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La liberazione di Pisa, 2 settembre 1944

«S’accompagnarono l’ameriani noi fino a Ripafratta, poi a Ripafratta si girò e si andò diretti a Pisa, a Pisa si andò a Piazza del Duomo e ameriani non c’era nessuno, i primi […] s’arrivò prima noi e poi arrivarono l’ameriani. […] A Pisa non erano ancora entrati». Questa è la testimonianza di Duilio Cordoni, allora diciassettenne partigiano della formazione “Nevilio Casarosa”, su ciò che successe il giorno della liberazione di Pisa, il 2 settembre 1944. Il brano è tratto da un colloquio che ho avuto la scorsa estate presso la sua abitazione, per la preparazione di un libro sulla guerra a San Giuliano Terme.

A distanza di tanti anni da quel periodo, il racconto di Cordoni ripropone un preciso intento polemico, che nel corso dell’intervista è emerso in maniera esplicita: smentire una versione dei fatti che vuole che furono invece gli Alleati ad arrivare per primi sotto la torre, seguiti solo in un secondo momento dalle forze organizzate della Resistenza. Dietro alla contesa sul primato dell’arrivo in città, questione che in sé rivestirebbe un interesse marginale, c’è in gioco la discussione sul ruolo che i partigiani e il CLN locale ebbero in occasione della liberazione di Pisa. Al momento dell’arrivo degli Alleati quali erano a livello locale le forze organizzate che potevano credibilmente rivendicare il ruolo di interlocutori privilegiati per la costruzione di una Pisa non più fascista?

Il problema è certamente complesso e per affrontarlo correttamente sarebbe necessaria una riflessione ben più articolata. Proviamo però a fornire rapidamente una fotografia della condizione in cui si trovavano le strutture della Resistenza nella fase finale dello stallo del fronte sul fiume Arno, nella seconda metà dell’agosto 1944, settanta anni fa.

 La “Nevilio Casarosa” si era disarticolata dopo l’attacco a sorpresa dei tedeschi al campo base, all’alba del 10 agosto 1944: i suoi componenti si erano dispersi in vari gruppi, senza più un’organizzazione paragonabile a quella avuta in precedenza. L’obiettivo immediato dei partigiani divenne la mera sopravvivenza, in primo luogo evitare di cadere nuovamente nei rastrellamenti tedeschi, come quello condotto il 24 agosto 1944 dalla 16ª Divisione SS sul monte Faeta: a partire dal versante lucchese, con l’aiuto di alcuni italiani della Brigata Nera “Mussolini” forniti di mascherine per coprire il volto e giacche mimetiche tedesche, una cinquantina di militari perlustrarono le baracche degli sfollati, fucilarono una decina di sospetti e arrestarono una sessantina di uomini. Proprio in una di quelle baracche, in località San Pantaleone, la moglie del comandante della Casarosa Ilio Cecchini stava dando alla luce una figlia, mentre intorno «si avvertivano spari e raffiche sempre più frequenti e grida»: lo stesso Cecchini «aveva lasciato la formazione partigiana nella notte sperando di poter assistere alla nascita della nostra creatura ma le urla disperate della gente terrorizzata per la cattura dei loro uomini e l’avvicinarsi degli spari lo indussero a lasciarci improvvisamente» (le citazioni sono prese da un dattiloscritto redatto dalla stessa moglie di Cecchini, Anna Maria, conservato presso l’archivio familiare).

artigiani pisa

Addestramento della formazione “Nevilio Casarosa”. Luigi Salani detto “il Biondo” in primo piano con la pistola, a destra Uliano Martini. (Proprietà Adriana Salani)

Se sul Monte Pisano dunque la situazione era drammatica, in condizioni non migliori si trovava la cittá di Pisa, dove poche migliaia di abitanti si erano concentrate nelle case tra il Duomo e Porta a Lucca, intorno all’Ospedale Santa Chiara e all’Arcivescovado, le uniche strutture che riuscirono con enormi sforzi a offrire un minimo di assistenza a una popolazione stremata. Qui faceva quotidianamente la spola con il Comando Tedesco il responsabile dell’amministrazione comunale di Pisa, il cattolico antifascista Mario Gattai, nominato dopo la fuga del prefetto alla fine di giugno dal vice prefetto, di comune accordo con l’arcivescovo Gabriele Vettori. Mentre Gattai cercava disperatamente di organizzare un comitato di alimentazione efficiente e provava a trattare con i nazisti per permettere un minimo di agibilitá alla vita in cittá, i rapporti con l’organizzazione antifascista clandestina guidata dai comunisti non erano semplici. Nelle pagine del suo diario, Gattai scriveva il 16 agosto 1944: «non sono nemmeno in contatto con quelli del Comitato di Liberazione; non già perché io non voglia, ma perché questi illustri anonimi che vivono nelle cantine non hanno sentito la necessità di farsi avanti. […] Mi sento sempre più solo ad affrontare la situazione». Pochi giorni dopo, il 23 agosto, un giornale clandestino antifascita – probabilmente redatto dai comunisti – lo accusò di essere responsabile delle deportazioni degli uomini avvenute in quei giorni, proprio per i suoi contatti continui con il Comando tedesco. Lo sfogo di Gattai diventava qui virulento: «la redazione del foglio deve stare in una cantina, ove non batte il sole e ove i trogloditi che la abitano ignorano che i tedeschi hanno il potere di prendere uomini e donne e chi vogliono e cosa vogliono, e che se non ci fossi io – con l’aiuto di alcuni sacerdoti e dei pochi miei compagni di lavoro – ad attutire con molta politica e molta fatica le loro prepotenze e a pensare ai bisogni della popolazione, questa avrebbe dovuto soffrire ben più di quanto ha sofferto finora. Fuori dalle cantine, prendetevi il vostro lavoro e la vostra responsabilità e poi parlate!».

 Credo che si possa affermare che la fine di agosto segnò da molti punti di vista il momento più difficile nella vita della città di Pisa, non ultimo per la confusione politica in un contesto in cui i margini di azione non andavano oltre il tentativo di sopravvivere. Chi ebbe le idee più chiare a proposito furono i responsabili regionali del partito comunista in clandestinità. Il gappista fiorentino Alvo Fontani riferì ai militanti pisani le direttive impartite dal centro regionale in vista dell’arrivo degli Alleati: «fare il possibile per affermare comunque una presenza della resistenza alla liberazione di Pisa, facendo di tutto per evitare uno scontro con le truppe di copertura della ritirata tedesca». In città però non erano presenti gruppi capaci di svolgere questo compito; era necessario quindi rivolgersi ai partigiani che stavano sul Monte Pisano e «chiedere che almeno cinquanta o sessanta […] si preparino e siano pronti al momento opportuno a marciare su Pisa». Fontani si trasferì sui monti insieme a Ruggero Parenti, responsabile della federazione comunista di Pisa, «sotto una tenda, in una posizione che ci permette, per quanto possibile, di controllare almeno parzialmente la situazione» (le citazioni sono tratte dalle memorie di Fontani). I giorni seguenti furono impiegati per organizzarsi in vista del momento della liberazione.

