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Il contributo di Edoardo Lombardi alla ricerca storica

Il 4 aprile sarà il trentesimo compleanno di Edoardo Lombardi. Vogliamo ricordarlo come lo abbiamo conosciuto: curioso, pieno di interessi, di ricerche da compiere e da progettare. Per questo motivo, riproponiamo l’articolo “In circostanze mai chiarite”, da lui pubblicato su TN il 29 Agosto 2022, con l’introduzione di Luca Cappellini. 

Introduzione (di Luca Cappellini)

Quando si è palesata l’opportunità di introdurre il lavoro di ricerca di Edoardo Lombardi su Toscana Novecento mi sono immediatamente proposto per svolgere questo compito. Edoardo era un caro amico prima che uno stimatissimo collega, e un grande esempio di acume, intraprendenza e competenza. Il compito che mi viene qui richiesto risulta perciò particolarmente semplice, poiché la passione e il lavoro di Edoardo sono da sempre stati assolutamente evidenti, e sebbene riassumere in poche righe ciò che per lui era un minuzioso lavoro quotidiano sia sempre in qualche misura opera indegna, in questo caso evidenziarne i notevoli pregi scientifici è davvero stato semplice e gratificante.
Come ricercatore Edoardo ha continuato a coltivare la sua prima grande passione, maturata durante gli anni universitari, ovvero gli studi germanici. In particolare la sua attenzione era andata progressivamente soffermandosi sulla DDR (Deutsche Demokratische Republik), la cui breve ma densa storia nazionale, a cavallo tra la fine del secondo conflitto mondiale e i prodromi della Guerra Fredda, ha costituito il fulcro della sua tesi di laurea magistrale, poi subito rimodellata per diventare la prima pubblicazione di Edoardo: Uno stato senza nazione: l’elaborazione del passato nella Germania comunista (1945-1953). In questa monografia egli affronta la spinosa questione della creazione ad hoc della storia e della memoria storica nella Germania Est: tramite numerosi fonti primarie – in special modo lo studio di quotidiani come «Neues Deutschland», – e una nutrita bibliografia, Edoardo ricostruisce minuziosamente il difficile tentativo del regime comunista tedesco di forgiare a tavolino un’identità pubblica sincretica.
Accanto alla sua longeva passione per la storia tedesca, Edoardo aveva sviluppato e tradotto nel campo della ricerca storica un altro suo interesse di lungo corso (per altro condiviso col sottoscritto): il gioco di ruolo e i videogiochi. Al culmine di una serie di riflessioni e collaborazioni con AIPH – Associazione italiana di Public History, Edoardo ha curato insieme ad Igor Pizzirusso un numero della rivista «Farestoria» dell’IsrPt: “E’ in gioco la storia. Giocare il passato nel tempo presente”. Il pionieristico obiettivo era quello di portare al centro della discussione della rivista uno dei temi principali nella public history, ovvero la divulgazione storica attraverso il medium ludico.

In ultimo, ma non per importanza, Edoardo aveva approfondito anche temi fondamentali della Resistenza in Toscana, in particolare alcune controversie sulla morte di Silvano Fedi. Dopo un attento studio sui documenti militari negli archivi tedeschi di Friburgo, Edoardo aveva infine proposto le sue tesi nell’articolo “In circostanze mai chiarite”, offrendo nuovi importanti stimoli di riflessione sul tema.

 

Edoardo Lombardi – “In circostanze mai chiarite” – I documenti tedeschi e nuovi appunti sull’uccisione di Silvano Fedi 

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona.

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante.

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe).

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante.

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944.

Edoardo Lombardi (1994-2023) è stato dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 ha collaborato con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale ha svolto attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 è entrato a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio hanno riguardato soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt ha svolto una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022). 

Luca Cappellini è laureato in Scienze Storiche all’Università di Firenze ed è studioso dell’età contemporanea. È docente presso le scuole superiori Mantellate di Pistoia. Fa parte dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia, dove è responsabile della biblioteca e con cui collabora come ricercatore e divulgatore. Ha pubblicato “Genova 2001. Una memoria multimediale” in «Farestoria», III, n.1, 2021; ha pubblicato con Stefano Bartolini e Francesco Cutolo “Public History: laboratori partecipativi e memoria pubblica”, in «Clionet», Vol. VII, (2023).

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Le Scuole Leopoldine, scenario di violenze e anticamera della deportazione nei lager nazisti.

Nei resoconti che parlano della secolare storia delle Scuole Leopoldine di piazza Santa Maria Novella a Firenze, dove oggi si trova il Museo Novecento, difficilmente si scopre ciò che vi accadde nel 1944, quando l’edificio fu requisito dalle truppe germaniche di occupazione. Pochi sanno che qui, come reazione furente allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944 indetto dal Comitato di Liberazione nazionale, furono concentrati, interrogati, registrati e quindi deportati nel lager nazista di Mauthausen le lavoratrici e i lavoratori scioperanti, arrestati dai militi della Repubblica Sociale Italiana insieme a persone rastrellate per strada in modo indiscriminato a Firenze e in provincia, in particolare nel pratese e nell’empolese[1].
Prima esplicita opposizione di massa al fascismo, questo sciopero è considerato dagli storici, per le sue dimensioni e ripercussioni, uno degli eventi più straordinari della resistenza civile europea. Alcune fonti stimano circa 500.000 aderenti. Gli organizzatori parlarono di un milione di partecipanti, le autorità nazifasciste di circa 200.000[2]. Le reazioni dei nazisti e dei fascisti repubblicani furono immediate. Nonostante la rinuncia ad eseguire l’ordine di Hitler di deportare il 20% degli scioperanti, derivante dalle condizioni in cui si trovavano le forze occupanti e dalla volontà di evitare azioni che avrebbero prodotto sollevazioni popolari ancora maggiori[3], i costi umani furono elevati, anche a causa della complicità e fattiva collaborazione della milizia fascista e di una parte dei dirigenti d’azienda.
Per i nazisti, ogni occasione di repressione e pretesto di rappresaglia era utile per deportare in massa uomini e donne in grado di lavorare a favore dell’industria bellica del Reich. Oltre a costituire un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile, le deportazioni avevano infatti anche l’obiettivo di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù.
In Toscana[4], come nel resto dell’Italia centro-settentrionale, la repressione fu dura: i rastrellamenti furono indiscriminati, si arrestarono gli operai che avevano scioperato ma anche quelli che non avevano scioperato, nonché impiegati, professionisti e perfino ignari passanti[5]. I fascisti effettuarono i rastrellamenti a Empoli, a Prato e nel centro di Firenze, soprattutto nel rione di San Frediano. Del rastrellamento e «invio in Germania di alcune centinaia» troviamo traccia nel rapporto della Militärkommandantur (Comando militare) di Firenze del 13 marzo 1944, in cui si parla dell’arresto di «elementi perturbatori pericolosi» e si sottolinea «l’energico intervento delle autorità italiane». Inquietante è inoltre il riferimento alla preparazione di «liste»[6], che furono in effetti messe a punto da molte aziende in cui erano avvenute astensioni dal lavoro[7].
Centinaia furono i fermati in provincia, arrestati per strada, prelevati da casa o direttamente dalle fabbriche e rinchiusi in luoghi di raccolta (spesso nelle caserme dei Carabinieri o nelle Case del Fascio, a Prato nella Fortezza medievale del Castello dell’Imperatore, sede della Guardia Nazionale Repubblicana), dove avvennero le prime selezioni. Gli arrestati in provincia furono poi portati a Firenze con i pullman o con degli autocarri, e «scaricati» davanti al grande edificio delle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella, centro di raccolta regionale dove erano state già condotte le persone rastrellate in città. Molti sopravvissuti al loro ritorno dai lager hanno riferito del grande beffardo cartello che era affisso sul palazzo: «Operai volontari per la Germania».
Documenti originali che si trovano all’Archivio Storico del Comune di Firenze, emersi solo molto recentemente grazie alla collaborazione dell’Archivio stesso, attestano che le autorità tedesche di occupazione che avevano requisito l’edificio, lo avevano classificato come «Sammellager», cioè letteralmente ‘campo di raccolta’[8], facendo sì che anche questo edificio entrasse a far parte dell’articolato sistema concentrazionario nazista. Alle Scuole Leopoldine si svolsero nei giorni 7 e 8 marzo 1944 le prime schedature e i primi interrogatori da parte delle SS, aiutati da un interprete. Ebbe un ruolo importante anche il Reparto Servizi Speciali della RSI comandato dal criminale fascista Mario Carità, che molti testimoni dicono di aver visto in quei giorni nei corridoi e nelle aule dell’edificio. Alcuni fermati furono rilasciati grazie ad interventi vari, altri ancora riuscirono a fuggire. La mattina dell’8 marzo 1944 la piazza era gremita di persone alla ricerca di notizie dei propri familiari. Le donne, pur avendo partecipato in gran numero allo sciopero, vennero escluse dalla deportazione[9] e rilasciate, mentre 338 uomini furono portati nel pomeriggio alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella poco distante e, stipati nei vagoni piombati già predisposti, deportati nel lager di Mauthausen (dove arrivarono l’11 marzo) e nei suoi sottocampi, tra i più terribili dell’intero sistema concentrazionario nazista. Sopravvissero in 64, cioè il 19%.
Poco è pubblicato nei libri di storia locale sull’argomento delle Scuole Leopoldine come centro di raccolta degli arrestati nel marzo 1944, la cui vicenda è documentata al Museo della Deportazione e Resistenza di Prato[10]. Molto si trova però nella memorialistica, in particolare all’interno del corpus di interviste ad ex-deportati raccolte dal Prof. Andrea Devoto alla fine degli anni ’80 in collaborazione con l’ANED[11], l’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti, nelle sezioni di Firenze, Prato, Empoli e Pisa, che si adopera da decenni per conservare la memoria della deportazione politica.
Il 6 marzo 2017, la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, in collaborazione con l’ANED Toscana, l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, il Comune di Firenze/Museo Novecento e la Regione Toscana, ha realizzato per la prima volta negli spazi del Museo Novecento (Ex Scuole Leopoldine) un evento di approfondimento storico dal titolo La memoria di un luogo: marzo 1944, arresti e deportazione, cui è seguita la lettura teatrale, a cura del Teatro d’Almaviva, di brani di interviste a testimoni sopravvissuti ai lager. Tra queste si ricorda quella di Roberto Castellani, per molti anni presidente della sezione ANED di Prato:

