La battaglia di Piombino

Sono passati 80 anni da quel lontano 10 settembre 1943, quando gli abitanti di Piombino, sostenuti ob torto collo anche dalle forze armate presenti in città (soprattutto dalla Marina di stanza nel territorio della cittadina e lungo le coste del promontorio), si ribellarono alla presenza tedesca e diedero vita ad una vera e propria battaglia caratterizzata sin da subito da un amalgama difficilmente distinguibile di spontaneità e di organizzazione.

Attorno all’episodio, entrato immediatamente – perlomeno alla fine del conflitto – nella narrazione anche retorica costruita attorno alla Resistenza, si sono accumulate intenzioni estranee agli avvenimenti stessi, rendendo la battaglia piombinese un topos obbligato nella rievocazione delle azioni partigiane. Resta comunque il fatto incontrovertibile che essa fu il primo episodio di resistenza nei confronti dei tedeschi, a soli due giorni dall’annuncio dell’armistizio Badoglio dell’8 settembre 1943. A conclusione della guerra, la sua eccezionalità attirò l’attenzione non solo di politici (soprattutto comunisti e socialisti), ma anche di storici che si confrontarono più o meno dettagliatamente sulla vicenda.

Il primo fu il saggio di Ugo Spadoni, pubblicato nel 1955 (in occasione del decennale della Liberazione) su la «Rivista di Livorno», che portava un titolo significativo: Per una storia della battaglia di Piombino. Un paio di anni prima, invero, ne aveva fatto cenno anche Roberto Battaglia nella sua Storia della resistenza italiana, basandosi sulla testimonianza di Edo Azzolini pubblicata su «Vie Nuove» nel 1952.

Come desumibile l’episodio aveva attirato l’interesse di studiosi e di militanti per le sue caratteristiche di spontaneità e organizzazione, perché era il risultato, in parte perlomeno, di una città operaia e sovversiva dove l’odio per i tedeschi ed i fascisti aveva trovato l’occasione ed i mezzi per esprimersi, prefigurando in qualche modo la potenzialità di una sognata ed idealizzata presa del potere da parte delle classi subalterne che riuscivano a piegare ai loro fini anche le squadre del regio esercito. Con il passare degli anni si sono aggiunte altri ricerche: da quella di Ivan Tognarini (al quale si unì poi la voce di un non professionista della materia come Rocco Pompeo, che nel 1965 vi dedicò la tesi di laurea, successivamente pubblicata) fino ai più recenti ed accurati confronti con le carte d’archivio sulle quali ha lavorato Stefano Gallo, studioso sensibile alla tematica senza però mai farsi prendere la mano da un eccessivo entusiasmo come è invece accaduto per altri ricercatori. La stessa narrazione proposta da Ivan Tognarini risultava in qualche modo piegata alla necessità del riconoscimento della medaglia d’oro. Quella d’argento che era stata conferita nel 1973 apparve a tutta la cittadinanza e alla sua classe dirigente, saldamente in mano al Partito comunista, un riconoscimento non solo tardivo ma anche sminuente.

La vicenda, che si colloca due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, ricorrenza della quale quest’anno ricordiamo l’80° anniversario, si realizzò e si consumò nell’arco di circa 48 ore.

Occorre ricordare che nella città c’erano già state manifestazioni di entusiasmo per le strade in occasione del 25 luglio e che probabilmente già da quella data era andato costituendosi un Comitato di concentrazione antifascista presieduto da Ulisse Ducci, figura piuttosto ambigua nel panorama dei resistenti. Arrivato a Piombino dopo una condanna al confino perché implicato in un tentativo di uccisione di Mussolini, divenne abbastanza presto confidente dell’Ovra e giocò in tutto il periodo della sua presenza nella cittadina toscana un ruolo opaco. Tuttavia, fu anche capace di tessere relazioni con l’ambiente antifascista più genuino espresso dalla città, che vedeva in lui un eroe senza macchia[1]. Al suo fianco troviamo nel Comitato di concentrazione antifascista alcuni sicuri oppositori al regime come Giorgio Millul, Federigo Tognarini, Pio Lucarelli, Adriano Vanni, Renato Ghignoli ed altri. Quanto poi ciò che avvenne fosse tutto frutto della direzione del Comitato e quanto invece fosse il risultato di una volontà spontanea di parte della popolazione, è arduo da stabilire. Probabilmente giocò qui, come da altre parti, una mescolanza di entrambi gli atteggiamenti. In ogni caso furono tali spinte che in primis si rivolsero verso i soldati, in particolare i marinai presenti in città, affinché si facessero carico di uno scontro diretto con le truppe tedesche che, all’inizio della giornata del 10 settembre, erano presenti con forze esigue.

Al comando dei militari dislocati sul promontorio c’erano due personalità ben diverse: da una parte il capitano di corvetta Giorgio Bacherini; dall’altra il capitano di fregata Amedeo Capuano. Come ha sottolineato Bardotti nella sua prolusione alla cerimonia per il 10 settembre 2022, l’apparato di difesa militare che faceva capo all’esercito italiano per Piombino era significativo. Tutta la zona dipendeva dalla 215° divisione costiera agli ordini di Cesare Maria De Vecchi che aveva come comandante il generale Fortunato Perni, il quale, tra l’altro, poteva contare su due efficaci batterie a guardia del porto. Agli ordini del capitano Amedeo Capuano faceva capo una terza batteria, in buona efficienza affidata a Giorgio Bacherini. Il dispositivo era ulteriormente rafforzato dal XIX battaglione carri m42 (in tutto 38 mezzi), dislocato presso la pineta di Torrenuova e posto al comando del tenente colonnello Angelo Falconi. In tutto le difese potevano contare su circa 800 militari, oltre ai soldati in attesa d’imbarco per l’Elba, la Corsica e la Sardegna.

Le forze militari tedesche presenti in campo erano invece assolutamente trascurabili: un piccolo contingente tedesco composto da 7-8 militari dislocati presso una stazione radio, nonché dieci unità germaniche di naviglio leggero, erano ancorate in porto. Prendendo le mosse da queste ultime, un gruppo di trenta soldati tedeschi era sceso a terra poco dopo la proclamazione dell’armistizio per impadronirsi delle banchine portuali. Gli aggressori arrestarono alcune sentinelle a guardia dei moli e tentarono di occupare una postazione di mitragliatrici ma il capitano Bacherini, informato di questi movimenti, ordinò di difendere il porto e intimò l’arresto dei tedeschi presso la stazione radio. La batteria della Marina aprì il fuoco e cinque unità del Reich, di cui quattro in porto e una nel canale, vennero affondate mentre alcuni tedeschi vennero fatti prigionieri. Su questa prima reazione pesò sicuramente la volontà dei soldati italiani che fecero la “scelta”, pur senza ordini dall’alto, di resistere e combattere – sicuramente – sostenuti e incoraggiati dalla popolazione civile.

Questa risposta non era stata messa in conto da parte tedesca neppure come ipotesi: quest’ultima aveva pertanto agito sopravvalutando la propria capacità e la disponibilità alla sottomissione dell’ex alleato italiano.

Prima di procedere ulteriormente nella rievocazione della battaglia, che non risulterà lineare, credo sia utile fare alcune precisazioni, alcune di natura geografico-morfologica sulla collocazione di Piombino ed una di ordine sociale. La prima considerazione riguarda la possibilità di chiudere il capoluogo urbano con una relativa facilità. Vi si accedeva con una sola strada d’ingresso e il promontorio roccioso si prolungava verso il canale di fronte all’Elba. La considerazione di ordine sociale ed economico che probabilmente era il vero oggetto dell’interesse dei tedeschi per prendersi la città, era data dalla presenza di due grandi fabbriche siderurgiche: l’Ilva e la Magona, presenza questa che significava automaticamente una potenzialità di materiale bellico per il contingente tedesco, ma significava altresì anche la presenza di masse operaie che erano state sì sottomesse dal regime ma che non avevano mai coltivato verso di esso nessuna particolare inclinazione. Una composizione di classe fortemente politicizzata e sovversiva come scrivevano i tutori dell’ordine, con una forte e radicata tradizione anarchica, socialista e comunista. Vale la pena ricordare perlomeno due episodi, come fa Rocco Pompeo, della resistenza antifascista e dei lutti che questa dovette sopportare: quello di Lando Landi e quello di Amaddio Lucarelli ed Attilio

Landi. Lando Landi (da tutti conosciuto come “Landino”) era un anarchico per temperamento e per educazione che si era lanciato con tutto l’entusiasmo della sua età giovanile nella mischia sociale. Rappresentante di una resistenza individuale non organizzata, fu ucciso dal piombo di un sicario fascista in via Carlo Pisacane nel giugno del 1922. L’altro episodio della prima resistenza piombinese vide coinvolti Amaddio Lucarelli ed Attilio Landi, ambedue militanti comunisti, e fu di poco successivo al primo. Il 9 luglio 1922, in località “campo alle fave” (Fiorentina), i due giovani comunisti si trovavano sul terreno di campagna del loro vicino: Roberto Cantini. Mentre leggevano e commentavano il giornale, quattro fascisti arrivarono armati di rivoltella. Subito dopo ne giunsero altri sette o otto, ed uno di essi, probabilmente il capo della spedizione, si meravigliò di trovare ancora vivi Lucarelli e Landi, ai quali intimò di alzarsi. Estratta poi la rivoltella, aprì il fuoco: Lucarelli cadde ucciso, mentre Landi, ferito, fu soccorso dalle due sorelle Alfea e Maria, che avevano assistito alla scena[2].