La mattina del 2 settembre, una volta iniziato l’attraversamento dell’Arno all’altezza di Cascina da parte delle truppe angloamericane, i partigiani inquadrati da Fontani e Parenti scesero dal Monte: alcuni, tra cui Duilio Cordoni, guidarono i soldati alleati in un territorio ormai abbandonato dai tedeschi verso Ripafratta, altri proseguirono su Pisa, dove attesero con pazienza l’allontanamento delle ultime squadre di occupanti. Quando poi arrivò il grosso delle truppe alleate, nel pomeriggio del 2, la Prefettura, la Questura e il Palazzo del Comune erano già nelle mani del Cln di Pisa e dei partigiani. Molti di loro in seguito si arruolarono nelle truppe di liberazione, all’interno del Corpo di Volontari della Libertà, e continuarono la guerra verso Nord. Solo allora si poterono ricomporre le forze di chi aveva scelto il compito della organizzazione clandestina armata e chi invece si era votato alla missione di assistere la popolazione, che poco avevano comunicato nei giorni precedenti. Questo dualismo fu riconosciuto e formalizzato nella prima Giunta comunale nominata dagli Alleati, che ebbe come sindaco Italo Bargagna, comunista partigiano, e come vicesindaco proprio Mario Gattai.




Arte sotto le macerie. La storia del Tabernacolo del Mercatale

Sepolto sotto le macerie, disintegrato da quelle maledette bombe che il 7 marzo 1944 piovvero su Prato. Era ridotto in mille brandelli, un’offesa alla memoria storica collettiva, pallida ombra di quell’affresco che il Vasari descriveva come «colorito con tanta freschezza e vivacità che merita per ciò essere lodato infinitamente». 

É una storia di ricostruzione, coraggio e speranza quella racchiusa nel Tabernacolo del Mercatale di Filippo Lippi, celebrato nei secoli come una delle meraviglie di Prato e bombardato dall’aviazione alleata.
Non potremmo oggi ammirarlo tra le sale del Museo di Palazzo Pretorio, recentemente riaperto dopo un lungo intervento di restauro, se non fosse stato per il coraggio del restauratore Leonetto Tintori che a quel tabernacolo ridotto a mille pezzi, raffigurazione della Madonna con il bambino insieme ai santi Antonio Abate e Margherita, Santo Stefano e santa Caterina d’Alessandria, restituì una vita. Sull’opera Leonetto aveva già messo le mani, riparandolo dai danni prodotti da un camion.
esterni palazzo pretorioStavolta però si trattava di riparare l’irreparabile: c’era da ricostruire quasi ex novo un capolavoro. Armandosi di coraggio e pazienza, il restauratore si recò dalle autorità tedesche ottenendo l’autorizzazione a procedere nel restauro mentre trovò la porta chiusa del commissario prefettizio il cui primo pensiero, di fronte a una città devastata dalle bombe, poteva essere tutto fuorché l’arte. «Ho tante cose a cui pensare, levati di torno!», furono le parole con cui Leonetto venne liquidato. Ma il Tintori decise comunque di tentare l’impresa: i frammenti più piccoli vennero riposti in vasi da marmellata con la sabbia per essere protetti dagli urti.
Lo aiuterà un altro maestro destinato a farsi strada nell’arte del restauro, Giuseppe Rosi: dall’opera a quattro mani iniziò a riemergere il “Filippino”, come veniva affettuosamente chiamato da Tintori il tabernacolo che sotto l’immagine centrale riporta lo stemma dei Tieri, committenti dell’opera.
Rimettere in piedi quel capolavoro non fu un’impresa facile: Tintori, che all’epoca era già un maestro di restauro affermato, prese più volte contatti con le università di New York e di Harvard che lo avrebbero più volte aiutato, anche economicamente, nelle sue ricerche scientifiche.
Il Tabernacolo ricostruito e ricomposto nella vivacità dei suoi colori oggi risplende al primo piano di Palazzo Pretorio e fa parte della collezione permanente del Museo, insieme ad altri capolavori di Filippo Lippi e dello stesso Filippino.




La strage della famiglia Einstein

Il 3 agosto 1944 la famiglia di Robert Einstein, cugino del più famoso Albert, fu oggetto di un atroce massacro ad opera di soldati della Wehrmacht presso Villa il Focardo a Rignano Valdarno. Robert e Albert Einstein erano cugini per parte paterna; i due ragazzi avevano trascorso l’infanzia insieme prima in Germania e poi in Italia. Le loro strade si separeranno poi. Albert  diventerà un fisico di fama mondiale, Robert inizierà gli studi di ingegneria.

Robert Einstein aveva sposato Cesarina (Nina) nel  1913. La coppia aveva due figli: Luce nata nel 1917 e Annamaria nel 1927. Dopo una parentesi a Roma la famiglia si era trasferita a Villa il  Focardo fra Rignano e San Donato. La loro è una famiglia relativamente benestante. Possiedono anche un’abitazione in Corso Tintori a Firenze, dove risiedono nel periodo invernale. Annamaria e le cugine frequentano il liceo Michelangiolo, mentre Luce è iscritta alla facoltà di medicina. La villa del Focardo è meta di frequenti visite. Gli Einstein sono molto conosciuti e al Focardo sono spesso ospiti personalità eminenti : il pastore valdese Vinay, e poi pittori, docenti universitari, ma anche personalità legate alla resistenza. 

