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Olocausto e finzione filmica.

Diciamolo subito: in questo articolo non si parla del (trascurabile) carrarmato americano, né si mette in dubbio che sequenze come l’ispezione scolastica con lezione sull’ombelico ariano, o la traduzione strampalata delle regole del lager (durante la quale si ride e si prova angoscia allo stesso tempo) possano entrare a buon diritto nella storia del cinema e della comicità. Si tenta piuttosto di inquadrare, argomentandoli il più lucidamente possibile, gli aspetti più problematici di un’opera che, come il suo autore, ha spesso suscitato polarizzazioni istintive e irragionevoli, tra la celebrazione acritica e la condanna sprezzante.

Sembra impossibile parlare del film del 1997 La vita è bella (regia di Roberto Benigni, sceneggiatura di Benigni e Vincenzo Cerami, Grand Prix Speciale a Cannes 1998, tre Premi Oscar nel 1999) senza incappare in un doppio circolo vizioso. Ci sono appunto due questioni di fondo, essenzialmente irrisolvibili, che come tali hanno spesso finito per paralizzare il dibattito: la prima, su cui non credo abbia molto senso soffermarsi, è la necessità di una totale libertà creativa ed espressiva di qualunque artista, anche quando si tratta di scherzare sulla Shoah; la seconda, che ritengo più interessante, è l’assunto per cui un film, non avendo la funzione né la responsabilità di offrire una ricostruzione storicamente coerente (bensì di proporre un racconto di finzione, una favola immaginaria in cui l’incredulità viene sospesa) non possa e non debba essere giudicato per le inverosimiglianze della sceneggiatura. Assunto non scritto da nessuna parte, ma che sembrerebbe comune e largamente condiviso, ripreso di recente in varie occasioni pubbliche dallo storico Miguel Gotor, consulente del regista Marco Bellocchio per il film Esterno Notte (2022), sul caso Moro.

Su questo secondo punto La vita è bella ha ricevuto aspre e rilevanti stroncature da Claude Lanzmann (Il Fatto Quotidiano, 2014), Simone Veil (Corriere della Sera, 2009), Liliana Segre (La memoria rende liberi, Rizzoli 2019), Daniel Vogelmann (contributo presente su www.deportati.it) – mentre è stato valutato positivamente ad esempio da Shlomo Venezia, da Marcello Pezzetti, da Nedo Fiano, per non parlare dell’accoglienza a dir poco trionfale da parte della comunità ebraica americana.

Benigni non aiuta a fare chiarezza. Nella Presentazione che introduce l’edizione a stampa della sceneggiatura (da cui citeremo anche di seguito a più riprese) il regista afferma chiaramente di aver realizzato:

“un film fantastico, quasi di fantascienza, una favola in cui non c’è niente di reale […]. Chissà se un po’ dello sguardo di Giosuè riuscirà a penetrare nello spettatore: certe cose che a forza di nominarle si sono a volte un po’ consumate, come appunto i campi di concentramento e l’orrore dello sterminio degli ebrei, attraverso questo paradosso, attraverso questo gioco dell’irrealtà, potrebbero tornare a stupire, meravigliare, tornare appunto a sembrare, giustamente, impossibili” (ed. 1998, pagine VII – X).

Poche righe più avanti però si contraddice (è diventato col tempo, questo dire contemporaneamente di sì e di no, uno standard della sua affabulatoria comunicazione). La storia narrata dal film, di per sé inventata, pretende però di inserirsi in una ricostruzione storica, non “fantastorica” né fantascientifica:

“Quello che voglio è che il bambino resti sano, integro, e ce la metto tutta e riesco a non farmi piegare fino alla fine, perché quello è proprio un campo di sterminio dove i bambini venivano uccisi pochi giorni dopo l’arrivo, se non addirittura il giorno stesso […]. Noi ricostruiamo perfettamente cosa succedeva in quei luoghi spaventosi”

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A questo punto ci troviamo di fronte a un bivio: o scegliamo di goderci passivamente il racconto, l’immaginario che gli autori dichiarano di aver ricostruito a partire dai fatti storici – in tal caso gli stessi lettori di questo articolo possono evitare di andare oltre – oppure seguiamo Benigni quando ci dice di aver ricostruito perfettamente cosa accadeva in un lager, e in tal caso le domande sono almeno due. Prima domanda: come giudicheremmo un film che raccontasse, ad esempio, la storia di come Anna Frank è avventurosamente sopravvissuta alla deportazione? Certo daremmo per scontato che un tale film si palesasse come totalmente falso, perché altrimenti – se avanzasse pretese di verità storica – nessuno troverebbe stupefacente la stroncatura da parte non solo dello studioso, ma dello spettatore comune.

Seconda e conseguente domanda: come si colloca il film rispetto alla realtà storica? Possiamo scartare l’ipotesi che La vita è bella sia un film ucronico, di quelli che si divertono a fantasticare su come le cose sarebbero potute andare (Inglourious Basterds o Once upon a time in Hollywood, entrambi di Quentin Tarantino); altrimenti, salvo equivoci, non sarebbe tra i film più comunemente replicati in TV o proiettati nelle scuole in occasione del Giorno della Memoria, stabilito proprio “per non dimenticare” ciò che effettivamente è accaduto. Dovremmo anche allontanare il sospetto che determinate situazioni esistano solo nella mente del bambino – come accade, ad esempio, in Jojo Rabbit (Taika Waititi, 2019) – dal momento che il montaggio del film mostra chiaramente l’alternarsi di varie soggettive (di Dora, dello stesso Guido), facendo sì che il pubblico adotti il punto di vista di tutti i personaggi, non solo di Giosuè. Dora, ad esempio, perde ogni speranza quando viene a sapere da un’altra detenuta che i bambini verranno tutti mandati al gas; la ritrova quando sente la voce di Giosuè dall’altoparlante. Non ci troviamo in un sogno, in una dimensione parallela, in un’illusione fallace: il film propone una semplice ed esplicitata divisione tra le cose come stanno e come Giosuè le vede. Un chiaro esempio a conferma di questa impostazione è la celebre scena in cui il bimbo, nascosto in una cabina, guarda il padre attraverso la feritoia; Giosuè resta ancora convinto che tutti stiano giocando, mentre Guido, ben conscio del pericolo, teme che il cane che abbaia sveli ai soldati il nascondiglio improvvisato.

Ma soprattutto, quale interesse avrebbero avuto il pubblico e la giuria dell’Academy Award per un film che non si ricollega alla memoria dell’Olocausto, o che lo fa solo per ingenua ispirazione? Il film – e l’ottimismo da esso veicolato – sembrano avere senso soltanto se noi pensiamo che davvero,  storicamente, un Giosuè si sarebbe potuto salvare (attenzione: non salvarsi dalla deportazione, magari fuggendo dal ghetto o venendo nascosto da qualche parte, come sappiamo essere qualche volta accaduto, ma salvarsi nel lager). È per questo che parlare di “favole” e di sospensione dell’incredulità non è sufficiente a dissipare le critiche rivolte al film; l’analisi di come Benigni e Cerami hanno giocato con i fatti storici per adattarli alla sceneggiatura non è una puntigliosità fine a sé stessa, ma lascia intravedere ambiguità che pesano direttamente sulla ricezione del racconto. Vediamole di seguito.

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Centinaia di articoli e recensioni hanno ribadito, nel corso di venticinque anni, che in questo film un padre fa di tutto per salvare il figlio, nascondendolo dai nazisti; ma questo non è del tutto vero.

In lager, subito dopo il terribile viaggio in treno – che nel film non è evidentemente così terribile, dato che quasi non lascia traccia sui protagonisti – i bambini, direttamente all’uscita dal mezzo, venivano smistati con le femmine e gli anziani,  facendoli uscire dal lato opposto rispetto a quello dei maschi ed immettendo i due gruppi di detenuti in due aree diverse, non comunicanti; Giosuè, invece, viene inspiegabilmente lasciato nel gruppo degli uomini considerati abili al lavoro, perfettamente visibile da tutte le SS (parla ad alta voce del carro armato col babbo e con lo zio, nel bel mezzo del cortile assolato). Le SS possono vederlo chiaramente anche nella baracca, mentre Guido traduce a modo suo le regole del lager; in questa fase Giosuè si salva non perché Guido lo nasconda, ma perché i nazisti non sono poi così cattivi, lo lasciano scorrazzare in giro per un po’. Aspettano.

Alla domanda “come sfugge il bambino alla doccia?” gli autori preparano la risposta – surreale – già nella prima parte, prevalentemente comica e ambientata ad Arezzo: Giosuè detesta farsi il bagno («Non ci voglio andare!»), ragion per cui, quando in lager gli altri bambini vengono chiamati per la “doccia”, lui non ci sta e corre svelto dal padre, presso la fonderia:

GUIDO Che fai? Non ci puoi venire qua! Mettiti lì dietro. Che ci fai qua? Perché non stai coi bambini? […]

GIOSUÈ …Perché hanno detto che oggi i bambini dovevano fare tutti la  doccia! Io non la voglio fare la doccia!