Questi episodi vanno collocati ancora prima della presa del potere da parte delle camicie nere. Ricordiamo che tra gli assalitori di campo alle fave, una zona di campagna alle porte di Piombino, c’era anche il direttore dell’Ilva, Garbaglia. [3] Durante il ventennio le manifestazioni non si spensero mai del tutto anche se in sordina, soprattutto all’interno degli stabilimenti. In particolare, negli ultimi mesi del ’42, quando, per una serie di agitazioni operaie, per la pubblicazione insistente di stampa clandestina e la sua distribuzione nelle fabbriche, per le frequentissime scritte sui muri inneggianti ad un mutamento del regime, per l’ascolto di radio Mosca e radio Londra, centinaia di operai furono attesi all’uscita delle fabbriche e bastonati. Molti antifascisti vennero “mandati a letto” con minacce, purtroppo non vane. Il tutto in un clima nel quale il carattere peculiare del fascismo periferico andava rivelandosi più intollerante e spavaldo di quello centrale.

Ricordiamo anche il volantino diffuso il 30 luglio 1943 dal Comitato di Concentrazione Antifascista che incitava i cittadini piombinesi a stare allertati e a tenersi pronti ma vigili senza approfittare del momento, ciascuno al proprio posto di lavoro e all’ordine dell’esercito italiano. Il volantino finiva con: “Viva l’Italia libera!” [4]

Ma ritorniamo ai giorni della battaglia. Occorre ricordare che una delle otto divisioni tedesche che si trovava tra il Lazio e la Toscana, la 3° Panzer Grenadier, era giunta con il compito di collaborare alla difesa con una decisione unilaterale tedesca, perché Hitler personalmente “temeva molto uno sbarco anglo-americano a Livorno“. Di non minore importanza è il fatto che un’altra divisione germanica (la 90° di fanteria, già Sardinien) occupava nel frattempo la Sardegna e la Corsica.

Però occorre anche precisare che il territorio piombinese era stato munito di piani di difesa dallo Stato maggiore dell’esercito, che considerava poco probabile, ma non impossibile, che l’avversario attaccasse le coste del Tirreno toscano. A questo scopo erano state dislocate una serie di batterie lungo la costa, sul litorale, nei punti chiave per la difesa; altre forze militari dell’esercito nell’immediato retroterra; Rifugi Antiaerei erano stati approntati per la popolazione.

La batteria che si incontrava per prima, venendo da est, era quella della località “il Falcone”. Era una batteria navale da 194 mm, ed aveva il compito di contrastare, o di ritardare il più possibile, un attacco sferrato alla zona est del golfo di Salivoli.

Ad una distanza di circa cinquecento metri, spostandosi verso il centro di Salivoli, era piazzata una batteria con un radar da 88 mm; subito dopo nella località Podere Mazzano c’era una terza batteria da 191 mm. Tutta la zona centrale non vedeva nessuna difesa specifica anche perché in ogni strada, in ogni piazza, in ogni costruzione che dominava il territorio, erano collocate piccole unità che controllavano la zona ed avevano il compito di provvedere alla salvaguardia dei civili.

Tutti questi gruppi erano alle dipendenze dirette del Comando Marina, che si trovava sul “Castello”. Sullo stesso castello vi erano collocate due mitragliere R 76 mm. Così come un dispiegamento di forze era stato programmato per la zona del litorale sino al “Semaforo” dove si incontrava una batteria n. 190 da 120 mm alla quale ne seguiva un’altra, all’altezza del viale Regina Margherita. Era chiamato il gruppo mitragliere sud, per distinguerlo da quello nord, disposto alla sinistra di Corso Italia. Il gruppo nord di Casa Parrini doveva essere il corno sinistro della morsa che si sarebbe stretta intorno a chi fosse entrato dal porto per portarsi al centro della città. Il corno destro era dato dal gruppo complementare sud.

Nel retroterra erano dislocate altre tre batterie: una in direzione di “Ponte d’oro”, l’altra in direzione di “Monte Castelli”, la terza in direzione di Populonia: avevano l’ordine di contrastare un eventuale attacco dal lato nord. Erano rispettivamente: una batteria con radar; una batteria da 207 mm; una batteria antiaerea.[5] L’episodio dal quale tutto probabilmente si generò e precipitò è legato all’iniziativa militare di un gruppo di navigli leggeri tedeschi che, per impadronirsi delle banchine portuali, decise di sbarcare con circa trenta soldati poco dopo la proclamazione dell’armistizio. In seguito allo scontro tra i militari tedeschi e i marinai di Bacherini, questi ultimi ebbero la meglio. La catena di comando italiana ebbe a questo punto la sua prima crisi. Il generale Perni ordinò di liberare i prigionieri e di restituire loro le armi. Il capitano Capuano protestò energicamente contro l’ordine e intimò ai tedeschi di lasciare il porto prima delle 12:00 del giorno successivo.

Alle 4:30 un convoglio tedesco, comandato da Karl Wolf Albrand, formato da due cacciatorpediniere, un piroscafo e 10 unità minori, chiese di entrare in porto per approvvigionarsi di acqua e carbone e poi di ripartirsene. Quest’ultimo venne autorizzato ma, una volta attraccato, sarebbe dovuti ripartire immediatamente. Invece sbarcò velocemente, ma i soldi disarmarono le sentinelle e occuparono il punto di osservazione del semaforo. Fu a questo punto che l’azione, limitata fino a quel momento ai militari, passò nelle mani della popolazione, o perlomeno di una parte di essa. Furono gli operai del turno di notte dell’Ilva i primi a diffondere la notizia e a scendere per le strade e manifestare, chiedendo che la città venisse difesa, ma il generale Perni si limitò a schierare le sue truppe per il solo mantenimento dell’ordine pubblico.

Ricordiamo che le batterie aeree e navali erano in mano ai marinai (eccezion fatta per quelle di Salivoli e di Bocca di Cornia, nelle mani di militari del corpo di Artiglieria); un battaglione era dislocato nella pineta di Terranova. Nei pressi della stazione ferroviaria si trovava un centro di smistamento per la Sardegna, la Corsica, e l’Elba che ospitava in quel momento alcune centinaia di militari ed ufficiali. Sicuramente con queste forze in campo era possibile resistere anche se non possiamo sapere per quanto e con quale finalità.

Sul piano sociale e politico, la città a partire dal 25 luglio era stata attraversata da manifestazioni che chiedevano la pace e il ritorno a casa degli uomini partiti per la guerra e la pressione era stata tale che il Comune di Piombino prese una delibera, in data 3 settembre, solo 5 giorni prima dell’annuncio dell’armistizio, con la quale decideva di mutare nome a tutte le strade e località che ricordassero persone o avvenimenti del caduto regime per sostituirli con nomi che ricordassero cittadini e avvenimenti della lotta antifascista piombinese.

Tutto sembrava concorrere per uno scontro aperto. La situazione cominciò a muoversi più velocemente dopo il primo attacco da parte tedesca del 9 settembre, che, vista l’esiguità delle forze in campo poteva risultare, come poi risultò, avventato. Ma probabilmente la presa del porto di Piombino, vicino com’era all’isola d’Elba e alla Corsica costituiva un obiettivo certamente prioritario per le forze germaniche che queste non avrebbero assolutamente potuto mollare. All’inizio i tedeschi ebbero la peggio e corsero verso le loro imbarcazioni dopo una colluttazione con i marinai italiani che costò sicuramente dei feriti da ambo le parti.

Il passa parola su quello che stava avvenendo riempì le strade della città di popolazione e dei membri del Comitato di concentrazione antifascista che chiedevano ai soldati di respingere i tedeschi. I membri del comitato decisero quindi di rimanere in riunione permanente e chiesero alla Tenenza dei Carabinieri di frenare lo sfascio delle forze militari.