Strage FocardoEppure questa vita serena e agiata viene ben presto sconvolta dall’8 settembre 1943 e dall’occupazione tedesca. Il piano superiore della villa viene sequestrato per gli ufficiali della Wehrmacht mentre le truppe si sistemano intorno alla fattoria. Ancora nessuno sembra in pericolo, ma il pastore Vinay inizia a preoccuparsi per Robert, di note origini ebree. Robert non solo è ebreo. Ma è anche il cugino di Albert che all’insorgere del nazismo ha lasciato la Germania e che con la sua fama e il suo prestigio mondiale è la smentita più evidente alle teorie razziste di Hitler. Alla fine Robert si convince anch’egli del pericolo e decide di rifugiarsi nei boschi. Riesce così a salvarsi da quel tragico 3 agosto 1944 in cui un comando nazista si reca al Focardo. Sembra chieda di Robert senza trovarlo. Viene inscenato un processo farsa e i in pochi attimi i mitra tedeschi si abbattono sulla moglie e le due figlie. Vengono risparmiate  due gemelle e una terza cugina loro ospiti in quei giorni. A salvarle sono i cognomi diversi: Mazzetti e Bellavite. Come scriverà poi una di queste, Lorenza Mazzetti, nella dedica al suo racconto autobiografico “Il cielo cade”: Questo libro vuole descrivere la gioia e l’allegria che quella famiglia mi ha dato nella mia infanzia, accogliendomi come “uguale”, mentre sono stata “uguale” a loro nella gioia e “diversa” al momento della morte. Nel giardino esterno viene lasciato un biglietto. Recita “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. La villa viene data alle fiamme. Robert dal suo rifugio fra i boschi vede alzarsi una colonna di fumo proveniente dal Focardo. Corre verso il luogo della strage, ma ormai non può fare più niente. 

Nei giorni immediatamente successivi sul luogo del delitto arriva, incaricato delle indagini, il maggiore della V armata statunitense Milton Wexler. È stato un allievo del grande fisico Albert Einstein che è molto preoccupato per la famiglia del cugino. Vorrebbe poterlo rincuorare. A lui invece tocca informare il suo ex professore della tragedia. Dei risultati delle indagini americane si è persa ogni traccia. Così come sono rimasti ignoti gli esecutori del delitto. Solo nei primi anni 2000, dopo le ricerche dello storico Carlo Gentile sulle truppe di stanza nella zona in quei giorni, si è iniziato ad avere un’idea più precisa sui possibili responsabili della strage. Le ultime ricerche di Gentile hanno capovolto quanto si era creduto circa le responsabilità della strage:  ad uccidere non furono reparti delle SS, ma uomini appartenenti al comando di un’unità della Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco, verosimilmente la quindicesima divisione del 104° Reggimento di granatieri corazzati.  Al momento non è emersa nessuna prova definitiva per capire se l’omicidio delle tre donne abbia a che vedere con una vendetta personale nei confronti di Albert Einstein o sia stato un delitto a sfondo razzista. Anche il biglietto lasciato sul luogo della tragedia “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei” lascia aperti più dubbi. È scritto in perfetto italiano. I tedeschi avevano con loro un interprete o qualcuno che conosceva bene l’italiano? Oppure quel biglietto non è stato scritto dai soldati tedeschi?

Tomba EinsteinAltrettanto tragico è purtroppo l’epilogo di Robert Einstein. L’anno successivo,distrutto dal dolore, ritorna sui resti del Focardo e si suicida inghiottendo del veleno. Decide di farlo un giorno particolare: il 13 luglio 1945, la data del suo anniversario di matrimonio. Riposa adesso nel cimitero della Badiuzza di Rignano insieme ai suoi cari. Ai piedi della stele funebre in  tubi  di acciaio disegnata dagli allievi della Scuola d’ Arte di Porta Romana a Firenze che il comune di Rignano ha loro dedicato.




Determinate e coraggiose: le donne versiliesi, vere protagoniste dello sfollamento

Quando le ordinanze di sfollamento colpirono la Versilia, nell’estate del 1944, le condizioni di vita della popolazione civile subirono un brusco peggioramento.

Fin dall’autunno del ’43, le autorità della RSI, desiderose di ricostituire un forte esercito nazionale, avevano avviato coscrizioni sempre più «totalitarie»: questa minaccia, sommata a quella imprevedibile dei rastrellamenti nazisti, consigliava ai maschi in età di leva di rimanere il più possibile nascosti, senza dare nell’occhio. Così, mentre per gli uomini le possibilità di movimento si restringevano ogni giorno di più, le donne, oltre a svolgere gli incarichi loro affidati dalla “tradizione”, dovettero accollarsi tutta una serie di incombenze nuove e gravose, solitamente “di competenza” maschile, come il rapporto con le autorità, il procacciamento del cibo e la difesa della famiglia in situazioni di pericolo.

Nonostante le ordinanze nazifasciste, che prevedevano l’evacuazione delle popolazioni civili verso l’Emilia, i versiliesi erano ben determinati a non abbandonare le proprie terre, per ragioni sia pratiche che affettive: correndo i rischi più gravi, cercarono rifugio nei recessi più remoti delle Apuane, presso amici, parenti, più spesso in alloggi di fortuna.

Nel corso dell’estate del ’44, con l’economia paralizzata e gli esercizi commerciali chiusi, abolite anche le già scarse razioni delle tessere annonarie di Mussolini, il problema alimentare si fece ogni giorno più pressante, fino a trasformarsi nel principale incubo degli sfollati. Ancora una volta, sfidando i gendarmi tedeschi e gli aerei alleati, spesso percorrendo a piedi distanze impensabili – giunsero perfino in Garfagnana e nel Parmense -, furono le donne ad effettuare frequenti ritorni alle proprietà abbandonate, tentando di reperire quel poco di frutta o verdura per i figli e i mariti lasciati in montagna, sempre che la fame dei soldati nazisti, dei partigiani, o, più di frequente, di altri sfollati nelle medesime condizioni, avesse risparmiato qualcosa.

Così per esempio fu per la famiglia di Mariella Barsottini, che nel 1944 aveva sette anni. Assieme ai genitori e al fratello più grande, Mario, abitava nel paesino di Strettoia, nel comune di Pietrasanta (Lu), un borgo agricolo posto proprio a ridosso delle alture dominanti la piana versiliese, in un’area di grande rilevanza strategica per i piani di fortificazione militare dell’Orgnizzazione Todt. Quando furono raggiunti dall’ordine di evacuazione, i Barsottini scelsero di dirigersi verso sud, per «andare incontro agli americani». Dopo una breve sosta nel paese di Valdicastello (Pietrasanta, Lu), in quei giorni vero e proprio crocevia per tutti gli sfollati versiliesi, la famiglia decise di seguire il consiglio di diversi compaesani e di puntare su Marina di Pisa (Pi), considerata una cittadina sufficientemente lontana dai pericoli della Linea Gotica. Nelle settimane successive, nonostante la grande distanza dal paese d’origine, la madre di Mariella, Rina, donna coraggiosa e intraprendente, pur di riuscire a recuperare qualcosa da mangiare per figli e marito, non esitò a tornare periodicamente ai propri terreni, sfidando i posti di blocco e correndo i mille pericoli del passaggio del fronte.

