca personale di una spiegazione e di un senso di giustizia in grado di lenire in qualche modo il peso angosciante di un’incolmabile perdita subita; ma non possono però essere intese come una ricostruzione provante delle presunte responsabilità di cui egli al tempo, pur coscienziosamente, si convinse» [20].

A proposito delle vicende di Berceto così le introduce:

«Era il 17 aprile 1944. Quel giorno ci fu troncata definitivamente la felicità che ci restava [21]».

Nel 1978, quando uscì il libro, l’autore ripropose le sue idee e le sue verità, accusando nuovamente i tre partigiani sopravvissuti, il Frescobaldi e il Franciolini.

Così parla Marzia Toci del Medico, la figlia di Sindic: «Ho scoperto solo molti anni dopo questo libro e da quel momento ho cominciato a lottare in difesa della memoria di mio padre, ritrovando documenti e sentenze e iniziando una battaglia legale che ha portato al ritiro del libro di Vangelisti. Adesso con questo volume spero che finalmente la verità sia ristabilita e accettata da tutti, anche se fino ad adesso non ho trovato disponibilità da parte di Anpi che è rimasta arroccata sulla versione del Vangelisti» [22].

Come ricordato da Francesco Fusi, Marzia Toci del Medico ha pubblicato una ricostruzione dei fatti, supportata da materiale archivistico dell’Archivio di Stato di Firenze, per riabilitare la memoria del padre, oramai scomparso (Marzia Toci del Medico, Sindic, la storia non si cambia! Albatros, Roma, 2022) [23].

Le memorie contrapposte, segnate dal tremendo trauma, restano quindi divise. La Storia deve rispettarle e soprattutto può restituire la complessità degli eventi entro cui questo episodio si è svolto, pur senza pretesa di offrire soluzioni alle legittime aspirazioni dei singoli né tanto meno sentenze.

Unidici le vittime di quel giorno, tra luci ed ombre: nove civili, tra donne, uomini e bambini e due partigiani.

Ebicci Alessandro, 78 anni

Ebicci Isola, 49 anni

Soldeti Fabio, 81 anni

Soldeti Iolanda, 19 anni

Vangelisti Giulia, 46 anni

Vangelisti Iole, 9 anni

Vangelisti Anna Maria, 3 anni

Vangelisti Angelina, 22 anni

Vangelisti Bruna,  23 anni

Chiti Mauro, 19 anni

Tesi Guglielmo, 19 anni

 

Il 17 aprile 1945, il comune di Rufina pose a Berceto una lapide in ricordo delle vittime su di una parete del casolare dei Vangelisti, teatro dell’eccidio e, nel Sessantesimo anniversario della strage, una seconda lapide in loro memoria. Infine, il 25 aprile 1972, lo stesso comune fece erigere nel centro di Pomino un cippo-monumento in ricordo delle vittime dell’eccidio [24].

Lapide per il 60° dell’eccidio di Berceto, Comune di Rufina (FI) Fonte: Giovanni Baldini, Lapide per il 60° dell’eccidio di Berceto, 2005, https://memo.anpi.it/monumenti/1615/lapide-per-il-60-delleccidio-di-berceto/

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Giovanni Baldini, Monumento per la strage di Berceto, in ResistenzaToscana.it, 2 ottobre 2006

Il nome del partigiano Mauro Chiti è riportato anche su una lapide in ricordo dei cittadini caduti, posta sul Municipio di Carmignano, presso Prato, luogo da cui proveniva [25].

Lapide del municipio, Comune di Carmignano (PO). Fonte: Giovanni Baldini, Lapide del municipio di Carmignano, Memo, 2007, https://memo.anpi.it/monumenti/59/lapide-del-municipio/

Nell’aprile del 2013, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito al comune di Rufina la Medaglia di Bronzo al Merito Civile per l’opposizione al fascismo e per il sacrificio pagato con l’eccidio di Berceto, «nobile esempio di spirito di sacrificio e di amor patrio» [26].

Ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’eccidio, l’amministrazione comunale di Rufina organizza a Berceto una commemorazione delle vittime.

Tomba delle donne di Berceto, Comune di Rufina (FI). Fonte: Giovanni Baldini, tomba delle donne di Berceto, 2005, https://memo.anpi.it/monumenti/430/tomba-delle-donne-di-berceto/

Il 4 gennaio 1945, qualche mese dopo la liberazione di Firenze, al partigiano Guglielmo Tesi venne intitolata una strada a Campi, quella che un tempo era Via delle Lame [27] e dal 1947, in suo ricordo, si organizza una corsa ciclistica, la cosiddetta Coppa Guglielmo Tesi [28]. Il suo nome compare, inoltre, sul monumento ai caduti di Campi.

Monumento ai caduti e ai deportati, Comune di Campi Bisenzio (FI) Fonte: Fulvio Conti, Monumento ai caduti e ai deportati del Comune di Campi Bisenzio, 2007, https://memo.anpi.it/monumenti/51/monumento-ai-caduti-e-ai-deportati/

Stando a recenti notizie di cronaca, a Berceto potrebbero essere effettuati presto lavori di restauro per conservare la memoria di quel luogo, come Vangelisti desiderava e come la figlia Vera ha a lungo sperato [29].

Berceto oggi (https://ecomuseomontagnafiorentina.it/siti-di-interesse/berceto/)

Note:

  1. Bernardi Renzo, Conti Fulvio, Risi Mendes, Rizzo Vincenzo (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, Comune di Campi Bisenzio, Campi Bisenzio, [2005], pp. 30-31
  2. Ivi, p. 31
  3. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, pp. 313-314
  4. Ivi, p. 314
  5. La Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) fu una forza armata istituita dalla Repubblica Sociale Italiana l’8 dicembre 1943 con compiti di polizia interna e militare.
  6. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 315-316
  7. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, Francesco Fusi (a cura di), https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]; sulla vicenda vedi anche Casalini, Giovanna, L’eccidio nazifascista di Berceto a Rufina, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Gorgonzola, 2011, pp.63-65
  8. Bernardi R., Conti F., Risi M., Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, cit., p. 37
  9. Vangelisti Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014, p. 75
  10. Bernardi R., Conti F., Risi M, Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, 37
  11. Ivi, , p. 37
  12. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, , p. 316
  13. Ivi, cit., p. 317
  14. Ivi, pp. 317-318
  15. s., “Un libro verità sulla morte di Guglielmo Tesi. La strage di Berceto dell’aprile 1944 ha avuto sorprendenti strascichi giudiziari”, in PrimaFirenze, https://primafirenze.it/altro/un-libro-verita-sulla-morte-di-guglielmo-tesi/ [consultato nel mese di giugno 2024]
  16. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 318
  17. Pinzani, Mauro, Prefazione, in L. Vangelisti, Una vita trascorsa sotto tre regimi, p. 9
  18. Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, 321-322
  19. Vagelisti Vera, La strage di Berceto, DEA, Firenze, 2013; Vangelisti Lazzaro, Una vita trascorsa sotto tre regimi, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, 2014 [1ª edizione 1979]
  20. Fusi, Francesco, Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944,, p. 322
  21. Vangelisti L., Una vita trascorsa sotto tre regimi, cit., p. 70
  22. Citazione di Marzia Toci del Medico, in A.s., “Un libro verità sulla morte di Guglielmo Tesi. La strage di Berceto dell’aprile 1944 ha avuto sorprendenti strascichi giudiziari”
  23. nota 61, in Fusi, F., Comunità in guerra. Valdisieve 1940-1944, p. 322
  24. Atlante stragi nazifasciste, Berceto, Rufina, Francesco Fusi (a cura di), https://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=2308 [consultato nel mese di maggio 2024]
  25. Ibidem
  26. Ibidem
  27. Bernardi R., Conti F., Risi M., Rizzo V. (a cura di), Guglielmo Tesi nella memoria di Campi Bisenzio, pp. 47-50
  28. Ivi, pp. 51-77
  29. Bartoletti, Leonardo, “La casa di Berceto restaurata dalla proprietà Frescobaldi”, La Nazione, 23 aprile 2023, https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/la-casa-di-berceto-restaurata-dalla-proprieta-frescobaldi-f730c3b4 [consultato nel mese di maggio 2024]

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di luglio 2024.




LIVORNO – 11 AGOSTO 1921

Anni duri in cui non ancora decenne vidi ammazzare la gente per strada

(Giorgio Caproni, Son targato Livorno 1912, «Il Telegrafo», 16 maggio 1976)

 

Quanto avvenne l’11 agosto 1921 nel borgo livornese d’Ardenza è rimasto per lungo tempo un ricordo dagli incerti contorni, attraverso versioni e narrazioni contraddittorie. Degli stessi protagonisti era rimasta una vaga memoria, eppure quella data vide le prime due uccisioni per mano fascista a Livorno[1].

Le settimane precedenti avevano registrato anche nella provincia livornese l’inasprirsi dei conflitti – anche se di minore gravità rispetto al resto della Toscana – fra le squadre fasciste e gli abitanti dei quartieri popolari che, dall’inizio di luglio, potevano contare anche sulle squadre degli Arditi del popolo formatesi mettendo insieme ex-combattenti della Lega proletaria e lavoratori delle diverse tendenze “sovversive”: socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti e sindacalisti.

Organizzati a livello territoriale, in ogni quartiere gli Arditi del popolo, più o meno strutturati ed armati, cercavano di assicurare la «difesa proletaria» e di rispondere alle spedizioni squadriste dei fascisti e dei nazionalisti che spadroneggiavano nel centro della città e tentavano sortite nei rioni proletari, potendo contare sulla protezione delle forze dell’ordine – militari compresi –  come era accaduto il 19 luglio in borgo Cappuccini quando dai camion avevano sparato raffiche di mitragliatrice contro le case del quartiere sovversivo.

Oltre a confermare questa reciproca collateralità, i “fatti d’Ardenza” dimostrarono come la contrapposizione, ancora prima che ideologica, fosse di classe: infatti, se da una parte, a restare sul selciato furono due lavoratori salariati, dall’altra a sparare impunemente c’era uno studente universitario, figlio dell’alta borghesia labronica. Inoltre, entrambi gli uccisi erano stati, loro malgrado, soldati durante la guerra mondiale “quindici-diciotto”, mentre il giovane omicida, animato da un malinteso patriottismo, ancora non aveva espletato il servizio militare.

LA CITTADELLA DELL’ANARCHIA

All’epoca l’Ardenza era un paese a sé stante, separato dalla città di Livorno, con un proprio Municipio, abitato da circa 4000 persone. In molti lavoravano la terra nelle estese coltivazioni agricole dell’entroterra, ma vi risiedevano anche numerosi operai. La forte attitudine “sovversiva” della comunità ardenzina aveva come principali punti di riferimento il Circolo di studi sociali situato in via del Littorale (ora via Uberto Mondolfi), fondato dall’anarchico Adolfo “Amedeo” Boschi, e il Circolo socialista. Tra gli anarchici prevaleva la tendenza “organizzatrice”, ma non mancavano gli “antiorganizzatori” facenti capo a «L’Avvenire anarchico» di Pisa. Nella sezione socialista era, invece, maggioritaria la componente massimalista ed era ospitata un’attiva sezione socialista femminile.

Inoltre, presso le due sedi, si trovavano le sezioni delle due Camere del Lavoro di Livorno – quella aderente all’USI e quella della CGdL. Invece, nel 1921, all’Ardenza non risultava presente alcuna struttura repubblicana o comunista.

Già tra il 1914 e il ’15 all’Ardenza vi era stata una forte opposizione anarco-socialista alla guerra e, in considerazione della sua peculiarità politica, vi erano una stazione dei Carabinieri, un commissariato di Polizia e una reparto di Guardie regie.

In questo contesto, quel tragico 11 agosto – mentre sull’assolato lungomare, frequentato dalla “Livorno bene” e dai villeggianti, regnava uno spensierato clima balneare – ad Ardenza Terra, attorno alle 18.30, arrivarono col tram il segretario politico del Fascio di combattimento, il ventiquattrenne Marcello Vaccari, scortato da quattro suoi camerati, con intenzioni certo non pacifiche, nonostante le diverse quanto improbabili ragioni poi addotte. Cercavano l’anarchico Luigi Filippi, ritenuto il comandante degli Arditi del popolo ardenzini e, quando furono affrontati da alcuni antifascisti che chiedevano ragione di tale provocatoria presenza, la situazione sarebbe subito degenerata in uno scambio di rivoltellate in cui Vaccari rimase lievemente ferito ad una gamba, mentre un proiettile vagante ferì ad un piede un ragazzo di 10-11 anni, Nilo Paolotti.

