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Determinate e coraggiose: le donne versiliesi, vere protagoniste dello sfollamento

Quando le ordinanze di sfollamento colpirono la Versilia, nell’estate del 1944, le condizioni di vita della popolazione civile subirono un brusco peggioramento.

Fin dall’autunno del ’43, le autorità della RSI, desiderose di ricostituire un forte esercito nazionale, avevano avviato coscrizioni sempre più «totalitarie»: questa minaccia, sommata a quella imprevedibile dei rastrellamenti nazisti, consigliava ai maschi in età di leva di rimanere il più possibile nascosti, senza dare nell’occhio. Così, mentre per gli uomini le possibilità di movimento si restringevano ogni giorno di più, le donne, oltre a svolgere gli incarichi loro affidati dalla “tradizione”, dovettero accollarsi tutta una serie di incombenze nuove e gravose, solitamente “di competenza” maschile, come il rapporto con le autorità, il procacciamento del cibo e la difesa della famiglia in situazioni di pericolo.

Nonostante le ordinanze nazifasciste, che prevedevano l’evacuazione delle popolazioni civili verso l’Emilia, i versiliesi erano ben determinati a non abbandonare le proprie terre, per ragioni sia pratiche che affettive: correndo i rischi più gravi, cercarono rifugio nei recessi più remoti delle Apuane, presso amici, parenti, più spesso in alloggi di fortuna.

Nel corso dell’estate del ’44, con l’economia paralizzata e gli esercizi commerciali chiusi, abolite anche le già scarse razioni delle tessere annonarie di Mussolini, il problema alimentare si fece ogni giorno più pressante, fino a trasformarsi nel principale incubo degli sfollati. Ancora una volta, sfidando i gendarmi tedeschi e gli aerei alleati, spesso percorrendo a piedi distanze impensabili – giunsero perfino in Garfagnana e nel Parmense -, furono le donne ad effettuare frequenti ritorni alle proprietà abbandonate, tentando di reperire quel poco di frutta o verdura per i figli e i mariti lasciati in montagna, sempre che la fame dei soldati nazisti, dei partigiani, o, più di frequente, di altri sfollati nelle medesime condizioni, avesse risparmiato qualcosa.

Così per esempio fu per la famiglia di Mariella Barsottini, che nel 1944 aveva sette anni. Assieme ai genitori e al fratello più grande, Mario, abitava nel paesino di Strettoia, nel comune di Pietrasanta (Lu), un borgo agricolo posto proprio a ridosso delle alture dominanti la piana versiliese, in un’area di grande rilevanza strategica per i piani di fortificazione militare dell’Orgnizzazione Todt. Quando furono raggiunti dall’ordine di evacuazione, i Barsottini scelsero di dirigersi verso sud, per «andare incontro agli americani». Dopo una breve sosta nel paese di Valdicastello (Pietrasanta, Lu), in quei giorni vero e proprio crocevia per tutti gli sfollati versiliesi, la famiglia decise di seguire il consiglio di diversi compaesani e di puntare su Marina di Pisa (Pi), considerata una cittadina sufficientemente lontana dai pericoli della Linea Gotica. Nelle settimane successive, nonostante la grande distanza dal paese d’origine, la madre di Mariella, Rina, donna coraggiosa e intraprendente, pur di riuscire a recuperare qualcosa da mangiare per figli e marito, non esitò a tornare periodicamente ai propri terreni, sfidando i posti di blocco e correndo i mille pericoli del passaggio del fronte.

Ecco come Mariella rievoca oggi il ruolo delle donne nei duri mesi dello sfollamento:

Una cosa bella che facevano le donne, perché per gli uomini era troppo pericoloso, era quella di cercar di ritornare a Strettoia per prendere qualcosa da mangiare, perché là avevano lasciato tante cose, tutto! E allora, c’era chi cercava di riprendere la patata, chi recuperava il vino, l’olio, però, sempre col rischio di essere ammazzati. Anche la mia mamma lo fece, da Marina di Pisa. Due volte.

in viaggio verso la garfagnanana in cerca di ciboNei lunghi mesi dello sfollamento, poi, particolarmente complesso si rivelò il procacciamento del sale, genere indispensabile alla dieta, divenuto introvabile sul mercato già dalla primavera del ’44: agli sfollati versiliesi, non rimase altra scelta che ricavarlo dall’acqua di mare. In vista dell’avanzata alleata, tuttavia, l’Organizzazione Todt aveva provveduto a minare l’intera fascia costiera versiliese, lasciando sgombero dagli ordigni soltanto un unico, stretto corridoio di spiaggia presso la foce del fiume Versilia, vicino alle fortificazioni del Cinquale. Data la rilevanza strategica dell’area, il posto pullulava di soldati tedeschi: nessun uomo si sarebbe mai sognato di andarci. Nei mesi dello sfollamento, infatti, proprio in questo punto si snodava ogni giorno una lunga coda di donne composte e silenziose, in attesa del proprio turno per poter raccogliere in una secchia qualche litro d’acqua di mare. Una volta portatala ai monti, se fossero riuscite a passare indenni gli sbarramenti germanici, l’avrebbero fatta bollire o evaporare in un lattone, ricavandone, forse, un preziosissimo pugno di sale grezzo.