Nel frattempo i tedeschi non erano rimasti inermi e la mattina seguente entrarono in porto con 21 mezzi da sbarco (chiattoni armati con numerose artiglierie a bordo), 2 cacciatorpediniere, 1 corvetta, varie motolance ed un grande piroscafo da carico. Una volta sbarcati, occuparono militarmente il porto e, secondo parecchi testimoni, anche la capitaneria, disarmarono i marinai, i finanzieri e i soldati; incoraggiati dalla mancanza assoluta di ogni opposizione alcune pattuglie si diressero verso il semaforo, occupandolo senza alcuna resistenza.

La mattina verso le cinque – racconta l’operaio Amulio Tognarini – in fabbrica (Ilva) si sparse la voce: … i tedeschi stanno sbarcando… bisogna uscire… andiamo a vedere… bisogna difendersi. Poche ore dopo usciamo in massa dagli stabilimenti ed andiamo in piazza dove c’erano altri operai e molta folla:…cosa vogliono i tedeschi?…Perché i comandi li fanno entrare nel porto?…Ai comandi, andiamo a sentire cosa dicono i comandi… Perché i comandi non mettono in atto gli ordini di Badoglio? … Vogliamo combattere anche noi! Vogliamo le armi!

Ad un tratto comparvero i carabinieri gridando l’ordine di circolare e di sgombrare. Noi si rimaneva fermi e si cercava di parlare anche con i carabinieri. Ad un certo punto i militari stavano per aprire il fuoco. Ma non ebbero il tempo; ci si strinse intorno alla macchina urlando. Il maresciallo Ripoldi invitava alla calma e cercava di far comprendere la gravità della situazione. La folla spingeva…[6]

In questi scontri tra la popolazione ed i carabinieri Ermete Cappelli, un testimone e militante antifascista, ricorda che fu estremamente prezioso il deciso atteggiamento delle donne. “Furono loro … che si buttarono addosso ai carabinieri, li abbracciarono, ed impedirono che si facesse fuoco sulla folla. Si evitò così un inutile spargimento di sangue”.[7]

Le forze tedesche, consapevoli del pericolo che correvano, provarono a tergiversare promettendo che sarebbero tornati sulle loro imbarcazioni dopo essersi riforniti di acqua senza colpo ferire. Intanto i militari italiani presenti avevano cominciato a dileguarsi nel caos della situazione e senza ordini superiori chiari si verificò il fenomeno già ampiamente documentato sia dalla storiografia, che dalla memorialistica, che dal cinema di “Tutti a casa”.[8]

In città si formarono commissioni incaricate di fare opera di persuasione presso i soldati italiani che avevano abbandonato le loro posizioni, così come le fortificazioni preposte alla difesa della costa. Alcuni gruppi di cittadini andarono in camion fino a Campiglia per convincere soldati e marinai a tornare alle batterie. Anche il comandante della postazione del Semaforo era scappato con abiti civili e fu riportato indietro e rimesso a difesa della città.

Il generale Perni, visto che la battaglia era inevitabile, chiamò in rinforzo una colonna di carri armati dal senese che giunse verso sera. Da parte del Comitato di Concentrazione fu inviato un messaggio al Comando Marina dell’isola d’Elba per chiedere l’invio di alcuni caccia che si trovavano a Portoferraio.

Vennero decise le ultime misure difensive: squadre di cittadini controllavano alcune zone di accesso al porto, con l’ordine di “aprire il fuoco al minimo segno di ostilità da parte tedesca”. Altre squadre furono incaricate di procedere alla sorveglianza sulle spiagge che potevano diventare vie di accesso per imbarcazioni ed evitare così attacchi di sorpresa. Tali squadre, inoltre, avevano il compito di fermare tutti i soldati ed i marinai che affluivano dalle varie parti, e dalle città dove l’occupazione tedesca era già in atto, per obbligarli a riprendere le armi sotto il comando di zona.

La popolazione fu invitata con segnalazioni acustiche (macchine che giravano per le strade fornite di altoparlanti) a rifugiarsi nei ricoveri antiaerei prima delle ore 19.

Verso le 18, 00 arrivarono i rinforzi chiesti dal generale Perni, che si concretizzarono con l’arrivo del XIX° Battaglione Carri M/42 che, accampato alla pineta di Terranova (Venturina) a disposizione del comando del settore costiero di Piombino, si portò lungo la via piombinese nel tratto Osteria Fiorentina – Strada Statale, poi a Piombino nel pomeriggio del 10 settembre. Comandato dal tenente colonnello Angelo Falconi, disponeva di 20 carri armati e di 18 semoventi: a mezzo di ufficiali e di commissioni cittadine, tale battaglione fu disposto nei punti strategici ed in ordine di combattimento. Falconi poi scrisse:

Sotto l’imperversare del noto bombardamento scatenato improvvisamente dalle armi a bordo dei mezzi navali tedeschi, nella notte sull’11 settembre 1943, completai lo spiegamento delle forze schierate tra il semaforo e gli stabilimenti Ilva, e coordinai e diressi l’azione…[9]

La battaglia era sicuramente già cominciata alle 21.00 del 10 e si era aperto un forte scontro militare con la partecipazione della popolazione (perlomeno quella maschile e più organizzata) di rinforzo alla Marina e all’esercito italiano presenti. Sul luogo e l’inizio della battaglia i testimoni però non sono concordi. Di sicuro, quando lo scontro terminò, i tedeschi fatti prigionieri provenivano sia del Lazio che della Toscana, così come dalla Sardegna e dalla Corsica. Non si trattò solo di uno scontro tra truppe militari ma di una battaglia che vide la partecipazione attiva dei cittadini soprattutto nella difesa che partiva dalle batterie.

Verso la mezzanotte si udì un grande boato: la santa barbara del piroscafo da carico attraccato al lato destro del pontile dell’Ilva era saltata. Tutti, nelle ore della notte del 10 settembre 1943, ebbero da fare. All’ospedale fu assicurato un servizio completo ed interrotto per tutta la notte. Cosa normale in tempi normali, ma quando si osserva che a prestare servizio per tutta la notte fu don Ivo Micheletti ci si rende conto sia di come tutti contribuirono a dare un decisivo contributo alla battaglia, sia di come dalla vicenda emergesse una situazione di caos diffuso.

A trovare la morte per le ferite riportate nella battaglia di Piombino fu Giovanni Lerario, forse la prima vittima della Resistenza italiana. (Il Comune poi gli ha intitolato una via). Alle 3 del mattino dell’11 settembre i tedeschi si ritirarono. Coloro che invece si erano nascosti furono successivamente rastrellati e portati prigionieri al comando italiano. Sul numero dei morti tedeschi non c’è mai stata unanimità; c’è chi parla di 300 vittime e chi di 400. Certo è invece il numero dei prigionieri: 300.

Il disastro dei mezzi da sbarco tedeschi invece fu assai consistente: un caccia saltato in aria; un altro gravemente danneggiato; un piroscafo di medio tonnellaggio ed uno più piccolo, carichi di armi, viveri e munizioni, affondati; varie motolance e varie chiatte da sbarco danneggiate o affondate. Da parte italiana alcuni danni allo stabilimento dell’Ilva, due morti, e solo pochi feriti tra i militari.

Nonostante tutto, nonostante l’esultanza della popolazione, nonostante quella di alcuni militari coinvolti, ci fu un epilogo tragico, forse quasi scontato. Il gen. e fascista Cesare Maria De Vecchi, che da Massa Marittima comandava la divisione costiera della zona, venuto a conoscenza di tutto l’accaduto, impartì l’ordine di liberare i prigionieri.

I prigionieri, che erano stati condotti al castello ove aveva sede il Comando Dicat, furono così prelevati e fatti imbarcare su motozattere tedesche. Fu il comandante Bacherini a consegnarli ad un ufficiale dell’esercito che li aveva chiesti con un ordine del gen. Perni. Lo stesso ufficiale scortò i prigionieri fino al porto e sorvegliò le operazioni di imbarco.

Una sola trasgressione fu presa contro l’ordine di De Vecchi. Mentre quest’ultimo aveva ordinato il rilascio dei tedeschi armati liberi in città, il generale Perni non se la sentì di fare quello che sicuramente sarebbe stato visto e considerato dalla popolazione come una provocazione persino gratuita. Gli ufficiali, i soldati e i marinai abbandonarono i loro posti dove erano tornati per volere della popolazione. Alcuni di loro tentarono di opporsi a tale ordine, ma non poterono nulla per fermare la dispersione dei militari.

Al controllo del Presidio era rimasto un solo piantone: il comandante ed il vice avevano abbandonato la città, dopo aver dato ordine a tutti i reparti di abbandonare le proprie posizioni. Solo il Comando Marina, che già nei giorni precedenti la battaglia aveva fatto sua la volontà popolare, esitò prima di abbandonare la popolazione in mano al nemico.

La sera dell’undici, anche il comandante generale della piazza lasciava la città. Intanto tutti i militari avevano provveduto a rendere inservibili i carri lasciati sparsi per le strade. I pezzi delle batterie erano stati messi fuori uso e le armi e le munizioni fatte sparire. Alcuni vogliono che queste, poi, siano state consegnate ai gruppi di partigiani; altri affermano il contrario.