Noi (di Prato) ci presero e ci portarono in Fortezza, lì dai repubblichini, poi ci prese un pullman e ci portarono in piazza Santa Maria Novella alle Scuole Leopoldine, la sera; s’arrivò lì e trovai altre persone che erano già state prese a Prato e tra questi ci trovai anche il Pitigliani, che lui era ebreo, pensi che situazione! Lo conoscevo. Disse «Oh Castellani, ci sei anche te?» E io ebbi un po’ di paura e dissi: «Icché ci fanno?» «Eh, non ci fanno nulla, stai tranquillo domani ci mandano via tutti, o forse, dice, ci manderanno a fare dei fossati a fare delle trincee». Viene la mattina presto un maresciallo delle SS e ci fanno un interrogatorio, persona per persona. Mi chiamano, e mi domandano «Te che hai fatto lo sciopero?» «Sì», I’avevo fatto, non avevo mica nulla da nascondere, dice «Che mestiere tu fai?» «Lavoro alle filande» «Va bene, lo sai, dice, che è proibito fare lo sciopero?» «Mah, io non lo so, mi dissero di fare festa e feci festa, ecco», e basta. Mi dissero «Vai via» e mi mandonno via; suppergiù le solite domande le fecero a tutti. La mattina dell’8 marzo arrivarono tanti altri, tanti tanti, più che la sera, furono presi nelle fabbriche…[12] .

Fiorello Consorti, altro testimone, ricorda:

E invece la mattina dissero: «Mettetevi lì!» Ci si mise lì, ce n’era degli altri: s’aspettò e poi ci portarono via. Fui uno degli ultimi ad essere preso, e ci portarono in fortezza … poi ci portarono a Firenze, in questa scuola qui, c’era scritto «Lavoratori volontari», un cartellone di propaganda … fanno come tutti, vede: loro fanno uguale: mettono i cartelli per far credere quello che vogliono ma invece non è in quella maniera. Ci scaricarono tutti lì, perché gli autobus li appoggiarono a quegli scalini, aprivano gli sportelli, un repubblichino fuori col mitra, e ci scaricarono tutti sul sagrato e ci misero dentro, e dentro c’era un cortile col loggiato[13].

Anche Alberto Ducci, per molti anni presidente della sezione ANED di Firenze, era stato portato alle Scuole Leopoldine. Questi i suoi ricordi:

E così la mattina ci han fermato in piazza Dalmazia a Firenze e ci hanno chiesto i documenti a tutti e tre: gli altri due li hanno rimandati, e me mi hanno detto che dovevo seguirli perché il prefetto mi doveva parlare. Questi documenti li han controllati in un elenco che avevano questi repubblichini, dopo di che mi han fatto salire su un camion militare, dove ho trovato altri repubblichini con tanto di mitra, e altri sventurati, una decina o 12, ci hanno portato giù alle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella. C’erano tantissime persone, mi ricordo questo: di un certo Ballerini, di Campi, che fin dall’inizio cercò di farci un po’ di coraggio. Ricordo ci trovai un repubblichino di Bagno a Ripoli, un certo Calosi, e mi permisi di dirgli, «Guardi, la mi conosce, io non ho fatto nulla» e lui mi gridò che ero un traditore, insomma, e roba del genere, e quindi non ci fu nulla da fare: anzi, poi dissero che ci avevano messo nel gruppo delle facce sospette, giù, mentre si scendeva dalle aule che eravamo ai piani superiori, ci sistemarono a gruppi giù in questa specie di giardino al piano terra, e di lì dissero che eravamo delle facce sospette, ci fecero partire a gruppi, non mi ricordo, di 15, di 20, per farci salire sui camion, e quando passavamo davanti ci sputavano addosso, insomma, ce ne facevano di tutte[14].

Questo invece il racconto di un altro presidente della sezione ANED di Firenze, Mario Piccioli:

Fui preso, perché il giorno avanti presero mia madre che lavorava alla cartiera Cini in via Arnolfo. Lì c’era una grande fabbrica di cartotecnica e grafica, e appunto per gli scioperi che fecero furono prese diverse, che erano quasi tutte donne. E difatti la sera noi s’era a casa, e questa donna la ‘un tornava. E allora, che si fa, che non si fa? Dopo la mia zia ci avvisò che queste donne erano state portate alle Scuole Leopoldine in Piazza Santa Maria Novella. […] Quando siamo dentro alle scuole (un repubblichino) mi porta su; queste donne l’erano tutte in un’aula, no? e quelle altre erano piene di uomini che avevano preso da Prato, da Empoli, dalle fabbriche. Mi buttarono dentro un’aula con loro. Dopo un poco, gli fo a un carabiniere. «Per piacere, sento piangere, c’è una stanza dove ci sono delle donne, ci deve essere anche la mi’ mamma, sicché già che sono qui …». M’accompagnò. Difatti c’erano tutte le donne della fabbrica e c’era anche mia madre ma passarono solo due minuti perché mi sentii riacchiappare per il colletto e portare via. Poi mi portarono da una signorina a una macchina da scrivere, era tedesca, ma parlava un poco d’italiano, e ci chiedeva i connotati e scriveva. Verso mezzogiorno ci dettero, a quell’epoca c’era i filoncini lustri di 300 grammi, un filoncino per uno e un pochino di formaggio. Allora si cominciò a dire, non ci lasciano andare, perché ci danno da mangiare! E difatti dopo un po’ venne uno della milizia: «Voi traditori della patria pagherete caro!». Chiamarono 20 di noi, io non c’entrai fra questi, loro andarono via e noi si aspettò. Dopo quello della milizia ritorna, la solita musica: altri 20 e io entrai in questa mandata. La piazza era piena e c’era preparato un camion con quattro Tedeschi, uno per lato, e noi 20 ci buttarono sopra; imboccarono da piazza Santa Maria Novella, quella stradina lì, Via degli Avelli, poi al bagagliaio della stazione dalla parte di dietro, di via Alamanni. Salirono su con questo camion e s’andette proprio dentro alla stazione. E lì c’era un mare di Tedeschi, una tradotta bell’e preparata, tutto il convoglio, e ci buttarono dentro un vagone bestiame[15].