Le donne dovettero infine affrontare il difficile compito della protezione dei familiari in caso di rastrellamenti nazisti. Sui villaggi della montagna versiliese, le SS piombavano all’improvviso, rivoltando ogni centimetro degli alloggi, in cerca di uomini e ragazzi da portar via. In un clima di puro terrore, spesso con figli e mariti nascosti in soffitta o appena sotto le assi del pavimento, ancora una volta stava alle donne riuscire a dissuadere i soldati dal compiere ricerche più approfondite, ricorrendo a tutti i diversivi e le doti mimiche del caso, pur di riuscire a salvare le vite dei propri cari. Naturalmente, gli sforzi potevano benissimo risultare vani, e costare anche la vita.

Maria Antonia Quadrelli, nel 1944, aveva tredici anni. Quando giunse l’ordine di sfollamento, dovette abbandonare la sua abitazione delle Prade (Seravezza, Lu), e sfollare, assieme alla madre, alla zia e ai suoi cinque fratelli, nel villaggio montano di San Carlo Po, all’epoca nel comune di Apuania. Ancora oggi, l’anziana signora ricorda bene le drammatiche incursioni notturne delle SS, che penetravano con la forza nelle case in cerca di uomini da rastrellare (la sua vivida testimonianza è consultabile fra i “Materiali collegati”).

A buon diritto, dunque, è lecito affermare che le vere protagoniste dello sfollamento in Versilia furono le donne, che si rivelarono infatti scaltre e coraggiose, ben determinate ad “agire nel mondo” per difendere la vita e la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie comunità.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 

Articolo pubblicato nell’agosto 2014.




Partigiani, principesse, maghi e generali

“Tutti contenti, è finita; andiamo a casa!”, scrive l’8 settembre 1943 Sante Pelosin sul suo diario di guerra. Quanti dei nostri soldati hanno reagito nello stesso modo. Almeno metà non sono tornati a casa che due anni dopo, molti non sono tornati affatto. Sante è tra i fortunati, rimpatriato con la sua divisione l’8 marzo 1945. Ma quante sofferenze, in quei 18 mesi!

2La sua storia, e quella dei suoi commilitoni, è unica e straordinaria. Due divisioni italiane, la Venezia e la Taurinense, sono di presidio nell’interno del Montenegro. È forse la zona più periferica e inaccessibile dell’intero schieramento italiano all’8 settembre. Infatti i tedeschi arrivano qui tardi, verso fine mese, quando i comandanti sono già riusciti a organizzarsi, hanno chiarito l’equivoco iniziale (contro chi bisogna combattere ora?) e hanno preso una decisione storica. Dopo due anni e mezzo di lotta senza quartiere, di violenze da ambo le parti e crimini contro le popolazioni civili, ora due divisioni dell’esercito occupante, con generali e stato maggiore, si alleano con i partigiani jugoslavi comunisti e costituiscono la divisione Garibaldi.

Sembra incredibile eppure è vero. L’odissea dei partigiani italiani in Jugoslavia è testimoniata addirittura da un filmato. Anche questo è straordinario: ben poche unità dell’esercito avevano a disposizione una macchina da presa. Si vede il vecchio generale Oxilia, uno dei più intelligenti di tutto il Regio Esercito, mentre sottoscrive l’accordo con Peko Dapčević, appena trentenne ma già generale anche lui. Seguono mesi di fatica e sofferenza, di fame e freddo. “Vivere e combattere senza soldi, senza pane, senza carne, senza scarpe, malvestiti è impossibile”, scrive Oxilia nel novembre 1943 agli alti comandi italiani nell’Italia già liberata dagli angloamericani. “Aiutateci, e continueremo a fare l’impossibile!”. E tuttavia gli aiuti arrivano col contagocce. D’altronde i partigiani combattono anche così, soprattutto così. Lo stesso Oxilia, stanco e malato, viene rimpatriato, e nel luglio del 1944 viene nominato un nuovo comandante: Carlo Ravnich. Minatore di Albona, vicino a Fiume, ha cominciato la guerra come maggiore, la termina da generale. Istriano, parla bene il serbocroato, ed è un interlocutore perfetto per i comandi dell’esercito partigiano jugoslavo. Nonostante le origini slave del cognome, Ravnich è un italiano monarchico e, come gran parte dei suoi uomini, ha scelto di unirsi ai partigiani di Tito per seguire le indicazioni del suo Re, non certo per adesione ideologica al comunismo.

A volte, non sempre, rintracciare i documenti per una ricerca storica è quanto di più noioso si possa immaginare. In quei casi lo storico sembra il classico e stereotipato “topo da biblioteca”. In altre circostanze invece le fonti sono sfuggevoli, i documenti vanno cercati con cura e fatica, frugando non solo nei fondi meno frequentati degli archivi ma anche in case, biblioteche private, o nei ricordi dei protagonisti. In quelle occasioni il lavoro dello storico assomiglia più a quello di un detective impegnato a risolvere un caso, anche se di cinquanta, cento o mille anni fa. È quel che è capitato a me, studiando la storia della divisione Garibaldi in Jugoslavia nella seconda guerra mondiale.