Ecco come Mariella rievoca oggi il ruolo delle donne nei duri mesi dello sfollamento:

Una cosa bella che facevano le donne, perché per gli uomini era troppo pericoloso, era quella di cercar di ritornare a Strettoia per prendere qualcosa da mangiare, perché là avevano lasciato tante cose, tutto! E allora, c’era chi cercava di riprendere la patata, chi recuperava il vino, l’olio, però, sempre col rischio di essere ammazzati. Anche la mia mamma lo fece, da Marina di Pisa. Due volte.

in viaggio verso la garfagnanana in cerca di ciboNei lunghi mesi dello sfollamento, poi, particolarmente complesso si rivelò il procacciamento del sale, genere indispensabile alla dieta, divenuto introvabile sul mercato già dalla primavera del ’44: agli sfollati versiliesi, non rimase altra scelta che ricavarlo dall’acqua di mare. In vista dell’avanzata alleata, tuttavia, l’Organizzazione Todt aveva provveduto a minare l’intera fascia costiera versiliese, lasciando sgombero dagli ordigni soltanto un unico, stretto corridoio di spiaggia presso la foce del fiume Versilia, vicino alle fortificazioni del Cinquale. Data la rilevanza strategica dell’area, il posto pullulava di soldati tedeschi: nessun uomo si sarebbe mai sognato di andarci. Nei mesi dello sfollamento, infatti, proprio in questo punto si snodava ogni giorno una lunga coda di donne composte e silenziose, in attesa del proprio turno per poter raccogliere in una secchia qualche litro d’acqua di mare. Una volta portatala ai monti, se fossero riuscite a passare indenni gli sbarramenti germanici, l’avrebbero fatta bollire o evaporare in un lattone, ricavandone, forse, un preziosissimo pugno di sale grezzo.

Le donne dovettero infine affrontare il difficile compito della protezione dei familiari in caso di rastrellamenti nazisti. Sui villaggi della montagna versiliese, le SS piombavano all’improvviso, rivoltando ogni centimetro degli alloggi, in cerca di uomini e ragazzi da portar via. In un clima di puro terrore, spesso con figli e mariti nascosti in soffitta o appena sotto le assi del pavimento, ancora una volta stava alle donne riuscire a dissuadere i soldati dal compiere ricerche più approfondite, ricorrendo a tutti i diversivi e le doti mimiche del caso, pur di riuscire a salvare le vite dei propri cari. Naturalmente, gli sforzi potevano benissimo risultare vani, e costare anche la vita.

Maria Antonia Quadrelli, nel 1944, aveva tredici anni. Quando giunse l’ordine di sfollamento, dovette abbandonare la sua abitazione delle Prade (Seravezza, Lu), e sfollare, assieme alla madre, alla zia e ai suoi cinque fratelli, nel villaggio montano di San Carlo Po, all’epoca nel comune di Apuania. Ancora oggi, l’anziana signora ricorda bene le drammatiche incursioni notturne delle SS, che penetravano con la forza nelle case in cerca di uomini da rastrellare (la sua vivida testimonianza è consultabile fra i “Materiali collegati”).

A buon diritto, dunque, è lecito affermare che le vere protagoniste dello sfollamento in Versilia furono le donne, che si rivelarono infatti scaltre e coraggiose, ben determinate ad “agire nel mondo” per difendere la vita e la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie comunità.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 




Il caso “Facio”, il comandante partigiano ucciso dai suoi compagni

E’ l’alba del 22 luglio 1944: ad Adelano di Zeri una scarica di colpi di fucile rompe il silenzio di queste vallate dell’alta Lunigiana fra Toscana, Liguria ed Emilia. Dante Castellucci, il comandante partigiano «Facio», comunista e garibaldino, è morto: ha solo 24 anni ma è già un eroe della lotta contro tedeschi e fascisti. Eppure a fucilarlo non sono i soldati nemici, ma un gruppetto di partigiani della IV Brigata Garibaldi della Spezia. Il suo accusatore è Antonio Cabrelli «Salvatore», di oltre vent’anni più anziano, che ha imbastito contro «Facio» un processo-farsa dalla condanna già scritta, portandolo davanti a un improvvisato tribunale di guerra per i reati di tradimento e sabotaggio.

Quella di «Facio» è una storia di vita, per quanto breve, capace di attraversare e vivere da protagonista grandi temi ed eventi del Novecento italiano. Calabrese, nato nel 1920 a Sant’Agata di Esaro, con la famiglia emigra ancora bambino nel Nord-Pas de Calais, nella stessa città in cui vivono grandi antifascisti italiani come Ermindo Andreoli e i fratelli Gino ed Eusebio Ferrari. I Castellucci rientrano in patria all’alba della Seconda Guerra mondiale e Dante viene chiamato alle armi nell’esercito italiano: spedito sul fronte prima in Francia e poi in Unione Sovietica, il 25 luglio del 1943 si trovava in permesso per convalescenza. Da intellettuale autodidatta scrive, dipinge, suona il violino. Entra in contatto con le famiglie antifasciste emiliane dei Sarzi e dei Cervi, organizzando con esse le prime forme di Resistenza. Divenuto il braccio destro di Aldo Cervi, nel dicembre del 1943 viene arrestato assieme ai sette fratelli ma, fingendosi un soldato straniero, viene rinchiuso nel carcere parmense della Cittadella dal quale riesce ad evadere pochi giorni prima della fucilazione dei compagni a Reggio Emilia. I sospetti del Pci reggiano, che emette una circolare di arresto nei confronti di Castellucci, lo spingono a entrare in contatto col Cln di Parma, dove il dirigente comunista Luigi Porcari lo manda alle dipendenze del Battaglione garibaldino «Picelli» comandato da Fermo Ognibene «Alberto». In Lunigiana, «Facio» si rende protagonista di ripetuti attacchi alle postazioni nemiche, guadagnandosi in breve tempo la fiducia dei compagni e la stima delle popolazioni civili ancora oggi riscontrabile presso i testimoni dell’epoca, fino a divenire Comandante del battaglione dopo la morte di Ognibene. Il 17 marzo 1944 «Facio» fa il suo ingresso nel mito resistenziale con la battaglia del Lago Santo: chiuso in un rifugio con otto uomini male armati, resiste oltre ventiquattr’ore, senza perdite, all’accerchiamento di oltre cento soldati nazifascisti; alla fine i nemici contano decine di morti e feriti e sono costretti alla ritirata ordinata. La battaglia di Lago Santo ricopre il «Picelli» di un alone di leggenda e «Facio», con Fermo Ognibene caduto in battaglia due giorni prima, ne diventa il comandante.