Tra gli arrestati c’era inoltre Piero Scaffei, che a proposito delle vicende del marzo 1944 ricorda:

Ecco, una volta entrato nelle Scuole Leopoldine, dove c’è gli archi, dove ora c’è la nostra lapide, non si riuscì più. Mi presentai lì, c’era una signorina a un tavolo, tedesca, non so, o italiana che parlava il tedesco, questo non lo so. Dalle Scuole Leopoldine montai sul camion anch’io e mi portarono alla stazione di Santa Maria Novella […]. C’era i carri bestiame già tutti pronti, brum. Carri bestiame, niente, nudi e crudi. Tutti s’aspettava, tutti pensavano, «Ci manderanno a Cassino a fare trincee” perché il fronte era a Cassino in quel momento. Poi quando vidi che si andava verso Prato dissi “ma qui si va in su, si va al nord»[16].

È importante che cittadini, turisti e studenti conoscano questo luogo della memoria, poco noto come tale. Nonostante una piccola targa, posta sulla parete interna del loggiato, renda il giusto omaggio alle vittime, occorre spiegare cosa avvenne al suo interno. La memoria passa infatti anche attraverso la conoscenza di edifici che, come questo, furono scenario di persecuzione e anticamera dell’estrema violenza e della morte nei lager.

 

Note

1. Si veda sul tema il saggio da cui sono tratte parti del presente contributo: C. Brunelli e G. Nocentini, La deportazione politica dall’area Firenze, Prato ed Empoli, in Il libro dei deportati. Volume II. Deportati, deportatori, tempi, luoghi, a cura di B. Mantelli, Mursia, Milano 2010, pp. 620-658.
2. L’importanza dello sciopero fu compresa già allora dalla stampa statunitense. Il 9 marzo 1944 il “New York Times” (che parlò di svariati milioni di scioperanti) scrive: «In fatto di dimostrazioni di massa non è mai avvenuto nulla di simile nell’Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani». Anche il giudizio degli storici dei nostri tempi non differisce molto da questa analisi: «Come dimostrazione politica, lo sciopero generale ebbe una grandissima importanza. Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. Fu il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti». Si veda L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 225.
3. Ivi, pp.221-222. Si veda anche, a questo proposito E. Collotti, L’occupazione tedesca in Toscana, in Storia della Resistenza in Toscana, vol. I., a cura di M. Palla, Carocci, Roma 2006, pp. 85-146.
4. Per maggiori informazioni sugli scioperi in Toscana si rinvia a: F. Taddei, Il Pignone di Firenze 1944/1954, La Nuova Italia Editrice (Toscana Sindacato), Firenze 1980; in particolare L. Malgalaviti, Il Pignone tra Resistenza e ricostruzione, pp.119-144, che a p.128 testimonia come alle famiglie dei deportati il Pignone avesse inviato il 27 marzo 1944 lettere di licenziamento per «assenza arbitraria dal lavoro». Si vedano inoltre: L. Mancini, Le sigaraie: lavoro e organizzazione produttiva nella Manifattura tabacchi di Firenze fra Resistenza e dopoguerra, in Ricerche storiche, Edizioni Polistampa, Firenze gennaio-aprile 2004; Era la Resistenza. Il contributo di Empoli alla lotta contro il fascismo e per la liberazione, a cura di P. L. Niccolai e S. Terreni, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1995; M. Carrai, Lotte sindacali e democrazia: 1919-1948, p. 122, in La tradizione antifascista ad Empoli 1919-1948, atti del convegno (Empoli, 23 aprile 2004), a cura di P. Pezzino, Pacini Editore, Pisa 2005; M. Di Sabato, Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich, Editrice Nuova Fortezza, Livorno 1987.
5. Gli stessi occupanti, nel rapporto della Militärkommandantur di Firenze del 13 aprile 1944 a poco più di un mese dal giorno della deportazione, ammisero che «un notevole numero (…) di italiani, del tutto innocenti, è stato deportato in Germania senza ragione». Toscana Occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen, introduzione di M. Palla, Leo S. Olschki, Firenze 1997, p.143.
6. «Incitati dalla propaganda nemica e inaspriti dalla penuria di generi alimentari i lavoratori hanno tentato di scioperare anche nella provincia di Firenze, particolarmente a Prato, ad Empoli e nella stessa Firenze in diverse fabbriche. L’energico intervento delle autorità italiane, sollecitate dal Comando militare, e in particolar modo l’invio in Germania di alcune centinaia tra gli elementi perturbatori più pericolosi hanno fatto sì che l’agitazione ben presto rientrasse e il lavoro venisse ripreso. Attualmente nelle aziende nelle quali si è scioperato si preparano liste di nominativi degli scioperanti e tra questi si segnalano in particolar modo i sobillatori, allo scopo di poter disporre di materiale per arresti per future occasioni». Ivi, p. 116.
7. Esempi di liste con nomi di operai scioperanti sono conservate in copia al Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Figline di Prato.
8. Si veda presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze (ASCFi), Fondo Scuole Leopoldine, Affari spediti 1944, coll. SL 91, in particolare il documento a firma del tenente colonnello della Wehrmacht Gieseke del Comando germanico di Piazza di Firenze riguardante la «Requisizione di edifici per scopi di impiego nel lavoro» (Arbeitseinsatzzwecke). Di seguito la traduzione testuale della lettera datata 2 marzo 1944: «Le Scuole Leopoldine a Firenze Piazza Santa Maria Novella n. 10 sono da subito requisite per la Wehrmacht tedesca. La scuola è a disposizione della sezione amministrativa militare del lavoro come campo di raccolta (Sammellager) per manodopera italiana destinata al trasferimento in Germania».
9. Si veda il racconto di Mario Piccioli, contenuto in M. Piccioli, Da San Frediano a Mauthausen, a cura di B. Confortini, comune network, Firenze 2007.
10. Il museo, voluto fortemente dai sopravvissuti pratesi ai lager di Mauthausen ed Ebensee e inaugurato il 10 aprile 2002, è una delle poche strutture in Italia ad essere dedicata in modo specifico alla memoria della deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
11. cfr. La Speranza Tradita. Antologia della deportazione politica toscana, a cura di I. Verri Melo, Pacini Editore, Giunta regionale Toscana, Firenze 1992, con un’appendice inserita nella seconda edizione del febbraio 2014, a cura della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato con le biografie dei testimoni intervistati, tra cui quelle che seguono nelle note.
12. Operaio al lanificio San Martino di Prato, fu arrestato in piazza San Francesco a Prato il 7 marzo 1944 nell’ambito di una retata effettuata in seguito agli scioperi. Come molti altri pratesi, Castellani si era recato nel centro cittadino per verificare gli effetti di un bombardamento alleato che si era abbattuto sulla città. Detenuto nella Fortezza di Prato (sede della Guardia Nazionale Repubblicana) e alle Scuole Leopoldine di Firenze, a Mauthausen fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.027. Il 25 marzo 1944 venne trasferito al sottocampo di Ebensee dove fu assegnato ad una squadra che curava i giardini delle SS. Successivamente, dopo aver disertato il lavoro per restare accanto ad un amico malato, fu inviato per punizione a lavorare nelle gallerie. Liberato ad Ebensee il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, è stato un testimone instancabile, prodigandosi per l’istituzione del gemellaggio della pace tra Prato ed Ebensee e per la creazione del Museo della Deportazione di Prato. R. Castellani, Intervista del 20 aprile 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20. 28.
13. Rivedibile alla visita di leva, Fiorello Consorti lavorava come operaio in una ditta tessile a Prato. Arrestato da un carabiniere e dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana l’8 marzo 1944 in via Mazzoni, fu detenuto nella Fortezza di Prato (sede GNR) e alle Scuole Leopoldine di Firenze. Arrivato a Mauthausen, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevendo il numero di matricola 57.076. Trasferito al sottocampo di Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice, fu liberato il 6 maggio 1945 dagli americani. F. Consorti, Intervista del 24 giugno 1988, in Fonti, 4. 9. 14. 16. 20.
14. Ducci, che al momento dell’arresto lavorava come operaio, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft) a Mauthausen, dove ricevette il numero di matricola 57.101. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò dapprima all’ampliamento del campo e successivamente nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. A. Ducci, Intervista del 22 marzo 1988, in Fonti 4. 9. 16. 19. 20.
15. Commesso in una pizzicheria, Piccioli fu arrestato la mattina dell’8 marzo 1944 da un agente in borghese della Guardia Nazionale Repubblicana in piazza Santa Maria Novella, dove si era recato per cercare la madre, arrestata la sera prima per aver partecipato allo sciopero e reclusa nel centro di raccolta alle Scuole Leopoldine. La madre fu rilasciata insieme alle altre donne. Mario invece fu deportato lo stesso giorno nel campo di concentramento di Mauthausen. Numero di matricola 57.344, fu classificato come deportato politico (Schutzhaft). Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove fu assegnato al lavoro nelle gallerie come operaio semplice. Il 10 settembre 1944 venne trasferito nel sottocampo di Linz III e impiegato in lavori esterni, soprattutto nel trasporto merci. Durante un bombardamento alleato alla fine del 1944 il rifugio della sua squadra di lavoro venne colpito. Di trentadue uomini se ne salvarono solo quattro, tra cui Mario, che, ferito ad una gamba, fu trasferito in infermeria. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. M. Piccioli, Intervista del 28 gennaio 1988, in Fonti 4. 8 n.3-5/2010. 9. 16. 20. 23. 28.
16. Arrestato l’8 marzo 1944 in piazza Santa Maria Novella, Scaffei fu deportato lo stesso giorno. Classificato come deportato politico (Schutzhaft), ricevette il numero di matricola 57.399. Il 25 marzo 1944 venne trasferito ad Ebensee, dove lavorò come manovale all’esterno delle gallerie. Il 16 maggio 1944 fu ricoverato in infermeria in seguito ad un’infezione alla mano e successivamente trasferito nel Sanitätslager (infermeria) di Mauthausen. Probabilmente a metà agosto 1944 venne nuovamente trasferito a Linz III. Liberato il 5 maggio 1945 dall’esercito americano, si è adoperato attivamente per tenere viva la memoria della deportazione. P. Scaffei, Intervista del 21 gennaio 1988, in Fonti 4. 9. 16. 20.