Ma torniamo all’inizio. O meglio alla fine della guerra.

lapide commemorativa dei caduti garibaldini, Berane, Montenegro 1945. La divisione Garibaldi è tornata a casa decimata. Ha avuto almeno 10.000 vittime, tra morti e dispersi. Una percentuale doppia o tripla rispetto a chi si è lasciato catturare ed è finito internato dai nazisti. Tuttavia i nostri partigiani ottengono ben pochi riconoscimenti in patria. Considerati comunisti, perché hanno combattuto con Tito, non vengono nemmeno ammessi all’Anpi, non essendo partigiani italiani. Qualche piccola lapide o stele in Italia; un grande monumento in Jugoslavia, inaugurato nel 1983 a Pljevlja alla presenza del presidente Pertini.

Gli stessi documenti della divisione, il cosiddetto “Diario Storico”, non trovano una collocazione in nessun archivio, né italiano né jugoslavo. Seguono il comandante Ravnich fino alla morte, avvenuta nel 1996. Pochi giorni dopo il soldato Sante Pelosin riceve una chiamata dalla moglie: “C’è qui l’archivio del generale, venite a prenderlo”. Due commilitoni caricano la macchina con 16 casse di documenti, tra cui i famosi filmati. L’archivio rimane a casa Pelosin per poco. Alcuni giorni dopo si presentano alla porta due personaggi: la contessa Anna Provana di Collegno, amica e finanziatrice del famoso sensitivo torinese Gustavo Rol, e un suo collaboratore, il professor Cesare Bertana. Impugnano il testamento di Ravnich, che aveva promesso di lasciare in eredità il suo archivio a Maria Gabriella di Savoia, terza figlia di Umberto II, l’ultimo re d’Italia. La principessa ha costituito in Svizzera una fondazione per conservare documenti e materiale vario di interesse storico per la famiglia, tra cui diversi fondi che il padre avrebbe voluto lasciare in eredità allo Stato italiano. I documenti di Ravnich vengono caricati sulla macchina della contessa, poi consegnati a un intermediario, Domenico Orsi, che li trasferisce in Svizzera. Dell’archivio fanno parte anche “n° 22 scatole metalliche contenenti Film”. Documenti e pellicole originali dovrebbero dunque trovarsi presso la fondazione “Umberto II e Maria Josè”, anche se la principessa non ha mai risposto alle richieste di consultazione del materiale presentate da me e dall’associazione reducistica della divisione (Anvrg).

La maggior parte dei circa 25.000 italiani che si schierano contro i tedeschi in Montenegro sono piemontesi e toscani. Sia la Taurinense che la Venezia erano divisioni speciali, caratterizzate, a differenza della normale fanteria, da un reclutamento regionale. Sono passati 70 anni e pochi sono i sopravvissuti. Nel 2013 ho viaggiato tra Toscana e Piemonte, intervistando alcuni di quei ragazzi di allora, uomini ancora combattivi, orgogliosi di raccontare le loro incredibili avventure, di difenderne la memoria. Devo ringraziare gli Istituti storici della Resistenza di queste due regioni, che mi hanno permesso di effettuare queste videointerviste, oltre a RaiStoria, che ha creduto nel progetto e ha realizzato con me un documentario in tre puntate.

Ma più di tutti devo ringraziare il reduce Gino Bindi, di Castiglioncello (LI), ora purtroppo scomparso, che mi ha fornito una copia in dvd di alcuni dei filmati originali della Divisione Garibaldi. Il documentario della Rai si chiude con un’intervista al direttore dell’Archivio Centrale dello Stato, il dottor Attanasio, il quale ribadisce ufficialmente, a nome dello Stato italiano, la richiesta di consultazione dei documenti della fondazione svizzera. Ancora una volta la principessa Maria Gabriella di Savoia risponde evasivamente.  

Dove sono dunque finite le pellicole originali? Che fine hanno fatto i documenti? Quanto ancora dovranno aspettare gli storici per poter analizzare in maniera neutra e scevra da pregiudizi la straordinaria vicenda di quegli uomini che hanno combattuto una violentissima guerra partigiana fuori dalla patria, ma pur sempre per riscattare l’Italia?

Domenico Orsi è morto, Sante Pelosin è molto anziano e così la contessa Provana di Collegno. Anche Gustavo Rol è morto; peccato, con le sue straordinarie doti di veggente avrebbe potuto darci qualche risposta.

Partigiani, generali, maghi, sono scomparsi. Rimane solo la principessa; è l’unica che può aiutarci a ricostruire questa storia. Restiamo in attesa. Se ci sei batti un colpo.

Articolo pubblicato nel maggio 2014.




