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«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

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Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio
Maria De Unterrichter Jervolino
Maria De Unterrichter Jervolino
[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.



La città in guerra. Cittadini e profughi tra il 1915 e il 1918

La mostra La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918, allestita a cura dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e dell’Associazione “Storia e Città” di Pistoia, è nata dall’unione di due distinti progetti per soddisfare molteplici obbiettivi. Sull’onda del “Centenario della Grande Guerra” e della nomina di Pistoia a “Capitale italiana della Cultura 2017”, La città in guerra è stata un tassello cardine di un ciclo divulgativo pluriennale su Pistoia durante il primo conflitto mondiale, inaugurato nell’autunno 2015 dall’Associazione “Storia e Città” con la mostra Pistoia 1914-1915. Dalla neutralità all’intervento e che si concluderà nel 2019, con un allestimento dedicato alla memoria e all’eredità culturale, sociale e politica della Grande Guerra.

L’allestimento ha cercato di fare una divulgazione esteticamente efficace e scientificamente rigorosa, con l’obbiettivo di indurre una riflessione su un momento storico di fondamentale importanza, raccontando il conflitto bellico in tutta la sua complessità, in un continuo dialogo tra il piano generale e locale. In ragione di questo, si è sottolineato come il conflitto abbia causato profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali anche a Pistoia, nonostante la città si trovasse distante dalla zona di guerra. La città e i suoi spazi hanno avuto un ruolo centrale nel percorso espositivo, rimarcando gli snodi dell’esperienza bellica pistoiese: le difficoltà dell’approvvigionamento annonario, l’ospitalità ai profughi, la gestione dell’apparato economico, il ritorno dei feriti dal fronte, l’organizzazione degli spazi culturali e di propaganda, le lettere e i diari dei soldati, l’opera dei comitati di mobilitazione civile, il comportamento del clero e delle forze politiche.

I due enti organizzatori hanno scelto di concentrare l’attenzione su Caporetto e sulla fase successiva, in modo da concedere ampi spazi alla vicenda dei profughi veneti e friulani, provenienti dai territori invasi: un fatto storico di grande interesse. Gli esuli riparati nel fronte interno diventarono un segno concreto di una guerra vicina e incombente. Inoltre, l’accoglienza si rivelò problematica, non soltanto a causa della situazione interna italiana, ma pure per difficoltà d‘integrazione tra le popolazioni ospitate e ospitanti. Tenendo sempre in considerazione le vicende nazionali, il progetto si è focalizzato sui profughi ospitati a Pistoia, provenienti in buona parte da Belluno e Treviso, con le rispettive amministrazioni comunali e vari enti economici delle due città. A riprova di questo legame, le amministrazioni comunali della due città hanno concesso il loro patrocinio e il Comune di Belluno ha presentato i materiali già esposti nella mostra didattica “An de la fan. Belluno invasa, 10 novembre 1917 – 1 novembre 1918”, tenutasi nelle scuole superiori di Belluno nel biennio 2015-2017 e curata dall’Archivio storico del Comune di Belluno. Parlare del caso di Pistoia era importante anche per osservarne alcune peculiarità, poiché – secondo lo storico Giampaolo Perugi – il fenomeno causò meno problemi che altrove, sebbene la complessità del tema e varie lacune nelle fonti non permettano di giungere a un giudizio storico adeguatamente comprovato.

L’incontro tra diverse sensibilità storiche ha poi fatto sì che la mostra avesse un approccio multidisciplinare, affrontando tematiche di storia culturale, storia politico-istituzionale, storia sociale, storia militare e storia dell’esperienza. L’allestimento si dipanava lungo quattro sale tematiche, rispettivamente dedicate al conflitto combattuto al fronte, al rapporto tra Cinema e Grande Guerra, ai profughi e, infine, alle vicende di Pistoia durante il conflitto. La narrazione storica è stata fatta soprattutto attraverso pannelli divulgativi a parete, con testo e immagine o una testimonianza diretta d’accompagnamento. A fianco di questa soluzione, la mostra ospitava vari supporti multimediali, interattivi e non, e sagome di soldati e civili, ricavate da foto dall’Archivio storico del Comune di Belluno e parte della mostra An de la fan. La mostra esponeva anche  documenti e oggetti d’uso comune, sia bellici che civili, provenienti da archivi pubblici e collezioni private, con l’idea di fare un’operazione di “archeologia viva”, ossia far conoscere la storia attraverso il manufatto e l’oggetto.

I molteplici dispositivi divulgativi hanno permesso di raggiungere un vasto pubblico, grazie anche a una campagna promozionale fatta tramite volantinaggio, social network e passaparola. Infatti, sono stati registrati più di 5.000 visitatori. Sono state attratte varie fasce d’età, in particolare persone tra i 40 e i 50 anni, anche se ha sorpreso vedere sparuti gruppi di giovani visitare l’allestimento negli orari extra-scolastici e soffermarsi a lungo sulle vicende raccontate. Visitatori non soltanto pistoiesi, ma anche di altre città italiane ed europee, che sono passati in visita alla mostra richiamati a Pistoia per la sua nomina a Capitale italiana della Cultura.




Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.




L’assistenza agli ebrei a Firenze durante la Shoah

L’opera di soccorso e di protezione verso la popolazione ebraica presente a Firenze fra il settembre 1943 e l’estate del 1944 attuata dalla curia arcivescovile e dalle istituzioni cattoliche locali per impulso del cardinale Elia Dalla Costa è l’oggetto di una ricerca che ora vede i propri risultati illustrati in un volume edito dalla casa editrice Viella, La Chiesa fiorentina e il soccorso agli ebrei, 1943-1944.