Dante Castellucci Facio in un'immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Dante Castellucci in un’immagine di scena nel periodo in cui recita col teatro dei Sarzi

Il battaglione interpreta benissimo le tattiche della guerriglia, compiendo attacchi fulminei e spostando continuamente la propria posizione. Disorienta i comandi nazifascisti, convinti di trovarsi di fronte a una formazione composta da centinaia di uomini. Tutela l’incolumità della popolazione civile, perché senza fornire un punto di riferimento territoriale, non concede la possibilità della rappresaglia nazista. Il «Picelli» è anche un esperimento politico e sociale, come nei dettami della lotta partigiana che ha il fine di rovesciare ruoli e costumi della società fascista. Il comandante vive e agisce alla pari dei suoi uomini, li guida in azione, siede a mensa con loro e si serve sempre per ultimo, rinunciando spesso alla propria razione, ed è l’ultimo a usufruire del vestiario ricevuto da un lancio o sottratto al nemico. Quando Laura Seghettini, pontremolese appena uscita dal carcere fascista, entra a far parte del battaglione, non viene destinata al ruolo di staffetta o di aiutante, ma diventa partigiana combattente fino ad assumere il ruolo di vice-comandante. Per poche settimane, Laura sarà anche la compagna di «Facio»: i due già progettano una sorta di «matrimonio in brigata», ma la vita in quei mesi corre troppo veloce.

foto segnaletica di antonio cabrelli_da Archivio centrle dello Stato_Casellario politico centraleAntonio Cabrelli «Salvatore», nominato da «Facio» commissario politico di un distaccamento del «Picelli», intende proseguire la sua scalata ai vertici del movimento partigiano spezzino: ha progettato la costituzione di una brigata garibaldina che faccia capo alla federazione comunista della Spezia e ai comandi liguri, ma il «Picelli» dipende ancora da Parma, cui «Facio» deve tutto. «Salvatore», così, sottrae il distaccamento «Gramsci» dalle dipendenze del «Picelli», lo trasforma in brigata e se ne autoproclama commissario politico. Per portare a termine il suo piano, deve sbarazzarsi dell’ostacolo più grande, rappresentato dal «brigante calabrese», come lo chiama lui: tra i due corrono lettere infuocate con accuse e minacce reciproche; Dante Castellucci sfugge a un agguato tesogli a tradimento; «Salvatore», allora, agisce con l’inganno.

La mattina del 21 luglio 1944 «Facio» viene chiamato al comando della brigata appena fondata da «Salvatore», con la scusa di chiarire la questione di alcuni materiali sottratti a un aviolancio. Convinto di dover affrontare solo un’accesa discussione, si fa accompagnare da due uomini fidati. Appena giunto nella sede del comando, il comandante del «Picelli» viene disarmato, aggradito e picchiato da Cabrelli, che ha imbastito un tribunale di guerra nel quale è, al contempo, accusatore e giudice. Poche ore dopo «Facio» viene condannato a morte per i reati di furto, sabotaggio e tradimento.

L’ultima notte la passa con «Laura», che nel frattempo lo ha raggiunto, sorvegliato da uomini della IV Brigata che a un certo momento gli offrono la via di fuga: «non sono scappato dai fascisti, non scapperò dai compagni» sono le parole di Dante Castellucci. Verga alcune lettere alla famiglia e agli amici emiliani. Scherza, com’è nel suo carattere, racconta qualche barzelletta e riesce pure a dormire un poco, come racconta «Laura».

Alle prime luci del 22 luglio viene prelevato e portato davanti al plotone d’esecuzione: è lui stesso a esortare i partigiani che non trovano il coraggio di sparargli addosso. Con «Facio» muore una delle più interessanti ed efficienti espressioni che il movimento partigiano aveva espresso fino ad allora.

Luca Madirgnani (Carrara, 1977), dottore di ricerca presso l’Università di Siena, assegnista presso l’Insmli, collabora con l’Istituto Storico per la Resistenza e l’Età Contemporanea Apuana; si occupa di Didattica della Storia nella scuola. Ha pubblicato saggi e articoli sul primo dopoguerra italiano e le origini del fascismo; l’ordine pubblico e la violenza politica; la Storia della Resistenza e il movimento partigiano. E’ in corso di stampa per Il Mulino il volume Il Caso-Facio. Eroi e traditori della Resistenza.




Fascisti repubblicani a Lucca

Nel giugno del 1944 la notizia della liberazione di Roma e la veloce avanzata degli Alleati aveva destato nella popolazione toscana un grande entusiasmo, radicando la convinzione, che si rivelerà poi errata, di una rapida fine della guerra e dell’occupazione tedesca. A Lucca, come nel resto della Toscana, crollavano senza clamori le istituzioni del fascismo repubblicano e noti esponenti del fascismo locale, preoccupati per la propria sorte, avevano provveduto a varcare l’Appenino, a nascondersi, oppure tentato un rapido cambiamento ideologico.

Pavolini, il segretario nazionale del Fascio Repubblicano, aveva intrapreso agli inizi di giugno un viaggio attraverso le città toscane per valutare personalmente l’entità della crisi serpeggiante tra le istituzioni saloine del territorio.  Conscio dell’imminente avanzata degli Alleati, aveva deciso, in accordo con Mussolini, di direzionare tutti i suoi sforzi verso una militarizzazione del partito attraverso la creazione delle Brigate Nere, considerate quale unica possibilità di salvezza per la RSI, ormai assediata sul fronte interno dalla guerriglia partigiana e su quello esterno dalle armate anglo-americane. Il partito subiva così una trasformazione, da partito di massa a partito armato, d’avanguardia, di combattenti al servizio del fascismo e fedeli a Mussolini, per contrastare i nemici interni, i “ribelli”, gli antifascisti, ma anche verso tutti coloro che non si erano schierati e aspettavano soltanto la fine della guerra.

Ѐ con queste premesse che Pavolini arriva a Lucca il 17 giugno 1944, accompagnato dal suo braccio destro, il colonnello Giovan Battista Riggio, Beniamino Fumai e da Idreno Utimpergher, fascista della prima ora, che aveva fatto carriera durante il Ventennio come segretario provinciale dei sindacati dell’Industria. Dopo la costituzione della Repubblica Sociale, nell’autunno del ’43 si era spostato a Trieste dove aveva riaperto la sede del Fascio e insieme a Beniamino Fumai, a capo della squadra del “Mai Morti”, aveva seminato il terrore in città con rapine, estorsioni e assassinii, episodi che gli erano costati la destituzione da ogni incarico e l’allontanamento da Trieste. Utimpergher si era poi spostato nei territori dell’Italia occupata con il compito di riorganizzare squadre di fascisti e proprio con questo obiettivo era arrivato a Lucca.