Ma chi sono questi bambini con cui Giosuè dovrebbe stare? Non si tratta dei bimbi tedeschi, figli dei nazisti; Guido riuscirà a infiltrarlo tra loro solo in una fase successiva del film, quella in cui il dottor Lessing lo assume come cameriere. A questi altri bambini si fa riferimento sin dalle prime scene in lager, subito dopo l’arrivo, evocando una dimensione che è divenuta quotidiana: «Che c’è Giosuè, hai giocato con i bambini oggi […] «Sì, ma i bambini non sanno proprio le regole. Hanno detto che non è vero che si vince il carro armato. Non sanno che bisogna fare i punti».

Sono bambini con cui Giosuè può parlare, intendersi; sono gli altri bambini ebrei, che il film non mostra mai e a cui non viene l’idea geniale di sgattaiolare via dalla baracca fino al posto in cui lavorano i padri, magari per escogitare un bel piano di fuga. Anche in questo momento Guido non sta affatto nascondendo il figlio: c’è un luogo, non meglio precisato, in cui è previsto che tutti i bambini ebrei vengano lasciati così, a giocare. Giosuè è ancora vivo perché i nazisti aspettano ancora, aspettano che arrivi il momento della doccia.

Cosa ci ricorda questo aspettare, dove lo abbiamo già visto? Sono le stesse, inspiegabili esitazioni del villain del cinema di ogni tempo, che trovandosi di fronte l’eroe inerme, disarmato e indifeso – da James Bond ad Avatar 2 – potrebbe ucciderlo in ogni momento e tuttavia, seguendo un cliché ormai abusato dagli sceneggiatori, aspetta e fa sì che l’eroe abbia il tempo di riorganizzarsi e vincere; ma il lager non è Pandora, i nazisti non sono Ernst Stavro Blofeld.

Dopo che Giosuè è “miracolosamente” sfuggito alla camera a gas, il padre – adesso sì – inizia effettivamente a “nasconderlo” e gli ordina di non muoversi mai dalla baracca: ora ogni sua azione dovrà muovere dall’imperativo categorico di proteggere il bambino. Subito dopo, però, lo carica sulla carriola e se lo porta nel luogo più pericoloso – una casupola provvisoriamente abbandonata dai tedeschi – per “telefonare” alla mamma tramite gli altoparlanti, rivelando così la sua presenza a tutto il campo (altre domande sorgerebbero spontanee allo spettatore, se il montaggio e la sospensione dell’incredulità non lo trascinassero in un lager fantasioso: ad esempio come può il bambino, dopo giorni, non soffrire la malnutrizione? La sceneggiatura permette a Guido di far cenare Giosuè assieme ai figli dei gerarchi, dall’antipasto al dolce)!

 

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La principale funzione delle invenzioni sinora descritte è quella di salvare il bambino fisicamente; ma la vera ragione per cui il lager in La vita è bella non è storicamente verosimile è che, per avverare il messaggio che gli autori vogliono passare, il bambino non può e non deve mai vedere la morte; è questo l’elemento che più stride con il valore di rievocazione storica che La vita è bella, pure tramite un meccanismo di finzione e invenzione («Come in una favola c’è dolore») pretende comunque di portare con sé («Questa è la mia storia. Questo è il sacrificio che mio padre ha fatto»).

L’unica volta in cui il bambino si trova davanti a uno degli enormi mucchi di cadaveri (la cui apparizione agghiacciante è indelebile nella memoria di chi ha liberato i campi) non li vede, essendo addormentato tra le braccia del padre. Nelle varie occasioni in cui trotterella da solo qua e là per il campo, senza quindi che agisca la protezione del padre, Giosuè non vede nulla di brutto – non necessariamente un cadavere o un’esecuzione sommaria, ma nemmeno un detenuto che riceve una percossa; nulla che possa spezzare l’illusione creata da Guido.

Nel secondo capitolo di Se questo è un uomo, Sul fondo (1947), Primo Levi racconta di come le nuove matricole del lager venissero dileggiate da personaggi come “il dentista”; costui diceva che «tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio», che «chi tira bene di boxe può diventare un cuoco», che «chi lavora bene riceve dei buoni-premio». Nel film di Benigni il disagio reale dev’essere occultato al bambino, invenzioni simili a quelle del “dentista” devono essere credute. Ribadiamo ancora una volta la contraddizione di partenza: da un certo punto di vista non ha senso impostare un confronto ad armi pari tra un racconto filmico e una testimonianza storica. D’altro canto questo film si mette in una posizione talmente ambigua da rendere inevitabile la riflessione. Basti pensare che proprio dal capitolo finale di Se questo è un uomo, oltre che da un brano del testamento di Lev Trockij, Benigni e Cerami hanno tratto spunto per il titolo definitivo: «Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso»; ma Levi si riferiva alla vita fuori dal lager.

Benigni, senza forse rendersene conto, ha pure detto – Nella Presentazione già citata – che la sua intenzione era proprio quella di far sì che l’Olocausto tornasse a sembrare qualcosa di irreale e impossibile: «[…] certe cose […] come appunto i campi di concentramento e l’orrore dello sterminio degli ebrei, attraverso questo paradosso, attraverso questo gioco dell’irrealtà, potrebbero tornare a stupire, meravigliare, tornare appunto a sembrare, giustamente, impossibili». L’incredibile affermazione si pone in evidente contrasto con tutto ciò che un testimone della Shoah può dire o rappresentare: equivale a rimpiazzare il Meditate che è questo è stato di Levi con uno stupefatto e incredulo «Possibile che sia stato?». Evidenti le ragioni per cui Segre, Veil, Lanzmann hanno parlato di una menzogna e di una storia «senza senso».

Benigni, dal canto suo, risponde – con una certa assertività – che:

“La storia è esattamente quella che si vede: una famiglia spezzata che cerca disperatamente di sopravvivere in mezzo allo sterminio […] la violenza non viene negata, i morti ci sono e ci sono le camere a gas […]. Sullo schermo c’è un padre con un figlioletto. Ridere ci salva, vedere l’altro lato delle cose, il lato surreale e divertente, o riuscire a immaginarlo, ci aiuta a non essere spezzati, trascinati via come fuscelli, a resistere per riuscire a passare la notte, anche quando appare lunga lunga… e si può far ridere senza offendere nessuno: c’è tutto un umorismo ebraico molto spericolato a questo proposito” (ed. 1998, pagine VII – X).

Di nuovo la botte piena con la moglie ubriaca: nello stesso momento in cui evoca gli aspetti surreali e immaginari – invitando così gli spiettatori ad accettare questo lager così come avevano accettato la Sicilia di Johnny Stecchino – il regista li chiama anche a figurarsi una famiglia che «cerca disperatamente di sopravvivere in mezzo allo sterminio». È Benigni a presupporre che il film si rifaccia alla realtà storica, quando afferma che il lager del film «rappresenta tutti i campi di concentramento del mondo» e che «ridere ci salva, vedere l’altro lato delle cose»; purtroppo nei campi di concentramento non esisteva alcun altro lato delle cose.

Giosuè non sarebbe sopravvissuto: non solo non conosce le vere regole, ma gliene sono state fornite altre, fantasiose e insensate, con l’obbedienza al padre come unico riferimento – il che avrebbe costituito tutt’altro che un vantaggio nel darwinismo spietato del lager, dato che il padre stesso le infrange o le cambia di continuo, anche mettendo a repentaglio l’incolumità del figlio. Non essendo scemo, il bambino ha finalmente capito qualcosa: «ci bruciano tutti nel forno», dice un giorno a Guido; il padre si affretta a rassicurarlo che è tutto un gioco, lì non c’è alcun pericolo, devono tenere duro e accumulare punti per vincere il carro armato. È come se il film obbligasse il pubblico a un salto di fede: dobbiamo credere a tutto quanto avviene, perché se non ci crediamo, ciò significa che il bambino è morto.

La scena più forzata di tutte è forse proprio la morte di Guido, nel finale: i nazisti scoprono che sta fuggendo, lo individuano appeso al muro, gli puntano addosso un enorme faro segnaletico: è un bersaglio facile. Perché non gli sparano e basta? Dato che ci troviamo nelle fasi finali dell’evacuazione del campo, le SS in fuga non hanno letteralmente un secondo da perdere, certo non per farsi scrupoli a eliminare un detenuto ribelle. Invece il soldato esita con il mitra puntato, aspetta una buona manciata di secondi, finché un superiore (che spunta dal lato sinistro dell’inquadratura, dice la sua battuta e subito scompare, provvidenziale Deus ex machina) gli intima in tedesco: «Non qui….portalo al solito posto!». Allora il soldato accompagna Guido, sempre con una certa lentezza (l’attesa già descritta) dietro un muro distante dal cortile centrale, dove infine gli spara. A una prima visione si può pensare che il «solito posto» dietro il muro sia una fossa comune, o che vi sia allocato uno di quegli spaventosi assembramenti di cadaveri destinati a essere bruciati in fretta e furia, durante lo smantellamento atto a cancellare le tracce dell’orrore; però il luogo della morte di Guido si palesa come un vicolo isolato, una zona neutra che le esigenze della narrazione vogliono distante non dal cortile centrale, ma dagli occhi del bambino. Ciò che richiede il tributo emotivo, la scommessa a favore della vita, la commozione sarà facilmente accettato come verosimile dagli spettatori, senza che nulla li obblighi al riscontro storico; mentre, per ogni elemento che palesemente non torna, il regista è pronto a rispondere: «chi ha mai parlato di un lager? È tutta finzione!». Se un film riceve critiche per la sua inverosimiglianza, queste critiche sono sciocche e ingenue, perché il film è una favola; se però vince l’Oscar evidentemente il film parlava dell’Olocausto, storicamente inteso.