Particolare attenzione è stata dedicata al ruolo della Chiesa fiorentina e del suo vescovo, nella costruzione di una rete clandestina che nascose i perseguitati ebrei presso istituti religiosi disseminati in vari quartieri della città. Queste strutture risposero in vario modo alle direttive impartite dal vertice, rifiutando o accettando di accogliere nuclei familiari o singoli individui dentro le proprie mura.

Elia Dalla Costa affidò il compito di coordinare l’attività di soccorso ad alcuni suoi collaboratori, fra i quali il suo segretario Giacomo Meneghello e don Leto Casini, parroco di Varlungo, che ebbero fra l’altro il compito di distribuire sussidi agli ebrei nascosti. I risultati della ricerca hanno permesso di comprendere meglio i rapporti fra il vertice e la base dell’istituzione ecclesiastica e di conseguenza hanno evidenziato le diverse modalità di salvataggio attuate dalle singole strutture di religiosi e di religiose. L’analisi della realtà fiorentina è stata condotta senza perdere mai di vista le posizioni assunte tanto dall’episcopato nazionale quanto dalla Santa Sede, con lo scopo di sottolineare sia le affinità che le differenze intercorse fra la Chiesa fiorentina e altri contesti locali. Nel caso di Firenze un ruolo decisivo ebbe il coinvolgimento dello stesso vescovo nell’attivazione della rete dei soccorsi fin dall’autunno del 1943, che in altri casi mancò o non fu così tempestiva.

Un ulteriore nucleo tematico dell’indagine ha riguardato la Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei, meglio conosciuta con il suo acronimo: Delasem. Questo organismo, nato nel 1939 in ambito ebraico, in principio era stato creato per aiutare gli ebrei profughi dall’Europa centro-orientale in fuga dalle persecuzioni naziste. All’indomani dell’8 settembre la Delasem entrò in clandestinità e si attivò per aiutare anche gli ebrei italiani a sfuggire alle deportazioni. Le mansioni della Delasem erano quelle di assicurare agli ebrei – italiani e stranieri – l’emigrazione attraverso la produzione di passaporti e documenti falsi, o di trovare luoghi di rifugio dove potersi nascondere e dunque salvarsi. Della Delasem fiorentina facevano parte, insieme ad altri, il rabbino Nathan Cassuto e Raffaele Cantoni, una delle figure più rappresentative del mondo ebraico italiano.

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Raffaele Cantoni. Autorevole personalità dell’ebraismo italiano e membro attivo della Delasem fiorentina.

Nel libro di memorie scritto da uno dei principali protagonisti della Delasem romana, Settimio Sorani, il contesto fiorentino viene descritto come particolarmente unito nel prestare soccorso ai perseguitati tramite l’emigrazione ma anche attraverso la rete delle strutture di accoglienza, religiose e non, presenti nella città. Dopo l’arresto di quasi tutti i responsabili ebrei del comitato di soccorso fiorentino, avvenuto fra il 26 ed il 29 novembre 1943 a causa di un delatore, l’assistenza passò nelle mani della sola componente cattolica; continuarono a prestare la loro collaborazione la giovane Matilde Cassin ed Eugenio Artom, dirigente della Comunità e membro del Comitato toscano di liberazione nazionale.

L’indagine ha allargato i suoi confini temporali all’immediato secondo dopoguerra, allorché la Delasem continuò ad operare in favore dei sopravvissuti ai campi di concentramento assistendoli in termini sia morali sia materiali. Inoltre l’indagine sul periodo “post-Shoà” ha fatto emergere anche le diverse memorie che i protagonisti di quell’esperienza hanno elaborato intorno al biennio ’43-’45 e intorno alle differenti attività svolte in favore dei perseguitati.

Contestualmente a questo lavoro di scavo archivistico e di interpretazione storiografica basata su ciò che i documenti hanno mostrato, è stata avviata una ricerca sistematica sui singoli istituti religiosi che hanno lasciato un qualche tipo di traccia documentaria relativa alle loro attività di aiuto: si tratta di circa 40 fra conventi, convitti, istituti scolastici e parrocchie presenti nelle varie zone della città. Tali istituti sono stati individuati grazie alla lettura di una ricca memorialistica e grazie anche ai documenti custoditi presso gli archivi dell’Arcidiocesi e della Comunità ebraica di Firenze.

Questo lavoro ha portato a risultati di un certo rilievo poiché è stato possibile verificare i tempi e le modalità di accoglienza dei perseguitati, che spesso dovettero passare da un luogo di rifugio all’altro nel timore di razzie o perquisizioni da parte delle forze di polizia. E’ possibile avanzare una stima di circa 400 persone aiutate in vario modo, attraverso la fornitura di rifugi, la distribuzione di sussidi o l’organizzazione di viaggi verso la Svizzera o verso l’Italia meridionale. L’affresco che ne è emerso si è rivelato originale perché ha sottolineato aspetti inediti dell’organizzazione dei soccorsi e dati finora sconosciuti sui percorsi della sopravvivenza degli ebrei presenti in città e sull’operato dell’istituzione ecclesiastica locale.

Francesca Cavarocchi, dottore di ricerca in discipline storiche all’Università di Bologna, è collaboratrice dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea. Ha svolto studi sulla propaganda fascista, sulla persecuzione antiebraica, sull’occupazione nazista della Toscana e sull’attività di soccorso della Chiesa a favore degli ebrei. Tra le sue pubblicazioni si ricordano il volume “Avanguardie dello spirito. Il fascismo e la propaganda culturale all’estero” (Carocci, 2010) e vari saggi contenuti in E. Collotti (a cura di), “Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana. 1938-1943” (Carocci, 1999) e Id. (a cura di) “Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione. 1943-1945” (Carocci, 2007).