Considerata la notoria animosità di Marcello Vaccari, già volontario di guerra ed ex tenente dei Reparti d’assalto, è presumibile, nella più benevola delle ipotesi, che egli intendesse minacciare ritorsioni per un’annunciata iniziativa politica all’Ardenza con il “disonorevole”, Giuseppe Mingrino, deputato socialista e dirigente nazionale degli Arditi del popolo.

SANGUE SUL LUNGOMARE

A seguito di tale incidente e prevedendo una spedizione punitiva dei fascisti livornesi, i «sovversivi» ardenzini, al termine della giornata di lavoro, invece di rincasare si allertarono, predisponendo misure di vigilanza del territorio, non potendo contare sull’operato delle forze dell’ordine. In circa sessanta, fra arditi del popolo e altri antifascisti, suddivisi in gruppi, si posero a presidio delle diverse vie d’accesso alla frazione, lato terra e lato lungomare, mentre i collegamenti sarebbero stati assicurati con le biciclette.

Nel corso di tale attività preventiva, sul viale che porta ad Antignano, nei pressi dell’allora ponte Principe di Napoli (ora Tre Ponti), furono fermati e disarmati, senza ulteriori problemi, delle rispettive rivoltelle, gli avvocati Enrico Berti e Luigi Corcos. Il primo, segretario particolare di Costanzo Ciano, aveva preso parte alle azioni anti-sciopero nelle Poste nel gennaio del 1920 ed avrebbe fatto carriera sotto il fascismo, mentre il secondo, già tenente di complemento, risultava iscritto al Fascio di Livorno.

Quando però, pochi minuti dopo, venne fermato lo studente diciannovenne Tito Torelli, le cose precipitarono. Torelli infatti, riconosciuto come squadrista quale era (anch’egli in funzione anti-sciopero ed iscritto al Fascio dal 1° dicembre 1920), si rifiutò a sua volta di consegnare l’arma – una pistola sottratta al padre Giorgio, anch’esso fascista – che aveva con sé.

In uno spazio orario approssimato, fra le 22 e le 22,30, l’acceso diverbio sarebbe quindi culminato in una sparatoria conclusasi con un bilancio “asimmetrico” che vedeva il Torelli riportare appena delle escoriazioni e dall’altra parte due feriti mortalmente d’arma da fuoco, ossia Averardo Nardi e Amedeo Baldasseroni, entrambi arditi del popolo.

Averardo [all’anagrafe Avelardo] Nardi, nato il 14 ottobre 1892, secondo i giornali era un operaio (il registro ospedaliero lo segnalò invece come carrettiere), reduce della Grande guerra; abitava in via dell’Ulivo assieme al padre Augusto (dopo la perdita della madre Isolina Ristori) ed aveva un fratello, Nereo. Secondo il vice-prefetto era pregiudicato per un reato comune (di cui peraltro non si è trovata traccia) e addosso gli fu trovato un manifestino di propaganda «dell’associazione Arditi del popolo», ma nessuna arma.

Amedeo Baldasseroni, nato il 28 maggio 1886, era figlio di Pietro e Annunziata Orlandi. Capo squadra elettricista alla SELT (Società Elettrica Ligure Toscana), era coniugato con Nella Frugoli, poi deceduta nel 1935, e padre di Libera (13 anni), Libero (11 anni) e Leo (7 anni). Secondo quanto riportato nel certificato anagrafico di famiglia, aveva una sorella e tre fratelli: Ottorina, Ottorino, Nello e Anacleto. Abitava in via del Littorale (ora via U. Mondolfi) e in una foto di gruppo – scattata ad Ardenza nel 1913 – egli appare ritratto a fianco dell’anarchico Errico Malatesta e di altri compagni. Chiamato alle armi nel 1915, risultava segnalato tra i militari sovversivi. Sulla sua persona – come riportato nei verbali – furono rinvenute una copia di «Umanità Nova» e una de «L’Avvenire anarchico», ma niente armi.

I due ardenzini furono raccolti e trasportati dalla Pubblica Assistenza ai RR. Spedali Riuniti in via S. Giovanni a Livorno; nonostante le evidenze, «vennero dichiarati in arresto» e persino denunciati. Nardi sarebbe spirato l’indomani, per emorragia interna; colpito al torace «da un colpo tiratogli a brevissima distanza», con solo foro d’entrata, in corrispondenza del 7° spazio intercostale anteriore. Baldasseroni, dopo lunghe sofferenze, decedette il 3 settembre; raggiunto nella regione lombare, da un unico proiettile conficcatosi nella colonna vertebrale, con fatale lesione del midollo spinale che comunque l’avrebbe reso paralizzato, con una traiettoria inclinata obliquamente dall’alto verso il basso, tale da far presumere una colluttazione col Torelli che, secondo quanto sostenuto dagli antifascisti e dai parenti delle vittime, era forse armato con due pistole, di cui una nascosta.

I rispettivi funerali dei due ardenzini videro la partecipazione di migliaia di lavoratori in sciopero, con le bandiere rosse e nere delle diverse organizzazioni proletarie e della Società Volontaria di Soccorso, scortati dagli Arditi del popolo e vigilati da ingenti forze dell’ordine.

In base alle autopsie e alle perizie balistiche venne accertato che i due ardenzini erano stati entrambi colpiti da proiettili di piccolo calibro, compatibili col cal. 6.35 della pistola semi-automatica Browning 1906 “Baby”, sequestrata al Torelli, escludendo quindi le rivoltelle d’ordinanza e i moschetti mod. 91 in dotazione alla forza pubblica.

Nonostante ciò, grazie alla “protezione” familiare, per sei mesi il nome di Torelli – mentre rimaneva in libertà – non comparve mai sulla compiacente stampa cittadina, condizionata dal potente Costanzo Ciano, legato alla famiglia Torelli da amicizia, idee politiche e rapporti d’affari. Sul piano giudiziario, Tito Torelli sarebbe stato più volte prosciolto in istruttoria per il duplice omicidio: nel 1922 dai tribunali di Lucca e Livorno, così come nel 1945, dopo la Liberazione, da quelli di Firenze e Livorno.

Laureatosi in legge ed erede dell’attività imprenditoriale di famiglia, durante il Ventennio Torelli ottenne significative cariche di regime, a partire da quella di Vice Podestà di Livorno nell’ottobre 1933. Dopo aver preso parte alla guerra coloniale in Etiopia come capitano d’artiglieria nella Divisione Gavinana, entrò nel Direttorio dell’Associazione volontari di guerra e, a livello nazionale, fu designato componente della Federazione nazionale per il commercio d’Oltremare e consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (Corporazione dei cereali), dal 1939 al ’43.

Come quella di altri noti fascisti, la sua impunità, confermata anche dopo la Liberazione – nel generale clima della cosiddetta Amnistia Togliatti – a Livorno suscitò le proteste del CLN e delle forze antifasciste, nonché un’inutile inchiesta ministeriale che pure accertò l’irregolarità del proscioglimento; ma, soprattutto, sollevò la rabbia del “primo” antifascismo popolare che non aveva dimenticato l’assassinio di Nardi e Baldasseroni.

Nell’agosto 1946, dopo aver scontato alcuni mesi di carcerazione e un anno di confino al Sud, Torelli tornò in libertà e poté riprendere la propria attività industriale e commerciale, ma dovette trasferirsi a Firenze dove sarebbe morto nel 1991, senza poter fare ritorno a Livorno dove aveva un conto in sospeso ed ancora c’era chi ricordava un canto nato in quell’estate del 1921.

Girate per le strade di Livorno
ma nei sobborghi non potrete entrare
ci son gli arditi che vi stan dintorno
e gli ardenzini vogliono vendicare
a tradimento
sapete ammazzare

 

[1] Tra il 1921 e il 1931, oltre a Nardi e Baldasseroni, altre 16 uccisioni politiche avrebbero segnato la normalizzazione fascista: Pietro e Pilade Gigli, Piero Gemignani, Gilberto Catarzi, Filippo Filippetti, Bruno Giacomini, Oreste Romanacci, Genoveffa Pierozzi (agosto 1922); Ottorino Benedetti (Cecina, gennaio 1923); Emo Mannucci (Colognole, marzo 1923); Fortunato Nannipieri (luglio 1923); Enrico Baroni (aprile 1924); Giuseppe Piccinetti (marzo 1925); Natale Betti (novembre 1926); Ferruccio Fornaciari (ottobre 1927); Ghino Chirici (febbraio 1931).




La Liberazione di Arezzo

“Era giunta l’ora di resistere,

Era giunta l’ora di essere uomini,

di morire da uomini,

per vivere da uomini”

(Piero Calamandrei)

 

La notte del 25 maggio 1944 le vallate che circondano Arezzo si illuminarono con una miriade di falò accesi dalle formazioni partigiane e dai contadini in risposta all’ultimatum definitivo, che scadeva alla mezzanotte dello stesso giorno, diramato dal Capo della Provincia Melchiori nei confronti dei militari sbandati, dei partigiani e dei renitenti di leva: «Tutti coloro che non si presenteranno saranno considerati fuorilegge e saranno passati per le armi mediante fucilazione alla schiena»[1].

La Notte dei Fuochi, il nome con cui questo atto è entrato nella storia – tuttora ogni anno ne viene celebrata la ricorrenza – conteneva in sé una sorta di sfida ai nazifascisti come un invito corale a loro rivolto: «Siamo qua… veniteci a prendere!»[2].

Arezzo aveva già manifestato la propria insofferenza ed avversione al fascismo quando gli iscritti al nuovo partito fascista repubblicano non arrivavano a 2500 a fronte di una popolazione provinciale di circa 300.000 abitanti. E come nel resto d’Italia anche la popolazione aretina aveva accolto la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 e l’armistizio dell’8 settembre con euforia e sollievo. Ci si illuse che quegli eventi avessero messo il punto finale ad un dramma iniziato più di vent’anni prima e a quell’immane tragedia che era la guerra. Quel sospiro di sollievo rimase però strozzato in gola… I nazisti rivelarono il loro vero volto di padroni occupanti, i fascisti quello ancor più orribile di bestie feroci. Cominciava così una parentesi non meno sanguinosa e drammatica della precedente. Ma ormai più niente e nessuno avrebbe fatto tornare indietro chi aveva assaporato di nuovo o gustato per la prima volta l’esaltante sapore della libertà.

Nella città di Arezzo le esigue forze politiche locali nei 45 giorni del governo Badoglio fecero fronte comune, e riallacciando contatti sia a livello regionale che nazionale con gli attivisti antifascisti riuscirono a dar vita al Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA). L’obiettivo principale del Comitato consisteva nell’organizzare la Resistenza in città e provincia, tentando di coordinare l’attività delle squadre dei partigiani che agivano nel proprio territorio[3]. Un contributo particolare fin dall’inizio fu dato dai contadini della vallata che, dopo l’8 settembre ’43, fornirono aiuto, assistenza ed ospitalità gettando le premesse dell’azione armata agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia, ai renitenti alla leva[4]. Tutti questi individui rifugiati fuori città costituirono quindi l’ossatura delle prime formazioni partigiane organizzate dal CPCA. Ma ancora l’antifascismo aretino non era pronto per una lotta così dura quale era la lotta clandestina, soprattutto all’inizio i suoi componenti non adottarono le necessarie cautele di riservatezza che la pericolosa attività intrapresa avrebbe invece consigliato. E così una delle prime formazioni partigiane costituitasi, “La Vallucciole”, forse la più importante per numero di uomini e per armamenti, nel corso di un rastrellamento dei nazifascisti, l’11 novembre del 1943, subì una gravissima battuta d’arresto: fu ucciso il giovane capitano Pio Borri e l’intera formazione fu dispersa.

L’improvvisazione militare, la scarsità degli armamenti rispetto al nemico, la mancanza di comandanti con esperienza tale da poter contrastare le truppe tedesche in quanto a programmazione e logistica, misero a dura prova i partigiani che seppur soccombendo continuavano la loro lotta per la libertà. Mettevano a rischio la loro vita, sottostavano alle torture con uno spirito di sacrificio che non era espressione di un’avventura militaresca e neanche il dissennato e cieco amore per il rischio, ma era la consapevolezza della necessità di un rinnovamento e ricostruzione di una società che in passato aveva reso possibile gli errori e gli orrori del fascismo.