Alfredo Marasti è nato a Pescia nel 1990. Laureato in Scienze dello Spettacolo, abbina alla scrittura (Storia e rappresentazione. Come il cinema italiano ha raccontato il fascismo, 2015), l’attività di cantautore (Premio De André 2006, Premio Miglior Testo Musicultura 2013). Ha diretto due lungometraggi indipendenti (Ivardùsh, 2013 e Due per due, 2016) e tutti i suoi videoclip. Ha pubblicato gli albumAltri Tempi (2020) e Ultimo D’Annunzio (2022), concept album epico-drammatico sul celebre poeta, insieme al cortometraggio omonimo (trilogia di videoclip co-diretti con Chris Mazzoncini). Nel 2021 è tra i vincitori del premio Adelio Ferrero per la critica cinematografica. Nel Novembre 2022 è uscita per Edizioni Falsopiano il suo secondo libro, una monografia su Roberto Benigni intitolata Il piccolo diavolo e l’acqua santa – Roberto Benigni dalla dissacrazione al politicamente corretto.




Un mito intoccabile?

Prefazione 

Strano destino quello del patrimonio culturale, ovvero di quell’insieme di beni che, per il loro valore culturale e memoriale rivestono un interesse pubblico. Definizione apparentemente netta e precisa ma in realtà contingente, suscettibile delle modifiche che tempi e sensibilità diverse possono suggerire. Chi stabilisce l’interesse pubblico dei beni che vengono poi definiti come patrimonio culturale? Chi decide che cosa è patrimonio culturale o no? Sembra, quest’ultima, una domanda banale; ma è una sensazione pronta a dissolversi in chi si ricordi del Medioevo, con il Colosseo adibito a luogo di pascolo, o chi, semplicemente, ricordi la Napoli degli anni Ottanta dove Piazza del Plebiscito era considerata un grande parcheggio. Sono solo due esempi di un elenco potenzialmente lunghissimo. Ma valgono a ricordare una cosa: che siamo noi a definire chi è e che cos’è patrimonio culturale, perché in quel bene rintracciamo i nostri valori e la nostra identità.

All’interno di questa definizione possiamo senza dubbio far rientrare la toponomastica, soprattutto quando in essa parte della popolazione rintraccia i suoi elementi identitari. Il pensiero corre dunque alla recente polemica che ha investito il Liceo Amedeo Duca di Savoia di Pistoia, balzato alle cronache di molti quotidiani in quanto il Collegio Docenti ha proposto un dibattito intorno alla possibilità di cambiarne la denominazione. Innumerevoli le sdegnate polemiche, generate dal fatto che nel nome del Liceo si intravvedeva parte dell’identità della città, e da un sentire comune che identificava in Amedeo Duca d’Aosta, Viceré d’Etiopia sotto il regime fascista, morto nel 1942 prigioniero degli inglesi, una persona non collusa con il Regime.

Dal Liceo al personaggio: il punto dell’analisi storica di Amedeo duca d’Aosta

La questione ha poi travalicato il contesto locale. Ambienti monarchici, giornali conservatori, esponenti di destra e gruppi reducistici sono intervenuti in difesa del duca, agitando lo spettro della “cancel culture” e derubricando i tentativi di problematizzare il personaggio a contraffazioni della storia. Si sono trincerati dietro a una rappresentazione apologetica di vecchia data, fondata su alcuni topoi (l’eroe dell’Amba Alagi, lo sconfitto a cui il nemico tributò gli onori, il “buon colonialista”, ecc.), che ignora quanto emerso negli studi soffermatisi, anche solo en passant, sulla figura . L’incrocio di questi testi, integrato con un affondo sulle fonti a stampa, aiuta a restituire le vicissitudini del principe sabaudo a una dimensione storica.

Il racconto consolidato vuole che Amedeo d’Aosta, nato del 1898, rimase lontano dalla scena politica, almeno fino alla metà degli anni ’30. In effetti, dopo aver partecipato come volontario al primo conflitto mondiale, nell’immediato dopoguerra alternò brevi periodi in Italia, per proseguire gli studi e la carriera militare, a lunghi viaggi in Africa, prima in Somalia, poi in Congo. La data di conclusione del secondo soggiorno è, però, dibattuta: per una versione, più diffusa, il gennaio 1923, per un’altra il settembre 1922, quando si sarebbe riunito al suo reggimento a Palermo. Una questione solo in apparenza di poco conto. Infatti, nella seconda ricostruzione – accettata al tempo, evidenzia Gianni Oliva – il principe, a fine ottobre, avrebbe raggiunto Roma per presenziare, in camicia nera, al corteo squadrista dinanzi al Quirinale. Questo implicherebbe una sua adesione al fascismo, antecedente all’instaurarsi del regime. Del resto, ciò sarebbe in linea con le posizioni assunte dal ramo cadetto della famiglia regnante, di cui era erede. Il duca Emanuele Filiberto, padre di Amedeo e celebrato generale della Grande Guerra, fu precoce sostenitore di Mussolini e, secondo voci del tempo mai confermate, fu dietro ai preparativi per la marcia su Roma, pronto persino a sostituirsi al re e cugino Vittorio Emanuele III, se questi si fosse opposto ai fascisti (A. Merlotti, Savoia Aosta, Emanuele Filiberto di, duca d’Aosta, in Dizionario Biografico degli Italiani, v. 91, 2018).

I Savoia-Aosta persero peso politico negli anni ’20, ma il regime continuò a servirsene a scopo propagandistico, specie del giovane principe. Con il suo stile di vita, incarnava il modello dell’uomo nuovo fascista: atletico, anticonformista, avventuroso, amante dei motori, appassionato dell’Africa e protagonista delle imprese coloniali. Tra il 1925 e il 1931, infatti, prese parte, per lunghi periodi, alla riconquista della Libia, una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Tra le dune libiche, il suo mito si consolidò: la pubblicistica, che lo ribattezzò il “principe sahariano”, dedicò ampi reportage alle sue azioni alla testa dei “meharisti”, le truppe indigene montate sui dromedari, e ai suoi voli nel deserto. Dell’esperienza in Libia, un passaggio poco indagato, perdura un ritratto romanzesco, senza cenni al suo coinvolgimento nell’attività repressiva. Eppure, non ebbe incarichi secondari: fu collaboratore, tra l’altro, del generale Rodolfo Graziani e partecipò all’offensiva contro l’Oasi di Cufra (gennaio 1931), su cui l’attenzione dovrebbe concentrarsi. Stando alla memorialistica e alla stampa coeva, il principe compii bombardamenti aerei contro il centro senusso e partecipò all’inseguimento, dai cieli, dei ribelli in rotta, tra cui vi erano anche donne e bambini. Per la rivista «Time» (Italia: Valanghe; Senussi, 9 febbraio 1931), in un articolo scritto quando i rapporti italo-americani erano ancora buoni, Amedeo si distinse nel bersagliare, con bombe e mitragliatrici, i fuggiaschi.

Rientrato in Italia e divenuto capo del casato, visse a Trieste, dedicandosi al volo e presenziando a iniziative pubbliche. Il duca partecipava alla vita del regime, ma non aveva incarichi di peso. L’occasione giunse sul finire del 1937: Mussolini gli offrì la carica di Viceré d’Etiopia. Avrebbe sostituito Graziani, che, nonostante i metodi brutali, non era riuscito a reprimere la resistenza etiope. Il duce si affidava a una figura prestigiosa,ma impreparata: Amedeo si era laureato con una tesi in diritto coloniale, ma non aveva mai ricoperto cariche politiche di grande responsabilità. Così, forse, il dittatore e gli apparati di regime contavano di avere tra le mani una personalità controllabile.

Nel primo periodo del suo mandato, in effetti, il duca incontrò difficoltà ad imporre la sua politica paternalistica e di conciliazione. Il generale Ugo Cavallero, comandante delle truppe e detentore in sostanza del potere militare, gestì la “pacificazione” in continuità con la condotta di Graziani: in questa fase avvenne la strage di Zeret (9-11 aprile 1939). Sembra che il duca preferisse non ricorrere a tali metodi, perché vanificavano i suoi piani, ma accettò – o, meglio, subì – la strategia del suo sottoposto. Dopotutto, quando il duce, spronato dagli iniziali successi, diede ordine di perseverare con questo approccio, il principe assicurò che la direttiva sarebbe stata eseguita con la massima energia .