* Elena Mazzini, dottore di ricerca in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze, è stata post-doctoral fellow al Deutsche Historische Institut di Roma. Nei suoi studi si è occupata di varie tematiche inerenti l’ebraismo, l’antisemitismo, la Shoah e la storia  della Chiesa. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: “L’antiebraismo cattolico dopo la Shoah. Culture e tradizioni nell’Italia del secondo dopoguerra” (Viella, 2012); “Ostilità convergenti. Stampa diocesana, razzismo e antisemitismo nell’Italia fascista. 1937-1939” (ESI, 2013); e (con G. Viann) “La Chiesa di Pio XI e le minoranze religiose” (Clueb 2013).




Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca

Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del casellario politico centrale – Per un dizionario biografico della Provincia di Lucca (Lucca, Pacini Fazzi, 2018, Collana Storie e comunità dell’ISREC Lucca).

Fulvetti, che è è stato direttore per 5 anni dell’ ISREC LU, è professore associato di storia contemporanea presso il dipartimento di Civiltà e forme del Sapere dell’Università di Pisa e si occupa principalmente della seconda guerra mondiale. Recentemente impegnato nel progetto dell’Atlante nazionale delle stragi naziste e fasciste durante l’occupazione della penisola nel 1943-1945, Fulvetti è protagonista della stagione di studi che ha indagato la “guerra ai civili” in Italia e in Toscana. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio d’Amministrazione dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, al quale aderiscono gli Istituti Toscani della Resistenza e dell’Età Contemporanea che ne avevano promosso e sostenuto la candidatura.

Ventura, attuale direttore, succeduto a Fulvetti del quale prosegue la linea di condotta dell’istituto, è assegnista di ricerca presso l’Università di Pisa ed è specializzato negli anni dell’avvento del fascismo in Italia e in provincia.

Fulvetti e Ventura hanno coordinato un gruppo di ricerca composto da 14 studiosi che si sono divisi le schede sia su base territoriale che in accordo con i loro interessi.

Stefano Bucciarelli, attualmente presidente dell’ISREC LU, è stato docente e preside ed ha al suo attivo numerosi libri e saggi sulla storia politica e culturale del Novecento. Per questo volume si è occupato degli schedati viareggini. Sempre i viareggini sono stati curati da Filippo Gattai Tacchi, perfezionando presso la SNS di Pisa, e da Roberto Rossetti, che si occupa di didattica della storia ed è distaccato presso l’ISGRE LU, dove ricopre il ruolo di responsabile delle attività didattiche.

Marta Giusti, dottoranda presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Ateneo Pisano, ha ricostruito la vita di di 8 donne, mentre la nona è stata oggetto di studio da parte di Teresa Catilla, che collabora con l’ISREC LU, lavorando in particolare alla sistemazione del fondo archivistico. Catinella ha curato la scheda anche di Arturo Chelini, popolare bastonato dai fascisti lucchesi.

Rachele Colasanti, laureata in Storia contemporanea, sta seguendo a master in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna e per il volume ha curato le schede dei Versiliesi. Carlo Giuntoli, laureato con una tesi sulla violenza fascista e membro del direttivo dell’ISREC, si è occupato della Garfagnana. Su Massarosa ha lavorato Jonathan Pieri, dottorando in Scienze politiche presso l’Università di Pisa con un progettoche studia storia militare e storia dell’occupazione tedesca in provincia di Lucca. Gianluca Fulvetti si è concentrato su alcuni significativi percorsi esistenziali di antifascisti lucchesi.

Francesco Lucarini, che sta lavorando ad una tesi sulla storia del PCI in provincia di Lucca, si è occupato delle drammatiche vicende di due volontari antifranchisti.

Pietro Finelli, direttore scientifico della Domus Mazziniana, collaboratore con l’ISREC LU di cui è stato responsabile della didattica, ha studiato gli schedati repubblicani, mentre Armando Sestani, attualmente Vice Presidente dell’ ISREC LU ha curato le schede biografiche degli anarchici.

Infine alcuni casi particolari e significativi sono stati studiati da Andrea Ventura e da Federico Creatini, cultore della materia in storia contemporanea all’Università di Pisa e dottorando in Storia contemporanea all’Università di Bergamo.

Circa due anni fa, l’ISREC di Lucca ha avviato un progetto di ricerca sulla storia dell’antifascismo e della resistenza in provincia di Lucca. L’idea era -ed è- di colmare una lacuna di conoscenza storica e civile.

Il libro è nato da un progetto di ricerca svolto dall’ISREC Lucca sull’antifascismo  nel periodo in cui fu più intensa l’azione repressiva dell’autorità centrale verso tutte le voci di dissenso nei confronti del regime fascista, e ha come tema centrale i fascicoli relativi a uomini e donne della Provincia di Lucca conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Il lavoro è partito con una fase di raccolta e riproduzione sistematica dei fascicoli del Casellario Politico Centrale (ex Schedario dei sovversivi), lo strumento di controllo e repressione dei “sovversivi” inaugurato con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, insieme alla Polizia Politica e al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.