Il CPCA non riuscì mai a controllare completamente l’attività militare resistenziale, nelle quattro vallate (Valdarno, Valdichiana, Valtiberina e Casentino), di tutte e cinque le formazioni partigiane più quelle che si erano formate spontaneamente. E dopo la disfatta della “Vallucciole” l’attività di guerriglia proseguì in tono minore ma senza mai rinunciare del tutto ad azioni militari e di intelligence così da tenere occupati i nazifascisti e per tentare di ingannarli sulla reale entità di forza della resistenza aretina. Anche il rallentamento dell’avanzata delle forze alleate contribuì al ridimensionamento della lotta partigiana che dovette attendere la fine dell’inverno del 1943-44 e la disfatta di Montecassino per riprendere appieno l’attività armata. Ma durante questo periodo di tenuta della Linea Gustav, così magistralmente architettata dal generale Kesserling, che si appoggiava ad una delle più forti barriere naturali dell’Italia meridionale, non riuscendo ad avanzare gli Alleati iniziarono a bombardare le retrovie tedesche per distruggere strade, ponti, ferrovie così da tentare l’isolamento delle truppe naziste. E così Arezzo, snodo importante delle vie di comunicazione, iniziò ad essere bersagliata dall’aviazione anglo-americana. Il primo bombardamento giunse inaspettato il 12 novembre 1943, cogliendo di sorpresa l’intera popolazione e le autorità fasciste che si erano insediate dopo la proclamazione della Repubblica di Salò[5]. Visto che era stato colpito anche il palazzo della Federazione fascista, il Comitato non si fece sfuggire questa occasione e fece subito affiggere dei manifesti dove si rivendicava che il bombardamento era stato una rappresaglia degli Alleati contro i fascisti per l’uccisione del partigiano Pio Borri avvenuta il giorno prima, al fine di dimostrare che le forze antifasciste erano in contatto continuo con gli anglo-americani in modo tale da intimorire i nemici e rassicurare le proprie milizie che non erano lasciate sole a condurre la battaglia[6].

Ma il terrore ad Arezzo arrivò con il bombardamento del 2 dicembre che provocò moltissime vittime e ingenti danni alle abitazioni e segnò l’inizio dello spopolamento della città. Si calcola che dopo sei mesi di bombardamenti (solo nel capoluogo aretino furono sganciate 1800 tonnellate di bombe) alla fine d’aprile del 1944 in città erano rimasti poco più di cento abitanti[7].

Col sopraggiungere della primavera, la caduta di Montecassino e l’entrata in Roma degli Alleati dettero un ulteriore spinta emotiva alle formazioni partigiane aretine che si riorganizzarono supportati dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), trasformandosi in Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN) così da operare quel salto di qualità che gli avrebbe consentito di contrastare con più efficacia le milizie nazifasciste e preparare il terreno per la liberazione di Arezzo. Fu una trasformazione non solo formale ma anche nella sostanza; infatti, ci fu una riorganizzazione militare con la costituzione della XXIII Brigata garibaldina “Pio Borri”, composta da tre battaglioni, e la XXIV Brigata “Bande Esterne”, che insieme andarono a formare la Divisione partigiani “Arezzo”; inoltre si operò un cambiamento ai vertici del Comitato: destituiti, con la scusa che erano ricercati e ormai compromessi, Sante Tani e Achille Ravera, presero le redini di comando del neonato CPLN Siro Rossetti, Aldo Donnini e Raffaello Sacconi, in pratica il braccio armato del vecchio CPCA, insieme ad Antonio Curina (che diventerà il primo sindaco dopo la liberazione), Eugenio Calò ed Arnolfo Funari[8]. Questo cambiamento ebbe anche l’avvallo della Chiesa aretina che entrava direttamente nell’organizzazione con don Onorio Barbagli. Del resto, il vescovo di Arezzo Emanuele Mignone si schierò fin dall’inizio apertamente con la Resistenza prendendo le distanze dalla Chiesa toscana, il cui atteggiamento si orientava verso una neutralità con frange di simpatia nei confronti del fascismo repubblicano ignorando volutamente il CTLN e le formazioni partigiane verso cui l’alto clero nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione di molti combattenti all’ideologia comunista[9]. Non fu così per gli esponenti del clero aretino che non si fecero condizionare dalla paura delle idee marxiste e a partire dal vescovo fino all’ultimo prete della parrocchia più sperduta delle montagne casentinesi (a parte qualche eccezione), dettero il loro insostituibile contributo alla resistenza rimettendoci anche in alcuni casi la propria vita: in poco più di due mesi nella provincia di Arezzo vennero trucidati 15 sacerdoti e 2 seminaristi, di cui 10 appartenenti alla diocesi aretina, 5 a quella di Fiesole e 2 alla diocesi di San Sepolcro (circa il 30% del totale dell’intera Toscana)[10]. E non dobbiamo dimenticare il ruolo svolto dalla parrocchia di San Domenico dove padre Raimondo Caprara riuscì a far coraggio alla poca popolazione rimasta in città provvedendo a sfamare, curare e nascondere quei disperati che avevano trovato rifugio nella sua chiesa situata in città e quindi rischiando per il continuo contatto con nazisti e repubblichini che là stazionavano.

Con le truppe tedesche ormai esasperate per i lunghi anni di guerra, in ritirata verso il nord Italia, mentre sentivano il sopraggiungere degli eserciti alleati e continuamente soggette ad imboscate da parte delle formazioni partigiane ora più che mai agguerrite e con una consistenza numerica che aumentava di giorno in giorno (soprattutto favorita dai renitenti di leva delle classi ’23, ’24, ’25), iniziò per la provincia di Arezzo il periodo tragico delle carneficine: 14 stragi a giugno, 20 a luglio, 2 ad agosto, 1 a settembre, e considerando anche le 5 di aprile e i deportati di Poppi si giunge a circa 1476 vittime. Questi eccidi per lo più di civili inermi, a volte pianificati, rispondevano ai dettami del generale Kesserling che auspicava un contegno durissimo ed intransigente verso le popolazioni considerate fiancheggiatori di coloro che reputava soltanto banditi e non militari: non avevano neanche l’uniforme e quindi dietro ogni borghese si poteva nascondere un partigiano[11]. La lotta partigiana veniva vista come una degenerazione della guerra e non come una forma di guerra conosciuta da secoli, e con questa visione deformante si giustificava per le barbarie delle stragi che perpetrava sistematicamente contro le popolazioni inermi: «uccidete, e qualsiasi cosa accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò»[12]; questo era il contenuto del comando inviato alle truppe il 17 giugno ’44 firmato dallo stesso Kesserling.

Dopo lo sfondamento della Linea Gustav con la sanguinosa battaglia di Montecassino, le truppe alleate si fermarono sulle rive del lago Trasimeno, per poi il 26 giugno ’44 entrare a Chiusi. Da lì qualche giorno dopo presero Montepulciano e finalmente il 2 luglio conquistarono il primo comune aretino, Lucignano, per arrivare il giorno successivo a Cortona. Sulle montagne cortonesi erano state attive e quindi di grande aiuto agli anglo-americani molte squadre partigiane in attesa della loro avanzata che ritardava a causa delle distruzioni messe in atto dai genieri tedeschi e dalle mine che avevano dislocato un po’ dappertutto. Le strade, i ponti e le gallerie non esistevano più e i carri armati procedevano dove capitava, anche in mezzo ai campi di grano e tra le viti distruggendo buona parte dei raccolti. L’avanzata degli Alleati, di conseguenza, rallentò il suo slancio e sembrò quasi fermarsi proprio prima di arrivare ad Arezzo. Sapendo che le truppe di Kesserling difficilmente avrebbero ceduto il passo verso Firenze, visto che la Linea Gotica non era ancora pronta (i tedeschi vi si attestarono soltanto il 27 ottobre), gli Alleati organizzarono una riunione con i comandanti delle formazioni partigiane per conoscere la dislocazione dei reparti nemici e pianificare la battaglia per Arezzo. Durante il meeting fu approntata la strategia per entrare e liberare il capoluogo: una formazione partigiana fornita di armamenti pesanti ed esplosivi si sarebbe introdotta furtivamente in città ed avrebbe atteso l’avvicinarsi degli Alleati per dare il via all’insurrezione nel centro cittadino il successivo 14 luglio. In questo modo, anche se i maggiori pericoli li avrebbero corsi i partigiani, al loro ingresso in città, gli Alleati si sarebbero trovati il CPLN già insediato. Ma la difesa delle truppe e dell’artiglieria della Wehrmacht attestate sul monte Lignano tra Castiglion Fiorentino e Arezzo ritardò l’avanzata delle milizie Alleate e il 14 luglio, ancora lo sbarramento sul monte Lignano, da cui si sarebbe aperta la strada fino ad Arezzo, rimaneva presidiato dalle forze tedesche. Ma avevano le ore contate: l’inferno di fuoco che si era riversato nei giorni precedenti dai cannoni (800 colpi al minuto) e dai bombardamenti aerei degli Alleati, che già avevano destabilizzato le truppe naziste, si completò con la sanguinosa battaglia di Lignano che causò numerose vittime in entrambi gli schieramenti. Così dopo aver perso la posizione sul monte Lignano, alle prime ore del 16 luglio, le truppe tedesche si ritirarono senza operare un inutile e sanguinoso contrattacco per assestarsi sulla Linea Irmgard sul fiume Senio. Così all’alba del 16 luglio la discesa in città dei partigiani coincise con il ritiro delle truppe tedesche e ciò permise di liberare Arezzo senza spargimento di sangue.

16 luglio 1944 – scalinata del Duomo di Arezzo. Incontro fra partigiani e alleati nel giorno della Liberazione della città.

 

Alle ore 7.00 del 16 luglio 1944 la guerra per Arezzo era finalmente conclusa: sulla torre del comune venne issato il tricolore e le campane in città iniziarono a suonare a distesa seguite dalle campane della campagna circostante, dando il segnale agli Sherman, i carri armati alleati, che nella tarda mattinata entrarono nella città libera.

Ma se Arezzo fu liberata senza spargimento di sangue, il ritardo dell’offensiva alleata convenuta il 14 luglio, con i partigiani scesi dalle colline verso posizioni più avanzate per ricongiungersi con le truppe inglesi, generò sfortunatamente l’orribile strage di San Polo: un rastrellamento rapidamente pianificato portò all’arresto di partigiani e civili inermi che furono barbaramente trucidati. Questa azione era in sintonia con le idee e i dettami del feldmaresciallo Kesserling che riteneva di poter procedere con l’impiego sistematico di rappresaglie ed eccidi contro i civili nella guerra antipartigiana. E se la signora Laura Ewert, nipote del colonnello Wolf Ewert che comandò la strage di San Polo – di cui solo recentemente è venuta a conoscenza-, è stata presente quest’anno alla giornata di commemorazione della strage per mostrare la propria angoscia e mantenere vivo il ricordo della brutale azione messa in atto dal nonno, il generale Kesserling, arrestato alla fine della guerra, scampato alla pena di morte e successivamente anche all’ergastolo, libero dopo pochi anni per motivi di salute, una volta tornato in Germania ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi ma che, anzi, gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i diciotto mesi di occupazione tanto che avrebbero fatto bene ad erigergli un monumento:

Lo avrai

camerata Kesserling

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

 

Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire

 

Ma soltanto col silenzio dei torturati

Più duro d’ogni macigno

soltanto colla roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità e non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

 

Su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci troverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

RESISTENZA

 

Piero Calamandrei

 

NOTE

[1] Ivan Tognarini (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale di Arezzo-Tipografia Badiali, Arezzo 1987, p. 50.

[2] Enzo Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci Editore, Cortona 1995, p. 124.

[3] I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo (1943-1944), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990, p. 179.

[4] Il futuro CTLN, ancora “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, nell’autunno del 1943 in un volantino ai “toscani”, elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta. Al momento del nuovo raccolto il CLN incitava i contadini ad evadere gli ammassi per sottrarre grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane, Cfr. ISRT, Collezione manifestini CTLN, in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiesa, 15 marzo 1975, p. 84.

[5] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. 25.

[6] Ivi p. 27.

[7] Agostino Coradeschi e Mario Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, Corocci Editore, Roma 2008, p. 114.

[8] Ivi, p. 115.

[9] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 79.

[10] A. Coradeschi e M. Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, cit., p. 122.

[11] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. XVII.

[12] Ibidem.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.

 




Il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo

Introduzione.

L’enciclopedia Treccani definisce l’antifascismo come una «reazione, morale e politica, alla dottrina e alla prassi antidemocratica del fascismo al potere», sorto per mano di «alcune formazioni e partiti politici».[1] La sottosezione dell’Enciclopedia Treccani, intitolata “Dizionario di Storia”, risulta più aderente alla realtà dell’antifascismo, nella sua definizione di tale fenomeno come un «atteggiamento di opposizione al fascismo, che va dal semplice stato d’animo al movimento organizzato».[2]

A questo fenomeno di rilevanza nella storia nazionale prendono parte tre donne livornesi, rispettivamente: Erminia Cremoni (1905-1956), Osmana Benetti (1923-2016), Ubaldina Pannocchia (1923-2021). Per comprendere i loro contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza all’occupazione nazifascista dell’Italia, occorre immergersi nel complesso quadro del percorso di emancipazione delle donne italiane tra anni Venti e Quaranta del Novecento. Un percorso che porta le «bravi madri e mogli» designate dal fascismo, a diventare donne «riottose e intemperanti», antifasciste, partigiane, staffette. Queste pagine buie, del fascismo prima e della guerra dopo, porteranno a una ridefinizione dei ruoli di genere in Italia.