Solo dopo la rimozione del generale (primavera 1939), il Viceré ebbe più margini, ma gli ostacoli furono diversi. Le trattative con i capi ribelli diedero risultati limitati, così le azioni repressive proseguirono, pur cercando di salvaguardare i civili. I tentativi di coinvolgere i notabili indigeni nell’amministrazione si scontrarono con l’opposizione del regime a forme di “dominio indiretto”. Non discusse, poi, le misure che contraddicevano le sue politiche. Nel suo mandato trovò applicazione la legislazione razziale e segregazionista, promulgata a partire dal 1937, che, normando la subalternità dei nativi, esacerbava le divisioni tra dominatori e dominati.

Di lì a poco, la crisi internazionale rese prioritaria l’organizzazione dei piani di guerra. L’Africa orientale italiana versava in una situazione disperata, accerchiata da colonie britanniche, difficilmente rifornibile (la Royal Navy dominava i mari) e difesa da un contingente, per metà composto di coloniali, logoro e male attrezzato. I territori del Corno d’Africa erano destinati ad essere perduti. Assalito da dubbi e scettico sull’intervento, si adeguò anche a questa scelta e assunse il comando delle forze regie nella zona. Dopo l’occupazione del Somaliland nell’estate 1940, la situazione iniziò a precipitare. La ribellione prendeva vigore, supportata da Londra, e aumentavano le avvisaglie della controffensiva britannica. Gli fu proposto di chiedere un armistizio separato, ma il principe rifiutò sdegnosamente: avrebbe significato tradire il sovrano, la patria e Mussolini, perdendo l’onore per sé e il casato. Per quanto descritto come una personalità autonoma, le vicende citate restituiscono altresì lo spaccato di una figura inquadrata nel regime, a cui fu fedele nei passaggi più controversi. Il suo atteggiamento dipendeva da un coacervo di fattori (la formazione militare, l’educazione patriottica, la tradizione familiare), che forse includeva anche un’adesione tutt’altro che formale al fascismo e fondata, in buona misura sulla devozione, per il duce, come traspare dai resoconti dei colloqui privati con la moglie del sovrintendente generale britannico in Kenya, Katharine Fannin (Alessandro Pes, British Eyes on the Fascist Empire: il viaggio di Katherine Fannin nell’Africa orientale italiana, in Id. (a cura di), Mare Nostrum. Il colonialismo fascista tra realtà e rappresentazione, Cagliari, Aipsa Edizioni, 2012, p. 26).

Nei primi mesi del 1941, le truppe regie furono travolte dalla controffensiva degli anglo-indiani, a cui si unirono le formazioni irregolari etiopi: il 6 aprile Addis Abeba veniva liberata. I comandi regi si trincerarono in vari ridotti. Il duca d’Aosta, alla testa di una forza piuttosto disomogenea di 7.000 uomini, ripiegò sul massiccio dell’Amba Alagi. Lì si si consumò la battaglia che costituisce la pietra angolare del suo mito. Prima che la narrazione epica divenisse dominante, alti ufficiali criticarono la scelta. Il gruppo montuoso era solo in apparenza inespugnabile e non aveva le risorse idriche necessarie al fabbisogno di migliaia di uomini. Vi erano, poi, alternative migliori, come unirsi ai 40.000 uomini del generale Nasi, nel Gondar (dove avrebbe resistito fino a novembre. A condizionare le mosse del duca furono, forse, l’inesperienza nel comandare grandi corpi ed errori di valutazione (in cui caddero anche generali navigati), oltre che una concezione premoderna della leadership, fondata sull’ostentazione delle virtù guerriere, ma slegata dalla pianificazione e dal calcolo. La scelta ricadde sulla montagna tigrina anche per assicurarsi, nel disastro, una fine memorabile ed eroica, emulando le gesta del maggiore Pietro Toselli, che nel dicembre 1895 vi cadde assieme ai suoi soldati, entrando però nel pantheon degli eroi della nazione.

Il 17 aprile, il Viceré si ritirò sul ridotto. Dopo l’iniziale speranza di poter prolungare la resistenza, il quadro si aggravò rapidamente. Furono presi contatti con i comandi britannici, frenati dalla ritrosia del principe a capitolare: temeva di infangare il suo onore. Neppure l’autorizzazione di Mussolini lo smosse. Tempo perduto, che comportò lo spargimento di altro sangue. Il duca, alla fine, acconsentì alla resa: a persuaderlo fu, forse, il timore che l’assalto finale sarebbe stato condotto dagli irregolari etiopi, di cui si temevano le rappresaglie. Il 19 maggio, il contingente regio lasciò il ridotto, transitando davanti al picchetto d’onore anglo-indiano. Tale aspetto è stato più volte evocato, nel recente dibattito, per provare la statura del personaggio. Nondimeno, in proposito sono necessarie opportune contestualizzazioni. Gli onori militari furono una delle condizioni poste dal Viceré per arrendersi, che i comandi britannici gli accordarono (Rovighi). Dopotutto, tale prassi, seppur di grande valore simbolico, non aveva costi strategici, ma anzi consentiva di risparmiare risorse e permetteva di avere un controllo più saldo sui prigionieri nelle convulse fasi successive alla cattura. Insomma, senza negare che le truppe regie si batterono bene, l’atto dei comandi britannici non può essere reputato spontaneo e disinteressato. Oltracciò, la cerimonia dell’onore delle armi avvenuta sull’Amba Alagi non fu un unicum nella seconda guerra mondiale. Durante l’invasione della Francia, i tedeschi garantirono simili onori ad alcune guarnigioni arresesi, così i britannici, proprio nel teatro africano, omaggiarono più gli italiani sconfitti.

La propaganda fascista sfruttò tale aspetto per enfatizzare la resistenza offerta dal distaccamento e indorare la notizia della disfatta, che preannunciava l’imminente, ma si credeva temporanea, perdita dell’Impero. “L’insuccesso glorioso” dell’Amba Alagi divenne oggetto di un racconto epico, di cui il Viceré ne era l’eroe. La sconfitta andava ricordata sia per celebrare la virtù dei protagonisti sia per alimentare la revanche nazionale. Il motto “ritorneremo” campeggiava nell’immagini del duca, risuonava nelle canzoni. Di lì a breve, questa retorica avrebbe attinto nuova linfa dalla fine prematura del Viceré in prigionia, il 3 marzo 1942, a causa del tifo e della malaria. Il regime sfruttò la notizia per demonizzare i britannici e fece del duca un eroe-martire da vendicare. La sua figura fu celebrata nei pamphlet, nelle iniziative pubblica e intitolandogli strade e edifici pubblici, come lo stesso Liceo scientifico di Pistoia.

Nel secondo dopoguerra, non soltanto i settori monarchici, gli eredi del fascismo e gli ambienti militari custodirono la memoria di Amedeo d’Aosta. Le stesse istituzioni repubblicane, che non avevano del tutto rinunciato alle aspirazioni coloniali, continuarono a celebrarlo. Nell’aeroporto di Gorizia, nel 1962, il presidente della Repubblica Antonio Segni inaugurò il Monumento all’Aviatore, un complesso ospitante una statua in travertino alta 5 metri del duca sabaudo, in uniforme da pilota e con il volto simbolicamente rivolto verso l’Africa, attorniata da dieci cippi commemoranti le sue imprese militari (dal Sabotino, nella Grande Guerra, a Cufra, in Libia, fino all’Amba Alagi). La sua figura fu poi ricordata in film, documentari e reportage delle riviste patinate dedicati allo scontro sulla montagna etiope: in essi, il Viceré spiccava positivamente come emblema del “colonialista buono”, una rappresentazione che ben si accordava col mito del “bravo italiano”. Nonostante, le iniziative pubbliche per ricordarlo si siano rarefatte e le iniziative per ricordarle siano diventate sempre più esclusiva di ambienti di nicchia, la rappresentazione romantica e malinconica, dai tratti quasi agiografici, del duca sopravvive. Sotto la coltre di un mito, «nel complesso […] falso, o falsificabile», come ha scritto Nicola Labanca, vi è una vicenda tutt’altro che lineare, con passaggi oscuri e controversi, che un’indagine storica puntuale dovrebbe farsi carico di ricostruire.

Francesco Cutolo ha conseguito il dottorato di ricerca in “Culture e società dell’Europa contemporanea” presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (novembre 2021).  Attualmente è docente a contratto presso l’Università di Pisa, per l’insegnamento Continuità e gestione della crisi, e “cultore della materia” in Storia contemporanea presso l’Università di Firenze. Dal 2015 collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia, per il quale svolge attività di ricerca e divulgazione sul territorio. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria. Società e storia pubblica» e «Storia locale». La sua ricerca si concentra sulla storia sociale, culturale e militare del primo Novecento. Tra i suoi lavori si segnala: “L’influenza spagnola del 1918-19. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (ISRPt Editore, 2020)

Chiara Martinelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze, dove insegna “Storia dell’educazione” e “Storia ed evoluzione dei servizi per la prima infanzia”. E’ membro del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia; collabora con i comitati di redazione di “Rivista di storia dell’educazione” e di “Farestoria”. La sua ricerca si concentra sulla storia delle istituzioni scolastiche in età contemporanea. Tra le sue opere, ricordiamo “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico–industriali italiane in età liberale” (Roma, 2019).