Le notizie provenienti dalle zone vicine fecero dilagare la sfiducia che si impadronì piano piano di tutti. Le poche novità che giungevano erano infatti sconcertanti e tragiche: solo Piombino, in tutta la Toscana, era insorta contro gli invasori. La città di Livorno era in mano tedesca; a Cecina un generale italiano ed un ufficiale tedesco si erano presentati al comando del Presidio per accordarsi sulla consegna del materiale bellico. A Grosseto l’aeroporto era caduto in mano tedesca.

L’isola d’Elba, su cui si era scatenato un bombardamento infernale da parte dei tedeschi, era caduta, dopo un’eroica resistenza, sotto il dominio germanico, e non aveva potuto inviare le due torpediniere richieste dai piombinesi durante la battaglia. Incombeva inoltre su Piombino la minaccia di un bombardamento, nel caso che i cittadini avessero deciso di continuare a combattere.

In parecchi a Piombino si erano compromessi e decisero di partire, di abbandonare la città prima che finisse in mano tedesca e di sicuro, tra questi, i più coinvolti nel Comitato di concentrazione antifascista. Bacherini ebbe l’ingrato compito di rendere inservibili le armi delle batterie ed i cannoni, e di distruggere tutti i documenti segreti. Fornì inoltre di una licenza-premio i suoi uomini che velocemente si dileguarono.

Dopo una notte insonne arrivarono i primi tedeschi. Nelle prime ore del 12 settembre 1943 erano di nuovo all’ attacco. Ma stavolta, a differenza di due giorni prima, solo le loro armi facevano fuoco. Nessuna reazione da parte italiana; la difesa, le batterie costiere, tacquero come cose morte.

Preceduti da fitte raffiche di mitraglia e da un ben nutrito fuoco di armi di bordo crivellarono di colpi alcune abitazioni di Piombino nei pressi del porto e iniziarono l’occupazione della città, completata da gruppi provenienti da Venturina. Alcuni pensarono addirittura che l’occupazione della città stesse arrivando via terra.

Si concluse così la “battaglia di Piombino”. Con una sconfitta cocente, ma con il ricordo per coloro che vi avevano partecipato di aver provato a difendere la propria dignità e ad uscire vittoriosi dentro una cornice sicuramente ostile.

*Tutto il testo che segue non è il frutto di una ricerca originale ma si appoggia in particolare al volume di Rocco Pompeo La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, prendendo in considerazione anche il testo della prolusione di Riccardo Bardotti (Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea d Siena) pronunciata per la celebrazione del 2022 a Piombino e l’Introduzione al volume di Pompeo di Stefano Gallo, direttore della Biblioteca Serantini di Pisa e ricercatore presso il Cnr di Napoli. A Bardotti e a Gallo va il mio più sentito ringraziamento; per Pompeo rivolgo il mio ringraziamento ai suoi eredi. Le ricerche di Ivan Tognarini sono state ampiamente utilizzate da entrambi e quindi sono entrate in questo pezzo senza difficoltà.

[1] Come aveva sottolineato Pietro Bianconi in La resistenza libertaria. L’insurrezione popolare a Piombino nel settembre ’43, Tracce, Piombino 1983, p. X, poi ripreso da Stefano Gallo nella sua Introduzione al volume di Rocco Pompeo, la polizia aveva ben chiare le caratteristiche della figura di Ducci. Scriveva Bianconi: «Fin dal primo giorno del rovescio del regime fascista, in Piombino, si è messo in evidenza il noto Ducci Ulisse fu Bartolomeo allo scopo evidente di prepararsi una via per una eventuale carica politica. A dire il vero, costui, che ha un ascendente sulle masse operaie, si è affiancato alle autorità e si è tenuto in continuo contatto con i direttori dei locali stabilimenti, con le associazioni dei Mutilati ed invalidi di guerra allo scopo di fare ritornare la calma e perché tale calma continuasse. Nel pomeriggio del 2 andante è stato qui sequestrato l’unito foglio volante – dalle indagini esperite è risultato che autore è stato proprio il Ducci il quale lo ha confessato. Il contenuto di tale foglietto dà la riprova di quanto ho detto e che cioè il Ducci voglia collaborare con le autorità per il mantenimento dell’ordine pubblico. Ciò nonostante d’intesa col locale Comando Militare e con l’Arma dei CC.RR., il Ducci viene sorvegliato attentamente allo scopo di seguirne le mosse ed i precisi suoi scopi».

[2] Rocco Pompeo, La battaglia di Piombino, Lumiéres Internationales, Lugano 2015, p. 3.
[3] www.wuinewsnet, Il delitto di Campo alle fave, ultima consultazione 29 agosto 2023. Nel sito si parla di «direttore del personale e di Garabaglia».
[4] Il testo è riportato in R. Pompeo, La battaglia, cit., p.13.
[5] Tutte le informazioni sulla difesa militare provengono dal volume di Rocco Pompeo.
[6] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.19.
[7] Ivi, pp. 19-20.
[8] Titolo assai azzeccato del film di Luigi Comencini del 1960 (con Alberto Sordi) in cui si racconta lo sfaldamento dell’esercito italiano dopo l’armistizio Badoglio.
[9] R. Pompeo, La battaglia, cit., p.23.




Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.



Armando Turinelli

Il 31 luglio del 1922, l’Alleanza per il Lavoro (una coalizione tra CGdL, USI, UIL[1], FILM)[2] proclamò lo “sciopero legalitario” contro i soprusi e le violenze dei fascisti, finanziati dagli agrari e dagli industriali (con la complicità della Chiesa e della monarchia) per contrastare “il pericolo rosso”. «La Parola dei Socialisti» del 11 giugno 1922 aveva già accusato la borghesia di avere “allevata in seno una serpe” e di non essere più in grado di gestire quel movimento che aveva incoraggiato, credendo di poterlo manovrare a suo vantaggio.[3] Anche a Livorno, come nelle altre città, le squadracce delle camice nere, si muovevano (indisturbate) per la città in cerca di cittadini da malmenare e conti da regolare[4]. Con la proclamazione dello sciopero, partì la mobilitazione fascista: centinaia di squadristi da tutta la Toscana si ritrovarono a Livorno nella sede di via Goldoni per stroncare la “città rossa”. I fascisti devastarono la Camera del Lavoro, i circoli socialisti, le sedi delle organizzazioni “sovversive”. Alcune sparatorie ci furono in via Garibaldi, in piazza Carlo Alberto (attuale piazza della Repubblica), in via della Pina d’Oro. Scontri a fuoco tra comunisti e fascisti anche in via dell’Oriolino. In via Solferino, quasi all’imboccatura di piazza XI maggio ed al quadrivio di via della Campana, furono feriti con colpi di rivoltella due fascisti. Altri scontri in via Santa Fortunata, dove un facchino che strappava i manifesti fascisti, dopo una colluttazione con un cittadino, fu aggredito da alcuni fascisti che attaccavano in zona i manifesti; ancora ad Ardenza Terra, in via ed in piazza Vittorio Emanuele (attuali via e piazza Grande), in zona Ponte Arcione[5] (Pontarcione, tra via Provinciale Pisana ed il ponte sull’Ugione), dove perse la vita Filippo Filippetti. Furono aggrediti anche rappresentanti del Consiglio e della Giunta comunale. Vennero uccisi l’assessore Luigi Gemignani e il consigliere Pietro Gigli, insieme al fratello Pilade.