Nello sviluppo dell’elaborato è stata adottata una prospettiva originale, che sapesse unire le biografie delle staffette livornesi alla storia della città labronica, dei suoi periodi più bui e della Resistenza all’occupazione nazifascista. L’analisi delle donne resta il “comune denominatore” nei capitoli dell’elaborato, così come la battaglia per l’affermazione della loro voce e delle loro azioni. Potrebbe esser necessario fare qualche accenno alle battaglie per l’uguaglianza di genere intraprese dalle donne dopo la Seconda guerra mondiale, ma l’elaborato limita la sua riflessione al giorno della Liberazione dell’Italia, avvenuta il 25 aprile 1945.

Questi volti femminili, che direttamente hanno vissuto gli orrori del fascismo e della guerra, sembrano appartenere a una “storia silente”. Infatti, ancora ad oggi prevale una cultura che sembra metter in secondo piano il contributo di queste donne. È molto importante il tipo di ricerca condotto nell’ elaborato perché conoscere la storia passata, l’evoluzione e l’involuzione di alcuni fenomeni, aiuta a orientarsi meglio negli impegni personali, politici, sociali e culturali di queste donne.

La storia del contributo femminile alla causa antifascista è stata riscoperta soltanto negli ultimi decenni dalla storiografia. Si tratta di una storia nuova e inerente ai rapporti di genere, una storia da ricostruire e da ricordare. Per realizzare questo elaborato è stato necessario consultare una grande mole di fonti secondarie, quali monografie e articoli di giornale. Con la morte recente di due antifasciste livornesi, Osmana nel 2016 e Ubaldina nel 2021, è stato impossibile analizzare delle fonti primarie.

L’elaborato mira quindi a dar voce a delle storie di donne comuni, che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche in senso stretto, che «non hanno armi per difendersi, e se le avessero non saprebbero nemmeno usarle».[3] Donne comuni che operano nel contesto livornese e che hanno dovuto combattere per una “doppia liberazione”: dal fascismo e dall’oblio. In particolare, queste storie devono essere tutelate da una memoria che tende a esaltare l’eroismo e il cameratismo maschile, e dimentica il contributo femminile.

Storie di donne nell’antifascismo livornese.

Alle lotte compiute per la liberazione del Paese dal regime fascista e dall’occupazione tedesca hanno preso parte le donne livornesi. Queste donne coraggiose hanno dato sostegno alle azioni dei partigiani, soprattutto nel ruolo di staffette. Le staffette provvedevano alla diffusione di volantini, aiutavano i soldati e i partigiani fornendo viveri e medicine, non aderivano a formazioni combattenti scegliendo comunque di abbracciare gli ideali della Resistenza. La distribuzione della stampa clandestina e dei volantini antifascisti da attaccare nella notte richiedeva continui spostamenti.

Le donne erano in grado di superare più facilmente i controlli e riuscivano a smistare per il territorio volantini, armi e medicine: tutto ciò era possibile perché, in una società autoritaria e profondamente maschilista, venivano continuamente sottovalutate.[4] Loro stesse riuscirono a sfruttare la libertà di movimento di cui godevano, col fine di raggiungere gli obiettivi prefissati dalle organizzazioni antifasciste. Inoltre, con l’avvento della conflittualità locale, diventava sempre più pericoloso farsi trovare addosso dei documenti che dimostrassero una collaborazione antifascista. Si trattava di un rischio personale ben preciso, che metteva a repentaglio sia la vita della donna che l’attività dell’organizzazione.

Per le donne la Resistenza è stata una specie di viaggio verso la progressiva conquista dei diritti e delle libertà. Attraverso quest’esperienza si ritrovano a essere più consapevoli dei propri mezzi e dei propri diritti, molti ancora da conquistare. Molte donne livornesi, come Osmana e Ubaldina, nel secondo dopoguerra intraprendono un percorso di emancipazione, entrando in associazioni politiche e sociali, di cura dell’infanzia e dell’educazione. Questa parte analizza il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo: Erminia Cremoni, Osmana Benetti, Ubaldina Pannocchia.

1.      Erminia Cremoni (1905-1956).

Erminia nasce a Livorno in una famiglia modesta e fin da piccola viene iscritta all’Azione Cattolica, a cui partecipa con slancio e con entusiasmo. Erminia fu espressione del laicato cattolico, ovvero quel complesso di persone laiche che aderirono o vennero poste ai vertici di associazioni cattoliche ed ecclesiali, che si scontrò con il regime negli anni Trenta. Lo scontro tra associazioni cattoliche e regime riguardava principalmente l’educazione dei giovani, un campo che veniva rivendicato dalla Chiesa, ma che il fascismo non voleva contendere e che voleva porre sotto il suo esclusivo dominio. Gli anni Trenta sono anni difficili, che Erminia definisce come «vissuti con le rotine sotto i piedi» (come lei descrive tale periodo secondo il dialetto livornese).[5] Si sposta continuamente per portar aiuti pratici e conforto spirituale tra i bisognosi di ogni ceto: nelle carceri, nei quartieri poveri della città, nelle fabbriche, negli ospedali.

La politica ufficiale della chiesa livornese in quegli anni è improntata su una sorta di coesistenza pacifica col fascismo, ma al di là dell’ufficialità, i comportamenti erano sfumati. Una prova di quest’ultima affermazione è la tolleranza del vescovo Giovanni Piccioni – il quale ha esercitato il suo ministero episcopale dal 1921 al 1959 – verso la presenza di docenti antifascisti nelle scuole cattoliche, di ex esponenti del Partito Popolare Italiano non iscritti al Fascio a capo di organizzazioni diocesane e, l’esistenza di frange fasciste anticlericali nei circoli giovanili cattolici.[6] Il compromesso tra la curia livornese e il Partito Nazionale Fascista livornese si fonda su un patto tacito in base al quale, in materia di associazionismo femminile, si stabilisce ambiti di azione diversi, mentre in realtà ognuna delle istituzioni cerca di guadagnare ampi consensi.[7] Il vescovo mira a rafforzare l’aspetto religioso e di preghiera nelle proprie organizzazioni , consolidando le opere sociali legate agli ordini religiosi. Così le associazioni femminili cattoliche intensificano l’attività liturgica e di preghiera, ma allo stesso tempo incrementano quella verso le famiglie ed i bisognosi.

L’Unione Femminile Cattolica viene fondata dalla curia livornese nel 1932, così come altre associazioni, quali l’Unione Donne Cattoliche e Gioventù Femminile Cattolica. Di quest’ultima associazione Erminia viene nominata presidente nel 1943, a fianco del sacerdote Don Roberto Angeli. Don Angeli è stato un sacerdote antifascista militante e promotore di una Resistenza ideologica e culturale: sue sono le conferenze tenute nei primi anni Quaranta al Cenacolo di Santa Giulia, finalizzate a dimostrare che «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano».[8] Ha rappresentato i cristiano-sociali all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale toscano, impegnandosi soprattutto nell’attività di assistenza dei partigiani e trovando rifugi quando necessario. Nel secondo dopoguerra, alcuni esponenti cristiano-sociali toscani confluiranno in uno dei partiti simbolo della ricostruzione della vita democratica del Paese: la Democrazia Cristiana.

Dopo l’8 settembre, la Cremoni partecipa ad azioni di rifornimento e di assistenza a un gruppo di soldati italiani scampati alla cattura tedesca e rifugiati nei sotterranei dell’ospedale di Livorno fino al giugno del 1944. Aiuta anche un gruppo di novanta ebrei nascosti in una palazzina di via Micali, percorrendo una o due volte alla settimana circa venti chilometri a piedi da Montenero, anche sotto i bombardamenti. Unisce attività spirituali e trasporto di volantini, armi, medicinali e viveri, ai gruppi partigiani cristiani nella zona: nella sua grande borsa, sotto gli opuscoli dell’Azione Cattolica, porta nascoste veline e informazioni da consegnare, a volte rimanendo coinvolta nei conflitti a fuoco.

Dopo la guerra Erminia continua a dedicarsi alle opere di assistenza dei più deboli: fonda e presiede il Centro Italiano Femminile nel 1944. Due anni dopo viene eletta in un consiglio comunale nella lista della Democrazia Cristiana.

Muore nel 1956 ma il suo intervento giunge fino ai giorni nostri, il suo nome compare infatti nel database creato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.[9] Compare il suo ruolo di partigiana combattente durante la Seconda guerra mondiale, prestando servizio presso la I divisione di Giustizia e Libertà tra il 9 settembre 1943 e l’11 agosto 1944.

2.      Osmana Benetti (1923-2016).

Osmana Benetti nasce a Livorno nel 1923, è figlia di un operaio dei cantieri navali ed è la prima di cinque fratelli. Sua mamma lava i panni e fin da piccola vuole imparare a cucire ma, il futuro che la attende è molto diverso.[10] Cresce in una famiglia di ideali democratici e antifascisti, sebbene non in aperta opposizione al regime. Nonostante abbia frequentato la scuola solo fino alla quinta elementare, è una grande appassionata di libri, che la aiutano a riflettere sulla situazione politica in cui vive.[11] La giovane generazione, di cui Osmana fa parte, cresce in fretta con l’avvento della guerra. Fin da quando è giovane, si dichiara come pronta a sacrificare la sua vita in nome della libertà e della democrazia. Durante il suo sfollamento nel 1940 a Castellana Marittima conobbe alcuni giovani, anch’essi sfollati, i quali avevano mantenuto dei contatti col Partito Comunista a Livorno.

L’attività di staffetta comincia nel 1943: è incaricata di trasportare materiale a stampa, documenti e informazioni tra le varie cellule che operano nella zona di Livorno.[12] Il suo compito è creare una linea di collegamento tra la campagna e la città, ma grazie al suo fisico esile non viene mai perquisita ai posti di blocco.[13] Un altro compito è la distribuzione di volantini di propaganda antifascista, che Osmana lega con i fiocchi i colorati del suo corredo ai rami delle piante, lungo la strada per la miniera della Valle Benedetta, affinché gli operai li possano leggere.

La famiglia è all’insaputa di tutto, poiché credono che «le donne non si devono occupare di politica».[14] La madre non appena scopre che sua figlia è staffetta, tenta di chiuderla in casa perché «spariva fino a tardi» e «si incontrava con i compagni maschi, spesso più grandi di lei».[15] Grazie alla madre, sfugge all’arresto nel gennaio 1944, che porta all’arresto di ventotto partecipanti ad una riunione clandestina, a causa di una soffiata. Nei mesi successivi organizza assemblee per parlare ad alcune donne e per convincere le famiglie a non aderire alla Repubblica di Salò. Parla di prospettive, di futuro, di ricostruzione della città e del tessuto sociale.

È una delle fondatrici dei Gruppi di Difesa della Donna, organizzazione nata nel 1943 per iniziativa del Partito Comunista con l’intento di organizzare una rete di aiuti alle famiglie di carcerati, di internati e di partigiani. Anche se l’obiettivo primario è quello di promuovere la Resistenza femminile in ogni ambiente sociale, «non basta incitare gli uomini alla lotta» (come scrive Osmana in un volantino redatto per l’organizzazione).[16]

Nell’estate del 1944, frequentando la federazione del Partito, conosce Garibaldo Benifei: figura di spicco dell’antifascismo livornese, comunista, già condannato al carcere due volte per attività sovversiva. Nel dopoguerra i due di sposano e lei continua l’attività politica come responsabile del gruppo delle donne comuniste nel Partito Comunista Italiano. Con le donne dell’Unione Donne Italiane (UDI) contribuisce alla costruzione dei primi asili della città. Fino alla sua morte, ha continuato ad occuparsi dei diritti delle donne come membro dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA) ed ha svolto un’attività di testimonianza alle nuove generazioni, soprattutto nelle scuole. A differenza di Garibaldo, lei ha dovuto aspettare settant’anni per ottenere la Livornina ovvero l’onorificenza del comune, che ha ottenuto solo nel 2015.