 




“In circostanze mai chiarite”

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe). 

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante. 

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944

Edoardo Lombardi è dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale svolge attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 entra a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio riguardano soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt sta attualmente svolgendo una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022). 



Guerra ai renitenti: le fucilazioni del marzo ’44

Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti: erano questi i nomi dei 5 giovani – di età compresa fra i 21 e i 23 anni – fucilati il 22 marzo del 1944 a Firenze allo stadio di Campo di Marte a seguito di una condanna a morte per renitenza alla leva, emanata dal Tribunale militare speciale. All’esecuzione sono fatti assistere tutti i militari del presidio militare di Firenze, come monito. I drammatici momenti di quell’eccidio ci sono restituiti dalla relazione redatta da don Angelo Becherle, il cappellano chiamato a impartire l’estrema unzione ai cinque ragazzi. Nel racconto del sacerdote – subito trasmesso al cardinale di Firenze Elia Dalla Costa – emerge tutta la tragedia delle giovani vite di fronte alla morte: “Quiti cominciò a tremare, voleva alzarsi e scappare: anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di terribile esasperazione: riuscii a quietarli  […] avvenne la scarica del plotone. Il Targetti, il Raddi ed il Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo, legato alla sedia si dimenava e gridava « Mamma, mamma!». […] Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia”. La gravità del fatto è tale che sconvolge i testimoni e resta ben vivo nella memoria della città che ha poi onorato la memoria dei martiri con il monumento che ancora oggi li ricorda sotto la “Curva Ferrovia” dello stadio di calcio.

Peraltro non si tratta di episodio isolato. In quello stesso mese di marzo fatti simili si erano verificati in tutta la Toscana. Ad esempio il 13 a Siena dove 4 giovani renitenti erano stati condannati dal tribunale militare speciale e fucilati nella caserma “La Marmora”; sono 11 quelli fucilati in quello stesso 22 marzo a Maiano Lavacchio nel grossetano, insieme ad un militare tedesco che aveva disertato;  il 24 tocca a due giovani viareggini presso il cimitero della città e il giorno seguente altri due a Lucca; il 27 marzo due a Pisa e il 31 quattro renitenti sono fucilati a Pistoia sotto le mura della Fortezza di Santa Barbara.

Una vera e propria guerra alla renitenza,  nella quale i giovani che non si presentano alla leva sono di fatto equiparati a nemici, e come tali trattati. Per capire la radicalità e capillarità di questa strategia, frutto non tanto delle scelte dei singoli Tribunali locali, quanto di una compiuta strategia della Repubblica sociale italiana, è necessario considerare l’importanza attribuita dal governo di Salò alla leva militare.

Per il governo collaborazionista fascista la formazione di un esercito nazionale, secondo l’impostazione del generale Graziani, Ministro della Difesa nazionale, è infatti obiettivo prioritario per dimostrare la propria esistenza come Stato agli italiani, ma anche ai potenti quanto ingombranti alleati nazisti. Per questo, oltre al tentativo di “recuperare” i soldati arresisi dopo l’armistizio e condotti nei lager del Reich come internati militari, è fondamentale soprattutto il coinvolgimento dei giovani attraverso l’emanazione dei bandi di leva. Per questo fin dal 16 ottobre del ’43 Graziani preannuncia la chiamata alle armi dei nati nel ’24 e nel ’25, riattivati gli uffici di leva, nella seconda metà di novembre. L’operazione è vista con diffidenza dai nazisti che puntano piuttosto ad usare gli italiani come lavoratori a proprio servizio. Ma soprattutto si scontra con la diffusa stanchezza e la crescente ostilità per il conflitto fra gli italiani. Atteggiamenti certo accentuati dall’odiosa disposizione del generale Gambarra dello Stato maggiore dell’Esercito che intima l’arresto dei padri in caso di mancata presentazione dei figli alla leva. Nonostante un crescente clima di minacce la maggioranza dei ragazzi non si presenta.

Il decreto legislativo del 18 febbraio 1944 che stabilisce la pena di morte per renitenti e disertori è la più efficace dimostrazione del fallimento del bando di novembre. Il ricorso alla pena estrema svela l’inefficacia di ogni altro mezzo, a partire dalla propaganda, e la crescente delusione negli ambienti fascisti. Una consapevolezza rafforzata dalla lettura della stampa fascista che indica sempre più in renitenti e disertori nemici da abbattere più che ragazzi da convincere. Esemplare è quanto si legge sulle testate delle federazioni toscane, come quella lucchese: “la diserzione, quindi, e il macchiai olismo di tanti, di troppi giovani nostri, per non servire la mamma Italia e in un’ora delle più tragiche per Essa, sono spregevoli al massimo grado” (“L’Artiglio”, 21 aprile 1944). Sulla stessa linea il periodico pistoiese “Il Ferruccio” che definisce i renitenti “sabotatori”, mentre quello fiorentino “Repubblica”, già dal dicembre del ’43 aveva esteso la denuncia ai familiari: “vili sono tutti coloro che proibiscono e non incitano i figli perché accorrano a cacciare il nemico” (“Repubblica”, 11 dicembre 1943).

La successiva tattica del “bastone e della carota” – con il decreto 336 che esenta dalla pena coloro che si presentino entro il 9 marzo 1944 – non muta la sostanza dei fatti. Né ottenere risultati significativi. Tanto che il successivo decreto del 24 marzo stabilisce sanzioni economiche per i renitenti e i disertori come la confisca dei beni, propri e familiari, oltre alla cancellazione delle tessere annonarie, così da piegare i giovani, con il ricatto che grava sui parenti. In questo contesto vanno quindi collocati gli episodi che insanguinano anche la Toscana nel marzo del ’44 con le varie fucilazioni di renitenti. Esse non sono solo azioni di repressione, ma tremendi atti dimostrativi tesi a terrorizzare gli altri ragazzi e tutta la popolazione per cercare di piegare con la paura chi non si era riuscito a convincere con ragionamenti ed emozioni retoriche ormai vanificate dal conflitto e dai suoi tremendi effetti. Violenze gravi che, quasi per contrappasso, ottengono l’effetto di favorire un rafforzamento del movimento partigiano, con la fuga alla “macchia” di tanti giovani, e più in generale di favorire un sentimento di ostilità della popolazione contro la Repubblica sociale, contribuendo così a quella crescita della Resistenza, in ogni sua forma, che si dispiegherà nei mesi successivi contribuendo alla liberazione di gran parte del territorio della Toscana.




Gennaio 1922, fuoco a Serravalle

All’inizio del 1922 l’infittirsi delle spedizioni squadriste nel pistoiese registrava ormai numeri da bollettino di guerra. Nel corso del 1921 il neonato fascismo locale aveva devastato la Camera del Lavoro a Pistoia e sequestrato due volte il suo segretario Onorato Damen, rapito il parroco – animatore del movimento delle casse rurali – Don Ceccarelli, aggrediti numerosi militanti sindacalisti, socialisti, comunisti, anarchici e antifascisti, compiuto una sanguinosa spedizione a San Marcello, assaltato circoli, occupato interi paesi come Agliana e Casalguidi, incendiato sulla pubblica piazza copie dei giornali avversari, colpito leghe contadine e si era scontrato con la breve esperienza degli Arditi del popolo locali. Il tutto senza trovare un’attiva opposizione delle autorità statali, che si delineava sempre più come un’aperta connivenza. In questo contesto matura un’azione, svoltasi sulla falsariga delle altre, della quale disponiamo di preziosi resoconti, che mette ben in risalto il modus operandi delle squadre ed il ruolo della forza pubblica.