Le donne di Ribolla negli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono nel villaggio minerario di Ribolla in un clima di aperta ostilità tra la Società Montecatini, proprietaria della miniera, e gli operai. Una lunga vertenza nel 1951, “lo sciopero dei 5 mesi ”, pur concludendosi con una sconfitta del movimento operaio grossetano ne rappresentò al contempo uno degli episodi più gloriosi, nel quale si inserì sorprendentemente una variabile a lungo trascurata dalla storiografia: il movimento femminile, timido dapprima, imponente poi, tanto da riuscire a tenere il passo di quello sindacale e politico. Molte donne, infatti, già nelle prime fasi dello “sciopero dei 5 mesi ” si erano organizzate – non solo a Ribolla – per sostenere la lotta di padri, fratelli, figli, mariti, fino a costituirsi nell’associazione “Le amiche della miniera”, il 2 giugno 1951. Sul numero delle iscritte si hanno dati precisi solo per il 1951: 328  nel solo comune di Roccastrada, per un totale di 1184 in tutti paesi minerari della provincia.

Comizio di una rappresentante de "Le amiche dei minatori" (anni Cinquanta)

Comizio di una rappresentante de “Le amiche dei minatori” (anni Cinquanta)

Erano “amiche della miniera” anche le operaie, impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Sia alle donne che partecipavano agli scioperi al fianco degli uomini, sia alle operaie che rimanevano al loro posto per “doveri di cura”, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa (A. Bravo, 1991), usata in un primo momento per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’8 settembre, prima, e dei partigiani, poi.

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Lo stereotipo della protezione degli uomini determinata da un naturale istinto materno e da una scelta morale più intuita che meditata è stato messo da tempo in discussione (Anna Rossi Doria, 1994), con la messa a fuoco del passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona» nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione. Anche nella scelta delle “amiche della miniera” di lottare a fianco dei propri uomini questo passaggio è evidente, soprattutto se si pone lo sguardo sugli spazi di autonomia che queste donne seppero prendersi all’interno del più ampio movimento sindacale e politico.

Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisou causò la morte di 43 operai della miniera di Ribolla. Appena dopo il disastro e nei giorni seguenti, le donne dell’associazione si mobilitarono per sostenere i familiari delle vittime.

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4 maggio 1954: la notizia del disastro si è diffusa in paese. Le donne accorrono alla miniera

La colpa morale della Montecatini per lo stato di grave mancanza di sicurezza in miniera, denunciato a più riprese nei mesi precedenti, aspettava solo di essere sancita giudizialmente ma le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro e lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un’ampia opera di persuasione per convincere con lauti risarcimenti le famiglie dei minatori morti a ritirare le procure per la costituzione di parte civile nel processo.

La sentenza di assoluzione dei dirigenti della Montecatini fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie, anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici, punto decisamente a favore della difesa; anche le ultime 5 famiglie firmatarie delle procure, infatti, non si presentarono al processo di Verona, nell’ottobre 1958.

La vicenda del ritiro delle procure segnò una spaccatura profondissima all’interno della comunità di Ribolla: da una parte, chi dopo anni di lotte voleva inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità; dall’altra, le “vedove”, ree – si diceva – di aver tradito le aspettative di un intero paese lasciandosi “comprare” dalla Società. In realtà, come mostra un recente studio (Adolfo Turbanti, 2005), il ritiro delle ultime procure fu con tutta probabilità avallato dal PCI e dal Sindacato, resisi ormai conto di quale sarebbe stato l’esito del processo e preoccupati che le famiglie ricevessero almeno una giusta riparazione economica.

Il giudizio sulle vedove si è nel corso del tempo attenuato; nella percezione comune oggi esse appaiono come il soggetto che dovette farsi carico della sopravvivenza della famiglia. A rivelarsi, a distanza di anni, sono la debolezza della loro condizione sociale e, a un’analisi più attenta, lo sforzo e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza dei compiti di cura e degli affetti. Si è detto di come la categoria del maternage di massa non spieghi fino in fondo la scelta delle donne di lottare al fianco dei minatori; paradossalmente, però, fu proprio la maternità tout court a riportare l’azione di queste donne negli argini del domestico, fuori dall’arena pubblica.

La lenta smobilitazione della miniera, fino alla chiusura definitiva  nel 1959, e l’emigrazione in cerca di lavoro di molte famiglie determinarono la graduale perdita di vigore dell’associazione femminile: in definitiva lo scoppio del grisou ridefinì l’identità politica e sociale del villaggio, distruggendo simbolicamente i riferimenti culturali e il terreno di valori comuni sul quale il movimento femminile si era radicato ed era cresciuto. Nato intorno alla miniera, intorno ad essa si spense.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2014.




Guerra e sfollamento in Versilia.