Spesso le fonti rappresentano la lotta per la liberazione del Paese intrapresa da Osmana come “combattuta in funzione del marito”. Queste rappresentazioni sono assai riduttive e tradiscono alcuni messaggi tramandati da lei stessa, in cui affermava:

«[…] Onori e riconoscimenti ce li siamo conquistati sul campo perché abbiamo collaborato a rimettere in piedi le strutture democratiche in tutto il Paese, a costo di grandissimi sacrifici. […] Alle ragazze di oggi consiglio di trovare un lavoro che le renda indipendenti, perché senza indipendenza economica non esiste nessuna indipendenza […]». [17]

È necessario ricordarla come una partigiana che ha lottato contro il fascismo e che, fino agli ultimi giorni della sua vita, si è fatta promotrice dei diritti delle donne. Osmana è morta nel 2016 all’età di 93 anni ed ha lasciato una preziosa eredità che «spetta a noi tener viva».[18]

3.      Ubaldina Pannocchia (1923-2021).

Ubaldina è coetanea di Osmana, nasce a Livorno nel 1923. La sua infanzia scorre tranquilla ma, essendo l’unica femmina, frequenta la scuola fino alla quinta elementare perché la priorità è far studiare i suoi due fratelli maschi. Col tempo impara a ricamare e a suonare il pianoforte all’Istituto delle suore in via Galilei. Vive in un mondo fatto di musica e di spensieratezza, finché il padre rischia di perdere il posto di lavoro in macelleria perché non iscritto al Fascio. Inizia a odiare il regime attraverso i racconti sull’uccisione dei fratelli Gigli (1922), che vennero massacrati nella loro abitazione, nel palazzo di fronte a dove abita la zia di Ubaldina. Si interessa alla politica quando si innamora di Nedo Guerrucci, amico del fratello Roberto. Nedo le spiega la situazione italiana ed estera, le parla dell’opposizione al regime fascista e delle repubbliche sovietiche.[19]

A seguito dei bombardamenti, la famiglia di Ubaldina sfolla a Lorenzana nel 1943. Prima della sua partenza, aiuta Nedo a diffondere alcuni manifesti antifascisti per le strade di Livorno, Ubaldina ha paura e gli dice: «[…] Ma sei impazzito? Se ci scoprono o li trovano, ci arrestano […]».[20] Ma nonostante la paura, Ubaldina non crede al fascismo e nemmeno alla guerra lampo, vuole salvare i suoi giovani amici catturati ed imprigionati. Ricorda il suo sfollamento in un’intervista rilasciata al programma televisivo “Noi partigiani”, in cui vengono intervistati alcuni esponenti della Resistenza. Le autorità nazifasciste giungono a Lorenzana per arrestare il fratello Roberto e Ubaldina ricorda l’accaduto con sarcasmo livornese: «[…] i tedeschi… bimba mia, farciavano […]».[21] In casa è presente un pianoforte verticale che viene perquisito per cercare ulteriori prove di colpevolezza contro Roberto, ma non notano sul fondo la presenza dei manifesti contro la guerra e il fascismo. Questi manifesti erano stati realizzati da Concetto Marchesi, all’epoca rettore dell’università di Bologna e militante antifascista. Per Ubaldina «i tedeschi non si intendevano di musica» ed è stata forse quella la sua salvezza.[22]

Con l’armistizio dell’8 settembre, Nedo è chiamato a presentarsi al Comando militare di Ardenza, ma ha già preso la decisione di partecipare alla lotta come partigiano. In formazione è collocato a Castellaccio e, proprio per avere sue notizie, Ubaldina comincia a stringere in prima persona contatti con altri partigiani come Vasco Caprai e Giovanni Finocchietti. Collabora facendo la staffetta: procurando viveri, trasportando armi nella borsa della spesa, cercando e nascondendo medicinali e volantini, in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.

Ma Ubaldina dopo questa esperienza d’impegno civico non riesce a tornare a casa perché, come aveva capito già Giuseppe Fenoglio (scrittore e partigiano italiano), «chi è partigiano lo è per tutta la vita».[23] Finita la guerra, Ubaldina e Nedo si sposano nel 1946. Lui rimane in politica e riceve incarichi presso il Partito Comunista, mentre lei si avvicina al movimento femminile. Partecipa all’Unione Donne Italiane alla ricostruzione della città e delle scuole, alla creazione dei primi asili e all’allestimento della prima Festa dell’Unità al Parterre.[24] Ha preso coscienza di essere stata staffetta solo in maturità, leggendo il libro di Miriam Mafai intitolato “Pane nero: donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale” (1987).[25] Per il nipote Valerio ha messo nero su bianco il racconto delle sue memorie di partigiana, inizialmente condiviso di scuola in scuola e infine stampato dal comune nel 2016, intitolato: Nonna raccontami. Ricordi di Ubaldina Pannocchia, staffetta partigiana.

Ubaldina è morta nel 2021 all’età di 98 anni. Prima della sua morte ha preso parte al film “Indizi di felicità” realizzato dal Dirigente dell’ANPI Walter Veltroni, lui stesso la descrive come capace di «saper cogliere le tracce di felicità nei momenti più bui della sua vita privata e del suo impegno pubblico».[26] Così Ubaldina «per amore, per ideologia o per entrambi» ha deciso di prender parte alla Resistenza, un evento che ha cambiato la sua vita e la vita di tante altre.[27]

Conclusioni.

Spesso ci domandiamo perché sia importante tornare a ricordare o a raccontare. Una delle risposte possibili può essere “per non dimenticare” o per “dare una giustizia postuma”, salvando il ricordo di quello che è accaduto e non disperdendo le parole di chi c’era e ha visto. «Nulla se non le parole» ci rimangono per ricordare, come afferma Primo Levi.[28] L’avvento del fascismo, la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, hanno occupato e occupano un ruolo centrale nella coscienza contemporanea, ecco perché il tema è così importante. In particolare, l’elaborato ha cercato di rispondere a una domanda: qual è stato il contributo di Erminia, Osmana e Ubaldina alla causa dell’antifascismo e della Resistenza?

I contributi delle donne alla causa dell’antifascismo variano da biografia a biografia, così come tra le tre antifasciste livornesi. Erminia si sposta continuamente per portare aiuti pratici e conforto spirituale ai bisognosi di ogni ceto: la battaglia contro il fascismo avviene attraverso la fede cristiano-cattolica. Osmana lotta contro le ingiustizie sociali e a sostegno dei lavoratori, promuovendo negli ambienti sociali una nuova Resistenza al femminile. Ubaldina è semplicemente una «ragazzina tra le altre» quando scoppia la guerra, ma sono chiari nella sua mente gli ideali di giustizia e di libertà, che la spingono a diventare staffetta in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.[29] Le storie esemplari di queste donne che hanno lottato per la libertà, necessitano di un’attenzione maggiore che ancora manca. Nella sintesi conclusiva, è possibile affermare che queste figure sono essenziali per la comprensione della storia di Livorno e della storia del contributo delle donne alla liberazione del Paese.

Nella realizzazione dell’elaborato sono emerse delle problematiche che riguardano il contesto storico-geografico prescelto: quello livornese. La produzione monografica sulla storia di Livorno risulta esigua, soprattutto se facciamo riferimento agli eventi della storia contemporanea. L’invito per il futuro è quello di porre maggior attenzione agli eventi che hanno scosso una città portuale, crocevia di popoli dalle culture e dalle storie diverse, quale è Livorno.

Insieme alle problematiche menzionate in precedenza, anche un’altra questione rimane aperta: quella della memoria. Col passare degli anni, i diretti protagonisti della Resistenza scompariranno e con essi anche delle fonti preziose. Per questo motivo, il dovere delle future generazioni è quello di mantenere vivo il ricordo e il contenuto di queste fonti.

 

NOTE

[1] Enciclopedia Treccani, Antifascismo, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[2]Dizionario di Storia, “Antifascismo”, in Enciclopedia Treccani, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo_%28Dizionario-di-Storia%29/ , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[3] A. Bravo; A. M. Bruzzone; In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945). Bari: Editori Laterza, 2000, p. 14.

[4] I. Carrone, Le donne della Resistenza. La trasmissione della memoria nel racconto dei figli e delle figlie delle Partigiane. Formigine (MO): Infinito edizioni, 2014, p. 40.

[5] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, «Comune di Livorno online», 12 febbraio 2016, < http://www.comune.livorno.it/_cn_online/indexff46.html?id=184&lang=it >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[6] T. Noce, Nella città degli uomini, Donne e pratica della politica a Livorno tra guerra e ricostruzione. Roma: Rubettino, 2004, p. 31.

[7] Ivi, p. 32.

[8] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[9] Istituto Centrale degli Archivi, Erminia Cremoni, «I partigiani d’Italia. Lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle donne della resistenza», < https://www.partigianiditalia.beniculturali.it/persona/?id=5bf7d1ce2b689817c8bac480 > , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[10] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come gli uomini, poi siamo rimaste un passo indietro”, «la Repubblica», 24 aprile 2015, < https://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/04/24/news/osmana_abbiamo_lottato_come_gli_uomini_poi_siamo_rimaste_un_passo_indietro_-112742382/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[11] In ricordo di Osmana Benetti in Benifei. La vita, la lotta, la cooperazione, «Fondazione Memorie Cooperative», 11 febbraio 2016, < http://www.memoriecooperative.it/i-soci-raccontano/in-ricordo-di-osmana-benetti-in-benifei-la-vita-la-lotta-la-cooperazione/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[12] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[13] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[14] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[18] Addio a Osmana, simbolo della Resistenza delle donne, «Il Tirreno», 11 febbraio 2016, < https://necrologie.iltirreno.gelocal.it/news/26220 >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[19] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[20] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016, p. 7.

[21] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, 2019 – 2020, < https://www.noipartigiani.it/ubaldina-pannocchia/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[22] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, cit.

[23] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016., p. 3.

[24] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[25] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore. Le lotte nella Livorno da ricostruire«Il Tirreno», 30 luglio 2021, < https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/07/30/news/si-e-spenta-ubaldina-pannocchia-staffetta-partigiana-per-amore-le-lotte-nella-livorno-da-ricostruire-1.40553977 >, data di consultazione:  7 agosto 2022.

[26] Ibidem.

[27] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[28] I. Carrone, Le donne della Resistenza, cit., p. 9.

[29] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore, cit.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




L’uccisione di Roberto Bartolozzi.

Sono le 15.30 del 29 giugno 1944. Ci sono sei uomini sul muretto del ponticello di via dei Fossi, davanti alla storica Porta San Gervasio, nel centro di Lucca. Appartengono alle squadre partigiane cittadine e stanno pianificando gli ultimi dettagli per un’azione contro i carabinieri che dovrà svolgersi quella stessa sera. Il loro capo è Roberto Bartolozzi, un operaio specializzato della compagnia telefonica Teti. Ha trent’anni, è di La Spezia, ma si è trasferito a Lucca da un anno, da quando la centrale spezzina è stata colpita da un bombardamento.

Bartolozzi è comunista. Il suo è stato un percorso ideologico maturato nel tempo: a diciannove anni è partito volontario per la Tripolitania e l’esperienza gli ha fatto capire tante cose sul regime fascista, tant’è che, quando nel 1937 è rientrato in Italia e iniziato a lavorare alla Teti, ha provato a sensibilizzare i colleghi sulle ingiustizie sociali cui sono sottoposti. Con scarso successo, però. Nel frattempo si è sposato con Linda Bessolo e la coppia ha avuto una figlia, Anna Maria. Trasferitosi a Lucca ha finalmente conosciute persone che la pensano come lui e dopo l’armistizio la prospettiva di fare qualcosa contro i tedeschi che hanno occupato la città e contro la neonata Repubblica Sociale Italiana lo ha spinto a un iperattivismo antifascista.

C’è da trafugare armi e nasconderle? Nessun problema, Bartolozzi le sottrae al picchetto armato della Teti e le nasconde nella sede di via Santa Croce.

C’è da aiutare ebrei a fuggire dalla città o ufficiali inglesi evasi dai campi di prigionia? Bartolozzi li traveste da operai della Teti, li carica sul furgone e li porta fuori città.

C’è da andare a prendere una macchina tipografica dalle parti di Firenze? Bartolozzi, ancora una volta sfruttando il suo impiego, va e procura.

C’è da organizzare squadre armate? Ecco, questo avviene a dicembre 1943, quando Bartolozzi – ormai acquisita tutta la fiducia dal CLN comunale – viene incaricato di tale missione. La prima squadra è quella di via dei Borghi, poi nei primi mesi del 1944 se ne costituiscono altre, in centro storico e in alcuni quartieri di periferia. Il riferimento è sempre lui, che cerca anche di stabilire contatti con formazioni operanti nel resto della provincia, in particolare con il Gruppo Valanga stanziato sulle Apuane.