Il 10 di gennaio infatti una spedizione punitiva colpì il circolo comunista di Serravalle. Le modalità con cui venne portata a termine svelano un’accurata preparazione e la connivenza delle autorità del luogo. Il comando dei Carabinieri di Pistoia era venuto a conoscenza della possibilità di un’azione simile, prendendo per una volta immediati provvedimenti. Erano stati inviati a Serravalle quattro Carabinieri a cavallo per informare il comandante di quella stazione di intensificare la vigilanza in paese ed allo sbarramento istituito da tempo per impedire, senza grandi risultati, il passaggio delle squadre da e per la Valdinievole. Un altro sbarramento fu predisposto a Pontelungo ed infine veniva inviato un camion di Carabinieri di rinforzo. Tutte queste precauzioni furono inutili. Nella sua relazione il Sottoprefetto dichiarava che «è risultato che elementi giovanili fascisti eransi recati per tempo alla spicciolata per sentieri reconditi a Serravalle ove avrebbero dovuto essere assolutamente fronteggiati da quel Comandante di Stazione dell’Arma il quale aveva a disposizione mezzi più che sufficienti alla bisogna. Senonché il Comandante di quella Stazione il quale, come sovra è detto, era stato debitamente avvertito dalla pattuglia di CC. RR. a cavallo ed aveva disposto servizio sorveglianza dinanzi al circolo comunista, per ragioni assolutamente inesplicabili aveva sospeso il servizio stesso alla mezzanotte. I fascisti di Serravalle e quelli giunti alla spicciolata da fuori colsero tale momento per compiere l’azione» (sottolineature nell’originale).
Il camion dei carabinieri proveniente da Pistoia aveva arrestato sulla strada per Serravalle tre fascisti, di cui uno armato di pistola, e ne aveva avvistati altri diretti a Serravalle che però erano riusciti a fuggire per le vie laterali. Arrivato in paese verso le una di notte l’ufficiale dei Carabinieri al comando dei rinforzi, tenente Simula, constatava l’avvenuta «devastazione del circolo, sulla soglia del quale trovavansi ancora i residui in fiamme delle sedie dei tavoli delle porte e delle finestre». Il tenente constatò «la inesplicabile imprevidenza del servizio disposto dal maresciallo Vannini Umberto, comandante di quella stazione, il quale nel disporre il servizio quella notte non aveva ordinato che il servizio stesso avesse il cambio sul posto». Il capitano Mazzone stabilì che «la devastazione del circolo di Serravalle era stata opera di un gruppo di una ventina di individui i quali giunti verso le ore 23 per un sentiero erto di campagna dal fondo valle ed evitando ogni controllo lungo la strada maestra e quello dello sbarramento, avevano potuto riunirsi non visti da alcuno alle spalle del piccolo fabbricato adibito a circolo comunisti e socialisti del luogo, in località assolutamente deserta», qui aspettarono la fine del turno di guardia dei Carabinieri e «attesa una diecina di minuti circa per dar tempo a questi di far ritorno in caserma, irruppero contro la porta del circolo facendo tutta prima contro di essa una scarica di una ventina di colpi di rivoltella. Quindi abbattuta la porta poco resistente, entrarono nei locali tutto devastando e distruggendo e riunendo poscia i rottami innanzi l’ingresso, appiccandovi il fuoco e dileguandosi poscia per la stessa via dalla quale erano venuti, completamente indisturbati». Il circolo comunista “Umanità Nuova” subì danni per 2.500 lire. Furono arrestati 7 fascisti. I 3 sopramenzionati, Vittorio Franceschini di 20 anni carrozziere, Francesco Vannini di 18 anni studente, Pellegrino Pistoresi e poi Bruno Lorenzoni di 23 anni studente, Antonio Cappelli di 19 anni definito benestante, Riccardo Rosati e Desiderato Rosati. Un telegramma del Sottoprefetto al Prefetto dell’11 gennaio faceva salire il numero degli arrestati a otto, cinque di Pistoia e tre di Serravalle, ma non fornisce i nominativi. Tuttavia già da queste informazioni rileviamo ancora una volta la giovane età degli assalitori e l’interclassismo dei fasci, tutti elementi tipici dello squadrismo.
La devastazione del circolo di Serravalle fu un piccolo tassello nell’ascesa del fascismo nel pistoiese, che tende a scomparire di fronte ai ben più gravi fatti del 1922, con l’uccisione di diversi antifascisti, ma ci permette ci mettere in luce quanto l’ascesa del movimento di Mussolini fosse “resistibile”, se contrastata da chi ne avrebbe avuto la funzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




La ricostruzione del PCI a Pistoia e il primo congresso provinciale

All’indomani della liberazione di Pistoia, sul suo territorio, come d’altra parte avveniva nel resto della Toscana, il tessuto e il confronto politico vengono gradualmente a prendere vigore.

Questo confronto politico trovò all’interno del C.P.L.N. il luogo di compensazione e composizione di tutte le prospettive e divergenze. Fino a che non fu ripristinata l’autorità del governo italiano, inoltre, il dibattito non poteva non tenere conto della presenza e dell’autorità del Governo militare alleato.

Gli alleati erano diffidenti verso il partito comunista e contro di esso ingaggiarono una lotta assai decisa. Si temeva che i comunisti disponessero di armi e munizioni e di un piano preciso di guerra basato sulla veloce rimobilitazione dei partigiani contro gli alleati.

Anche a Pistoia, questo atteggiamento era riscontrabile, e sul fuoco delle diffidenze tra Governo militare alleato e PCI gettavano benzina gli avversari politici dei comunisti. Se tale atteggiamento a livello politico veniva, in qualche modo, mascherato, nelle posizioni della Curia territoriale si manifestava, invece, in modo acuto: le organizzazioni cattoliche e molti parroci, infatti, erano in prima linea nel combattere una dura battaglia contro i marxisti materialisti, atei e nemici della religione.

Il partito comunista pistoiese, che durante il ventennio fascista era stato costretto alla clandestinità, con la liberazione della Provincia si pose il problema della riorganizzazione della Federazione su nuove basi.

Il compito non fu molto facile poiché si trattava di creare un Partito Nuovo in una situazione completamente nuova e rispondente alle mutate condizioni storiche, che tenesse conto della diversa posizione della classe operaia di fronte a tutti i problemi della vita nazionale. Pertanto, il partito comunista pistoiese, si dette una struttura organizzativa che, sostanzialmente, costituirà l’intelaiatura portante anche per gli anni a venire. Tale struttura, fin dall’inizio, era articolata in una federazione che comprendeva l’intero territorio della provincia di Pistoia, suddivisa in sezioni che coprivano tutti i rioni cittadini, nonché le frazioni e le località della campagna e della montagna. Le sezioni più grandi erano, a loro volta, suddivise in cellule, le quali potevano avere anche un ambito aziendale.

La prima riunione all’interno della ricostituita federazione pistoiese del PCI si effettuò il 22 novembre 1944 quando, nel corso di una riunione del Comitato Federale, fu deciso di sostituire il segretario Guerrando Olmi, che aveva guidato il partito dal giorno della liberazione, con Luigi Gaiani. Tre giorni dopo fu nominata la segreteria di cui facevano parte oltre a Gaiani, anche Olmi e Niccolai, e il Comitato Federale composto da dieci membri (nove uomini e una donna), i quali, a loro volta, avevano altri incarichi in organismi cittadini (Italo Carobbi era presidente del C.P.L.N., Silvio Bovani era dirigente della CGIL, Edda Gaiani era dirigente dell’Unione Donne Italiane).

Nel gennaio 1945, a Gaiani successe Fulvio Zamponi, anch’egli membro autorevole del C.P.L.N., che diresse i lavori del primo Congresso provinciale del PCI, svoltosi dal 19 al 21 ottobre’45. Questa importante assise fu preceduta dalla prima Conferenza provinciale d’organizzazione effettuatasi il 22 luglio 1945, alla presenza delle sezioni e delle cellule maschili e femminili. Nel corso dei lavori furono messi in luce difetti e deficienze organizzative, tanto che i responsabili dell’organizzazione di tutte le sezioni della provincia riconoscevano impellente la necessità di trasformare i militanti in un insieme organico di attivisti capaci di assumersi il compito di dirigere il paese e risolvere i problemi di carattere nazionale.

Nell’ordine del giorno approvato alla fine del Convegno era stabilito di creare nuove attribuzioni capaci di poter soddisfare le esigenze di un aumentato numero di aderenti e di svolgere così la politica del Partito Comunista di tipo nuovo così da raggiungere una completa partecipazione dei militanti alla vita attiva della nazione.

Terminata questa importante assise, la Federazione di Pistoia concentrò i suoi sforzi nell’organizzazione e nella preparazione del primo Congresso provinciale svoltosi nell’ottobre’45, alla presenza di delegazioni del PSI, della DC, del PRI, del PdA e dei Comunisti Libertari. Vi parteciparono 177 delegati di 37 sezioni in rappresentanza di 16475 iscritti.

L’ordine del giorno prevedeva l’elezione degli organismi dirigenti e dei delegati al V Congresso Nazionale, i rapporti sull’attività del partito a livello nazionale e provinciale.

I lavori congressuali furono aperti da Fulvio Zamponi, segretario della Federazione pistoiese del Partito Comunista, il quale rivolse il seguente saluto ai presenti:

«Il nostro Congresso si apre in un periodo critico della vita italiana davanti a noi abbiamo una massa di rovine, la miseria e la fame batte alle nostre porte mentre residui fascisti e reazionari si oppongono all’ascesa delle forze democratiche […]. Siamo convinti che il ciclo democratico possa completarsi su un terreno pacifico […].

   Abbiamo abbondante buon senso ma soprattutto disponiamo di tutta la forza occorrente per dimostrare, se necessario, ai residui del fascismo di che cosa sia capace il nostro Partito (…).

   Vogliamo dare un nuovo orientamento politico alla Nazione; i problemi della ricostruzione, dell’alimentazione, dell’epurazione sono compiti che il popolo italiano deve affrontare e risolvere […]» (“Il Progresso. Settimanale della Federazione Comunista Pistoiese”, 27.10.1945, p. 1).

La relazione introduttiva fu svolta da Giuseppe Rossi, in rappresentanza della Direzione Nazionale. In apertura, egli inquadrò la situazione generale del PCI.   Nel particolare momento storico, il PCI era impegnato nel reclamare lo svolgimento delle elezioni politiche e amministrative, che sarebbero servite ad uscire da una situazione imbarazzante, per lo più determinata dal concetto della pariteticità in tutte le cariche designate dai CLN. Tuttavia, il PCI era favorevole al mantenimento dei Comitati di Liberazione al fine di dare un impulso alla ricostruzione del paese e all’epurazione. Inoltre, era anche a favore della nazionalizzazione di una parte dell’industria, della riforma agraria e finanziaria.