Articolo pubblicato nel marzo 2024.




Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).

Articolo pubblicato nel febbraio 2024.




Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.

Articolo pubblicato nel febbario 2024.




Guerra aerea su Siena.

…Durante una mia udienza privata nel periodo “tedesco”, entrò emozionatissimo nello studio del Papa il prelato di servizio, recando copia di un telegramma: gli Alleati avevano bombardato Siena, danneggiando anche alcune importanti chiese della città. Pio XII ne fu ovviamente rattristato ma il tenore del messaggio gli sembrava strano nella penna di un arcivescovo (il bieco nemico, la perfida Albione e così via). Solo alla fine si svelò l’equivoco: il mittente non era l’arcivescovo Toccabelli, ma il segretario federale repubblichino della provincia toscana – se non ricordo male, si chiamava Chiurco – che non domandava benedizioni ma, più o meno, pregava il Pontefice di stramaledire gli inglesi…

 

Un curioso aneddoto quello ricordato da Giulio Andreotti nelle proprie memorie, in grado di riassumere in sé molte delle contraddizioni riguardanti la complessa vicenda dei bombardamenti aerei sulla città di Siena.

Caso particolare, quello senese, che vide il capoluogo e la provincia risparmiati dalle distruzioni delle bombe dal cielo fino alle ultime settimane del 1943, quando tutto intorno le città della Toscana e dell’Italia pagavano a caro prezzo l’impreparazione con la quale il regime fascista aveva portato in guerra il paese. Favorita da una posizione geografica defilata e da un numero ridotto di obiettivi strategici sul proprio territorio, Siena conservò la propria inviolabilità per tutta la prima parte del conflitto mondiale, ma da tale vantaggio nacque l’errata convinzione, condivisa tanto dagli abitanti quanto dalle autorità fasciste, che nessun ordigno sarebbe caduto all’ombra della Torre del Mangia. Fiducia mal riporta quella della cittadinanza, ingenuamente convinta che una sorta di protezione divina avvolgesse la città, i suoi monumenti e abitanti. Direttamente responsabili le autorità civili e militari, sostanzialmente inoperose fino alla fine del 1942 e conseguentemente colte impreparate dall’intensificarsi della guerra aerea sulla penisola italiana, cui tentarono di riparare avviando la costruzione di rifugi antiaerei spesso mai completati e comunque inadeguati a offrire una reale protezione ai propri avventori.

La caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la sua rinascita in veste repubblicana l’8 settembre seguente arrecarono ulteriori danni alla già improvvisata organizzazione antiaerea provinciale. I pochi militi prima presenti lasciarono la divisa e dovettero essere rimpiazzati; la costruzione dei ricoveri pubblici venne arrestata nella speranza che l’armistizio con gli Alleati significasse la fine del conflitto; le sirene di allarme, posizionate nei centri nevralgici della città per avvertire gli abitanti in caso di pericolo, non ricevettero la necessaria manutenzione e finirono per rompersi. I rappresentanti della nuova Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini assieme ai suoi sostenitori più fedeli e retta dalle armi tedesche, riattivarono la rete di avvistamento attorno alla città istituendo nuove postazioni di osservazione in località sopraelevate e sulla Torre del Mangia; per allertare i cittadini in caso di pericolo, mobilitarono tamburini delle contrade e parroci delle chiese cittadine; per tranquillizzare una popolazione sempre più intimorita dalla minaccia dei bombardamenti, rinnovarono la donazione simbolica di Siena alla Madonna, come fatto in passato nei momenti più bui della secolare storia cittadina. Come ha scritto Nicola Labanca, «mentre la guerra si fa moderna e novecentesca, i fascisti di Siena rispond[evano] con il medioevo».

Gli Alleati, intanto, bloccati nella propria avanzata verso il Nord all’altezza del fronte di Cassino durante le ultime settimane del 1943, lanciavano nel gennaio 1944 una massiccia campagna di bombardamenti volti a disgregare le strutture di rifornimento tedesche.

In tale contesto si inseriva il ricordo di Andreotti, testimone della particolare richiesta di aiuto inviata al pontefice dal prefetto senese Giorgio Alberto Chiurco dopo il primo bombardamento subito dalla città il 23 gennaio 1944. Indirizzata nella zona della stazione ferroviaria, comunque mancata dagli ordigni, l’incursione aveva interessato i quartieri periferici a sud-est della città, producendo alcune decine di feriti e 25 vittime. La posizione decentrata dello scalo ferroviario, collocato in quella che allora era aperta campagna, fece sì che il lancio errato dei bombardieri non travolgesse il centro cittadino. Il rischio di nuove incursioni si dimostrò tuttavia concreto già il 29 gennaio, quando un nuovo attacco alleato portò alla distruzione della stazione centrale e al pesante danneggiamento del vicino aeroporto di Ampugnano.

Di fronte al pericolo di nuove incursioni sullo scalo ferroviario, prontamente riattivato per garantire il transito dei rifornimenti tedeschi verso Cassino, la scelta delle autorità fasciste repubblicane fu di provare la strada della diplomazia internazionale.