Pavolini assegna a Utimpergher il compito di presiedere e organizzare la prima Brigata Nera della Repubblica Sociale italiana, intitolata a Mussolini e poi contrassegnata con il numero XXXVI. Si tratta di un unicum in Italia perché in realtà il decreto che ordina la creazione delle Brigate Nere viene pubblicato alcuni giorni dopo, il 30 giugno, e la maggior parte delle Brigate nere riesce a costituirsi soltanto due mesi più tardi, nell’agosto del 1944.

manifesto BNMa chi sono gli uomini che nell’estate del ’44 scelgono di entrare nelle Brigate Nere?

Le ricerche sull’argomento hanno rivelato che a determinare l’arruolamento nel partito armato intervengono motivazioni molteplici e diverse tra loro: condivisione convinta e agguerrita dell’ideologia fascista, opportunismo, volontà di emulazione nei confronti dei tedeschi, tentativo di rivendicare l’umiliazione dell’8 settembre, volontà di vendetta verso quelli che venivano considerati “voltagabbana” e di lotta senza quartiere al movimento partigiano, assimilazione della violenza, del razzismo e dell’intolleranza agguerrita contro il nemico, disvalori di cui il fascismo italiano si era fatto interprete fin dal ventennio.

Quando Utimpergher ai primi di luglio del ’44 provvede a organizzare la Brigata Nera lucchese si rivolge ai fascisti lucchesi con un appello che fa leva proprio su questi sentimenti. Il gruppo dei brigatisti lucchesi che risponde alla richiesta di arruolamento è molto eterogeneo, sia per esperienze politiche e militari precedenti, sia per appartenenza generazionale. Troviamo giovani e giovanissimi nati durante il Ventennio, educati e assuefatti alla retorica fascista, che compiono questa scelta a volte in modo convinto, altre ingenuamente; troviamo ex squadristi, marcia su Roma, delusi dalla burocratizzazione del partito e di nuovo esaltati all’idea dell’uso della forza e delle armi; troviamo veri e propri clan familiari che si arruolano insieme all’interno della brigata.

Completato l’organico, di circa 150 unità, alla metà di luglio, la Brigata Nera “Mussolini” diventa operativa lavorando al fianco degli occupanti tedeschi di zona ma anche in modo autonomo. Tante le operazioni che la vedono protagonista, come per esempio quella del 3 agosto 1944, quando i brigatisti organizzano una rappresaglia nella frazione di S. Lorenzo a Vaccoli che porta all’incendio delle case del paese e all’arresto e successiva deportazione nei campi di lavoro di alcuni contadini. Pochi giorni dopo i brigatisti della “Mussolini” partecipano ad interrogatori eseguiti con l’uso di sevizie nei confronti di presunti fiancheggiatori dei partigiani locali, e ancora partecipano insieme ai tedeschi al rastrellamento avvenuto il 21 agosto 1944 sul Monte Faeta, durante il quale vengono fucilati sette giovani uomini appartenenti a gruppi di resistenti accampati sui Monti Pisani. Nei primi di settembre hanno inoltre un ruolo determinante di delazione nella strage della Certosa di Farneta e infine, in questa escalation di violenza, il 23 settembre, in risposta al ferimento di un brigatista nero, pianificano ed eseguono, in totale autonomia rispetto alle forze tedesche presenti in zona, la strage del Convento dei Cappuccini a Castelnuovo Garfagnana in località Merlacchiaia, durante la quale vengono uccisi, per mano dei brigatisti lucchesi, otto giovani uomini.

Alla fine di settembre 1944 con lo spostamento del fronte e l’avanzata degli Alleati la XXXVI Brigata Nera lascia la lucchesia e continua ad essere operativa prima in Emilia, nel modenese e a Piacenza, poi in Piemonte. Ciò che resta della “Mussolini” converge infine a Milano il 25 aprile 1945: da qui un piccolo gruppo di militi lucchesi ancora al comando di Utimpergher segue Mussolini nel suo ultimo disperato viaggio. Il 27 aprile 1945, in testa alla colonna dei camion tedeschi e delle automobili del duce e dei ministri, l’autoblinda della BN lucchese viene fermata a Dongo.

Il giorno successivo Utimpergher verrà fucilato sul lungolago di Como insieme a Pavolini e ai gerarchi, gli aderenti alla Brigata invece saranno processati per collaborazionismo e per la partecipazione alle rappresaglie e alle stragi sopra citate presso le Corti d’Assise straordinarie di Lucca e di Firenze. Dopo un’iniziale comminazione di pene severe i brigatisti verranno perlopiù prosciolti o amnistiati, in linea con l’allentamento della politica in materia di epurazione e punizione dei crimini fascisti che caratterizza i governi italiani a partire dal ’46.




Partigiani, principesse, maghi e generali

“Tutti contenti, è finita; andiamo a casa!”, scrive l’8 settembre 1943 Sante Pelosin sul suo diario di guerra. Quanti dei nostri soldati hanno reagito nello stesso modo. Almeno metà non sono tornati a casa che due anni dopo, molti non sono tornati affatto. Sante è tra i fortunati, rimpatriato con la sua divisione l’8 marzo 1945. Ma quante sofferenze, in quei 18 mesi!

2La sua storia, e quella dei suoi commilitoni, è unica e straordinaria. Due divisioni italiane, la Venezia e la Taurinense, sono di presidio nell’interno del Montenegro. È forse la zona più periferica e inaccessibile dell’intero schieramento italiano all’8 settembre. Infatti i tedeschi arrivano qui tardi, verso fine mese, quando i comandanti sono già riusciti a organizzarsi, hanno chiarito l’equivoco iniziale (contro chi bisogna combattere ora?) e hanno preso una decisione storica. Dopo due anni e mezzo di lotta senza quartiere, di violenze da ambo le parti e crimini contro le popolazioni civili, ora due divisioni dell’esercito occupante, con generali e stato maggiore, si alleano con i partigiani jugoslavi comunisti e costituiscono la divisione Garibaldi.