Il 18 maggio 1944, mentre le truppe alleate riuscivano a sfondare la Linea Gustav, cadevano le prime bombe americane sulla Versilia storica, dirette a colpire il ganglio stradale e ferroviario di Ponterosso, a metà strada fra Pietrasanta (Lu) e Querceta (Seravezza, Lu), allo scopo di ostacolare i movimenti dei reparti tedeschi destinati al fronte sud. I versiliesi, già stremati da quasi quattro anni di lutti e sofferenze, si ritrovarono così direttamente coinvolti nella “guerra guerreggiata”: dopo quel giorno, infatti, le incursioni aeronavali sull’entroterra si sarebbero moltiplicate. Fu allora che le prime famiglie decisero volontariamente di sfollare: uomini, donne, vecchi e bambini, raccolte le poche cose che riuscivano a portare in spalla o su un semplice carrettino, scelsero di lasciare la propria abitazione, divenuta ormai troppo pericolosa per rimanere. Nella maggior parte dei casi, ritenendole più sicure, gli sfollati s’incamminarono verso le montagne, cercando rifugio presso amici e parenti. Più spesso, tuttavia, dovettero accontentarsi di una sistemazione di fortuna: un materasso in una stanza sfitta, un giaciglio di paglia in un metato diroccato, un tetto sotto cui passar la notte, in attesa di tempi migliori.

Nell’estate del ’44, mentre gli attacchi partigiani riuscivano efficacemente a rallentare i lavori di fortificazione della Linea Gotica portati avanti dall’Organizzazione Todt, le SS prendevano il controllo dell’area versiliese, compiendo rastrellamenti e violenze contro la popolazione, al fine di reciderne i legami con le formazioni. Per potersi muovere più liberamente ed isolare le sacche di resistenza, i nazifascisti decisero infine di evacuare completamente il territorio: a partire dal 30 giugno 1944, giorno in cui fu sgomberato il Comune di Forte dei Marmi, gli occupanti emanarono una serie di ordinanze di “sfollamento totalitario”, con le quali, spesso lasciandole soltanto poche ore a disposizione, si costringeva tutta la popolazione ad abbandonare le proprie case. Nel giro di qualche settimana, la medesima sorte toccò ai Comuni di Seravezza, Pietrasanta e Stazzema. Secondo i manifesti, la popolazione avrebbe dovuto incolonnarsi a piedi verso il Passo della Cisa, fino a Sala Baganza (Pr), dove sarebbe stata alloggiata provvisoriamente, in attesa di passare il Po: chiunque fosse stato sorpreso a circolare in zona di evacuazione dopo il termine ultimo senza valido motivo, sarebbe stato arrestato e passato per le armi. Nel frattempo, squadre di genieri nazisti procedevano alla sistematica distruzione di tutte le infrastrutture che ostacolavano la linea di vista dalle alture retrostanti la piana.

Nonostante le minacce, la stragrande maggioranza dei civili decise di rimanere in Versilia, impegnandosi in una dura, massacrante lotta per la sopravvivenza, in condizioni di fame, angoscia, scarsissima igiene e sovraffollamento, in trepidante attesa degli Alleati. Gli anglo-americani arrivarono nell’autunno del ’44, ma gli sfollati versiliesi non poterono subito far ritorno alle proprie case: fino all’aprile del 1945, infatti, l’avanzata alleata restò impantanata ai piedi della Gotica, e tutta la zona rimase terra di battaglia, costantemente battuta dalle opposte artiglierie. Quando i cannoni tacquero, la popolazione poté gradualmente rientrare: di fronte a lei, un paesaggio irriconoscibile, completamente devastato dalle bombe, tutto da ricostruire.

La storiografia ufficiale del Dopoguerra riservò scarsissima attenzione alla tragedia dei civili nel corso del conflitto. Proprio per questo, oggi, ricostruire lo sfollamento con l’ausilio delle fonti orali permette di conoscere quella sofferenza direttamente dalla voce di chi la visse sulla propria pelle: attraverso i racconti dei testimoni, in altre parole, diviene possibile conferire dignità e valore alla quotidiana battaglia per la vita che i civili della Versilia combatterono nei lunghi mesi della Gotica, in nome della solidarietà umana e dell’amore per la propria terra.

Federico Bertozzi si è laureato in storia contemporanea, presso l’Università di Pisa, nel novembre 2013, con una tesi dal titolo “Attaccarono i fogli: si doveva sfolla’!” dedicata alla ricostruzione dello sfollamento in Versilia con l’ausilio delle fonti orali. Attualmente si sta occupando di raccogliere le memorie del passaggio della guerra in Versilia. 

Articolo pubblicato nell’aprile 2014.




Guida alla consultazione del database dei soldati di origine italiana negli eserciti Alleati

clip_image002La presente banca dati è stata realizzata sotto il coordinamento scientifico dell’istituto Storico della Resistenza in Toscana di Firenze contestualmente ad un progetto di ricerca promosso e sostenuto dalla Regione Toscana e dalla Consulta dei Toscani nel Mondo.