Riguardo ai rapporti con le altre forze politiche, rilanciò la costruzione di un Partito unico necessaria sia per i comunisti, sia per i socialisti.

Nel corso dei lavori, Zamponi illustrò il complesso dell’attività del partito a livello provinciale. Dopo la Liberazione, le autorità militari avevano più volte ostacolato il processo di riorganizzazione della federazione pistoiese del Partito Comunista e più volte la federazione fu minacciata di scioglimento.

«Tuttavia il partito intervenne per dimostrare agli alleati con quanta sincerità i comunisti vedessero nella loro opera il compito che era anche nelle nostre finalità, e con quanta sincerità noi spingessimo le masse a collaborare con gli alleati nella lotta di liberazione» (Ivi)

Per quanto riguardava la forza organizzata del PCI pistoiese, Zamponi riferiva quanto segue:

«Durante la lotta eravamo circa 500, alla fine del’44 eravamo 4000. Nel febbraio scorso quando fui chiamato a dirigere la Federazione i compagni erano 6080; nel giugno 12029, nell’Agosto 14303, oggi siamo 16475 senza tenere conto delle numerose domande in corso di esame presso la Federazione.  Questo progresso conferma che la politica e l’azione raggiunge le coscienze del popolo […] (Ivi)

Questi dati stavano a significare il gran lavoro organizzativo svolto, ma anche come i comunisti fossero ampiamente radicati nella realtà locale grazie ad un’importante rete di spacci cooperativi, – le cosiddette cooperative del popolo -, che furono uno strumento importante, ma non certamente decisivo, nella battaglia contro il cosiddetto “mercato nero”. Con l’apporto dei socialisti, fu realizzata una rete capillare di circoli – le “case del popolo” -, le quali si riveleranno utili per ospitare le sedi delle sezioni dei due partiti.

Questa gran mole di lavoro fu, tuttavia, giudicata ancora insufficiente da Zamponi, al pari del livello di attività sindacale – la Camera del Lavoro poteva contare su 16000 iscritti di tutte le tendenze politiche -, e della presenza del partito nel mondo femminile e in quello giovanile.

Le risoluzioni conclusive del congresso auspicarono una rapida convocazione della Costituente, un più deciso ruolo del partito nell’opera di denuncia delle forze che ostacolavano il processo di ricostruzione del paese, la creazione di un partito unico dei lavoratori, mentre per ciò che si riferiva alla realizzazione della linea politica da parte della Federazione si valutava che essa stessa avesse fatto il possibile per rendere concreta, nella provincia di Pistoia, la linea politica del partito. Si osservava, inoltre, che il lavoro doveva essere intensificato in tutti i settori, ma in particolar modo nell’ambito sindacale, cooperativistico, in quello della propaganda, del lavoro femminile, delle amministrazioni Provinciali, del problema dei reduci.

Il Congresso si concludeva con la riconferma di Luigi Gaiani a segretario della federazione, in sostituzione di Zamponi, che fu chiamato a ricoprire un altro incarico, e con l’elezione del Comitato Federale composto da: Gaiani Aldo, Niccolai Dino, Romei Emanuele, Valdesi Armando, Carobbi Italo, Filippini Gino, Pasquali Sergio, Bernieri Remo, Marraccini Giuseppe, Romani Lea, Olmi Guerrando, Agnoletti Madda, Biagini Nello, Monti Renè, Vivarelli Giuseppe, Magnini Carino e dei delegati al Congresso Nazionale Zanchi Renata, Palandri Graziano, Bucci Flavio, Vivarelli Sergio, Filoni Zara, Filippini Gino, Monti Renè, Cenci Getullio, Breschi, Tesi Savino, Romei Emanuele, Agnoletti Madda, Paoli Lionello, Bernieri Remo, Bartoli Mario, Jozzelli Walter, Coppini.

Filippo Mazzoni, è vicepresidente dell’Isrpt e membro del comitato di redazione della rivista “Farestoria”. Tra le sue pubblicazioni pù recenti, segnaliamo “Viaggio nella storia sociale dell’Italia repubblicana”, Empoli, Ibiskos, 2019. 

 




L’eccidio del Padule di Fucecchio

Il 23 agosto 1944 alcuni reparti dell’esercito nazista massacrarono indiscriminatamente, con metodi da guerra e di artiglieria pesante, 174 civili, fra cui neonati e anziani, all’interno del Padule di Fucecchio, fra le province di Pistoia e di Firenze, colpendo nei comuni di Monsummano Terme (frazione di Cintolese, la più colpita con 84 residenti uccisi), Larciano (frazione di Castelmartini), Ponte Buggianese (zona di Capannone e Pratogrande), Cerreto Guidi (frazione di Stabbia) e Fucecchio (frazioni di Querce e di Masserella).

Iniziamo con alcune premesse. Durante quella terribile estate l’estremità meridionale del Padule distava appena cinque chilometri dalla linea del fronte sull’Arno, stabilitosi là dal 18 luglio e conservatosi fino alla fine di agosto; a sud del fiume si trovavano gli alleati, a nord i nazifascisti.

Casotto dei Criachi - LarcianoIn quel periodo all’interno del Padule si erano stabiliti numerosi gruppi di sfollati e contadini che tentavano di sfuggire ai quotidiani rastrellamenti tedeschi e alle cannonate alleate, sparate per colpire obiettivi militari ma che finirono per uccidere diversi civili. La fitta vegetazione, non tagliata quell’estate, offriva riparo a uomini e donne; inoltre per la sua posizione, lontano dalle vie principali e dai centri abitati, era esente da possibili bombardamenti e combattimenti.

In Padule era stimata da parte nazista una presenza di partigiani nell’ordine delle 200-300 unità – almeno così hanno testimoniato gli ufficiali nei successivi processi -, ma in realtà l’unica formazione partigiana nelle vicinanze era la “Silvano Fedi” di Ponte Buggianese, comandata da Aristide Benedetti, che poteva contare su circa 30 elementi, attiva in zone limitrofe al Padule. Importanti squadre resistenti si trovavano principalmente sul Montalbano, nelle zone collinari e sull’appennino pistoiese. Alcuni attacchi c’erano stati fra i partigiani di Benedetti e i nazisti, tuttavia senza causare uccisioni di soldati nazisti nella settimana precedente. I tedeschi cercavano di proteggere le vie di fuga, sopravvalutarono la presenza partigiana ed emanarono un comando preciso di far terra bruciata e di liberare tutta la zona, massacrando ogni presenza umana per favorire la ritirata a nord delle truppe che si sarebbero stabilite sulla Linea Gotica.

L’operazione iniziò all’alba e si attenuò prima dell’ora di pranzo; l’area fu delimitata a est dalla strada statale 436 che portava a Monsummano, a sud dalla confluenza fra il canale del Capannone e il canale del Terzo, a ovest dalle Cerbaie e a nord dalla linea che andava dall’Anchione alla capanna Borghese.

Monumento Giardino della Meditazione Stabbia - Cerreto GuidiL’ordine impartito dal colonnello Crasemann fu chiaro: “Vernichten”, ovvero annientare. Fu poi il capitano Joseph Strauch a condurre l’azione sul campo e a istruire i tenenti delle varie unità operative. L’eccidio si consumò “in gronda”, cioè ai bordi del Padule dove era sfollata la maggior parte della popolazione, poiché i reparti nazisti non giunsero mai nel centro di esso, temendo eventuali ma inesistenti attacchi partigiani. Non furono risparmiati bambini, vecchi, donne ma, nonostante le atrocità commesse, furono numerose le persone che riuscirono a salvarsi. Ci fu chi si nascose al centro del Padule, soprattutto gli uomini adulti che avevano paura di un rastrellamento, chi non fu colpito dai proiettili, chi non fu visto in mezzo ai campi, chi fu ferito e curato dai medici o dall’ospedale, chi fu scelto per portare le munizioni e poi lasciato libero.

Fra gli episodi più drammatici e tristi ricordiamo quello di Maria Faustina Arinci, detta Carmela, di 92 anni sorda e cieca, fatta esplodere con una bomba a mano infilata in una tasca del grembiule e quello di Maria Malucchi, la più piccola, trucidata all’età di 4 mesi.

Un aspetto non secondario fu rilevante in quelle ore, ovvero l’aiuto di collaborazionisti italiani: fascisti locali e toscani furono riconosciuti nelle varie località dagli inermi superstiti.

Le vittime vennero trasportate con ogni mezzo, fra cui barroccini e carretti, sepolti in maniera inadeguata in casse costruite in fretta con semplici assi di legno, oppure seppelliti avvolti nelle coperte. In alcuni casi furono gli stessi tedeschi a portare via i caduti con dei camion, scaricandoli e ammassandoli in fosse comuni.