Il Casellario politico centrale è stato lo strumento di controllo e schedatura dei “sovversivi” che, inaugurato nel 1894 nell’Italia liberale, venne ripreso dal fascismo e integrato con i suoi organi repressivi nell’ambito della sua legislazione eccezionale. Era gestito dal personale del Ministero dell’Interno in raccordo con le prefetture e le questure e i Consolati per ciò che concerne coloro che lasciavano l’Italia, ma poi fu incrementato dagli strumenti repressivi entrati in atto con le cosiddette “leggi fascistissime”.

 Il casellario politico centrale porta, nel corso degli anni, all’apertura di oltre 150mila fascicoli personali. Tra di essi sono state individuate 1374 persone nate o residenti in provincia di Lucca. Rispetto a questo dato, operando aggiustamenti e integrazioni, è attualmente a disposizione una banca dati di circa 1600 nominativi, i cui fascicoli sono stati riprodotti presso l’ACS e sono adesso depositati su supporto digitale e consultabili presso l’archivio dell’ISREC LU. Il database, oltre alle generalità e ai dati anagrafici dello schedato, ne riporta il colore politico, il mestiere esercitato, gli estremi cronologici della sua schedatura, le condanne riportate, la sua eventuale emigrazione, l’eventuale partecipazione alla Guerra di Spagna, riferimenti della sua rete parentale, altre osservazioni notevoli. La funzione “CERCA” permette ricerche incrociate e la selezione di elenchi di schedati uniti da comuni caratteristiche.

Tuttavia le carte del casellario riportano poco o niente dell’antifascismo cattolico che appare invece una delle caratteristiche del territorio lucchese e una delle variabili che spiegano qui fra il 1943 e il 1945 l’ampia presenza di pratiche di resistenza civile.

Oltre cento tra i “sovversivi” dello schedario sono poi stati selezionati per la pubblicazione di Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario Politico Centrale. Per un dizionario:: biografico della provincia di Lucca.

Nel libro si trovano le informazioni sulla vita di 120 di questi antifascisti, 111 uomini e 9 donne, le cui parabole esistenziali sono restituite in forma biografica, in un linguaggio piano, lineare, mai retorico: individui rimasti troppo a lungo “anonimi”, ma anche personaggi noti, come Luigi Salvatori, il “padre” del socialismo versiliese; Giuseppe Del Freo, insegnante viareggino, maestro di generazioni di democratici e antifascisti e Guglielmo Pannunzio, avvocato e giornalista; il futuro onorevole e ministro Armando Angelini. Vi troviamo anche quattro sindaci del dopoguerra e quattro costituenti.

Variegato l’universo che confluisce fra i “sovversivi” nel periodo in cui la dittatura  inizia a fare i conti con gli anarchici, i socialisti, le Leghe e le Società di Muto Soccorso, i moti, gli scioperi e le sommosse, le Camere del lavoro, la violenza sociale e quella politica.

Tra i partigiani affluirono giovani renitenti alla leva e disertori,  donne e uomini spinti dall’insofferenza verso la guerra; sfollati dai bombardamenti che avevano sperimentato sulla propria pelle l’inefficienza, la corruzione, la prepotenza, i favoritismi, la violenza delle amministrazioni locali fasciste. La fame e le difficoltà quotidiane furono rilevanti per la “scelta” di molti. Il resto, in modo determinante, lo fecero l’occupazione tedesca, i repubblichini, i bandi draconiani della Repubblica di Salò e la brutale repressione degli oppositori.

Il campione degli antifascisti lucchesi -come la storia dell’antifascismo- pende dalla parte della Versilia (44%), l’area che possiede tradizioni più solide a sinistra, con diversi comuni che già prima del conflitto mondiale sono stati guidati da coalizioni di democratici, repubblicani, socialisti.

L’età media è di 33 anni. La più anziana è Maria Isolina Amantina, nata ad Altopascio nel 1858, colpita nel 1927 dalla repressione per aver imprecato pubblicamente contro la monarchia e Mussolini e per questo confinata poi in manicomio. Lei è una delle vittime di un fascismo che rafforza la tendenza a medicalizzare il dissenso politico e il ribellismo sociale.

Spesso le donne infatti erano considerate “la costola di Adamo”, di mariti, fratelli e padri e quindi non meritevoli di attenzione da parte della polizia, composta esclusivamente da uomini. Questo spiega perché molte di loro venissero mandate in manicomio e non subissero altri tipi di condanna.

Nonostante questa scarsa considerazione da parte fascista delle donne, il loro ruolo emerse con forza: raccoglievano soldi, sostenevano le famiglie colpite dalla repressione, conservavano e nascondevano documenti e materiale a stampa. Le donne, molte delle quali prive di preparazione politica, erano pronte a lasciare le mura domestiche e ad assumersi responsabilità nella sfera pubblica, mai conosciute prima.

Fra gli antifascisti lucchesi prevalgono le professioni proletarie (67,5%), il 18,1% sono commercianti e sopratutto artigiani che fanno delle loro botteghe il crocevia di attività, riunioni, racconti, e luoghi nei quali spesso si alimenta una alterità “esistenziale” del regine. Infine il 16,2 % appartengono a quello che possiamo chiamare antifascismo borghese e umanitario intellettuale e delle professioni.

Tra gli antifascisti sono maggioritari i comunisti, di cui la metà resta militante nel PCDI anche dopo le “leggi fascistissime”, in prevalenza all’estero. Inferiore e pari il numero di socialisti e di anarchici. Solo due i cattolici, una decina i repubblicani e i socialisti liberali che si legano alle attività di giustizia e libertà, in prevalenza all’estero. Per sopravvivere, infatti, molti sono costretti a lasciare l’Italia. Si sfruttano percorsi e reti di solidarietà spesso preesistenti, legati all’emigrazione per motivi di lavoro. E’ una vita difficile quella da clandestini ed emigrati. Sui 120 lucchesi, sono 39 (quasi uno su tre) coloro che per periodi più o meno lunghi transitano dalla Francia e frequentano i “fuochi comunitari antifascisti” (Parigi, Nizza, Marsiglia) nei quali molti proseguono il proprio impegno.