Richiamandosi alla Convenzione dell’Aja del 1907, tentarono così di far riconoscere a Siena la qualifica di città aperta, prevista per quelle località che non si fossero trovate in prossimità di obiettivi strategici di rilevanza militare e, soprattutto, che non avessero ospitato al proprio interno reparti combattenti. Preoccupato di mantenere il controllo su un territorio provinciale sempre più tenacemente contesogli dalle forze partigiane, il prefetto Chiurco aveva tuttavia accasermato nel capoluogo un numero crescente di truppe da impiegare nelle operazioni di controguerriglia, mentre i locali comandi germanici mantenevano il proprio posto nel centro cittadino o nelle sue prossimità, non consentendo peraltro alcuna deviazione del traffico ferroviario transitante dallo scalo senese.

In risposta al problema venne fatto ricorso alla non meglio precisata formula di “città ospedaliera”, promuovendo la versione di una Siena rifugio per profughi e malati – come in parte era – e priva al contempo di reparti armati, caserme, comandi militari, in realtà ancora presenti all’interno del territorio urbano e, anzi, destinati a crescere in numero nelle settimane successive.

Sbarrate le vecchie porte di accesso alla città, dipinte grandi croci rosse su fondo bianco nella piazza del Campo e sui tetti degli ospedali del centro, il caso di Siena fu portato all’attenzione della Santa Sede con la preghiera di interessare al riguardo i comandi angloamericani. Questi rilevarono tuttavia l’impossibilita di conferire qualsiasi riconoscimento alla città, a causa della sua funzione di collegamento tra il Nord e il Sud della Toscana e stante anche l’uso militare fatto dai tedeschi delle vicine linee ferroviarie e stradali. Pure le generiche rassicurazioni fornite circa la possibilità di salvaguardare i monumenti e i feriti presenti nel centro storico, sarebbero rimaste strettamente subordinate “all’azione che possa essere richiesta dalla situazione militare”, lasciando intendere che qualsiasi decisione sarebbe dipesa dall’evolvere del contesto bellico, che vedeva in quel momento i tedeschi impegnati a far affluire rifornimenti di armi e uomini verso il fronte, attraverso i collegamenti stradali e ferroviari della città. La comunicazione giungeva agli inizi di marzo.

Il perdurare dello stallo creatosi lungo la linea dei combattimenti, ancora ferma a Cassino nonostante il tentativo di sbarco attuato ad Anzio dagli Alleati alla fine di gennaio, aveva intanto contribuito a fare nuovamente di Siena un bersaglio dei bombardieri statunitensi.

Delle incursioni erano state condotte sulla città a gennaio e, poi, l’8 e il 16 febbraio, con la popolazione civile sempre più disperatamente aggrappata alla speranza in un buon esito delle trattative diplomatiche, che la stampa fascista presentava come ancora possibili. Dalle autorità di Salò, tuttavia, non furono intraprese iniziative in tal senso. Senza risposta rimasero anche gli appelli indirizzati dal prefetto Chiurco a Mussolini, per una presa di posizione pubblica in favore di Siena che non sarebbe mai arrivata.

Da parte loro, i comandi alleati ribadirono il 3 aprile che nessun riconoscimento sarebbe stato accordato a Siena, la cui rilevanza come centro di comunicazioni faceva sì che qualsiasi decisione al riguardo dovesse essere subordinata alle necessità militari del momento.

Mentre tutta la provincia era ormai interessata dall’azione dei cacciabombardieri statunitensi, Siena subiva l’11 aprile un nuovo, pesante bombardamento. Colpita e distrutta la stazione ferroviaria, anche le zone limitrofe di piazza d’Armi, dell’Antiporto e porta Camollia furono investite dai lanci dei bombardieri. Se i residenti in prossimità di Camollia poterono rifugiarsi nel ricovero costruito sotto la porta – peraltro con criteri che lo rendevano inadatto a resistere all’urto dei pesanti ordigni utilizzati dagli americani – quelli della zona di piazza d’Armi e della stazione non ebbero altre alternative se non disperdersi nelle vicine campagne. I morti furono almeno 13, i feriti una quindicina. Le squadre di primo soccorso, prive di equipaggiamento e mezzi meccanici, continuarono a scavare tra le macerie dello scalo ferroviario fino al sopraggiungere della notte per trarre in salvo i civili rimasti imprigionati.

Un nuovo attacco il 14 aprile seguente procurava la distruzione del deposito locomotive e nuovi danni a ciò che restava della stazione.

Quelli che sarebbero rimasti impressi nella memoria locale come gli ultimi bombardamenti aerei su Siena confermarono il fallimento del progetto della cosiddetta “città ospedaliera”, rivelatosi strumento propagandistico utile a tranquillizzare la popolazione civile e distoglierne l’attenzione dai gravi problemi attanaglianti la sempre più traballante struttura di governo fasciata, pressata dalle insistenti richieste dell’alleato-occupante tedesco, indebolita dai contrasti interni al fascismo repubblicano, screditata dai successi militari dei partigiani nelle campagne.

Nel maggio seguente, l’imponente offensiva delle forze alleate sfondava infine le difese tedesche sulla linea di Cassino. Mutato il contesto bellico e concretizzatasi la prospettiva di una rapida avanzata verso Nord, gli Alleati non portarono nuovi attacchi alla stazione ferroviaria senese, il cui utilizzo si rivelava adesso fondamentale per l’afflusso di uomini e materiali verso l’Italia settentrionale. Sarebbero stati al contrario i guastatori tedeschi, prima della ritirata, a distruggere i pochi vagoni e binari sopravvissuti alle incursioni aeree dei mesi precedenti, lasciando Siena e i suoi abitanti nella condizione di dipendere dai rifornimenti alleati per la propria sopravvivenza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giulio Andreotti, A ogni morte di Papa. I Papi che ho conosciuto, Rizzoli, Milano 1980;

Claudio Biscarini, Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944, Del Bucchia, Massarosa 2008;

Michelangelo Borri, La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche, Il Leccio, Monteriggioni 2019;

Nicola Labanca (a cura di), I bombardamenti aerei sull’Italia: politica, stato e società (1939-1945), Il Mulino, Bologna 2012.




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.




Razzia e repressione

Nonostante inizi, il giorno 2, con la dichiarazione con cui il Comitato toscano di liberazione nazionale aderisce agli obiettivi politici sanciti dal Comitato nazionale di liberazione nazionale, affermando un’idea di guerra di liberazione quale lotta politica, e non solo fatto militare, per l’affermazione di una nuova Italia, il mese di novembre svela ai fiorentini tutto il peso, la gravità e la crudeltà dell’occupazione nazista e del collaborazionismo fascista.

La città, dopo aver conosciuto il dramma della guerra totale fra le proprie case con il bombardamento alleato del 25 settembre, inizia a conoscere gli effetti violenti del nuovo governo di Salò. I fascisti iniziano la caccia ai nemici, a coloro che qualificano come traditori della nazione, identificata con il fascio littorio, da colpire per vendicare l’onore macchiato dall’armistizio, ma anche per dimostrare alla popolazione e all’alleato tedesco la propria capacità di gestire l’ordine e quindi amministrare il territorio. E non solo le pagine dei propri organi di stampa. Anche perché a capo delle istituzioni vanno esponenti del primo squadrismo, dell’estremismo più radicale, spesso messo ai margini negli anni del ventennio, come il capo della provincia Raffaele Manganiello (prefetto dal 1° e capo della federazione fascista dal 5 ottobre) e Gino Meschiari capo del PNF fiorentino. Questi si appoggiano a gruppi armati come la “banda Carità”, mentre sono riorganizzati con specifici arruolamenti il battaglione “Muti” e la “Decima MAS”; mentre fin da settembre non erano mancati arruolamenti diretti nelle SS italiane a servizio dei nazisti.
Proprio agli uomini di Carità vengono affidati i compiti più spietati della repressione. Questi, peraltro, dopo le prime sconfitte subite nelle settimane precedenti in ottobre, lungo le pendici di Monte Morello, negli scontri con i primi gruppi partigiani, hanno spostato nel contesto urbano il centro della propria azione, privilegiando avversari meno preparati rispetto agli uomini alla macchia, pur nei loro disorganizzati esordi.