Guida alla consultazione del database

Introduzione

Durante la Seconda Guerra Mondiale, all’interno degli eserciti nazionali di alcuni dei principali paesi alleati, combatté un numero significativo di soldati di origini italiane. Molti di questi appartenevano a famiglie di immigrati di seconda, terza o quarta generazione che avevano lasciato l’Italia tra gli anni Ottanta del XIX e gli inizi del XX secolo. Altri, invece, erano nati in Italia ed emigrati all’estero nel periodo tra le due guerre o perché in cerca di fortuna e nuove opportunità o perché, invece, spinti a far ciò per sottrarsi alle persecuzioni del fascismo.
Come noto, dopo l’ingresso in guerra dell’Italia fascista a fianco delle potenze dell’Asse nel giugno 1940, molti membri delle comunità italiane presenti nei paesi alleati furono discriminati come enemy aliens, venendo talvolta assoggettati a internamento o sottoposti a restrizione dei propri diritti civili. Anche quando non furono oggetto di simili interventi, la gran parte degli italiani all’estero fu però guardata con sospetto perché ritenutia poco leale nei riguardi dei paesi ospitanti; un giudizio verso il quale spingeva il ricordo della simpatia e dell’appoggio col quale alcuni settori delle comunità italiane all’estero avevano guardato al fascismo italiano durante gli anni Venti e Trenta.
A dispetto di questo marchio, però, la partecipazione di molti giovani di origine italiana nelle file degli eserciti alleati, impegnati a combattere il nazifascismo nei diversi teatri bellici (talvolta a seguito di arruolamenti volontari), contribuisce ad arricchire, riequilibrandolo in parte, il giudizio complessivo sul ruolo degli italiani all’estero nel periodo tra le due guerre. Con la realizzazione della banca dati che qui si presenta si è voluto pertanto ridare voce e presenza ad alcuni di questi combattenti, nell’intento che i dati qui riportati possano risultare un utile strumento per future riflessioni e ulteriori approfondimenti.

stemma 2Premesse

Il database contiene informazioni su una selezione di combattenti di origine italiana (certa o presunta) arruolati nelle forze armate alleate nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Si riferisce in particolare a soldati inquadrati nelle forze armate di Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Brasile. Fra questi, alcuni sono caduti in battaglia, altri sono stati fatti prigionieri di guerra dalle forze dell’Asse, altri ancora hanno semplicemente prestato servizio militare durante il secondo conflitto mondiale. Nonostante si sia provveduto ad uniformare tra di loro i dati sui combattenti delle diverse forze armate, si ritiene utile premettere che le informazioni rimangono tra loro in parte eterogenee, perché attinte da fonti di natura e provenienza differente.

Il campione di analisi contenuto nel database comprende:
– 1.573 soldati statunitensi di italianità certa e caduti in guerra.
– 384 soldati statunitensi di italianità certa e prigionieri di guerra di giapponesi o tedeschi.
– 210 soldati australiani di italianità presunta e caduti in guerra.
– 1.431 soldati australiani di italianità certa in quanto nati in Italia.
– 32 soldati neozelandesi di italianità presunta e caduti in guerra.
– 15 soldati sudafricani di italianità presunta e caduti in guerra.
– 61 soldati canadesi di italianità certa.
– 5 soldati canadesi di italianità certa e caduti in guerra.
– 214 soldati canadesi di italianità presunta e caduti in guerra.
– 1.206 soldati brasiliani (caduti in guerra e non) di italianità presunta.
– 5 soldati brasiliani di italianità certa.

Interrogazione del database

La banca dati è costituita in lingua inglese e pertanto a quest’ultima si deve far riferimento quando se ne interroghi il contenuto tramite l’apposita maschera di ricerca.
La maschera permette di interrogare i dati attraverso i seguenti campi:

Nome e Cognome
Permette di interrogare il database tramite il nome e/o il cognome dei combattenti.

Nazione
Permette di interrogare e selezionare i combattenti in base al paese nelle cui forze armate essi furono arruolati. I paesi sono i seguenti: Usa, Brazil, New Zealand, South Africa, Australia, Canada.

Id.
Permette di interrogare il database attraverso il numero di matricola del combattente risalendone al nome e ai dati personali.

Corpo
Permette di interrogare il database attraverso l’Arma (Army, Navy, Air Force, ecc.) alla quale appartenevano il combattente e la sua unità. Nel caso dei soldati italo-brasiliani il campo “Corpo” è unico (Força Expedicionaria Brasileira).

Unità
Permette di interrogare il database attraverso il raggruppamento militare (per es. Division, Regiment, Battalion, Company, Platoon) o il corpo speciale (per es. Marine) cui apparteneva il soldato. Nel caso dei soldati italo-brasiliani il nome dei raggruppamenti è indicato in lingua brasiliana/portoghese (per es. Depósito, Centro, Regimento, Companhia, Batalhão, Pelotâo ecc.). Nel caso dei soldati italo-australiani il battaglione di appartenenza è talvolta abbreviato perché di non chiara interpretazione; al riguardo si rimanda al glossario presente sul sito http://www.awm.gov.au/glossary/.