Da quando nell’ottobre 1936 nascono le Brigate Internazionali al marzo 1937 troviamo 16, dei 120 antifascisti lucchesi, che sono stati in Spagna. La loro età media è di 31 anni. Ma anche là non mancarono le difficoltà materiali e psicologiche legate alla sconfitta e alla “retirada”, con l’esperienza nei campi francesi, il disorientamento di fronte allo scoppio della seconda guerra mondiale, la pressione crescente dell’occupazione nazista, il tentativo di rientrare in Italia, sinonimo di detenzione.

Tra i 120 biografati di questo volume, troviamo 10 persone che combattono nella Resistenza e 9 che fanno parte dei comitati di liberazione nazionale. La maggior parte  prosegue il suo impegno anche alla fine della guerra, ad esempio come sindaci nominati dal CNL, e comunque nella ricostruzione e nella ripresa democratica.

E’ nel decennio prebellico che si colloca il picco delle “radiazioni”. Nel nostro campione sono 27 le persone inviate a Favignana, Ponza, Ventotene, Ustica, Pisticci, alle Isole Tremiti etc.

Il picco degli schedati lucchesi si raggiunge il 31 dicembre 1933, quando “sovversivo” era ormai da tempo considerato chiunque fosse appartenuto ai partiti disciolti o avesse manifestato, con l’azione o con la parola, dei convincimenti non allineati con le direttive e gli obiettivi del regime.

Questo dato lucchese è in linea con le statistiche nazionali. Secondo Renzo De Felice alla fine del 1930 in media venivano condotte 20.000 operazioni di polizia politica alla settimana in tutto il paese: arresti, sequestri di materiali a stampa, iscrizione negli schedari provinciali o in quello centrale, chiusura dei luoghi di ritrovo. I metodi utilizzati dalle forze dell’ordine spaziavano dagli interrogatori alle torture, dai pestaggi alle pressioni psicologiche e ai ricatti personali.

I 120 “schedati” lucchesi sono un esempio di come si può e si deve resistere ad una dittatura, nonostante la paura, e di quanto diversi, ma tutti ugualmente validi, sono i motivi e i mezzi per lottare per la democrazia, che, a differenza di quanto ingenuamente o semplicisticamente pensiamo, non è un possesso per sempre ma una conquista quotidiana.

Il lavoro non è concluso, anzi. Il prossimo passo, riguarderà lo studio, la riproduzione e l’acquisizione del fondo RICOMPART, relativo alle attività dell’Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (depositato nel 2012 sempre all’ACS).




“Mille non sono tornati”

È appena uscito (Novembre 2018), a cura di GD edizioni di Sarzana, il saggio Mille non sono tornati di Ezio Della Mea e Enzo Menconi,  che si colloca nell’ambito delle celebrazioni per la fine della Prima Guerra Mondiale.

Il volume, completo di un’appendice di mappe e di un CD con un data base, è di facile consultazione: i caduti sono suddivisi per frazione di nascita e/o domicilio e se ne raccontano le vicessitudini militari, l’eventuale prigionia, le circostanze del ferimento e della morte, e della inumazione. Esso ricorda tutti i caduti carraresi durante la Grande Guerra, 960 uomini ed una donna, Argentina Dell’Amico.

Lei ha una storia particolare, che merita di essere raccontata: il suo nome compare alla base di un piccolo obelisco che ricorda i caduti. Inizialmente si era pensato ad una crocerossina ma ulteriori ricerche hanno permesso di accertare che ella è morta durante la Seconda Guerra Mondiale, il 20 gennaio 1945, nella zona di Minucciano, in Garfagnana, dove si era recata con altre donne di Carrara per scambiare il sale con farina e altri prodotti. Lì viene a sapere del bombardamento di Carrara e decide di tornare a casa per verificare le condizioni dei suoi familiari. Trovandosi a ridosso della Linea Gotica, rimane uccisa dagli spari dei militari tedeschi.

L’idea di questo saggio è frutto di un’assenza, quella a Carrara, a differenza delle altre città italiane, di un ricordo dei suoi caduti durante la Prima Guerra Mondiale” afferma il coautore Ezio della Mea. Solo recentemente la Regione Toscana ha stanziato il finanziamento per il restauro di una lapide della Grande Guerra nel cimitero di Gragnana, perché eccessivamente deteriorata.

Ed è proprio dalle lapidi che la ricerca alla base di questo libro è iniziata, attraverso la loro ricognizione nei 13 cimiteri carraresi, dopo lo spoglio al Ministero della Difesa dell’albo d’oro dei caduti del ’15-’18. E qui scopriamo che solo in Toscana essi sono stati 46.162, “uomini a cui si deve guardare con rispetto e come ammonimento per il futuro, senza qualsivoglia esaltazione retorica e bellicistica”, scrive Enzo Menconi nella Prefazione.

Le forze combattenti andavano dai 18 (17 se partivano come volontari) ai 43 anni, ma accanto a loro c’erano gli operai militarizzati (dai 12 ai 60 anni). Inoltre, dopo Caporetto, fu necessario richiamare dalle leve di mare soldati per la leva di terra.