Ad inizio novembre, mentre il CTLN è riunito per varare la dichiarazione sulla guerra antifascista, arriva la notizia della cattura del primo Comando militare del Comitato toscano di liberazione nazionale da parte degli uomini di Carità; era composto dal generale Salvino Gritti presidente, col. avv. Leonardo Mastropierro, Aldobrando medici Tornaquinci, ten. col. Guido Frassineti, Paolo Barile, cap. Vasco Baratti, Alessandro Sinigaglia, avv. Adone Zoli; soltanto Tornaquinci e Sinigaglia sfuggono fortunosamente alla cattura.
È una grave sconfitta della Resistenza frutto dell’inesperienza delle pratiche di guerriglia urbana e accredita rapidamente la fama nefasta di carità fra le vie della città. Le conseguenze non sono banali. Solo nella tarda primavera del ’44 si ricostituirà di nuovo un comando militare unitario, mancando quindi per mesi un centro di coordinamento effettivo per le azioni in città (che certo sarebbe stato utile anche a gestire tensioni che pure si erano manifestate anche in ottobre quando i comunisti avevano sottratto agli azionisti numerose armi sottratte precedentemente nei depositi). Pur non venendo mai meno il confronto e la coesione politica nel CTLN, rispetto alla lotta armata in città i partiti portano avanti strategie molto diverse, in primo luogo fra chi agisce e chi no, limitandosi in questa fase ad un’azione politico-propagandistica, pur fondamentale. Fra i primi, gli aderenti al partito d’azione puntano, oltre che sull’assistenza agli ex prigionieri alleati, sulla costruzione di radio clandestine e su un’attività di supporto informativo agli Alleati, alla quale contribuiscono diverse donne che svolgono ruoli essenziali come “staffette”, come Maria Luigia Guaita, Orsola De Cristofaro, Anna Maria Enriques, Ada Tenca, effettuando collegamenti fra le varie cellule del partito e distribuendo le informazioni indispensabili per le attività. Invece, i comunisti organizzano i gruppi di azione patriottica: piccolissimi gruppi armati, composti da uomini di provata fede, pronti a morire per compiere azioni eclatanti di notevole valore simbolico tese a svelare il mancato controllo del territorio da parte di nazisti e fascisti. Loro caratteristica essenziale deve essere la segretezza, necessaria, in caso di cattura, a proteggere l’insieme dell’organizzazione.

Mentre le forze antifasciste devono riorganizzarsi dopo il duro colpo subito, gli uomini di Carità si scatenano contro la comunità ebraica fiorentina. All’alba del 6 novembre l’assalto alla Sinagoga da parte di elementi nazisti e fascisti di via Farini segna l’inizio della “caccia all’ebreo”, agevolata da registri e elenchi prodotti dall’amministrazione fascista a seguito delle leggi razziste del 1938. Ai primi arresti si accompagnano le distruzioni degli arredi del Tempio. Le razzie portano alla cattura di circa 300 ebrei nel corso di tutto il mese, in uno stillicidio di arresti individuali o di piccoli gruppi spesso dovuti a delazioni.
Prima quindi della Carta di Verona, con cui il fascismo repubblicano qualifica come razza nemica gli ebrei, e delle ordinanze effettive con le quali il governo di Salò ne sanciste la repressione, a Firenze si scatena la caccia all’ebreo sulla scia degli stereotipi della propaganda antisemita del Regime e degli atti della sua legislazione razzista. Accanirsi contro gli ebrei significa certamente riqualificarsi di fronte all’alleato nazista, mostrando, in proprio, anche un surplus di violenza e crudeltà, colpendo peraltro soggetti per lo più imbelli e impreparati, quindi senza dover correre rischi. Aspetto non secondario per comprendere come diventino in quelle settimane bersagli prioritari delle azioni degli uomini di Carità e in generale del fascismo.
Ma la spietata caccia agli ebrei che scuote Firenze non si può spiegare senza tener conto di un ulteriore aspetto: la loro cattura si intreccia con il saccheggio dei loro beni, delle abitazioni. In un contesto di povertà e precarietà estreme determinate dalla guerra, ciò alimenta non solo le azioni di gruppi organizzati, mossi da istanze politiche quanto da interessi criminali, come la banda Carità e successivamente l’Ufficio per gli Affari ebraici di Martelloni, sodale del capo della provincia Manganiello, ma anche di singoli individui uomini e donne, vicini di casa, colleghi o dipendenti, che, anche a prescindere da motivazioni ideologiche, non esitano a compiere delazioni e sancire tradimenti spietati che, in cambio di taglie e beni materiali, spingono tanti ebrei fiorentini e nascosti in città sui treni destinati ad Auschwitz.

Proprio la ferocia della caccia antisemita segna la conclusione di quel mese di novembre con l’assalto al Convento del Carmine compiuto da fascisti e nazisti. Come è noto la chiesa fiorentina guidata dal cardinale Elia Dalla Costa, in collaborazione con la stessa Comunità ebraica aveva attivato una fitta rete di protezione. A fronte di chi vendeva vite per pochi denari, vi era chi metteva in gioco la propria per salvarne altre. Una dinamica complessa che univa anche motivazioni diverse (anche economiche), ma che segnava una netta distinzione di campo. Chiese e conventi erano stati da subito al centro di quella strategia di protezione, diventando rifugi preziosi. Una strategia contro cui si scatena la dura repressione fascista. Non a caso la sede dell’Azione cattolica, in via dei Pucci, a due passi dal Duomo, è l’epicentro da cui scatta la seconda razzia, tesa a colpire in primo luogo proprio il comitato ebraico-cristiano attivo in quelle giornate in città, i cui componenti sono arrestati nel pomeriggio del 26 novembre (fra i suoi componenti si ricordano don Leto Casini e il rabbino Nathan Cassuto).

L’assalto e la violazione della clausura del Convento del Carmine nella notte fra il 26 e il 27 novembre pare segnare il culmine di quelle giornate di violenza e brutalità. Neppure il rispetto della sacralità della clausura delle suore salva le donne e i bambini ebrei che lì erano stati nascosti. I reparti nazisti con il sostegno degli uomini di Carità irrompono nelle sacre mura e ne arrestano circa 47/48. Sottoposte al furto di ogni bene, nel terrore più assoluto, saranno detenute in quello stesso luogo fino al 30 novembre, giorno della nota ordinanza del Ministro degli Interni della Rsi Buffarini Guidi contro gli ebrei, sottoposte ad ogni tipo di oltraggio e violenza, anche sessuali. Eroico è il tentativo delle suore di sottrarre alcune delle arrestate a nazisti e fascisti, nonostante le aperte minacce. Poi le donne e i bambini saranno messi sui camion diretti a Verona e da lì, in treno, ad Auschwitz. Tragica analoga sorte, in un contesto di caccia agli ebrei nei conventi individuati come luoghi di rifugio dai nazisti, tocca alle donne e ai bambini nascosti all’Istituto delle suore di San Giuseppe dell’Apparizione in via Gioberti, catturate sempre da tedeschi e uomini di Carità.

La città pareva giacere sotto il giogo della violenza e della repressione. La Repubblica sociale bandiva la chiamata alla leva nel proprio esercito dei giovani fiorentini. Su Monte Morello e sulle alture vicine i gruppi più o meno organizzati iniziavano a riflettere o poi successivamente a organizzare spostamenti verso montagne più lontane, essendo sempre meno sicuro sostare vicino alla città saldamente occupata. L’inverno doveva iniziare. Ma si annunciava già cupo e lungo.