E arriviamo così agli eventi del 29 giugno. Due settimane prima è venuto a Lucca Alessandro Pavolini e ha preannunciato la trasformazione del PFR in partito armato con la nascita delle Brigate nere. La prima di queste formazioni si costituirà proprio a Lucca e prima ancora che venga pubblicato il decreto istitutivo. Proprio quel 29 giugno il giornale del fascismo lucchese, “L’Artiglio”, chiama a raccolta i fascisti affinché ritirino l’equipaggiamento base per iniziare la loro attività nella Brigata nera. Insomma, c’è movimento in città. Ma i partigiani lucchesi, come accennato, non se ne curano: in base ad alcune informazioni fornite da un tenente dei carabinieri sembra che sia possibile disarmare due caserme, quella di Borgo Giannotti e quella di San Concordio. Viene deciso per la prima perché vi sono nascoste più armi automatiche. Il piano prevede che un gruppo si presenti all’ingresso principale e un altro entri da un piccolo portone che dà su una strada laterale: sarà un attacco simultaneo sfruttando il fatto che a quell’ora dovrebbero essere presenti soltanto un piantone e un carabiniere. Per la fuga verranno utilizzati due carretti dei netturbini. Uno dei patrioti, Vannuccio Vanni, non è convinto della segnalazione e va a Borgo Giannotti per capire meglio la situazione: vede una camionetta tedesca ferma sulla strada e riesce ad avvertire i compagni per sospendere l’azione.

Bartolozzi e gli altri sono perciò costretti a tornare alla palazzina Teti per riporre le armi nel nascondiglio. Stanno per uscire quando sentono bussare alla porta. Sono tre militi dell’Ufficio Politico Investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana. Il giorno prima hanno arrestato un antifascista, Roberto Diena, e gli hanno trovato un biglietto firmato “Roberto”. Diena non fa nomi, ma è pure lui spezzino trapiantato a Lucca e le autorità fasciste sono risalite a Bartolozzi di cui fino a questo momento hanno ignorato l’attività clandestina. Così vanno alla Teti e quando si vedono di fronte i partigiani chiedono chi di loro è Roberto: la risposta arriva immediata con un paio di gomitate allo stomaco sferrate proprio dal comandante che poi, ancora in tuta da lavoro, scappa in direzione di piazza Bernardini, mentre gli altri che sono con lui fuggono dalla parte opposta, mettendosi in salvo. Infatti, i tre militi decidono di inseguire Bartolozzi e lo raggiungono in una piazzetta poco distante, di fianco al cinema “Littorio”. Inseguitori e fuggitivo combattono, richiamando alcuni avventori di un ristorante che si affaccia proprio sulla piazzetta. Tra di loro c’è un avvocato, Giulio Carignani, che, non sapendo e non capendo il motivo della colluttazione, interviene per placare gli animi:

Giunto all’altezza del ristorante “Passeggiero” vidi in distanza sull’angolo della piazza San Quirico un gruppo di persone che si accapigliava (…) avvicinatomi rapidamente al gruppo per vedere di intervenire e cercare di pacificare gli animi se fosse stato necessario, ebbi subito le spiegazioni di quello strano pugilato, in quanto vidi cadere in terra un oggetto nero, che non era altro che una rivoltella, la quale percuotendo sul selciato lasciò partire un colpo. Io mi precipitai subito sulla rivoltella e l’afferrai prima che quello dei contendenti a cui era sfuggita riuscisse a riprenderla.

C’è un altro avvocato nelle vicinanze che assiste alla scena ed è Mario Frezza, del CLN cittadino:

la colluttazione tra l’avvocato Carignani e lo sconosciuto terminò quasi subito e l’arma rimase in possesso di quest’ultimo il quale avvicinatosi rapidamente al gruppo dei tre sparava quasi a bruciapelo 3 colpi di pistola all’uomo in tuta che veniva mantenuto col viso contro il muro dagli altri due.

I tre aggressori fascisti fuggono, mentre Bartolozzi, pur gravemente ferito, in qualche modo si rialza ed entra nel cinema per rifugiarsi nella cabina di proiezione. Nel frattempo, un ufficiale della GNR, Giuseppe Natale Scacchiotti, che si trova a cena al ristorante “Il Passeggero”, sente i colpi di pistola: esce dal locale e si imbatte in due dei tre militi che gli spiegano quanto è successo. Insieme a loro torna in piazzetta, ma Bartolozzi non c’è più:

voltandomi indietro e non avendo più visto i due militi, per richiamarli e per richiamare l’attenzione eventualmente di altre persone ho sparato mentre mi trovavo proprio all’angolo in prossimità della “Tazza d’oro” tra via dell’Arancio e piazzetta S. Quirico una raffica di sten in aria di circa 7 od 8 colpi e forse anche più.

Gli spari di Scacchiotti inducono diverse persone a uscire dal cinema e qualcuno lo avverte che Bartolozzi si è rifugiato dentro. Prosegue il racconto dell’ufficiale:

Recatomi colà e senza salire nella cabina ho visto il ferito che aveva il volto imbrattato di sangue e ferite nel viso e che versava in gravissime condizioni, tanto che alle mie domande rivoltegli per apprendere l’accaduto rispose: “è finita, è finita!”.

Bartolozzi viene poi portato all’ospedale da un automezzo della Misericordia e lì muore alle 2.45 per «ferita d’arma da fuoco alla regione sacrale sinistra con foro di uscita alla coscia anteriore destra ed una ferita transfossa al terzo inferiore della stessa coscia con foro d’entrata lateralmente e foro d’uscita medialmente in basso». Prima di spirare, interrogato dal vicebrigadiere Ragonese, il capo partigiano dichiara di essere stato aggredito a scopo di rapina e derubato di mille lire.

L’episodio del 29 giugno è un punto di svolta per la resistenza armata a Lucca. Scriverà anni dopo Vannuccio Vanni:

Quel 29 giugno fu un giorno tragico per l’intera nostra organizzazione, anche perché il riconoscimento del Bartolozzi come partigiano da parte delle camicie nere poteva essere frutto solo di un tradimento. E questa consapevolezza impose serie riflessioni a tutti i livelli, dalla compagine direttiva del CLN al Comando militare, al movimento. Furono intensificate le verifiche per accertare che le norme della clandestinità fossero severamente applicate da tutti, per evitare infiltrazioni e provocazioni. Anche tutto l’apparato politico fu richiamato ad essere più preciso nel lavoro, sia durante i contatti con gruppi già organizzati, sia durante il reclutamento. Fu anche controllato che le decisioni prese dal Comando in merito alle armi venissero eseguite solo da uomini fidati.

Il Comitato militare affiderà a Mario Bonacchi l’obiettivo di riorganizzare i vari gruppi in uno solo comandato da lui.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




La storia ignota degli italo-greci a Firenze

Per i fiorentini non più giovani quell’area di fabbricati situata nella zona di Novoli, fra via Magellano e via di Caciolle, era considerata il quartiere dei greci, dove fra l’altro si potevano comprare sigarette di contrabbando sino agli inizi degli anni Ottanta. Per coloro che ci abitavano era invece Laspeica, in greco melma, un rione per decenni privo di strade e marciapiedi che nelle giornate di pioggia diventava un vero e proprio pantano, da cui il nome che gli era stato dato. Gli abitanti di questi appartamenti, costruiti nella prima metà degli anni Cinquanta, non erano propriamente greci ma italiani, la maggior parte di origine pugliese, che furono rimpatriati nel secondo dopoguerra. Erano quegli italiani che sul finire del XIX secolo, emigrati dalle coste pugliesi, raggiunsero la Grecia in cerca di una sistemazione economica migliore di quella che poteva offrire loro il nuovo Regno d’Italia. Molti si concentrarono nella città di Patrasso dove formarono una comunità di circa 3000 persone integrate perfettamente nel tessuto sociale greco [1]. Poi venne il 28 ottobre 1940 quando alle prime luci dell’alba le truppe italiane ricevettero l’ordine di attaccare la Grecia [2]. Con l’inizio della guerra lo sdegno e il rancore dei greci esplosero con il fragore della prima bomba che cadde proprio sulla scuola italiana di Patrasso “Santorre di Santarosa” facendo crollare la cappella adiacente al cortile dell’edificio: l’aereo volando ad altissima quota non poté certo distinguere la bandiera italiana che sventolava in quel mattino livido di pioggia [3]. Per fortuna era un giorno festivo (anniversario della marcia su Roma), vacanza per la scuola italiana, per cui non vi furono vittime innocenti.

Da quel momento l’armonia di un’integrazione naturale che nel corso del tempo si era creata fra la comunità italiana e i greci si sgretolò improvvisamente producendo ritorsioni su quei poveri italiani increduli di quanto stava accadendo, ma soprattutto innocenti per l’attacco militare che Mussolini aveva deciso contro quella terra in cui loro vivevano da generazioni in pace con sé stessi e con gli altri. Ma per i greci erano considerati corresponsabili dell’aggressione fascista e tutti i cittadini italiani, di sesso maschile, di oltre sedici anni, furono rinchiusi nei campi di concentramento di Goudì, Argos, Neakokkinià [4]. 

Con l’8 settembre del 1943 finì l’occupazione italiana della Grecia che passò direttamente sotto il controllo della Germania nazista e per la comunità italiana iniziò un nuovo calvario, oltre all’intransigenza ed alle mortificazioni messe in atto dagli ex fratelli greci, gli italiani dovevano ora subire anche la rabbia e le ritorsioni degli ex alleati tedeschi. Presi tra due fuochi la vita per gli italiani residenti in Grecia risultò sempre più problematica. Da una parte aumentarono le angherie ad opera dei greci perché li ritenevano i primi responsabili dell’occupazione, dall’altra iniziarono le deportazioni e le uccisioni ad opera dei nazisti, che manifestavano nei loro comportamenti maggiore ferocia verso gli italiani piuttosto che contro i greci. Finita la guerra il destino di queste persone di origine italiana pareva segnato; infatti, il governo ellenico aveva espresso al comando delle Forze Alleate l’intenzione di deportare in un ragionevole limite di tempo ai loro paesi di origine tutti i cittadini di Stati nemici ed ex nemici che si trovavano in Grecia, e di conseguenza il provvedimento riguardava anche gli italiani. A niente servì l’appello di Alcide De Gasperi alla Commissione Alleata per poter bloccare il rimpatrio degli italiani residenti in Grecia, e nell’autunno del 1945 iniziò l’esodo dei nostri connazionali…

La signora Angela aprì la porta di casa ritrovandosi dinnanzi un funzionario di polizia che gli intimava: mercoledì prossimo alle otto si faccia trovare al porto con tutta la sua famiglia per essere imbarcati sulla nave che vi porterà in Italia [5]. 

Più o meno le stesse parole furono proferite in quel novembre del 1945 a tutti gli abitanti di origine italiana che risiedevano a Patrasso da due o tre generazioni. Solo pochi giorni quindi per abbandonare la propria casa e i propri averi (fu consentito loro di portare solo poche e piccole cose). Si sta parlando di più di tremila persone integrate perfettamente nella società greca che, con lo scoppio della guerra, non solo subirono angherie, sopraffazioni ed insulti dai loro concittadini greci, ma alla fine del periodo bellico furono deprivati delle loro proprietà e cacciati malamente dal territorio ellenico. Sarebbe come se in un ipotetico scontro tra occidente e mondo arabo (e di questi periodi non è fantascienza…) si imbarcassero sulle navi tutti gli arabi residenti in Italia (molti dei quali con cittadinanza italiana) per riportarli in Africa.

Ecco di tutta questa storia degli italo-greci, della loro sofferenza nel lasciare una terra che ormai consideravano propria, delle loro difficoltà nel riadattarsi e nel reinserirsi nella società italiana che aveva lasciato alle spalle il Ventennio – di cui questi profughi conservavano un ricordo condizionato dalla propaganda fascista di assistenza agli italiani residenti all’estero – ecco che di questa vicenda la storiografia ufficiale sembra essersene dimenticata o forse neanche di conoscerla. È vero che si trattava della storia di poche migliaia di individui, storia che si configura come una goccia d’acqua nel mare delle profuganze che nel dopoguerra si muovevano per tutta l’Europa e nel mondo, ma si trattava pur sempre della vita di essere umani vittime di un destino scritto da altri di cui loro incolpevoli subivano le sorti.

 

Nave Patrai.

Per tutto il mese di novembre le corvette Patrai e Terrmoscopilichi fecero la spola tra Patrasso e Bari, portando a termine l’esodo dei nostri connazionali; dal capoluogo pugliese – dove molti decisero di rimanervi – risalirono la penisola con treni, spesso trovando posto su vagoni merci, con un interminabile viaggio su una linea ferroviaria rattoppata, giungendo finalmente a Bologna dove esisteva un centro di smistamento. Da qui i profughi presero principalmente due direzioni, verso il Piemonte, regione nella quale erano in funzione tre grandi complessi, la Caserma Passalacqua a Tortona, in provincia di Alessandria, la Caserma Perrone a Novara e le Casermette di Borgo San Paolo a Torino, o verso Firenze alla Caserma ex Genio dia via della Scala, dove trovarono alloggio circa 2000 italo-greci.

 

Veduta esterna della Caserma di via della Scala adibita a Centro profughi dal 1944 al 1956.