Il 3 agosto, un migliaio di camice nere circondarono il palazzo comunale. Costanzo Ciano e il marchese Perrone Compagni minacciarono il sindaco Mondolfi che, costretto dalla violenza, rassegnò le dimissioni. Il Comune andò in mano ai fascisti ma in città continuano per le vie non gli scontri. Vengono devastate le sedi del Partito Socialista e quella del Partito Comunista (via Santa Fortunata). Scontri avvengono anche in via Tranquilli, sul Voltone, in via Palestro, in via San Luigi e in via Cairoli. Nel pomeriggio del 4 agosto le squadracce fasciste organizzano delle retate e tra gli arrestati, insieme al vicesindaco di Livorno Adolfo Minghi, c’è anche Armando Turinelli[6].
Con la vittoria del fascismo, insieme alle Camere del Lavoro, alle Case del popolo, alle sedi di partiti e di cooperative, vengono costrette a chiudere anche le sedi delle associazioni anticlericali compreso il Gruppo antireligioso “Pietro Gori”.
Nel 1922, a causa dell’attività politica, Turinelli viene licenziato. Non troverà più un’occupazione fissa ed inizia un periodo difficile per tutta la famiglia. Affittato un magazzino in via Provinciale Pisana[7], riprende a svolgere il vecchio mestiere di impagliatore di damigiane e fiaschi di vino.
La casa del Turinelli diventa luogo di incontro di sovversivi

di giorno vengono gli amici del babbo vestiti con i panni da lavoro, hanno sempre fretta e parlano a voce così bassa che non è facile capirli; arrivano e partono senza salutare, senza prendere mai né un bicchiere d’acqua né una tazza di cicoria.[8]

Durante il regime, Armando sarà vittima di aggressioni fisiche e di azioni punitive con irruzioni nella notte nella propria abitazione alla ricerca di materiale sovversivo. Talvolta viene prelevato con la forza e portato nei locali della Fortezza Vecchia dove viene percosso. Nonostante i soprusi, Turinelli rimane fedele ai suoi ideali: “Volete che mi vesta da fascista? Io mi vesto però l’abito è vostro ma dentro sono mio”[9]. Alle elezioni politiche, per le quali era prevista la sola possibilità di approvare o respingere un’unica lista di deputati sostenitori del fascismo Armando si presenta al seggio con la sciarpa rossa e vota no “e siccome il voto non è affatto segreto, torna a casa pesto e sanguinante”[10].
Racconta poi la figlia Lenina che ogni volta che c’è una parata o che a Livorno arrivano personaggi importanti del Regime, il padre viene prelevato e portato in caserma[11]. Una volta all’uscita trova un manipolo di fascisti intenti a purgare i dissidenti con il famigerato olio di ricino. Turinelli rientra al Commissariato e al questurino incredulo che gli chiede il perché del suo ritorno risponde seccamente: io alla purga preferisco la galera.[12]

Nel periodo della guerra, i Turinelli trovarono riparo presso una casa a “Campo al Melo” (una frazione di Livorno nell’entroterra dopo Cisternino) e si guadagnano da vivere vendendo in città il raccolto della campagna. Durante il giro in città, Armando si allontanava dai familiari per incontrarsi clandestinamente con gli antifascisti livornesi.

Finita la guerra e sconfitto il fascismo, riprendono le attività pubbliche e dall’agosto 1945, ricompare il Gruppo Antireligioso Pietro Gori. Il 21 marzo 1946, esce il primo numero de «Il Corvo», giornale anticlericale edito dallo stesso gruppo. Turinelli è confermato Presidente del Gruppo (lo sarà fino alla scomparsa[13]) e scrive articoli per il giornale.

Armando Turinelli muore il 23 gennaio 1951, il giorno dopo la scomparsa di Ilio Barontini (morto nella mattina del 22 gennaio in seguito ad un incidente stradale insieme ai compagni di partito Frangioni e Leonardi[14]), al quale era stato al fianco fin dal 1921. Al suo funerale saranno presenti i soci del Gruppo anticlericale ed un migliaio di amici e compagni con numerosi vessilli rossi[15].
Turinelli è stato tra i fondatori del PCd’I e negli anni venti, Segretario provinciale della Fiom CGdL di Livorno[16].

NOTE

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Italiana_del_Lavoro_(1918-1925) – (Da non confondere con il sindacato omonimo fondato nel 1950 ed esistente tutt’oggi).
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Alleanza_del_Lavoro.
  3. http://www.comune.livorno.it/_cn_online/index02b2.html?page=default&id=554&lang=it.
  4. Paola Ceccotti, Il Fascismo a Livorno – dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Empoli, Ibiskos Editrice, 2006, p. 101.
  5. Da «Il Telegrafo» del 3 agosto 1922 (i giorni precedenti il 3 agosto, il giornale non esce in edicola per l’adesione allo sciopero indetto dall’Alleanza del Lavoro).
  6. Memorie dell’Antifascismo Livornese, (a cura dell’ANPPIA di Livorno), Pisa, Industrie Grafiche d Pacini, 2000, pp. 14, 20.
  7. Marco Susini, “MILITANTI” Personaggi e Storie della sinistra livornese, Pontedera, Bandecchi &Vivaldi, 2002, p. 105.
  8. Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/ .
  9. https://www.facebook.com/anppiantifascista/photos/a.1443457072608570/2745214389099492/?type=3
    Racconto del figlio Spartaco.
  10. M. Susini “MILITANTI”… cit. 105.
  11. Ibidem.
  12. Ibidem p. 106.
  13. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  14. https://archivio.unita.news/assets/main/1951/01/23/page_001.pdf.
  15. «Il Corvo» (anno VI n.15) 1 maggio 1951 p.4.
  16. https://necrologie.repubblica.it/necrologi/2004/439054-turinelli-armando?nome=turinelli+armando.



Armando Turinelli

Questo ritratto che proponiamo di un militante antifascista si colloca nella cornice della tradizione anarco-comunista di Livorno ma soprattutto in quella dell’anticlericalismo labronico. Non si tratta di un personaggio di primissimo piano ma può essere utile a rappresentare attraverso un percorso biografico sintetico, una vicenda molto più estesa e significativa.
Di origine lombarda (Milano), Armando nasce a Noceto in provincia di Parma il 16 aprile 1886. La famiglia è parte di una compagnia teatrale.
In cerca di un lavoro più redditizio, Armando abbandona l’attività teatrale e si stabilisce a Livorno, nota città anticlericale e sovversiva. Troverà occupazione presso una ditta che riveste le damigiane per il vino.
Fin dai primi anni si impegna in attività politiche e sindacali. Contrario al dogma religioso ed al potere della Chiesa, la sera del 4 agosto del 1910[1] Turinelli promuove, insieme ad un gruppo di Compagni del quartiere Stazione (Vannucci, Andreucci, Cerrai, Ficini, Giovannetti, Serri, Tucci, Falleni, Pampana, Filippetti), in antitesi alla costruzione di una nuova chiesa, la costituzione di un’associazione antireligiosa chiamata “Gruppo Antireligioso di viale Carducci” (successivamente assumerà il nome di Gruppo Antireligioso Pietro Gori[2]) del quale sarà Presidente.
Nel primo ventennio del ‘900, Turinelli scrive articoli per quotidiani politici tra i quali l’«Avanti!»[3] e ricopre ruoli di responsabilità in diversi giornali. Diviene gerente de «La Parola dei Socialisti»[4], settimanale socialista fondato da Giuseppe Emanuele Modigliani (diventato poi voce delle correnti rivoluzionarie). Nel 1913 è gerente responsabile de «Il Razionalista» – giornale quindicinale di battaglia razionalista e anticlericale fondato a Livorno[5]. Nel 1915 è gerente responsabile de «Il Fascio socialista» (organo della Federazione socialista Livorno-Elba e dei collegi di Volterra e Lari)[6].

Nel 1914 entra nel Comitato Federale del PSI[7]. Si dedica poi a studiare le opere di Lenin.
Nelle pause di lavoro, com’era tradizione dei livornesi del periodo, pranzava presso la Antica Fiaschetteria Civili (oggi conosciutissimo Bar Civili) dove conosce e poi sposa Gina, la nipote del proprietario del locale. (La coppia avrà sette figli: Comunardo, Spartaco, Lenina[8], Oreste, Eleonora, Cesarina, Glauco).
Negli anni a seguire, troverà occupazione come operaio presso la Società Metallurgica Italiana (SMI)ed entrerà a far parte della Commissione Interna.
Su posizioni massimaliste, Turinelli sosterrà l’adesione delle Organizzazioni Sindacali alla III Internazionale[9].
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto mondiale, la situazione economica si aggrava. La linea politica della Camera del Lavoro di Livorno (CdL) era tendenzialmente quella moderata indicata dai socialisti riformisti e dai repubblicani. La FIOM invece sosteneva la necessità di una mobilitazione più radicale. Quando ci furono le prime agitazioni degli operai alla SMI, Turinelli (uno degli organizzatori della lega aderente alla FIOM) sottolineava il fatto che, anche se era difficile, occorreva tentare una mobilitazione ed era sbagliato negare pregiudizialmente ogni appoggio all’agitazione…[10] Nonostante le divergenze, la CdL e la FIOM concordarono sulla linea da seguire. Alla fine la CdL dette un parziale contributo alla risoluzione della vertenza sostenendo la lotta dei metallurgici e Turinelli acquistò e distribuì 600 copie del giornale della Confederazione tra gli operai della SMI. Per la FIOM fu un grande successo: gli operai approvarono l’operato degli organizzatori sindacali con “un voto di plauso” e circa 1.000 nuove adesioni. Gli operai iscritti alla FIOM, restarono comunque lontani dalla CdL, visto che all’interno prevaleva una linea moderata, considerata avversa[11].
Nel secondo semestre del 1919 ci furono le elezioni per il rinnovo degli organi dirigenti della CdL. Nonostante l’attacco dei repubblicani e l’intervento del deputato socialista Modigliani che suggeriva una politica più riformista, i risultati (grazie anche all’euforia per la rivoluzione in Russia) videro vincitrice la linea massimalista che aprì le porte della Segreteria a Zaverio Dalberto. Tra gli 11 eletti è presente anche Armando Turinelli[12].