Gli internati militari follonichesi: nodi storiografici e metodologia di una ricerca

Gli internati militari rappresentano il più consistente gruppo di italiani trattenuti con la forza in Germania durante la guerra: oltre 600.000 furono infatti coloro che opposero un netto rifiuto, determinati a continuare volontariamente la propria reclusione pur di non aderire ancora al progetto nazifascista. Di loro, oltre 40.000 morirono prima di poter riabbracciare le proprie famiglie per le dure condizioni di prigionia a cui furono sottoposti. Dai sondaggi avviati negli archivi di alcuni Comuni della provincia di Grosseto, si intuisce che anche da questo territorio il numero di IMI deportati fu probabilmente abbastanza alto rispetto alle conoscenze acquisite dalla storiografia: il riordino in corso a cura dell’Isgrec dell’Archivio postunitario del Comune di Roccastrada, ad esempio, restituisce un prospetto riassuntivo con una quarantina di nominativi di deportati militari in Germania rientrati nell’ottobre del 1945, mentre una segnalazione del suddetto Comune al Comitato provinciale Reduci dalla prigionia fa presente che “i reduci da rientrare ammontano a circa un centinaio” (Archivio Comunale di Roccastrada, in stato di riordino).

L’internato militare follonichese Lisio Nunzi nel campo di prigionia

Una ricerca condotta dall’Isgrec sul contesto di Cinigiano nel 2015, invece, ha permesso di  avviare un’operazione di recupero della memoria della deportazione che esitò in quel caso in un documentario (Fu la loro scelta. Racconti di Resistenze, prodotto dall’ISGREC e finanziato dal Comune di Cinigiano, che ruota attorno alle interviste rilasciate da testimoni, reduci e internati militari della Seconda guerra mondiale): consentì di mettere in luce tramite le residue memorie orali del territorio la drammaticità dell’esperienza vissuta da tre deportati, cosiddetti “schiavi di Hitler”, privati dei loro diritti, umiliati e sfruttati nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma che non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. La metodologia applicata in questo progetto dimostra come la ricostruzione evenemenziale dei percorsi umani sia la base da cui partire per una riflessione di taglio storico anche sul tema della deportazione; una metodologia che permette da un lato di dettagliare e accrescere i profili biografici di partenza, dall’altra mirante all’individuazione del numero più veritiero possibile di deportati.

Opera dell’artista Evrio Cicalini, internato militare

Quella degli IMI fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie su cui una recente iniziativa del Comune di Follonica ha portato i ricercatori delll’ISGREC nuovamente ad indagare, allargando il quadro conoscitivo a un altro Comune della provincia. Infatti, dalla volontà espressa con una mozione dal Consiglio comunale di Follonica di realizzare una ricerca storica che permettesse “di individuare con esattezza i nomi dei follonichesi deportati nei lager nazisti”, è stata affidato all’Isgrec un incarico per il recupero della storia e della memoria degli internati militari di Follonica, portato avanti grazie alla sinergia fondamentale con la sezione Anpi “Virio Ranieri” di Follonica.

Obiettivo della ricerca era quello di procedere a livello locale, tenendo fermo come criterio quello della provenienza generica dal territorio follonichese, per rintracciare i nati o vissuti a Follonica deportati come internati militari dopo l’8 settembre. Questo a partire dai pochi nominativi inizialmente reperiti nel volume del 1996 “Il mi’ paese è libero: fra testimonianze orali e carteggi. Follonica dal 1940 al 1945” e in parte forniti dal Comune, prevedendo sondaggi sulle Banche dati online e tramite il contatto con associazioni dei reduci (in primis l’Associazione nazionale reduci della prigionia – ANRP – e l’Associazione nazionale ex Internati) per la verifica dei nominativi ed eventualmente l’incrocio dei dati.

Targhetta identificativa di Lisio Nunzi, internato nello Stalag V-B di Villingen, nella regione tedesca del Baden-Württemberg

Proprio le competenze maturate dall’Isgrec durante la pluriennale attività di indagine a livello locale sul tema della deportazione razziale (si vedano gli studi condotti da Luciana Rocchi), sulla deportazione politica (con la posa delle pietre di inciampo dedicate ad Albo Bellucci, Giuseppe Scopetani e Italo Ragni davanti al Comune di Grosseto e di quella dedicata a Tullio Mazzoncini a Campo Spillo) e sulla memoria degli IMI, cui già si è accennato, hanno suggerito di procedere a livello locale, tenendo fermo come criterio quello della provenienza dal Comune di Follonica. Una tipologia di lavoro storico che permette di mettere in luce non soltanto alcune figure importanti della storia del territorio, ma anche di evidenziare questioni rilevanti per l’interpretazione del quadro nazionale, che potrebbero tornare utili nel momento in cui verranno realizzate altre ricerche a livello provinciale ma anche regionale.

Targa apposta nella Giornata della Memoria 2023 a Follonica in ricordo degli IMI

Scopo del lavoro, inoltre, è stato anche quello di riportare queste vicende all’interesse collettivo, restituendo a Follonica la memoria storica dei suoi internati militari, ormai quasi dispersa. Proprio per questo motivo, alla ricerca storica vera e propria, che confluirà prossimamente in un volume, si è scelto di affiancare iniziative di public history dedicate alla comunità follonichese, come l’apposizione, a gennaio 2023, di una targa in memoria presso lo spazio antistante il palazzo comunale, con la partecipazione delle autorità cittadine, dell’Anpi e dei ricercatori dell’ISGREC e con il coinvolgimento delle famiglie degli IMI, della cittadinanza e delle scuole. L’iniziativa pubblica ha restituito quindi i risultati della ricerca portando con forza all’attenzione della collettività il tema in maniera simbolica, nella giornata dedicata dalle leggi dello Stato italiano a tenere insieme la memoria della Shoah, cioè lo sterminio e la persecuzione del popolo ebraico, con quella dell’internamento militare e della deportazione politica. La visibilità data dall’evento alla ricerca, ha permesso di raggiungere ulteriori famiglie che conservavano una memoria familiare privata di internamento militare, anche tramite una mail dedicata presso il Comune di Follonica finalizzata alla raccolta di segnalazioni. Ne sono emersi, allo stato attuale, ben 23 nominativi, 23 storie, che rappresentano rispetto al numero iniziale, un notevole allargamento delle conoscenze storiche che riguardano il territorio.

L’invito del Comune di Follonica a rintracciare gli Imi che nella città sono nati o che l’hanno resa la sede della loro crescita personale e professionale, è uno dei gesti istituzionali che contribuisce nel modo più sensibile e concreto, a distanza di ormai ottanta anni, a restituire la riconoscenza mancata verso persone che dedicarono tutti i loro sacrifici per l’Italia. Molto profondo anche il senso di comunità espresso alle origini stesse della ricerca. Non si è infatti trattato di analizzare i follonichesi nati o residenti nella città, per quanto le loro storie siano state ripercorse anche attraverso la ricerca negli archivi dell’anagrafe. Ma si è voluto comprendere tutti coloro che hanno vissuto una parte importante della loro vita a Follonica, contribuendo allo sviluppo della città, o anche alla sua ricostruzione nel dopoguerra. In qualche modo, cioè, parti integranti di una comunità, intesa come insieme di persone e di valori che hanno fatto dell’antifascismo (nel dopoguerra) e del senso civico della memoria (ai nostri giorni) le colonne portanti della propria identità. Quanto voluto da una istituzione cittadina come quella di Follonica è certamente un gesto di grande valore e di importanza storica, sebbene condotta su un numero estremamente ristretto di militari in confronto agli oltre 600mila che vissero la loro stessa esperienza. Ma è fondamentale anzitutto perché restituisce valore al sacrificio fatto dai prigionieri nei campi tedeschi, che dopo lunghi mesi di sofferenze e lavoro forzato tornarono in una patria poco pronta ad accoglierli e a capirli. Si tratta poi di un tassello di un mosaico molto grande che, per quanto necessiti di altri studi locali per andare a completare il panorama complessivo, è pur sempre un esempio ed un punto di partenza importante.