Questa grande struttura, originariamente un convento costruito alla fine del Duecento, nel corso dei secoli ha cambiato più volte uso di destinazione: ha accolto la prima stamperia a caratteri mobili nel 1472, successivamente dopo una restaurazione nel periodo rinascimentale è divenuta un educandato, dopo un conservatorio, per poi essere preso in consegna dall’esercito e dai carabinieri fino all’8 settembre del 1943 quando fu occupato dalle truppe tedesche. Dopo la Liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 venne trasformato in Centro di raccolta per sfollati e profughi [6]. Artefice ed organizzatore del Centro fu il Capitano inglese Limbert che rimase al comando della struttura per circa un anno. Quando nel novembre del ‘45 giunsero ad ondate quei profughi provenienti dalla Grecia, molti locali della Caserma erano ancora occupati, nonostante i continui appelli ad abbandonare la struttura, dagli sfollati e dai fiorentini sinistrati, e gli italo-greci trovarono posto solo ammassandosi nelle camerate ancora libere e dentro un teatro e una chiesa sconsacrata all’interno dello stesso edificio.

Vivevano in grandi stanze, alcune senza finestre, dormendo per terra sopra pagliericci o ammassi di cenci che fungevano da materassi, una ventina di persone per camerata, dove ogni nucleo familiare trovava un proprio spazio innalzando coperte come divisori. Per queste persone ogni giorno si presentava come il precedente, sradicati dalla propria terra per colpe altrui, chiedevano soltanto che fosse concessa loro la possibilità di ricominciare, sia pure con fatica, a vivere. E in questo contesto di profondo degrado al Centro profughi all’inizio vi era solo il dolore, l’indecenza, l’abbattimento, vi era la totale sfiducia nelle istituzioni; nel cuore di questa gente sfortunata, piano piano, si faceva strada l’odio… ed era comprensibile. Gli avevano promesso un’accoglienza diversa in alloggi confortevoli e invece niente di tutto questo: “Venga a vederci signor Ministro” [7] scrivevano a Emilio Lussu allora in carica al Ministero dell’Assistenza postbellica. Queste persone avevano lasciato alle spalle le brutture, le persecuzioni, i morti sulle piazze di un’assurda guerra, avevano abbandonato piangendo la loro terra, le loro case, il loro mare, i loro animali come quella gattina di nome Xenià dagli occhi verdi che seguì fino al porto la sua padroncina, ma nella ressa e nella confusione venne scacciata e di lontano sulla banchina sembrava salutare quella bambina con le lacrime agli occhi che si allontanava dal porto di Patrasso imbarcata sulla nave che la portava in Italia [8].

Dai primi tempi del loro insediamento nella caserma di via della Scala gradatamente siamo passati tramite provvedimenti comunali e della Prefettura, con decreti legislativi, e soprattutto con le continue rivendicazioni sfociate spesso in rivolte di queste persone che niente avevano da perdere, ad una situazione di vita un po’ più decorosa di quella iniziale ma sempre al di sotto della normalità. Anche una certa propensione nel sapersi arrangiare, caratteristica dei patrassini e più in generale di tutti gli abitanti del bacino del Mediterraneo, giungendo perfino a contravvenire alla legge con la pratica del contrabbando, va inserita nel computo di tutti quegli elementi che contribuirono ad un qualche miglioramento delle condizioni di vita di questi profughi.

 

Giovani residenti al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Stella.

Famiglia italo-greca al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Croce.

E infatti solo dopo pochi mesi di vita al Centro, i profughi organizzarono in modo autonomo un mercato montando le bancherelle in via della Scala, una tra le strade meno movimentate di Firenze era diventata una delle più animate. Il Centro Profughi aveva creato un ambiente cosmopolita, in perpetuo movimento, «tanto che bastava affacciarsi ai cancelli per avere l’impressione di un grande alveare. E piano piano, lungo i marciapiedi della via erano cominciate le bancarelle. Naturalmente avevano attecchito quelle dei commestibili e delle cianfrusaglie, tanto che chi passava si godeva uno spettacolo vivo di colori,  poponi, cocomeri e altra frutta di ogni sorta esposti in pieno sole per un lungo tratto» [9]. Non era difficile scovare in mezzo ai banchi del mercato anche chi ti offriva di nascosto sigarette di contrabbando, naturalmente ad un prezzo inferiore rispetto a quello imposto dal monopolio di Stato. Questa attività illegale era nata quasi per caso perché venivano rivendute le sigarette che i soldati americani generalmente donavano alla popolazione: «avevo dieci anni e nascondevo i pacchetti di sigarette regalate dagli americani sotto il maglione per venderle sotto i portici di fronte a Piazza della Repubblica» [10].

Il contrabbando di sigarette, inizialmente tollerato dalla Guardia di Finanza, coinvolse sempre più i profughi facendo diventare il Centro di via della Scala il più grande punto cittadino di smistamento e smercio di sigarette [11]. La cronaca della stampa locale di quegli anni fa riferimento a continue ispezioni della polizia e soprattutto della Guardia di Finanza nei locali del Centro alla ricerca di sigarette che puntualmente scovavano nei posti più impensati.

Il contrabbando assunse dimensioni sempre più grandi sino a divenire una nota distintiva per i profughi “greci”, anche quando lasciarono il Centro di via della Scala per andare ad abitare nelle case popolari in via di Caciolle. Qui all’interno del rione, fra le stradine che collegavano le abitazioni con quelle tipiche scale esterne, è proseguito per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il rione dei greci – molti clienti ignoravano la loro origine italiana – è stato sempre conosciuto dalla cittadinanza fiorentina come il luogo di approvvigionamento per quei fumatori che volevano risparmiare sul costo del pacchetto di sigarette. E se la Guardia di Finanza inizialmente aveva ricevuto precise disposizioni di tollerarlo, perché i profughi dovevano cercare pur di rifarsi una vita, poi intervenne duramente perché appunto questo fenomeno aveva assunto proporzioni molto più vaste – tutti passavano “dai greci” per le sigarette – con conseguenti danni al monopolio di Stato. Non tutti i profughi però continuarono questa pratica illegale, per molti fu solo all’inizio della loro avventura italiana, per poi cercare altre occupazioni: un lavoro che avrebbe dato loro la possibilità di un sostentamento economico per sperare in un futuro migliore. E non essendoci nella Firenze postbellica un’abbondanza tale di richieste per accontentare tutti, si specializzarono in attività di artigianato quali l’elettricista, il sarto, il falegname… Vi erano poi coloro che avevano trovato lavoro proprio all’interno del Centro nei laboratori di biancheria e calzoleria, locali annessi al Centro stesso, per la confezione di materiale assistenziale. Solo più tardi con l’inizio degli anni Cinquanta cominciarono le assunzioni in alcune fabbriche fiorentine che avevano ripreso la produzione industriale dopo la guerra: alcuni entrarono nella Pignone altri nella Gover. Ma ci furono anche coloro che decisero di raggiungere il nord Italia, soprattutto Torino, dove la Fiat aveva iniziato a richiamare emigranti da tutta la penisola. Queste persone che avevano lasciato Firenze si riunirono agli altri profughi che nel viaggio dalla Grecia a Bologna decisero di continuare per il nord.

Con il passare degli anni, oltre al lavoro, il problema più impellente per i profughi era riuscire a trovare una sistemazione in alloggi esterni dal Centro. A livello nazionale vi era l’esigenza da parte delle autorità statali di smantellare i centri di raccolta, o perlomeno di liberarli dalla presenza di quei profughi che soggiornavano ormai da anni in queste strutture a carico dello Stato. I vari Ministeri che si occupavano dei profughi avevano anche la necessità di reperire nuovi spazi per poter contenere le ondate dei rimpatriati dalle regioni giuliano-dalmate che continuavano a giungere in Italia sino alla fine degli anni Cinquanta. I tentativi messi in atto dai funzionari dello Stato non dettero però buoni risultati in merito: venivano elargite somme di denaro abbastanza consistenti per liberare i posti all’interno dei centri di raccolta, ma i profughi una volta acquisita la liquidazione continuavano a rimanervi perché non trovavano nessuna sistemazione all’esterno. Il Decreto-legge del 19 aprile 1948 n. 556, che imponeva la cessazione dell’assistenza ai profughi entro il 30 giugno 1949 tramite una liquidazione di 50.000 lire a persona, non dette assolutamente i risultati ipotizzati [12]. Il 30 giugno ‘49 almeno a Firenze nel Centro Profughi di via della Scala non si liberò nessun posto, anzi a leggere l’articolo del Nuovo Corriere del 7 ottobre 1949 sembra che la situazione abbia assunto toni da farsa pirandelliana perché quei soldi ricevuti allo scopo di trovare una sistemazione al di fuori delle mura del Centro – a sentire i profughi – furono subito spesi per acquistare tutti quegli oggetti, brande, coperte, pagliericci e il corredo per il vettovagliamento che furono loro ritirati al momento della liquidazione [13].

Per avviare realmente lo sfollamento del Centro di via della Scala si dovrà attendere la metà degli anni Cinquanta con le assegnazioni degli alloggi popolari: a parte qualche nucleo familiare che si staccò dalla comunità italogreca trovando sistemazioni nei nuovi quartieri dell’Isolotto e di Sorgane, gli altri furono dislocati sia nel già citato quartiere “dei greci” di via di Caciolle, sia alle Gore sopra Careggi, che – in un numero minore – a Coverciano in via Gelli. Nel novembre del 1956 con l’ultima famiglia traslocata nella casa popolare assegnata, il Centro profughi cesserà la sua attività e riprenderà la funzione di caserma militare. In via della Scala non vi sarà più il mercato multicolore che aveva reso piena di vitalità una strada meno frequentata e dai cancelli della caserma non si avrà più l’impressione di una grande alveare. E iniziava così per i profughi usciti dal Centro un nuovo – inverso – percorso di acculturazione: l’inserimento nella società italiana, fiorentina in specie.

 

Città di Firenze – Case per i profughi. Legge 4 marzo 1952 n. 137.

 

A distanza di quasi ottant’anni molti protagonisti dell’esodo dalla Grecia sono scomparsi, altri sono ormai anziani, quasi tutti hanno lasciato le case dei rioni di via di Caciolle e via delle Gore, e negli anni gli appartenenti alla comunità si sono sposati con donne e uomini italiani perdendo progressivamente le caratteristiche della loro grecità, soprattutto la lingua che era rimasta nei primi tempi come elemento di forte distinzione. A Laspeica – nessuno ormai chiama più così il rione di via Caciolle – per le strade non si sente più parlare greco e neanche sentiamo più gli odori tipici della cucina greca, i venditori di sigarette erano già scomparsi da tempo e in questo quartiere ormai i segnali del passaggio della comunità patrassina stanno sfumando, inghiottiti da quel processo di integrazione che sembra abbia lasciato molto poco della loro storia e tradizione. La storiografia italiana che ha iniziato ad interessarsi delle profuganze del secondo dopoguerra contribuirà a non disperdere questa storia e concedere alle loro vicende un posto, seppur piccolo dato l’esiguo numero dei protagonisti, nel panorama della storia italiana del XX secolo. Altrimenti si correrebbe il rischio di appiattire, non conoscendolo, il loro viaggio “andata e ritorno”, come se non fosse mai avvenuto, come se dalla Puglia non fossero migrate volontariamente alla ricerca di un futuro migliore migliaia di persone alla fine dell’Ottocento verso la penisola greca, e da lì ritornare in Italia, cacciate malamente per colpe non loro e costrette a lasciare ogni loro avere costruito faticosamente su quella terra in circa settant’anni. Senza il soccorso della storiografia la loro speranza emigrando dalla Puglia, l’integrazione, la sofferenza, il dolore, l’emarginazione, e di nuovo la speranza e nuovamente la reintegrazione nella società italiana, che costituiscono la storia di questi uomini e donne, svanirebbero negli anni rimanendo semmai nei racconti orali tramandati di generazione in generazione che probabilmente con il tempo andrebbero persi. È un dovere quindi portare alla luce pagine di vicende umane del tutto o quasi ignorate o di storie già dimenticate al fine di rendere cosciente l’intera comunità che anche le vicende di pochi individui, come quella degli italo-greci, reclamano un posto nella storia ufficiale.

 

NOTE

[1] Insieme a Patrasso erano Atene, Corfù e Salonicco, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, costituite per lo più da migranti meridionali soprattutto pugliesi. Anche a Zante vi era una piccola comunità di italiani di origine meridionale, che poco prima della Grande guerra non superava le 100 unità; meno numerosa era la presenza italiana a Cefalonia, dove agli inizi del Novecento si contavano nell’isola 19 famiglie, in prevalenza pugliesi, Cfr. Giulio Esposito, Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in Giulio Esposito e Vito Antonio Leuzzi (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari 2015, p. 223.