Il 1 febbraio 1920 la Federazione Anarchica Livornese e la Federazione Giovanile Socialista organizzano un comizio unitario al Teatro San Marco alla presenza di Errico Malatesta, una delle più importati figure del movimento anarchico. Aderirono diverse realtà del mondo sovversivo provenienti da Pisa e Livorno: socialisti, anarchici, repubblicani, sindacalisti. Turinelli rappresenta la Camera del Lavoro di Livorno[13].
Il 5 novembre 1920, Turinelli (facente parte del Comitato di Agitazione) presiede un’assemblea per discutere la proclamazione di uno sciopero generale in seguito agli annunci degli industriali metalmeccanici livornesi di voler ridurre i salari[14].
Con la partenza di Dalberto nell’agosto del 1920, diviene Segretario Ugo Sereni, socialista riformista. In seguito ai primi licenziamenti tra il 1920 e il 1921, all’interno del movimento operaio si concretizzano due posizioni: quella guidata dal segretario della CdL confederale e quella anarco-comunista della Camera sindacale del Lavoro dell’USI (Unione Sindacale Italiana) appoggiata dall’ala comunista della CGdL (Confederazione Generale del Lavoro) nel frattempo ufficializzata con la scissione al Congresso del PSI di Livorno del 21 gennaio.
Il 15 febbraio del 1921, presso la CdL sindacale il comunista Turinelli presentò un ordine del giorno per lo sciopero generale cittadino di protesta contro i licenziamenti, da effettuarsi anche se la dirigenza della CdL (confederale) non fosse stata d’accordo. Il giorno successivo, alla adunanza del Consiglio delle Leghe alla CdL confederale, i comunisti e i sindacalisti intervennero in massa, e praticamente imposero lo sciopero[15]. Fu un successo, non solo per la massiccia adesione ma anche perché i fascisti (nonostante i rinforzi giunti da fuori Livorno) non riuscirono a contrastarlo.

NOTE:

  1. Molto probabilmente nella bottega di via del Vigna angolo viale Carducci.
  2. «Il Corvo» (anno I n.4) 31 agosto 1946 p.1.
  3. Testimonianza della figlia Lenina.
  4. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31243.
  5. http://www.fondazionemodigliani.it/node/31675.
  6. https://www.fondazionemodigliani.it/node/31244
  7. Nicola Badaloni, Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 113.
  8. Comunardo, Spartaco, Lenina, saranno poi ribattezzati dal regime con nomi più graditi: Bruno, Luigi, Arnalda, tutti nomi di parenti di Benito Mussolini – vedi anche: Rosalba Risaliti “Le cinque domande di Cesarina”, https://anppia.it/l-antifascista/leggi-anche-tu/.
  9. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e …. cit., p. 113.Luigi Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione e di lotta della Camera del Lavoro di Livorno, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, (a cura di Ivan Tognarini e Angelo Varni), p. 197.
  10. Ibidem p. 198.
  11. Ibidem p. 226.
  12. Tobias Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922), Milano, Franco Angeli editore, 1991, p. 60.
  13. Ibidem p. 194.
  14. L. Tomassini, Le voci del Lavoro. 90 anni di organizzazione…, cit, p. 261.



Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Shangai dal secondo dopoguerra ad oggi

Shangai, nonostante le sue origini, e forse proprio per via di esse, era un quartiere caratterizzato da una forte solidarietà e da un grande senso di appartenenza dei suoi abitanti, fin dai primissimi anni. [1]

In particolare, a partire dagli anni ’70, una marcata coesione sociale ha caratterizzato la sua storia. Le ragioni di questo sono da ricercarsi nelle attività svolte dalla sezione del PCI della zona, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, dal parroco locale, Don Biondi: si tratta di realtà che erano riuscite a promuovere attività culturali e ricreative, anche di stampo politico, incentivando cooperazione, una buona convivenza e un senso di comunità tra gli abitanti del quartiere. [2]

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Una delle esperienze che ha fatto vivere a Shangai uno dei suoi periodi più positivi è stata la creazione del “Punto incontro donna”, voluto dalle donne di quartiere, su proposta della sezione locale del Pci, per avere un luogo dove ritrovarsi. [3] Dalla sua nascita, nel 1985, il quartiere tutto è stato altamente coinvolto in numerosissime iniziative come rassegne teatrali, concerti, corsi di cucito, sfilate di quartiere, feste di carnevale, mercatini, gite di gruppo e molto altro. Nel video prodotto dall’ISTORECO di Livorno[4], in collaborazione con le Scuole Fermi di Shanghai, nel 2020, sono state raccolte le testimonianze di abitanti del luogo che hanno vissuto e gestito in prima persona queste attività. Anche le foto donate da Luana di Dio, anima del “Punto incontro donna”, raccontano una vita di quartiere vivace e culturalmente attiva. Anche nelle due interviste rilasciate, tra il 2020 e il 2022, alla prof.ssa Catia Sonetti, Direttrice dell’ISTORECO di Livorno, Luana di Dio e Manuela Alfaroli hanno rievocato proprio questa storia. A giugno 2022 l’ISTORECO ha organizzato, insieme all’ARCI di Livorno, un’iniziativa molto toccante, in cui sono state esposte diverse fotografie delle varie iniziative portate avanti dal Punto Incontro Donna, e durante cui hanno preso la parola alcune delle donne che sono state, tra il 1985 e il 2017, coinvolte personalmente nella gestione di tali attività. La passione e l’impegno che queste hanno investito per portare avanti idee di cooperazione sociale e solidarietà in un quartiere tra i più poveri di Livorno erano tangibili nei loro ricordi e nelle loro parole. E’ stato molto interessante anche il collegamento online con la scrittrice Claire Hunter, dalla Scozia, che ha illustrato i molti punti in comune tra alcune delle storie raccontate nel suo libro “I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago” (2020, Bollati Boringhieri) in cui riflette sulla straordinaria importanza del cucito e della sua diffusione e trasversalità a livello sociale, in tutto il mondo e in tutte le culture.

Purtroppo la chiusura del centro donna, avvenuta nel 2017, ha provocato una regressione sociale del rione. I molti, ripetuti, tentativi da parte dell’amministrazione comunale di integrare Shangai col resto della città tramite progetti rigenerativi[5], Bandi ministeriali[6], demolizioni di alcuni dei vecchi blocchi e ricostruzioni di nuovi appartamenti e scuole pubbliche (progetto ancora in corso)[7] si sono rivelati poco risolutivi sia a breve che a lungo termine. Oggi infatti, con la mancanza di associazioni ed altre realtà di quartiere come quelle che hanno operato a Shangai tra il 1970 e il 2017, gli investimenti comunali e i tentativi di de-ghettizzare il quartiere e di reintegrazione dello stesso con il resto della città sono riusciti a raggiungere solo scarsi risultati perché il rione ha via via perso quella coesione sociale interna che lo ha sempre caratterizzato, tramutandosi in parte in una zona di spaccio di droga e di marcato degrado sociale. [8]

Conclusioni

La storia di Shangai dalla sua nascita ad oggi, la traiettoria che ha percorso il quartiere, rispecchia molto bene quanto espresso da David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (2015): si tratta di una delle molte storie di periferie ai margini sociali e geografici delle città italiane, nate, osservate e rappresentate attraverso uno sguardo “esterno”, come un luogo in totale antitesi alla raffinatezza, la ricchezza, la bellezza che invece rappresenta il centro cittadino. E’ interessante vedere come, grazie ad attività, progetti, associazionismo proattivo come quello del “Punto incontro donna” per esempio, si possa quantomeno tentare di ribaltare lo sguardo da cui si osserva il quartiere, insieme alle sue sorti. Anche le immagini che raccontano da dentro quella che era la vita di Shangai e degli “shangaini” in quegli anni sembrano narrare una storia diversa da quella classica di quartiere periferico, popolare, povero e ghettizzato. Esse infatti mostrano storie di persone che partecipavano attivamente alla vita del proprio rione, che contribuivano per quello che era loro possibile al senso di comunità e di sostegno reciproco. Il “Punto Incontro Donna”, così come altre realtà del secondo dopoguerra, volute e dirette dagli abitanti stessi del rione, sono riusciti a creare una vera e propria comunità, a dare vita, a livello culturale e sociale, a uno dei quartieri più popolari e poveri della città.

 La prima parte dell’articolo.

nota:

[1] Susini M., Shangai…,cit., p.23.

[2] Susini M., Shangai…,cit., pp.25-79.