Grado
Indica il grado militare del combattente: soldato semplice (Private, Gunner, Guardsman) e i suoi gradi intermedi nel caso dell’esercito statunitense (Private first/second class); caporale (Corporal) e i suoi gradi equivalenti o intermedi nel caso dell’esercito statunitense (Lance Corporal, Technician Fifth Grade); sergente (Sergeant) e i suoi gradi intermedi e tecnici nel caso dell’esercito statunitense (Staff Sergeant, Technical Sergeant, Technician Third/Fourth Grade); tenente (Lieutenant) e i suoi gradi intermedi nel caso dell’esercito statunitense (First/Second Lieutenant); capitano (Captain).
Nonché gli equivalenti gradi per la Marina (Seaman, Seaman first/second class, Able Seaman, Ensign ecc.) e per l’Aviazione (Aircraftman, Leading Aricraftman, Pilot Officer, Flying Officer, Flight Lieutenant, Squadron Leader ecc.). Talvolta nel campo “Grado” è riferita invece la mansione particolare del soldato, quale: sapper, shipfitter, telegraphist, radiotelegraphist ecc.

Indicazioni metodologiche sul processo di realizzazione della banca dati

Il database contiene informazioni su 5.136 combattenti. Di 3.459 di questi nominativi è stata accertata l’origine italiana, mentre dei restanti il cognome italofono fa presupporre un’italianità che, però, allo stato attuale della documentazione non è verificabile. All’interno del database si è avuto cura di indicare l’italianità certa, o solo presunta, di ciascun combattente sotto la voce “Avi italiani”.
Fonte privilegiata per il reperimento delle informazioni è stata la stampa in lingua italiana, in particolare il Progresso Italo-Americano, il più diffuso quotidiano italiano negli Stati Uniti pubblicato a New York, e La Vittoria, periodico antifascista della comunità italiana di Toronto. In un quadro di effettiva difficoltà nel reperire pubblicazioni periodiche delle comunità italiane all’estero non è stato possibile utilizzare la stampa delle comunità italo-brasiliana e italo-australiana, dal momento che i periodici in lingua italiana in questi paesi furono costretti alla chiusura a causa dello scoppio della guerra.

La ricerca non è stata estesa ai soldati britannici caduti in guerra poiché, per problemi tecnici, non è stato possibile esportare e rielaborare i loro dati contenuti nel database del Commonwealth War Grave Commission (www.cwgc.org), che è stato invece utilizzato per reperire informazioni su soldati australiani, neozelandesi e sudafricani. Si ricorda come tale organismo sin dalla sua costituzione ha avuto il compito di censire i caduti degli eserciti del Commonwealth nel corso delle due ultime guerre mondiali. Tuttavia, per chi fosse interessato, si segnala che il caso dei soldati britannici di origine italiana è stato affrontato per il periodo della seconda guerra mondiale dalla storica britannica Wendy Ugolini [W. Ugolini, ‘The Sins of the Fathers’: The Contested Recruitment of Second-Generation Italians in the British Forces 1936–43, Twentieth Century British History, 24.3 (2013), 376–97; Id., ‘The embodiment of British Italian war memory? The curious marginalization of Dennis Donnini, VC’, Patterns of Prejudice, 46.3-4 (2012), 397-415; Id., Experiencing the War as the ‘Enemy Other’: Italian Scottish Experience in World War II, Manchester, Manchester University Press, 2011, ch. 5-6-7].

Soldati italo-statunitensi

Si è partiti dalla consultazione del Progresso Italo-Americano per il periodo dal 7 dicembre 1941 al 15 settembre 1945. Il quotidiano pubblica con regolarità liste di soldati italo-statunitensi caduti in guerra, prigionieri, dispersi e feriti, oltre che profili biografici dedicati a singoli combattenti. Tali elenchi venivano probabilmente rielaborati dal Progresso sulla base delle comunicazioni fornite dallo U.S. War Department e U.S. Navy Department, mentre i profili biografici erano presumibilmente redatti sulla base delle informazioni fornite dalle famiglie degli stessi combattenti. I dati relativi ai soldati caduti sono stati confrontati e integrati con quelli ricavabili dai seguenti database statunitensi:

1) National WWII Memorial, Washington D.C (www.wwiimemorial.com). Il portale combina quattro distinte banche dati relative a:

a) Soldati sepolti presso cimiteri statunitensi all’estero. Le stesse informazioni sono ricavabili anche dal database dell’American Battle Monument Commission (www.abmc.gov). b) Soldati dispersi in guerra i cui corpi non sono mai stati ritrovati ma i cui nomi vengono ricordati nei Tablets of the Missing dell’American Battle Monument Commission. c) Elenchi dei Killed in service rosters dello U.S. Navy Department e U.S. War Department conservati presso i National Archives Records and Administration II di College Park in Maryland. d) Un Registry of Remebrances, che raggruppa informazioni fornite da familiari e conoscenti dei soldati caduti seppure non verificate in modo ufficiale.