Nelle trincee del Carso, sulla Bainsizza, sull’altopiano di Asiago, sul Pasubio, sul Grappa, sul Piave, sull’Isonzo ma anche nella penisola balcanica e in Libia caddero circa 700.000 italiani. 800 erano di Carrara […] Oltre il 50% di quei soldati erano lavoratori del marmo”, scrive Enzo Menconi. Di questi 321, circa il 40 %, sono morti per malattia (prevalentemente broncopolmonite dovuta alle alquanto insalubri condizioni in trincea), 60 muoiono in prigionia (di cui 15 non si sa dove), i restanti per le ferite riportate.

Un esempio dei prigionieri deceduti in mano nemica, è Nicoli Bruno (classe 1895) sepolto a Mauthausen (nome divenuto tristemente noto in epoca nazista), poiché spirato a seguito di una malattia.

A Carrara sono morti anche 88 soldati non carraresi, perché vi erano due ospedali militari. Le cause del decesso riportate nelle cartelle cliniche recitano principalmente congelamento, oltre che ferite. Alcuni sono stati fucilati per i disturbi psichici dovuti ai traumi di guerra, come Arnaldo Bruschi. Egli era stato riformato alla leva e ritenuto idoneo solo ai servizi sedentari, ma, chiamato per la mobilitazione generale del marzo 1917, viene inviato come soldato nella compagnia zappatori. La sua morte è stata oggetto di plurime falsificazioni: sul sito OnorCaduti è riportato che è morto in azione sul Carso il 24 agosto, mentre l’ufficiale alla matricola del distretto militare di Massa trascrive nel Foglio Matricolare di Bruschi che egli “è morto per ferita da arma da fuoco non in combattimento” in analogia a quanto certificato nell’atto di morte del registro del reggimento. Le due annotazioni nascondono una tragica verità: il testimone, tenente Ilio Panzani, riferisce che quel 24 agosto il soldato Bruschi tentava di “scaricare l’arma”, gesto dovuto allo squilibrio mentale causato dalle fatiche precedenti e dalle traumatizzanti impressioni subite. Bruschi viene così condotto al posto di medicazione, con l’indicazione di qualche giorno di riposo. Ma i segni di squilibrio mentale proseguono ed un generale, presente sul posto, ne ordina la fucilazione. Il tenente Panzani, però, al termine della sua relazione scrive che il soldato Bruschi, nel periodo passato alle sue dipendenze “tenne sempre un’ottima condotta e mai ebbi a lamentarmi di lui per nessun motivo”.

Analogamente fucilato, il caporale Ferrari Luigi, ferito da arma da fuoco nei combattimenti di San Michele a Monfalcone. Condannato per diserzione di fronte al nemico, fu eseguita la pena della fucilazione alla schiena. Nessuna lapide lo ricorda, ma dopo la fine della guerra, gli è stata conferita la medaglia commemorativa nazionale. Citando de André: “ora che è morto la patria si gloria / d’una medaglia alla memoria”.

I soldati provenienti da Carrara combatterono principalmente sul Carso, a quota 83, vicino a Monfalcone, in una località non a caso chiamata Monte Calvario.

Ma diamo un nome e una storia ad alcuni di questi soldati. Ci piace ricordare i  fratelli Tusini (Alessandro e Lorenzo) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Alessandro muore il 26 giugno 1916 in combattimento sull’altopiano di Asiago; Lorenzo il 2 luglio colpito al cuore da un proiettile negli stessi luoghi dove, pochi giorni prima, era caduto il fratello minore.

Tristemente analoga la sorte dei fratelli Papini di Colonnata, Olinto (01.05.1892 – 24.10.1915) e Rodolfo (31.10.1894 – 01.11.1915) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Il primo, mentre tentava con il suo reggimento, il 90°, di guadagnare quota 1100, viene ferito all’addome da arma da fuoco e muore in ospedale a Tolmino il 24 Ottobre. La sua salma è stata poi trasferita a Caporetto. Il secondo, nel 12° reggimento di fanteria nella brigata Casale, avanza con i compagni sulla linea alle falde del Podgora, sui trinceramenti nemici, superando una prima linea, difesa tenacemente dagli avversari; il giorno dopo viene espugnata la seconda linea e il 28 ottobre, nonostante le avverse condizione meteorologiche, anche la terza. Ma Rodolfo il 1° Novembre sul Podgora, colpito da arma da fuoco durante un combattimento, cade. La salma attualmente giace al sacrario militare di Oslavia, senza una lapide che lo ricordi. I due fratelli, morti quasi nella stessa settimana, non sono mai stati neppure inumati vicini.

Diversamente i fratelli Pantera di Bergiola Foscalina sono sepolti uno accanto all’altro nel sacrario di Redipuglia (loculo 27347 e 27346), mentre a Borgiola una lapide li ricorda. Andrea è deceduto il 17 settembre 1917 in un ospedale da campo a seguito delle ferite da schegge di shrapnel; Emilio è morto il 12 Gennaio a Trieste nel 1920 a seguito di una malattia contratta quando ormai la guerra stava finendo.

Concludiamo rendendo onore al più giovane dei caduti: Galeotti Ercole. Aveva soltanto 14 anni e 7 mesi. Era operaio del Genio Militare della Prima Armata ed è morto per malattia nel piccolo ospedale da campo di Salò il 22 Ottobre 1918.

Si rende vero onore a lui e a tutti i caduti se ci si impegna per un futuro diverso in una patria che veramente ripudia la guerra.