[3] https://iltirreno.gelocal.it/livorno/foto-e-video/2015/03/06/fotogalleria/il-punto-incontro-donna-dishangai- compie-30-anni-1.10992853

[4] Video prodotto da ISTORECO, intitolato “Shangai. Storie e memorie di quartiere” all’interno del progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[5] https://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/CdQ%20II%20estratto.pdf

[6] Vedi progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[7] Vedi progetto di riqualificazione anche dei poli scolastici di Shangai https://2017.gonews.it/2015/01/17/quartiere-shangay-inaugurata-la-nuova-scuola-materna-in-via-stenone/

[8] Vedi progetto ISTORECO Livorno “Storie e memorie di Shangai” in

https://www.facebook.com/istitutostorico.livorno/videos/3641411932582974




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Introduzione

L’obiettivo di questo breve articolo è quello di ripercorrere la storia del quartiere di Shangai di Livorno, partendo dalla sua nascita, alla fine degli anni ’20 del ‘900, per arrivare ai giorni nostri.
Il focus sarà quello di determinare le ragioni che hanno portato alla nascita di un quartiere problematico, e riflettere su quelle azioni, quelle scelte che, nel tempo, sono riuscite ad offrire nuove opportunità e possibilità per i suoi abitanti. In particolare emergerà che il periodo più positivo vissuto dagli abitanti del quartiere corrisponde a quello che va dagli anni ’70, con l’inaugurazione della sezione del PCI di Shangai[1] fino al primo decennio degli anni 2000. Durante questi anni, infatti, diverse associazioni e realtà religiose e politiche, portate avanti dagli stessi abitanti di Shangai, hanno risollevato le sorti di un quartiere difficile sotto molti punti vista, promuovendo senso di comunità, cooperazione e coesione sociale. Nel 2017 è stato chiuso il “Punto Incontro Donna” di Shangai, uno degli ultimi e più saldi pilastri sociali del quartiere, e la situazione già precaria del popolare e degradato rione, ha iniziato a peggiorare gradualmente nonostante i molti investimenti e tentativi di miglioramento da parte dell’amministrazione comunale.

Prima delle origini

Nell’area che corrisponde oggi al quartiere, fino all’inizio del ‘900 si trovavano “solo orti, campi, acquitrini, e rovi”[2]. Era una zona conosciuta dai livornesi soprattutto per la strada che portava al cimitero cittadino, la via del Camposanto. Vi abitavano poche persone, e vi erano insediate alcune fabbriche come la Parodi dove si lavorava l’olio, la Gallinari che produceva coloranti e bitume e la famosa fabbrica della Richard Ginori. Era quasi un’area verde di campagna, perfino con un corso d’acqua, il Rio Cigna[3].

Origini

La nascita del quartiere risale al 1930, quando l’Istituto Case Popolari di Livorno iniziò la costruzione di blocchi abitativi detti “popolarissimi”[4].
La decisione di costruire questo nuovo quartiere a nord della città, che sembra prendere il nome proprio da quanto lontano, disagiato e sovraffollato fosse, in richiamo anche alla città cinese, mancante di tutto quello che invece era presente nel centro, è da ricollegarsi addirittura alla fine dell’800. Fu allora infatti che la questione dei fabbisogni abitativi iniziò ad assumere sempre maggiore importanza. La Livorno postunitaria infatti era in espansione, con un numero crescente di iniziative imprenditoriali. Il commercio portuale fioriva, ma soprattutto la città necessitava un “riassetto organico edilizio del degradato centro cittadino”[5]. Le epidemie di colera nei blocchi del centro (intorno alla centralissima attuale via Grande) erano estremamente comuni, a cavallo tra ‘800 e ‘900, proprio in questi “fatiscenti e insalubri edifici del centro… occupati da miserabili che non possono certamente permettersi di procurarsi una casa in buone condizioni”[6].
In realtà questa necessità di alleggerire il centro abitato da “miserabili” aveva anche delle motivazioni di tipo politico. Nel 1922 i fascisti conquistarono violentemente il Municipio, costringendo il sindaco Mondolfi e l’intera giunta a dimettersi[7]. Solo tre anni prima, nel 1919, vi erano state proteste e saccheggi nel centro cittadino per il caroviveri. Quindi per evitare il ripetersi di tali eventi, il nuovo governo cittadino nel ’26 decise di cedere a titolo gratuito terreni per case popolari da costruire in vista dello sventramento dei blocchi “insalubri”, abitati da persone difficili da tenere sotto controllo, del centro. Questi appezzamenti di terreno comunale erano stati prima (nel 1923 circa) cedute ad associazioni di combattenti, di madri o vedove di guerra che tuttavia non riuscirono ad utilizzarli e dovettero restituirli al Comune, che a sua volta li cedette all’Istituto Case Popolari[8]. Inoltre le case “popolarissime” di Shangai nacquero all’interno della politica di disurbanizzazione, ovvero quella che l’architetto Calza-Bini, presidente dell’I.C.P. di Roma aveva esposto in un’intervista al “Giornale d’Italia” nel 1928 in cui affermò che tutti coloro che non avevano necessità di stare in città dovevano essere trasferiti in periferia tramite la costruzione, da parte dei vari istituti di case popolari, di nuove case in parti periferiche, agricole e/o industriali, delle città. In particolare Calza-Bini nominò in quegli anni una commissione che pubblicò nel 1926 un testo intitolato “Per la costruzione di case popolari rapide ed economiche”, che descriveva i casamenti a cortile chiuso di Shangai[9].
Costanzo Ciano, mano destra di Mussolini, e livornese, spese molte energie per dare l’avvio ad un’edilizia popolare per quei ceti costretti a lasciare il centro e andare nelle nuove abitazioni[10], soprattutto per soddisfare i suoi interessi economici personali[11].
Dallo sventramento dei palazzi insalubri del centro, le famiglie furono traferite nelle abitazioni che iniziarono ad essere costruite a Shangai, caratterizzate dalle “stimmate del degrado e della bassissima qualità abitativa”[12]. È un fenomeno molto comune nelle vicende abitative dei poveri: i bassifondi scompaiono in un posto e riappaiono in un altro[13]. Si trattava di caserme, costruite con materiali scadenti, dove andarono ad abitare famiglie molto povere e numerose. Non solo i materiali delle costruzioni erano di pessima qualità, anche l’impianto delle stesse era di basso livello (quasi sempre l’unico servizio igienico si trovava direttamente in cucina, le abitazioni erano mono affaccio).
I blocchi continuarono ad essere costruiti negli anni successivi, senza però un piano di sviluppo di servizi, infrastrutture e stradario adeguato al popoloso nuovo quartiere che rimase quindi isolato dal resto della città[14]. I bambini inoltre non avevano nemmeno un oratorio dove andare a giocare, anche se almeno la prima scuola del quartiere, le “Campana”, fu costruita pochi anni dopo il primo blocco abitativo, sempre negli anni ’30. Dopo la seconda guerra mondiale, infine, venne terminato il cosiddetto blocco delle “signorine” perché’ subito occupato da prostitute, attirate dalla presenza di una grande base di soldati americani nelle vicinanze[15].

[prosegue]

NOTE: 1. Susini Marco, Shangai:
un quartiere e la sua gente, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2004. p.31.
2. Ibidem, p.17.
3. Ibidem, p.18.
4. Ibidem, p.19.
5. Ulivieri Denise, “Primato livornese: edilizia popolare d’autore”, in Nuovi Studi Livornesi, Vol. XIX- 2012, Debatte editore, Livorno. pp.99-101.
6. Ibidem, pp.97-120.
7. Mazzoni Matteo, Costanzo Ciano, il fascismo a Livorno, in Quaderni di Fare storia, Anno XIII – N.2-3 maggio –
dicembre 2011, I.S.R.Pt Editore, Pistoia. p.22.
8. Bartolotti Lando, Livorno dal 1748 al 1958. Profilo storico urbanistico, Di Lando Bortolotti, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1977, p.327.
9. Ibidem, p.349.
10) Ulivieri D., Primato…,cit., p.102.
11. Mazzoni M., Costanzo Ciano…,cit., pp.21,22.
12) Susini M., Shangai…,cit., p.19.
13. Forgacs David, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2015. p.41.
14. Pia Margherita, La riqualificazione dei quartieri nord in I programmi per i quartieri nord di Livorno. Il contratto di quartiere “Corea”, in Qualità e Città/1, a cura di Landini Franco, ALINEA editrice, Firenze, 1999, p.11.
15) Susini M., Shangai…,cit., pp.19-22.




Alla conquista della “piccola Russia”

oltre mille fascisti, inquadrati militarmente, sono sboccati in piazza Vittorio Emanuele, fermandosi dinanzi al Palazzo Comunale. Il marchese Dino Perrone Compagni, dopo aver salutato il tricolore che sventola dalla sommità del Palazzo civico, ha intimato a gran voce all’amministrazione comunale socialista di dimettersi entro le ore 12. La folla ha vivamente applaudito. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922.]