Ruolo matricolare di Rino Burgassi, Archivio di Stato di Grosseto

Lo studio condotto si è avvalso di più fonti. Le testimonianze raccolte hanno rappresentato soltanto la seconda fase di una ricostruzione che, come di dovere, è partita dagli archivi e ha cercato conferme e integrazioni nell’incrocio dei dati e delle informazioni. Gli elenchi di nominativi conosciuti a livello locale (grazie al contributo dell’Associazione Il Golfo) o apparsi su alcune pubblicazioni di vecchia data sono stati analizzati e verificati presso molteplici diversi fondi. Questo ha permesso anzitutto di scartare alcuni militari che, anch’essi prigionieri, non vissero la vicenda dell’internamento in Germania. La ricostruzione degli arruolamenti e della dislocazione dei militari all’8 settembre 1943 si è ricostruita principalmente attraverso i ruoli matricolari custoditi presso l’Archivio di Stato di Grosseto e di alcune altre provincie dove gli internati erano residenti al momento della leva. Le nuove fonti online messe a disposizione da Arolsen e altre iniziative sorte recentemente per valorizzare il sacrificio degli Imi sono parimenti state consultate per ottenere conferme o smentite. Gli archivi di Onorcaduti rappresentano poi la fonte principale per verificare gli eventuali caduti. Una ricerca a livello locale, infine, non poteva prescindere da un approfondito lavoro presso gli uffici dell’anagrafe comunale. L’aver incluso nell’analisi cittadini di Follonica nel senso più ampio, ha infatti implicato che si verificassero gli spostamenti di residenza, per comprendere quando e perché gli internati raggiunsero Follonica, o se ne allontanarono nel corso del dopoguerra. Se tutto questo ha preparato il terreno per la consultazione dei parenti dei militari, è stata fondamentale anche un’intensa opera di ricerca per passaparola al fine di rintracciare i figli, i nipoti e gli altri parenti dei protagonisti di quelle ormai lontane vicende. Da Follonica ci siamo quindi spostati anche in altre città italiane, dove nel tempo le famiglie si sono trasferite. Un percorso di ricerca dunque non facile ma che ha messo in rilievo la partecipazione e la vicinanza di questi nuclei familiari ormai stabilitisi altrove con le origini follonichesi dei genitori.

I familiari di alcuni IMI di Follonica davanti alla targa che ne ricorda la tragica vicenda

Se l’analizzare l’esperienza degli Imi a livello locale presenta alcuni precedenti, alcuni dei quali condotti con studi ben più ampi e completi, quanto svolto a Follonica rappresenta tuttavia una novità non trascurabile. Non sono state ricostruite le storie degli Imi soltanto attraverso le carte d’archivio né con le testimonianze dirette dei reduci, come in gran parte degli studi condotti sino ad ora. Il lavoro si è intenzionalmente allargato allo studio delle conseguenze dell’internamento sulla personalità dei militari dopo il loro rientro in patria e delle reazioni dei familiari e della comunità al ritorno dei prigionieri. Cosa ha lasciato in ognuno di loro la dura esperienza vissuta? Ha influito, e in che misura, nel loro costruirsi una famiglia, trovare lavoro, trascorrere il proprio tempo libero? E ancora: cosa hanno raccontato alle proprie famiglie, e in che modo lo hanno raccontato? Ciò che non hanno voluto dire e spiegare, a cosa fu dovuto? Per rispondere a queste domande la fonte più efficace sono state le testimonianze dei familiari, coloro cioè che in prima persona accolsero o conobbero gli Imi dopo che riuscirono a rientrare in patria. Ascoltando le loro voci si è potuta ricostruire non soltanto la storia della loro vita, ma anche il loro stesso atteggiamento verso l’esperienza subita, ed il loro approccio con i figli e con la comunità locale. Da tante storie diverse e comportamenti diversi si può tuttavia ricostruire un’unica storia: quella della difficoltà per gli internati militari di ricongiungersi con la nuova Italia che trovarono al rientro dalla Germania. Un’Italia che aveva mostrato i suoi nuovi tratti anche a Follonica, impegnata nella ricostruzione e amministrata da nuovi partiti politici e nuove figure istituzionali.

Storiograficamente, infine, lo studio si apre ad un’altra novità: l’utilizzo di testimonianze di seconda generazione. In un panorama in cui molte pubblicazioni, anche di grande valore scientifico, hanno utilizzato le testimonianze dirette degli Imi per ricostruire le vicende della prigionia e del loro ritorno in patria, l’utilizzo di racconti secondari non è ancora sviluppato. Da una parte sembra naturale aver voluto interpellare i testimoni diretti di quelle tragiche esperienze fino a che è stato possibile. Ma ascoltando i parenti degli Imi follonichesi ci è sembrato che le loro testimonianze non fossero un ripiego, una fonte di rimpiazzo. Abbiamo riscoperto piuttosto il loro grande valore per analizzare l’impatto della prigionia sui familiari degli internati e come quei duri mesi in Germania segnarono per sempre le loro vite, lasciando ferite indelebili e sofferenze prolungate. Ma anche qualche insegnamento, sapientemente tramandato ai figli e ai nipoti. Certo, i dettagli della detenzione, del lavoro nei campi, della vita nelle baracche possono subire alcune sfumature passando di generazione in generazione, molti aneddoti possono andare perduti. Le voci dei parenti ci aprono molti altri ambiti di riflessione, sia sulla metabolizzazione del ricordo che sulla sua funzione ed influenza sulla memoria della comunità.

Dino Ferri, libretto del campo di lavoro e prigionia

Le storie emerse sono tutte diverse l’una dall’altra. Hanno in comune alcuni punti cruciali della vicenda degli Imi, come la cattura, il viaggio in Germania, gli aspetti della prigionia. Ma hanno anche tante sfaccettature diverse. Il panorama degli internati follonichesi spazia fra momenti diversi nei quali vennero catturati, e soprattutto in luoghi diversi dello scacchiere di guerra del settembre 1943. Provenivano da famiglie di estrazione sociale, politica ed economica diversa, e questo contribuì a modellare l’impatto con la prigionia e, soprattutto, il loro reinserimento nella società locale del dopoguerra. Appartenevano ad armi e reparti differenti, sebbene nessuno di loro appartenesse al ruolo degli ufficiali. Quello che avevano lasciato a Follonica, o nei loro luoghi di origine, era un contesto altrettanto diversificato. Qualcuno aveva un’attività lavorativa bene avviata, altri erano dei ragazzi che si avvicinavano proprio in quel momento al mondo del lavoro, magari aiutando i genitori o facendo apprendistato in qualche azienda locale. Vi erano padri di famiglia, sposati e con figli, mentre altri erano i figli giovani di famiglie che avrebbero avuto necessità del loro supporto. Conseguenza inevitabile dei reclutamenti fascisti, che univano i richiamati alla leva in un susseguirsi sempre più affannato di nuovi uomini al fronte.

Molto interessanti sono poi le storie delle nuove vite. Se qualcuno tornò, pur con i suoi traumi interiori, alla vita precedente, molti altri iniziarono proprio al loro rientro a Follonica una nuova esistenza. Si sposarono, trovarono un impiego, nel difficile contesto economico dell’immediato dopoguerra, e si reinserirono in modo non sempre semplice nella comunità locale. Un approccio spesso difficile per la scarsa propensione della società di quei mesi ad accogliere e ad ascoltare chi, suo malgrado, ricordava la guerra e la disperazione. Eppure tutti loro avviarono attività a Follonica, collaborarono alla ricostruzione della città, parteciparono attivamente ad iniziative sportive, culturali, ricreative.

Lo studio dell’impatto della prigionia degli internati militari sulle famiglie e sulle comunità in cui vissero dopo il rientro in patria è in gran parte da scrivere. L’interesse mostrato a Follonica dai figli e dai parenti degli Imi ha dimostrato come essi stessero ancora aspettando un riconoscimento del sacrificio dei loro padri. L’adesione al progetto, l’impegno dimostrato nel rendersi disponibili, la loro voglia di raccogliere i documenti che conservano gelosamente e di offrirli alle nostre letture sono tutti segnali di apprezzamento per l’iniziativa di valorizzazione e di memoria che si è voluta realizzare. L’interesse dimostrato anche da persone più giovani, come i nipoti, ci suggerisce anzi che siamo forse in ritardo nell’ascoltare i loro padri. Una terza generazione sembra già a disposizione, almeno a Follonica, per raccontare quanto i loro padri raccontano dei loro padri.