Questo libro è un monumento cartaceo ai caduti di una guerra di cui questo anno si celebra la fine, da alcuni vista come la quarta guerra di indipendenza e comunque l’ultima di unificazione nazionale. Tuttavia esso “non è e non vuol essere la celebrazione di una vittoria o il rinnovo di antiche contrapposizioni […] ma un piccolo contributo alla ricerca di quel comune legame di civiltà che unisce oggi i popoli di Europa, quel legame che le guerre, i totalitarismi e i nazionalismi non sono riusciti a cancellare”, afferma con vibrante convinzione Menconi.

La storia è un vaccino, ma, come i vaccini, ha bisogno di richiami.




“Io sono quel che sono..”: storia di Alberto Baumann, ebreo.

Io sono quel che sono… io vivo ai margini della città… sono un ragazza di strada” cantavano nel lontano 1966 i Rokes in una canzone che, sebbene temporalmente successiva, ben rappresenta l’infanzia “complicata” che Alberto Baumann passò a Montecatini.

Alberto è stato definito un “artista eclettico, un cantastorie sfacciato, un comunicatore innovativo”, ha scritto poesie, racconti e canzoni, realizzato opere pittoriche e gioielli in oro e argento, è stato un giornalista creatore di format televisivi. Ha vissuto da personaggio “contro”: dopo essersi sposato nel 1963 con Eva Fisher, una donna di tredici anni più grande di lui, recandosi in bicicletta in Campidoglio a Roma, decise nel 1967 di partire per la Guerra dei Sei Giorni come corrispondente di guerra lasciando a casa la moglie e un figlio di tre anni.

È stato soprattutto un ebreo, se non forse per religione, sicuramente per senso di appartenenza, soprattutto a partire dall’emanazione delle leggi razziali nel 1938.

Alberto Baumann nacque “per caso”, come diceva lui stesso, a Milano nel 1933 e giunse all’età di due anni a Montecatini Terme dove il padre ungherese Alessandro, un giornalista rimasto a vivere in Italia dopo essere stato inviato al seguito dell’esercito austro-ungarico aveva assunto l’incarico di direttore dell’Ufficio Propaganda, quello che oggi si sarebbe chiamato Ufficio Relazioni Esterne delle Terme e scriveva articoli a sfondo turistico. Con il suo humour diceva che, rincorrendo gli italiani, era arrivato a Viareggio, città nella quale con una cavalleria “da Belle Epoque”, aiutandola a scendere dalla carrozza, visto che aveva una gamba ingessata, conobbe Estelle Piperno, livornese di famiglia ma nizzarda di nascita, che divenne poi sua moglie. Per uno degli strani casi della storia il padre di Estelle, Alfredo, aveva combattuto contro gli austriaci nella guerra appena conclusa.

Montecatini divenne così la città di adozione di Alberto e il teatro della sua vita da “ragazzo di strada”. Nel 1938, a causa delle leggi antiebraiche, il padre, ebreo, apolide e recalcitrante ad indossare il distintivo fascista venne confinato a Ruoti[1], in provincia di Potenza. La Lucania, la terra che meritava il plauso del Duce perchè “non era sufficientemente infetta da tutte le correnti perniciose della società contemporanea” era diventata la terra di esilio per gli oppositori del regime. Alessandro Baumann tornerà a Montecatini in una sorta di licenza per un paio di giorni solo nel 1942.

Il 1938 fu anche l’anno in cui il giovane Baumann avrebbe dovuto fare il suo ingresso nel mondo dell’istruzione. A causa delle già citate leggi leggi razziali non potè però frequentare ufficialmente le aule scolastiche. Come scriveva nei suoi ricordi Alberto, per gli amici Berzi, cioè Albertino in ungherese, grazie al suo spirito di adattamento e all’aiuto del maestro Gennai, continuò però a varcare la soglia della scuola, pur non figurando ufficialmente in quanto ebreo. Ricordava infatti che: “A scuola andavo però non mi sedevo sul banco, oppure mi sedevo e non facevo niente. I compiti li scrivevo ma non me li richiedevano mai… Seguivo le lezioni adagiato in fondo alla classe, sebbene alcune volte riuscivo a farmi spazio tra alcuni compagni, come un fantasma che tutti potevano notare senza poterlo vedere”.

Nel 1939 rimase orfano della madre e, con il padre lontano, fu costretto con la sorella Iolanda, della Loly, a vivere presso i nonni materni titolari di un “banco” di stoffe. Amava rammentare, come segno della povertà familiare, che le cinquanta lire trovate nelle tasche dei pantaloni che il nonno indossava al momento della morte furono usate per pagare il suo funerale.
Per superare le continue difficoltà economiche, la nonna produceva con del sughero tomaie per zoccoli, mentre il nipote si recava in campagna per racimolare rape, barbabietole e la farina gialla con cui fare della polenta.

Il problema del cibo era una costante tanto che i ragazzi della banda di Alberto, il gruppo di via Cappellini di cui faceva parte tra gli altri anche Renzo Montagnani, avevano l’ordine, una volta usciti da scuola, di non tornare a casa se non con qualcosa da mangiare. Montecatini all’epoca era un grande “lazzarett”, cioè un ospedale militare tedesco e così per trovare qualcosa da mettere sotto i denti Alberto si intrufolava spesso nel parco dell’Hotel La Pace dove cercava gli avanzi dei pasti che i degenti meno gravi avevano consumato passeggiando.

Mi ricordo pezzi di pane tedesco con burro e marmellata, questo pane nero… golosamente si mangiava, se te lo davano. E poi si andava a fare castagne, cioè a rubare castagne sulle colline“.