2) Archival Databases of the National Archives and Records Administration (http://aad.archives.gov). Il portale contiene una serie di database di combattenti americani nelle varie guerre combattute dagli Stati Uniti. Nello specifico è stata utilizzata la serie World War II Army Enlistment Records (1938-1946), che conserva i dati di di 8.706.394 soldati arruolati nelle forze armate statunitensi nel corso del secondo conflitto mondiale. In secondo luogo – per integrare i dati ottenuti dal Progresso Italo-Americano sui soldati italo-americani prigionieri di giapponesi e tedeschi – è stato utilizzato il Records of WWII Prisoners of War. Questo database, in continuo aggiornamento, contiene informazioni su 143.374 soldati (ultima consultazione: 29 agosto 2014), ovvero la quasi totalità dei combattenti statunitensi imprigionati dalle forze dell’Asse.

Soldati australiani, neozelandesi, sudafricani

Nel caso dei soldati australiani è stato utilizzato il database presente sul sito http://www.ww2roll.gov.au/PlaceSearch.aspx, che contiene informazioni su circa un milione di individui (uomini e donne) che hanno servito nelle forze armate australiane nel corso della Seconda Guerra Mondiale. La ricerca fatta per luogo di nascita (utilizzando come chiavi di ricerca “Italy” o i nomi delle varie regioni italiane, es. “Sicily”) ha permesso di selezionare così 1.431 soldati australiani nati in Italia.
I nomi ricavati sono stati confrontati, e eventualmente integrati, con i dati dei soldati australiani caduti in guerra presenti nel già citato sito del Commonwealth War Grave Commission (www.cwgc.org). Inoltre, da quest’ultimo database è stato possibile ottenere una lista di caduti australiani il cui cognome indica una possibile origine italiana, sebbene allo stato attuale della documentazione tale italianità non sia verificabile con certezza. Ricerca analoga è stata condotta per soldati sudafricani e neozelandesi.

Soldati canadesi

Sempre dal sito del Commonwealth War Grave Commission (www.cwgc.org) sono stati estrapolati nominativi di soldati canadesi apparentemente di origine italiana. Per alcuni di essi è stato possibile attribuire con certezza l’italianità grazie alle informazioni fornite:
1) Dal periodico La Vittoria.
2) Da uno studio biografico di alcuni combattenti italo-canadesi dello storico Raymond Culos. [Raymond Culos, Injustice Served: The Story of British Columbia’s Italian Enemy Aliens During World War II Montreal: Cusmano Books, 2012, cap. 9]
3) Dal sito http://www.italiancanadianww2.ca/it, che raccoglie testimonianze delle esperienze di immigrati italiani in Canada nel corso del secondo conflitto mondiale, fra le quali alcune di italo-canadesi che prestarono servizio nelle forze armate canadesi.
4) Dal sito http://www.bac-lac.gc.ca/eng/discover/military-heritage/second-world-war/second-world-war-dead-1939-1947/Pages/files-second-war-dead.aspx, attraverso il quale si risale a informazioni individuali di soldati canadesi caduti in guerra.

Soldati italo-brasiliani

Grazie alla cortesia di Mario Pereira, responsabile del Sacrario Volitivo Brasiliano di Pistoia, siamo risaliti alla lista nominativa completa dei 25.367 brasiliani che prestarono servizio nella Força Expedicionária Brasileira (FEB) in Italia. Da tale lista sono stati estrapolati i nominativi di 1.194 soldati dal cognome italofono. I loro dati sono stati a loro volta confrontati con quelli di 28 soldati dial cognome italofono compresi fra i 465 brasiliani caduti nella campagna d’Italia e commemorati presso il Sacrario di Pistoia Album do Brasil Na II Grande Guerra, Expedicionários Sacrificados Na Campanha da Itália, Rio de Janeiro, Bruno Buccini Editor, 1957]. Di questi nominativi è stato possibile riscontrare l’effettiva italianità di soltanto 5 combattenti grazie al confronto con testimonianze orali, memorie, siti di veterani brasiliani della FEB, e con articoli de O Globo Expedicionario, periodico della FEB.

Avvertenze sul contenuto

All’interno dei campi descrittivi della scheda anagrafica di ciascun combattente si possono trovare i seguenti avvertimenti:

– “Supposed ID”: indica, in mancanza di riscontri più certi, la presunta presunta matricola militare del soldato.
– Nell’elaborazione di fonti diverse per la realizzazione del database non sempre è stato possibile verificare con certezza assoluta alcuni dati personali quali la residenza, il grado ecc. Simili casi vengono segnalati solitamente nel campo “Note” con la suddetta dicitura.

Altri avvertimenti:

– Nel caso dei soldati statunitensi il grado militare “Technician Fourth class” è equiparato a quello di “Corporal”, mentre quello di “Technician Fourth class” a quello di “Sergeant”.
– I soldati brasiliani, oltre che il proprio nome e cognome, venivano indicati con un nome di guerra (“Nome de guerra”), che, salvo alcune eccezioni, viene però a coincidere in gran parte col cognome del combattente. La ripetizione del cognome nelle schede dei soldati italo-brasiliani, qualora presente, va ricondotta pertanto ad una duplicazione dovuta a questa particolare circostanza.

Articolo pubblicato nell’aprile 2015.