Dopo un colloquio con il prefetto Eduardo Verdinois e l’on. Costanzo Ciano esponente emergente della classe dirigente livornese, forte della sua fama di eroe della Grande Guerra e degli stretti rapporti con i vecchi ceti dominanti (a partire dalla famiglia Orlando) e con il fascio urbano, il sindaco socialista Umberto Mondolfi decide di dimettersi, cedendo alle minacce di Dino Perrone Compagni, ras del fascismo toscano, alla guida dell’offensiva squadrista contro la città labronica e regista delle spedizioni squadriste dirette da Firenze nelle altre province della regione.
Questi era stato inviato a Livorno a luglio dal Comitato centrale del PNF sia per riportare ordine all’interno del fascio locale scosso da gravi tensioni interne e dalla minaccia di scissione della componente più estremista vicina all’ex segretario Marcello Vaccari sia per attuare l’ultimo atto dello scontro con le forze “sovversive”: la conquista violenta del municipio.
Dati i precedenti personali di Perrone Compagni, figura carismatica all’interno di quel fascismo toscano che da mesi guardava con odio al sopravvivere della giunta socialista di Mondolfi in un contesto regionale già fortemente fascistizzato, il prefetto Verdinois, in una relazione al Ministero degli Interni di quello stesso mese di luce, si fa facile profeta di una spedizione fascista contro la città, vista anche come occasione perfetta per ricompattare gli sforzi e gli interessi delle diverse anime del fascio e degli ambienti collaterali come gli ex combattenti, rinsaldando una rinnovata unità.
Livorno del resto non era solo uno degli ultimi municipi a guida socialista ma una città simbolo, sede del congresso fondativo del partito comunità, città di consolidate tradizioni “sovversive”, teatro di importanti scioperi e manifestazioni negli anni del primo dopoguerra fra miti rivoluzionari e crescenti timori nei ceti medi e borghesi e nei tradizionali gruppi dirigenti di una città, provata dalle forti divisioni politiche suscitate dal primo conflitto mondiale e provata dalle difficoltà economiche e dalle conseguenze sociali determinate dai processi di riconversione economica postbellica.

Nella notte tra il 2 e il 3 agosto le squadre fasciste erano arrivate con i treni da tutta la Toscana. Un gruppo era riuscito a penetrare nel Municipio e ad issare sulla torre un grande vessillo tricolore. La mattina del 3 agosto Perrone Compagni, sia con una lettera, sia con una telefonata in municipio, lo aveva chiaramente ammonito: «dopo il tramonto non avremo più alcun sentimentalismo verso nessuno come voi non avete mai alcun sentimentalismo per la Patria e l’onestà». [Testo della conversazione telefonica fra Perrone Compagni e Mondolfi, secondo quanto riportato da «Il Telegrafo», 4 agosto 1922.]

Già nelle ore precedenti la città aveva conosciuto la violenza degli squadristi. Appena si era sparsa la notizia dell’adesione della Camera di Lavoro confederale e di quella sindacale allo sciopero generale proclamato dall’Alleanza del lavoro, gli squadristi erano stati mobilitati da Perrone Compagni. La mattina del 2 agosto due squadre erano state inviate nei vari stabilimenti e alla stazione dei tramvai; gruppi in auto e camion carichi di camice nere avevano iniziato a pattugliare le vie della città. I fascisti avevano ordinato di appendere le bandiere nazionali alle finestre delle case e il tricolore veniva issato anche sul Duomo.
Subito dopo il suo arrivo in città, Costanzo Ciano aveva fatto affiggere un manifesto in cui esprimeva il suo pieno sostegno all’azione dei fascisti, in quanto «l’attentato alla Nazione compiuto dai dirigenti delle organizzazioni sovversive, impone agli italiani di difendere la Patria, la libertà, la famiglia! Contro i matricidi insorge il fascismo. Concittadini, nella calma, nella serenità più perfetta attendete la vittoria».
Il ferimento di due militi aveva provocato le prime spedizioni punitive contro i circoli ´sovversivi`: Il Cigno, Il Germoglio all’Ardenza, e quello dei ferrovieri. La violenza fascista aveva colpito in particolare la famiglia Gigli:
appena è stato loro aperto, hanno iniziata una scarica di revolverate nella stanza d’ingresso, ferendo mortalmente il tranviere avventizio Pilade Gigli, di anni 30, il fratello Pietro Gigli, di anni 35, consigliere comunale comunista, parrucchiere, e la loro madre, la vecchia settantacinquenne Giulia Cantini nei Gigli. Un figlio di Pietro, Armando, noto anche lui come comunista, insieme allo zio Manlio Gigli, riuscirono a dileguarsi calandosi da una finestra. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922]

Nella giornata del 3 le dimissioni della giunta, che sanciscono la vittoria di Perrone Compagni, non segnano la fine degli scontri, che anzi riprendono con maggiore intensità in seguito al ferimento dell’ex segretario del fascio Marcello Vaccari. Gli squadristi attaccano e devastano la Camera del lavoro e le abitazioni di vari esponenti socialisti:
sfondata la porta dell’assessore Bacci hanno fatto irruzione nell’appartamento devastandolo. I mobili, i quadri e quanto altro vi si trovava ed era asportabile è stato gettato sulla strada ove n’è stato fatto un immenso falò. La cronaca registra inoltre un tentativo d’invasione del quartiere abitato dall’assessore Urbani, in piazza Magenta, dove la porta, solidissima ha resistito. […] Un altro gruppo di fascisti in Corso Amedeo ha fatto irruzione, devastandola, nella casa del consigliere comunale Luigi Gemignani che è rimasto ferito alla guancia sinistra. [«Il Telegrafo», 4 agosto 1922]
Stessa sorte tocca alla sede dei comunisti in via Santa Fortunata, alla casa dell’assessore Giuseppe Cardon, la cartoleria dell’assessore Giuseppe Bacci, il banco di commercio dell’assessore Giorgio Urbani, la sede della Federazione socialista: «dopo non pochi sforzi la porta ha ceduto e gli assalitori sono penetrati nell’interno. I fascisti si sono impossessati dei mobili, delle carte, hanno staccati dai muri i numerosi quadri e hanno gettato ogni cosa nella strada. Tutto è stato devastato». Al termine della giornata il bilancio degli scontri riportato da «Il Telegrafo» è di 18 feriti, fra cui un ragazzo di 18 anni, due donne e un vecchio di 71 anni, e di 4 morti: Gilberto Catarsi, operaio del Cantiere Parodi e Del Pino, ucciso da un colpo di arma da fuoco partito da un camion, Oreste Romanacci di 73 anni, il muratore Filippo Filippetti, Bruno Giacobini di 14 anni casualmente ferito durante degli scontri in via Palestro, dove si era recato per curiosità.

Nei giorni successivi la pubblica sicurezza perquisisce il circolo repubblicano di via Pellegrini e, trovandovi armi ed esplosivi, arresta Gino Reggioli segretario della sezione del PRI, il presidente del Circolo e altri membri; intanto le bandiere nazionali vengono appese ai balconi e alle finestre delle case e il preposto della Cattedrale monsignor Pera acconsente che il tricolore sventoli sul Duomo.

Il 4 agosto la manifestazione patriottica che sfila per le strade della città suggella, anche simbolicamente, l’unione tra le forze industriali, patriottiche, ex combattenti e fasciste che avevano concorso all’abbattimento della bandiera rossa dalla torre municipale, mentre il generale Ibba Piras, comandante della Divisione militare, assume la gestione dell’amministrazione cittadina come commissario straordinario fino all’11 agosto.

La lettura del “Telegrafo”, quotidiano cittadino, può aiutare a ricostruire il clima di sollievo e soddisfazione che la caduta della giunta porta negli ambienti della borghesia cittadina. La violenta aggressione e deposizione di un’istituzione legalmente eletta si trasforma nella retorica del giornale in una liberazione salvifica, una grande festa per la fine del “governo bolscevico”:
Livorno ha salutato ieri il ritorno del tricolore in modo che sarebbe follia voler descrivere. E’ stata un’altra vibrante festa italiana quella che si è svolta in un trionfo di bandiere nazionali e alla quale il nostro popolo -ancor fiero delle sue tradizioni patriottiche- ha partecipato con un entusiasmo che supera ogni immaginativa. [“Telegrafo”, 5 agosto 1922]

Così in due giorni, sfruttando l’occasione dello sciopero legalitario proclamato in tutta Italia dall’Alleanza del Lavoro proprio contro le violenze fasciste, Perrone Compagni guida le camice nere labroniche alla conquista della città, grazie al sostegno degli squadristi giunti da tutta la regione, alla complicità di ampia parte della vecchia classe dirigente e al benevolo attendismo delle forze di pubblica sicurezza.