Monumento in ricordo delle vittime a LarcianoLa sera del 23, mentre le famiglie piangevano i propri defunti, i nazisti festeggiavano sia a Ponte Buggianese sia a Larciano e, fra canti e risate, gridavano: “Vittoria, partigiani tutti kaput”, nonostante avessero ucciso quasi esclusivamente civili.

L’eccidio del Padule di Fucecchio fu uno dei casi a livello nazionale in cui si cercò di rendere giustizia ai caduti, attraverso processi che coinvolsero i presunti colpevoli. A Venezia Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia, fu inizialmente condannato alla pena di morte, poi all’ergastolo e infine graziato; Crasemann a Padova prese 12 anni di reclusione mentre Strauch a Firenze 6 anni di carcere: tutti i condannati furono liberati dopo pochi anni e nessuno scontò pienamente la propria pena. Durante il recente processo di Roma sono stati condannati all’ergastolo il capitano Ernst Arthur Pistor, il maresciallo Fritz Jauss e il sergente Johann Robert Riss, mentre il tenente Gherard Deissmann, anch’esso imputato, è morto a cent’anni nel corso del processo.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), gestendone il sito web e facendo parte del consiglio direttivo, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Attualmente svolge un tirocinio per la valorizzazione storico-artistica di una villa medicea a Firenze.




Guerra totale in Vadinievole

«C’era poco da festeggiare nella nostra famiglia»: con queste parole il monsummanese Angiolo Fidi, superstite dell’eccidio del Padule di Fucecchio, ricordava la liberazione dal nazifascismo dopo un anno denso di episodi, iniziato nel settembre 1943 quando le truppe motorizzate tedesche fecero la loro comparsa a Monsummano Terme e conclusosi il 4 settembre 1944.

L’impatto che la guerra totale generò sulla società locale fu devastante sotto gli aspetti militari, politici, culturali, economici, e raggiunse dimensioni che coinvolsero l’intera popolazione civile e l’insieme delle risorse di ogni territorio. Piccoli paesi che conobbero l’esperienza dei bombardamenti alleati, dello sfollamento, dell’arresto degli ebrei, della Resistenza, delle stragi di civili.

La riorganizzazione, dopo l’Armistizio, del potere fascista sotto la neonata Repubblica Sociale Italiana portò a una forma di collaborazione stretta con gli occupanti nazisti. A Monsummano furono riorganizzati i quadri dell’amministrazione e il Commissario Prefettizio Gildo Rubino mantenne il proprio ruolo fino al 21 ottobre quando fu sostituito dal professore Italo Giampieri che rimase in carica fino a inizio luglio 1944.

Numerosi bandi e ordinanze interessarono tutta la provincia, emanati inizialmente dalla Prefettura di Pistoia su ordine del comando germanico e diffusi poi in ogni comune. Tali decreti compromisero la vita della popolazione locale: il coprifuoco dalle 22 alle 5; l’oscuramento notturno delle case; la presentazione obbligatoria per i militari rientrati dopo l’8 settembre; il divieto di aiutare i soldati angloamericani; la consegna forzata di tutte le armi; la proibizione di ascoltare canali radio ostili; la lotta al mercato nero; l’obbligo di eliminare ogni riferimento alla passata monarchia dalle intitolazioni.

Particolarmente drammatica fu la situazione degli sfollati, ammassati in strutture disabitate o ricavate da edifici dismessi, in condizioni sanitarie precarie e spesso privi dei basilari mezzi di sostentamento e di vestiario.

Quotidianamente risuonavano le sirene degli allarmi aerei e gli abitanti solevano proteggersi nella campagna e nei rifugi; la città, non avendo importanti obiettivi industriali o vie di comunicazione, non subì mai un completo bombardamento aereo, fu però cannoneggiata e mitragliata dagli alleati soprattutto nella stagione estiva.

Uno dei capitoli più significativi fu quello dell’arresto e della deportazione degli ebrei, con retate organizzate dai repubblichini in collaborazione con i tedeschi. Gli arresti avvenuti sul suolo italiano fra il 1943 e il 1945 non possono essere considerati delle semplici parentesi all’interno della dimensione occupazionale nazista. Il collaborazionismo fascista giocò un ruolo fondamentale, non ausiliario, dimostrato dalla storiografia nazionale e confermato da numerosi studi locali. Senza l’aiuto di chi conosceva il territorio, mai si sarebbe potuto realizzare il bilancio di arrestati che colpì la penisola italiana. Il caso di Monsummano conferma tali ricostruzioni storiografiche: il 5 novembre 1943 una perlustrazione organizzata da agenti del commissariato di pubblica sicurezza di Montecatini e da carabinieri della stazione di Monsummano, in collaborazione con militari tedeschi e repubblichini locali, condusse al fermo di sei «appartenenti a razza ebraica»: Giulio Melli (74 anni) e sua moglie Giuseppina Coen (74); Elio Melli (39) e sua moglie Vilma Finzi (33); Sergio (10) e Giuliana Melli (3).

Lo stesso giorno furono arrestate altre tre donne ebree: Marianna Calò Guarducci (74), rilasciata il 6 novembre; Evelina Nella Pitigliani (60) e sua sorella Albertina Pitigliani nei Bonaventura (66). Nei giorni seguenti fu catturata Elena Ida Toscano (88), madre delle sorelle Pitigliani, mentre a febbraio fu arrestato Carlo Levi (72), subito deportato. Il carcere di Monsummano svolse un ruolo fondamentale nella detenzione dei nove ebrei arrestati che furono rinchiusi fino al marzo 1944 quando la procura di Pistoia ordinò lo sgombero. Vennero trasferiti nel carcere di Firenze, poi nel campo di smistamento per ebrei di Fossoli, in Emilia-Romagna. Partirono il 5 aprile 1944 con i treni in direzione Auschwitz.

La presenza tedesca in paese fu avvertita anche con la presenza attiva dell’organizzazione Todt, una grande impresa di edificazioni che operò in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, con sede nello stabilimento termale della Grotta Giusti; reclutavano personale civile in parte aderente e in parte obbligato per edificare baracche, fortini in cemento e gallerie. Proprio qui, da inizio giugno fino al 14 luglio 1944, fu situato il quartier generale di Albert Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia.

Nel corso dell’estate 1944, l’amministrazione italiana perse progressivamente il suo ruolo e le forze tedesche operavano come se la Repubblica Sociale Italiana non esistesse, al punto da interrompere lo scambio di informazioni e la collaborazione. Le stesse autorità italiane agirono in completo sfaldamento, scandito dalla fuga dei dirigenti locali, dei militi repubblichini e dei carabinieri. In quei mesi, con l’avvicinamento del fronte e la fuga nazista verso la Linea Gotica, furono operate le principali stragi di civili compreso l’eccidio del Padule di Fucecchio (174 morti, di cui 84 residenti a Monsummano, il 23 agosto 1944). Furono catturati a Monsummano e uccisi qui o nei comuni limitrofi: Sereno Romani (45 anni), colpevole di aver difeso alcune parenti da un tentativo di stupro; Bruno Baronti (20) e Foscarino Spinelli (20, di Lamporecchio); Brunero Giovannelli (22), colpito durante un rastrellamento mentre tentava di fuggire; Marino Agostini (34), Italo Laserdi (29), Fausto Franceschi (66), Antonio Boninsegni (18), accusati di aver effettuato segnalazioni luminosi.

A Monsummano furono costituite tre formazioni partigiane (Stella Rossa, comunista; Corallo, azionista; Faliero, comunista) che si distinsero principalmente per attività di sabotaggio, di raccolta armi e informazioni. Il 4 settembre 1944 un’azione congiunta delle varie squadre portò all’occupazione della città già abbandonata dai tedeschi, in un’operazione che ricalcava quella dei territori limitrofi: fuga nazista, contatti fra i partigiani e gli alleati, controllo del territorio da parte dei partigiani, arrivo definitivo delle truppe alleate. I rapporti fra la popolazione e le nuove truppe angloamericane di occupazione non furono sempre buoni, anzi ci furono incomprensioni, soprusi e atti intimidatori; persino il comunista Fulvio Zamponi, nominato all’unanimità il 9 settembre primo Sindaco di Monsummano dopo la Liberazione, fu arrestato con l’accusa di essersi rifiutato di dare informazioni «in zona di operazioni militari» dopo l’affissione da parte dei giovani comunisti di un manifesto giudicato come sovversivo che «chiedeva alle donne di non comportarsi con gli alleati come si comportavano con i tedeschi».

Matteo Grasso (Pescia, 1990). Storico, dal 2016 è direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. È il responsabile dell’attività scientifica dell’Istituto; ha curato e coordinato mostre e progetti, fra cui “Cupe vampe, la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti” e “On the run. Helpers and Allied servicemen in the Pistoia area” svolto in collaborazione con University of Lincoln (United Kingdom). Le sue ricerche, orientate nello studio della Seconda Guerra Mondiale, si sono concretizzate in cinque monografie, fra cui: Dispersi sì, dimenticati mai: il naufragio del Piroscafo Oria. Il caso dei soldati valdinievolini e pistoiesi, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019; Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione, Pisa, Pacini editore, 2017.