Sembra incredibile eppure è vero. L’odissea dei partigiani italiani in Jugoslavia è testimoniata addirittura da un filmato. Anche questo è straordinario: ben poche unità dell’esercito avevano a disposizione una macchina da presa. Si vede il vecchio generale Oxilia, uno dei più intelligenti di tutto il Regio Esercito, mentre sottoscrive l’accordo con Peko Dapčević, appena trentenne ma già generale anche lui. Seguono mesi di fatica e sofferenza, di fame e freddo. “Vivere e combattere senza soldi, senza pane, senza carne, senza scarpe, malvestiti è impossibile”, scrive Oxilia nel novembre 1943 agli alti comandi italiani nell’Italia già liberata dagli angloamericani. “Aiutateci, e continueremo a fare l’impossibile!”. E tuttavia gli aiuti arrivano col contagocce. D’altronde i partigiani combattono anche così, soprattutto così. Lo stesso Oxilia, stanco e malato, viene rimpatriato, e nel luglio del 1944 viene nominato un nuovo comandante: Carlo Ravnich. Minatore di Albona, vicino a Fiume, ha cominciato la guerra come maggiore, la termina da generale. Istriano, parla bene il serbocroato, ed è un interlocutore perfetto per i comandi dell’esercito partigiano jugoslavo. Nonostante le origini slave del cognome, Ravnich è un italiano monarchico e, come gran parte dei suoi uomini, ha scelto di unirsi ai partigiani di Tito per seguire le indicazioni del suo Re, non certo per adesione ideologica al comunismo.

A volte, non sempre, rintracciare i documenti per una ricerca storica è quanto di più noioso si possa immaginare. In quei casi lo storico sembra il classico e stereotipato “topo da biblioteca”. In altre circostanze invece le fonti sono sfuggevoli, i documenti vanno cercati con cura e fatica, frugando non solo nei fondi meno frequentati degli archivi ma anche in case, biblioteche private, o nei ricordi dei protagonisti. In quelle occasioni il lavoro dello storico assomiglia più a quello di un detective impegnato a risolvere un caso, anche se di cinquanta, cento o mille anni fa. È quel che è capitato a me, studiando la storia della divisione Garibaldi in Jugoslavia nella seconda guerra mondiale.

Ma torniamo all’inizio. O meglio alla fine della guerra.

lapide commemorativa dei caduti garibaldini, Berane, Montenegro 1945. La divisione Garibaldi è tornata a casa decimata. Ha avuto almeno 10.000 vittime, tra morti e dispersi. Una percentuale doppia o tripla rispetto a chi si è lasciato catturare ed è finito internato dai nazisti. Tuttavia i nostri partigiani ottengono ben pochi riconoscimenti in patria. Considerati comunisti, perché hanno combattuto con Tito, non vengono nemmeno ammessi all’Anpi, non essendo partigiani italiani. Qualche piccola lapide o stele in Italia; un grande monumento in Jugoslavia, inaugurato nel 1983 a Pljevlja alla presenza del presidente Pertini.

Gli stessi documenti della divisione, il cosiddetto “Diario Storico”, non trovano una collocazione in nessun archivio, né italiano né jugoslavo. Seguono il comandante Ravnich fino alla morte, avvenuta nel 1996. Pochi giorni dopo il soldato Sante Pelosin riceve una chiamata dalla moglie: “C’è qui l’archivio del generale, venite a prenderlo”. Due commilitoni caricano la macchina con 16 casse di documenti, tra cui i famosi filmati. L’archivio rimane a casa Pelosin per poco. Alcuni giorni dopo si presentano alla porta due personaggi: la contessa Anna Provana di Collegno, amica e finanziatrice del famoso sensitivo torinese Gustavo Rol, e un suo collaboratore, il professor Cesare Bertana. Impugnano il testamento di Ravnich, che aveva promesso di lasciare in eredità il suo archivio a Maria Gabriella di Savoia, terza figlia di Umberto II, l’ultimo re d’Italia. La principessa ha costituito in Svizzera una fondazione per conservare documenti e materiale vario di interesse storico per la famiglia, tra cui diversi fondi che il padre avrebbe voluto lasciare in eredità allo Stato italiano. I documenti di Ravnich vengono caricati sulla macchina della contessa, poi consegnati a un intermediario, Domenico Orsi, che li trasferisce in Svizzera. Dell’archivio fanno parte anche “n° 22 scatole metalliche contenenti Film”. Documenti e pellicole originali dovrebbero dunque trovarsi presso la fondazione “Umberto II e Maria Josè”, anche se la principessa non ha mai risposto alle richieste di consultazione del materiale presentate da me e dall’associazione reducistica della divisione (Anvrg).

La maggior parte dei circa 25.000 italiani che si schierano contro i tedeschi in Montenegro sono piemontesi e toscani. Sia la Taurinense che la Venezia erano divisioni speciali, caratterizzate, a differenza della normale fanteria, da un reclutamento regionale. Sono passati 70 anni e pochi sono i sopravvissuti. Nel 2013 ho viaggiato tra Toscana e Piemonte, intervistando alcuni di quei ragazzi di allora, uomini ancora combattivi, orgogliosi di raccontare le loro incredibili avventure, di difenderne la memoria. Devo ringraziare gli Istituti storici della Resistenza di queste due regioni, che mi hanno permesso di effettuare queste videointerviste, oltre a RaiStoria, che ha creduto nel progetto e ha realizzato con me un documentario in tre puntate.

Ma più di tutti devo ringraziare il reduce Gino Bindi, di Castiglioncello (LI), ora purtroppo scomparso, che mi ha fornito una copia in dvd di alcuni dei filmati originali della Divisione Garibaldi. Il documentario della Rai si chiude con un’intervista al direttore dell’Archivio Centrale dello Stato, il dottor Attanasio, il quale ribadisce ufficialmente, a nome dello Stato italiano, la richiesta di consultazione dei documenti della fondazione svizzera. Ancora una volta la principessa Maria Gabriella di Savoia risponde evasivamente.  

Dove sono dunque finite le pellicole originali? Che fine hanno fatto i documenti? Quanto ancora dovranno aspettare gli storici per poter analizzare in maniera neutra e scevra da pregiudizi la straordinaria vicenda di quegli uomini che hanno combattuto una violentissima guerra partigiana fuori dalla patria, ma pur sempre per riscattare l’Italia?

Domenico Orsi è morto, Sante Pelosin è molto anziano e così la contessa Provana di Collegno. Anche Gustavo Rol è morto; peccato, con le sue straordinarie doti di veggente avrebbe potuto darci qualche risposta.

Partigiani, generali, maghi, sono scomparsi. Rimane solo la principessa; è l’unica che può aiutarci a ricostruire questa storia. Restiamo in attesa. Se ci sei batti un colpo.