[2] Sui recenti studi storici dell’occupazione italiana della Grecia cfr. i saggi di Paolo Fonzi: Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943), Le Monnier, Firenze 2020; Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), Carocci, Roma 2022.

[3] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso durante il periodo fascista (1930-1945), Ibiskos, Empoli 1988, p. 19.

[4] Cfr. Santarelli Lidia, La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Paolo Pezzino e Luca Baldissara (a cura di), Crimini e memorie di guerra: violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, 2004. Nei documenti consultati presso l’Archivio di Stato di Firenze sulle richieste dei certificati di qualifica di profugo emerge come la maggior parte degli italo-greci giunti a Firenze furono, durante la guerra, internati civili in quei campi per circa 6/7 mesi, in Archivio di Stato di Firenze (ASFI), fondo prefettura, serie certificati qualifica di profugo, Fascicoli da n. 1 a n. 80, classifica 3A/2/14.

[5] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[6] Sulla storia della Caserma di via della Scala, convertita in Centro profughi dall’agosto del 1944 al novembre del 1956, cfr. il fondo dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) presente all’Archivio Storico del Comune di Firenze, dove sono raccolti in perfetto stato molti materiali sull’Ente dalla sua istituzione alla sua chiusura.

[7] Come si vive al centro profughi? Centinaia di ricoverati scrivono una lettera aperta al ministro Lussu – Il testo del documento – Dichiarazioni dei dirigenti, «La Patria», 22 novembre 1945.

[8] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso, cit., p. 48.

[9] Mercanti bianchi e neri in via della Scala, «La Nazione», 31 agosto 1947, p. 2.

[10] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[11] Sul contrabbando di sigarette degli italo-greci a Firenze, oltre all’analisi della stampa locale del periodo, sono interessanti le relazioni degli assistenti sociali sui minori italo-greci che svolgevano tale attività, in ASFI, Direzione dei centri per la giustizia minorile, servizio sociale per i minori, anni 1951-1955.

[12] Giulio Montelatici, Lo sgombero… dei profughi, «Il Nuovo Corriere», 3 giugno 1949, p. 2.

[13] Ibid.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.




8 giugno 1944: l’eccidio della Pievecchia che scosse Pontassieve

L’8 giugno 1944, in località Pievecchia, piccola frazione del Comune di Pontassieve, (del plebato di San Lorenzo e San Giovanni a Montefiesole), in occasione della festa del Corpus Domini, scoppiò il caos.

Pievecchia dall’alto

Un gruppo di circa cinquanta partigiani di Monte Giovi, infatti, poche ore prima aveva assaltato una delle caserme della Guardia Nazionale repubblichina di Pontassieve, allora in una villa in via Palagi, per reperire armi e munizioni [1]. Forse, con l’aiuto degli stessi carabinieri, i partigiani riuscirono a prendere il bottino sperato, che venne caricato su due carri trainati dai buoi diretti verso poggio Bardellone, in direzione di Monte Giovi [2].

Occorre, però, ricordare che nella caserma assaltata erano presenti anche militanti fascisti, due dei quali vennero portati via dai partigiani. Gli altri, rimasti indenni, accorsero subito ad avvisare dell’accaduto i nazisti, allora di stanza a San Francesco.

Di ritorno da questa azione, un gruppetto di partigiani, distaccatisi dagli altri, si fermò imprudentemente a Pievecchia, dove erano confluiti nei mesi molti sfollati, benché le dinamiche non siano tuttora chiare.

Pontassieve, snodo ferroviario essenziale, era infatti più soggetta ai bombardamenti e molti civili quindi si erano spostati nelle campagne. Ne è un esempio il bar Nannoni, trasferitosi da Pontassieve a Pievecchia, quel giorno luogo dello scontro.

I partigiani, sebbene avessero potuto passare per i boschi, decisero di attraversare un centro abitato, forse per sfida ai soldati occupanti.

Nella locanda del paese, rimasta aperta nonostante la raccomandazione di chiudere da parte degli stessi insorti, dato il loro passaggio muniti di armi, i partigiani trovarono due soldati tedeschi, forse anche grazie all’avvistamento di qualcuno del luogo, e decisero, pare, di ucciderli. I ribelli, infatti, presi dalla foga, avrebbero lanciato una o più bombe a mano nella locanda, colpendo a morte un soldato tedesco e un giovane pontassievese, allora colono a Grignano, Ruggero Morandi, di 20 anni. L’altro soldato tedesco, sopravvissuto allo scontro, riuscì a fuggire e, scappando da una finestra, avvisò prontamente la contraerea tedesca dell’accaduto, accampata a circa 4 km dalla Pievecchia.

La risposta fu immediata: poco dopo, la zona della Pievecchia venne prima bombardata, per impedire a chiunque di fuggire, poi invasa dai soldati. Si parla di 40 o 50 uomini arrivati con camionette e camion, quasi sul calar della sera.

Arrivati sul posto, i soldati nazisti spararono alla prima vittima, Furio Montelatici, poi gettato in un pagliaio, che venne incendiato. Vennero bruciati anche altri pagliai, una bettola e una casa. Alcune famiglie si erano, intanto, riparate e nascoste nel sottosuolo della villa Tesei, ma i tedeschi irruppero nelle stanze della stessa e nelle altre abitazioni per rastrellare gli uomini presenti e, dopo aver rilasciato quelli più anziani, sopra i cinquantacinque anni, uscirono per l’esecuzione. Le donne furono radunate davanti alla Villa, inermi.

I partigiani dovettero, invece, a causa dei bombardamenti e della rapida risposta tedesca, abbandonare le armi e le munizioni, che furono prontamente prese dai nazisti.

I tedeschi decisero di fucilare gli uomini in fila rivolti verso il muro della fattoria. Due dei condannati però, stando alle testimonianze, riuscirono a fuggire. Libero Rigacci si girò di scatto e strappò il fucile dalle mani del soldato tedesco, riuscendo a fuggire nel campo di grano. Il soldato sparò contro di lui mentre correva nel campo e, complici il sopraggiungere della sera e l’essere inciampato, fu creduto colpito e morto. Anche Faustino Volpi scappò nel buio [3].

Gli altri furono perciò fucilati assieme, al muro, subito dopo, dove ancora oggi sono presenti i segni dei proiettili, onde evitare che si ribellassero[4]. Quattordici le vittime di quel giorno: Ruggero Morandi, ucciso durante lo scontro a fuoco tra partigiani e soldati tedeschi, e le tredici persone inermi fucilate per rappresaglia. Erano uomini dai 17 ai 47 anni, quelli che persero la vita quel giorno di giugno, 7 di Pievecchia e 6 sfollati. Altri, circa 20, vennero invece portati via. Prima furono rinchiusi nel carcere di Firenze, per poi essere impiegati in lavori di carattere militare presso Prato.

Il piccolo borgo fu quindi saccheggiato, così come la fattoria limitrofa e i due spacci cooperativi.

Il Pretore, da Tassinaia, dove era sfollato anch’egli, arrivò sul luogo per la constatazione di legge e per organizzare le sepolture. Nessun’altra autorità locale si fece viva, stando alle testimonianze del tempo. Ma non finì lì: tre corpi straziati rimasero nella strada per ore. Solamente sabato 10 giugno le quattordici salme vennero trasportate al cimitero in attesa della sepoltura, compresa quella di Morandi, che i tedeschi avevano portato via e che il padre Amedeo lottò per riavere. Oramai a Pievecchia non c’era quasi più nessuno. La domenica giunsero due spazzini comunali, con un biglietto del Commissario prefettizio, per seppellire le salme e recar conforto alle famiglie.

Era stata una vera e propria rappresaglia per punire e intimorire la popolazione, per creare panico e far sì che la popolazione non aiutasse e non collaborasse con i partigiani [5][6].

Un comando tedesco si installò a Pievecchia. Don Ferruccio Biffoli, il parroco locale, tentò di mediare con i tedeschi, affinché gli uomini che erano stati portati via potessero tornare a casa, ma invano. Questi però riuscirono a fuggire e a tornare, ma di Ernesto Manzalvi (41 anni, di ignoti), non si sono avute più notizie .

Bisognerà attendere l’11 agosto 1944, data della liberazione di Firenze e, nel caso di Pontassieve, il 21 agosto 1944, per cominciare a ricostruire la memoria della Pievecchia, oggi incisa nel marmo delle lapidi.

Di seguito le vittime della Pievecchia:

Rogai Guido, 46 anni                                                  Masini Dario, 17 anni

Rogai Attilio, 25 anni                                                 Morandi Ruggero, 20 anni

Rogai Aldo, 19 anni                                                    Poggi Guido, 47 anni

Pestelli Ugo, 29 anni                                                   Poggi Paolo, 38 anni

Tacconi Bruno, 17 anni                                               Bulli Giovacchino, 42 anni

Cammelli Guido, 29 anni                                            Pratesi Mario, 31 anni

Montelatici Furio, 29 anni                                          Vitali Alessandro, 36 anni

La memoria di quel triste giorno ci è giunta grazie alla ricostruzione dei fatti scritta dal parroco don Ferruccio Biffoli nel Libro Cronico della Parrocchia, poi ripresa da L’Evangelo della mia Resistenza di don Silvano Bellucci e grazie ai vari testimoni [7].

Le due lapidi e i fori ben visibili nel muro
8 giugno 1945 – la prima
8 giugno 1956

Sul muro della villa ci sono varie targhe, una del primo anniversario (8 giugno 1945), posta in un clima mutato, ma di forte contrapposizione tra l’allora PC e le forze di sinistra contro la DC con la Chiesa [8].

L’anno dopo nascerà la Repubblica in Italia e i pontassievesi, nel territorio, saranno tra i più convinti sostenitori della stessa, nel celebre referendum che, finalmente, vide protagoniste anche le donne.

È solo nel 1947, però, che i 14 martiri trovarono una degna sepoltura: domenica 4 maggio vennero riesumate le salme, benedetti i corpi e, finalmente, sepolti nella cappellina d’uopo presso il cimitero parrocchiale. La popolazione è numerosa alla cerimonia. Non mancarono comunque le polemiche, come quelle di don Biffoli, riguardo il comportamento dei comunisti, numerosi alla commemorazione.  L’8 giugno 1947 verrà poi posta un’altra lapide, a firma del C.L.N [9].

Il 25 aprile 1955 il Comitato cittadino per la celebrazione del decennale della Resistenza consegna ai familiari dei martiri una pergamena in loro memoria e l’anno dopo verrà aggiunta un’ulteriore targa.

Quei tragici fatti hanno portato al conferimento al Gonfalone del Comune di Pontassieve della Medaglia di bronzo al Merito Civile, grazie al decreto del 23 dicembre 2005 dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sancito ufficialmente durante la cerimonia presieduta nel dicembre 2006 dall’on. Ministro Vannino Chiti.

Il Comune ha, inoltre, istituzionalizzato tale giorno e, ogni anno, bambini, giovani e adulti partecipano alla commemorazione di quel triste evento.

È bene ricordare il restauro del muro, inaugurato nel giugno 2008, che ha riportato alla luce l’originario intonaco e i fori dei proiettili, oggi visibili a tutti.

Per il sessantesimo della Liberazione, è stata coniata una medaglia da Cesare Alidori (2004), per i familiari delle vittime. In tale occasione è stata presentata la ballata popolare “Quand’ecco un grido spalancar le stelle”, scritta da Leoncarlo Settimelli, riprodotta in un CD, con testi e musiche che ripercorrono i fatti del 1944 [10].

Sempre con ricorrenza annuale, viene celebrato il raduno dei partigiani e dei giovani a Monte Giovi, un’ulteriore occasione di ricordo e di memoria.

Roberto Smorti, Eccidio alla Pievecchia (Olio su tela, 2007)

 

Note:

  1. Fusi, Francesco, Comunità in guerra: Valdisieve 1940-1944, Pacini, Pisa, 2024, p. 325
  2. Biagioni, Massimo, Achtung! Banditen! L’eccidio di Pievecchia a Pontassieve, Polistampa, Firenze, 2008, pp. 37- 38
  3. Verbale interrogatorio Raffaello Tacconi, vedi Biagioni M., op. cit., pp. 72-77
  4. Biagioni M., op. cit., p.54
  5. Cfr., AA.VV., Il nonno racconta…Memorie della guerra e della resistenza,  Pontassieve, 1999
  6. Cfr., Fusi F., op. cit., pp. 322 e 326-328
  7. Casalini Giovanni, La strage della Pievecchia a Pontassieve, in Del Buffa, Roberto (a cura di), Cronache di guerra fra Arno e Sieve (1943-1944), Pagnini, Milano, 2011, p. 67-68
  8. Biagioni M., op. cit., pp. 87-90
  9. Ivi, pp. 93-119
  10. Ivi, pp. 129-139

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.