Resistere per l’arte

“Mia cara Giusta, così eccomi qui, dove passano la loro misteriosa ora di destino i tesori più preziosi della nostra Galleria e non solo. Penso alle migliaia di custodi, ispettori, direttori, di studiosi che sempre vigilarono la minima di queste cose, giorno e notte, e io non posso fare altro che camminare per queste sale devastate e aperte a tutti”.
È il 23 luglio 1944: dal castello di Montegufoni in val di Pesa Cesare Fasola, funzionario della soprintendenza fiorentina e antifascista, inizia un resoconto appassionato alla moglie. Appena due giorni prima aveva deciso di partire da Firenze a piedi, da solo, alla volta dei rifugi di Montagnana, Montegufoni e Poppiano per sorvegliare i capolavori degli Uffizi e provare ad impedire la distruzione o il furto delle opere da parte dei tedeschi.

Se il tema “arte e guerra” è diventato negli ultimi anni di crescente interesse (anche per il successo mediatico di pubblicazioni e pellicole dedicate al contributo degli Alleati nel recupero dei capolavori europei), meno nota è tuttavia la dedizione commovente alla causa da parte della comunità civile toscana. Dipendenti della soprintendenza, uomini di cultura, partigiani, parroci di campagna rischiarono continuamente la loro vita per mettere in salvo il patrimonio artistico toscano o le collezioni delle famiglie ebree e di nazionalità nemica residenti a Firenze, come quella dell’illustre storico dell’arte Bernard Berenson.

La straordinaria concentrazione in Toscana di opere d’arte disseminate capillarmente in tutto il territorio impose negli anni della guerra l’adozione di misure eccezionali. I soprintendenti e tutto il personale addetto già dal 1940 iniziarono le grandi manovre per l’individuazione di rifugi in campagna, ritenuti in quel momento più sicuri che la città, come ricovero per le opere d’arte di chiese e musei. Tra il novembre del 1942 e il gennaio del 1943 il soprintendente alle Gallerie Fiorentine Giovanni Poggi, coadiuvato dal direttore delle Gallerie Filippo Rossi e dal responsabile del laboratorio di restauro Ugo Procacci, riuscì a far partire da Firenze 174 convogli con 3107 casse contenenti dipinti e altre opere, nonché 4170 fra dipinti e sculture imballate singolarmente. A disposizione aveva solo sei camion e il carburante razionato.

Evacuazione delle sculture degli Uffizi dalla chiesa di Sant'Onofrio a DicomanoLa Primavera del Botticelli salutò gli Uffizi e fu trasportata a Montegufoni; parallelamente la Nascita di Venere prese la via del castello di Poppi e La Venere di Urbino di Tiziano fu rinchiusa in una delle 57 casse alla volta del monastero Camaldoli. Se le porte di bronzo dorato di Ghiberti furono staccate dal Battistero fiorentino e custodite nella galleria ferroviaria abbandonata di Sant’Antonio a Incisa Val d’Arno, le monumentali sculture di Michelangelo della Sagrestia Nuova di San Lorenzo trovarono riparo nella villa a Torre a Cona. La Certosa di Calci fu il rifugio strategico individuato per le opere mobili delle province di Pisa, Apuania, Livorno e Lucca, mentre i Quattro Mori di Livorno furono nascosti nel Cisternino di Pian di Rota.

Tra la fine del 1943 e l’estate del 1944, proprio quando si presentarono i pericoli maggiori per opere note in tutto il mondo, si registrarono alcuni tra gli episodi più commoventi e significativi nella difesa del patrimonio artistico toscano. Nel gennaio del 1944 Ugo Procacci fu sorpreso dai bombardamenti nell’alta val del Tevere mentre trasportava da Borgo San Sepolcro il celebre Polittico della Misericordia di Piero della Francesca: sotto il fuoco alleato, Procacci e il restauratore Edo Masini non se la sentirono di abbandonare il furgone con il capolavoro di Piero e rimasero a sorvegliare il prezioso carico: “Ma io come facevo? Non potevo lasciarle così. Pensai: morirò. Pazienza”, raccontò anni più tardi il funzionario.

Un rischio simile corse il giovane restauratore Leonetto Tintori a Prato, dove il 7 marzo 1944 era stato frantumato il venerato tabernacolo di Filippino Lippi, gioiello della città: mentre incombeva continuo il pericolo degli attacchi aerei e delle deportazioni, Tintori rimase per più giorni sul luogo per ricercare fra le macerie i frammenti di affresco e portarli in salvo nella sua casa di campagna. Se a nulla poté il coraggio del tecnico dell’Opera Primaziale del Duomo di Pisa Bruno Farnesi, che in pieno incendio (causato dal bombardamento alleato) si era arrampicato sul tetto del Camposanto con picconi, bastoni e badili per cercare di spengere inutilmente il fuoco che stava distruggendo gli affreschi monumentali, a Volterra i cittadini riuscirono in extremis a salvare l’etrusca Porta dell’Arco. Destinata ad essere abbattuta dal Comando tedesco per bloccare l’accesso alla città, pur di salvarla i volterrani raccolsero tutte le pietre del circondario e le accatastarono all’interno dell’arco, rispettando l’ultimatum di 24 ore che era stato concesso loro.

Con i tedeschi in ritirata, il più grande pericolo per le opere d’arte mobili toscane divennero le razzie che i nazisti iniziarono a compiere sistematicamente avanzando verso nord: centinaia di opere furono prelevate dai vari rifugi e, lungo una rincorsa per tutta Italia, scortate in depositi in Alto Adige e in alcuni casi in Austria e Germania. A tali furti si aggiunsero le intere collezioni requisite alle famiglie ebree e il Tesoro della Sinagoga di Firenze, che invano fu nascosto dai Forti negli scantinati della loro villa nelle campagne pratesi.

Solo nel luglio del 1945, grazie a un lavoro congiunto tra Alleati e italiani, dove si distinse in particolare la figura di Rodolfo Siviero, iniziarono a tornare ‘a casa’ i primi capolavori. Tra gli applausi e le lacrime, tutti i cittadini scesero in piazza per salutare il ritorno di un patrimonio che di fatto costituiva l’identità di molte città toscane e in particolare di Firenze. 

Dalla primavera del 2014 la Fondazione CDSE Valdibisenzio e Montemurlo coordina il progetto “Resistere per l’arte. Guerra e patrimonio artistico in Toscana”, sostenuto dalla Regione Toscana. Con cadenza mensile compariranno nel portale di ToscanaNovecento articoli di approfondimento su questo tema, corredati da fonti e materiali di difficile reperibilità.