Spesso il giovane Baumann andava ad “aprire il negozio del nonno”. Doveva prendere in pratica una tavola di due metri per uno e mezzo, trovare due “caprette” sulle quali adagiare la tavola stessa e disporre su questo elementare “banco” le mercanzie disponibili per la vendita, cioè tovaglie, cravatte, calzini.
Un giorno con i suoi amici di Via Cappellini, tutti ugualmente affamati, salì su un carro armato tedesco fermo in colonna. Introdotta la mano nel mezzo sottrasse al soldato tedesco addormentato al comando un mitra Mauser con cui, assieme ai compagni, si divertì a imparare a sparare. Il mitra venne poi, con grande rammarico di tutti, preso in consegna da un partigiano.
Alberto nelle settimane seguenti vide con terrore, mentre cercava di trovare le cicche con cui barattare con i contadini del cibo, due persone impiccate nella piazza principale di Montecatini. Al loro corpo era attaccato un cartello con scritto “Questo succede a chi tradisce i soldati tedeschi”. Mentre Alberto passava le donne amiche dei nazisti fotografavano.

Più o meno negli stessi giorni parte degli ebrei catturati in seguito a una soffiata nella retata di Montecatini venne radunata nell’albergo Croce di Malta. Fra i catturati figuravano, a detta di Alberto, anche due fratelli poliomelitici di nome Fiorentino, che erano stati presi con la madre[2] e il signor Abel Colembiowsky, un polacco che girava la città cercando di vendere oggetti utili per il ricamo e il cucito contenuti in una cassetta che portava al collo. La nonna di Alberto decise di mandarlo da quest’ultimo per restituirgli un vassoio di argento che il polacco le aveva prestato. Colembiowsky, alla vista di Alberto nella hall dell’albergo, resosi conto del fatto che questi rischiava di essere riconosciuto in una hall piena di SS e di ebrei come lui, lo cacciò via urlando “come un cane con la bava alla bocca” salvandogli così probabilmente la vita[3]. Nelle ore successive si sparse la voce che le persone catturate fossero state portate in una cittadella vicina, nessuno immaginava all’epoca che la destinazione finale fu il lager.
La scena dell’impiccagione, la retata di Dannecker e il rischio corso nell’albergo da Alberto spinsero nonna Anita a cercare, dopo aver sistemato la piccola Anita dalle suore di don Bosco a Montecatini, di organizzare la fuga del nipote.

Scappato nelle campagne, il ragazzo trovò degli artisti circensi di Firenze che lo presero con loro insegnandogli dei giochi e facendolo esibire. Alberto ricordava di essersi divertito un sacco in quel periodo e di aver imparato molti trucchi che avrebbe usato in seguito anche con i figli, come quello della “sigaretta mangiata” che rispuntava nella sua bocca integra dopo alcuni minuti.

Grazie ad una carta di identità falsa intestata a un inesistente “Gino Fabbri nato a Montecatini il 12 maggio 1933” fornitagli da Monsignor Barni, con cento lire in tasca e un biglietto ferroviario di sola andata, Alberto si recò alla stazione di Montecatini per prendere il treno che lo avrebbe condotto a Sacile, nei pressi di Pordenone. Lungo la strada Alberto si sentì chiamare “Picolo picolo” da un soldato tedesco affacciato a un balcone che gli lanciò un vasetto di marmellata solida. Forse, raccontava con ironia Alberto, “se quel soldato si fosse accorto che ero ebreo non l’avrebbe fatto”.

Nella cittadina veneta, a detta di don Barni[4], avrebbe dovuto incontrarsi con un sacerdote che lo avrebbe ospitato. Nella concitazione di quei momenti il prelato si era sbagliato sul conto dell’amico sacerdote che purtroppo era deceduto ormai da anni. Alberto si trovò quindi solo in un paese sconosciuto e alla mercé di chiunque. Non aveva con se nulla se non pochi vestiti: una maglia girocollo, un paio di pantaloni alla zuava e scarpe troppo grosse per lui. Decise di tornare in Toscana a piedi e trovò rifugio presso la casa di un operaio padre di cinque figli. Questi, dopo averlo ospitato per alcune sere, gli domandò se per caso fosse ebreo e di fronte alla risposta affermativa del giovane con le lacrime agli occhi lo invitò ad andarsene perchè temeva per l’incolumità dei suoi familiari. Gli donò quindi dei soldi e lo accompagnò alla porta.

Vagò a questo punto per alcuni mesi nell’Italia occupata dai nazisti fino a quando incontrò i soldati americani della 5a Armata dei quali divenne una delle mascotte.

Tornò a Montecatini poco prima della Liberazione e si unì a un gruppo di ragazzi più grandi. che lo spinsero a compiere delle azioni di sabotaggio. I nazisti in ritirata cercavano di far saltare con dei candelotti posti ogni 200-300 metri le linee ferroviarie per ostacolare l’arrivo delle truppe alleate. Il suo compito, realizzato con incoscienza e grande divertimento, era quello di spiare i nazisti all’opera e di recuperare l’esplosivo quando questi si erano allontanati impedendo così che la ferrovia venisse distrutta. Ricordava così quel periodo: “E un giorno si vide passare un gruppo di tedeschi che facevano delle buchette sotto il binario. Erano quattro o cinque, facevano questa buchetta, dopo di che riprendevano urla specie di trenino che si guidava con le mani… Andavano avanti e arrivavano altri quattro o cinque, dopo un po’, e mettevano la dinamite, la gelatina, in questa buca per far saltare il binario. Il mio amico Alvaro, molto più grande di me e mio vicino di casa, mi chiamò e mi disse “Berzi”…anzi mi ricordo quando me lo disse aveva il manico della pistola, bianco, che gli usciva di qua… Berzi, vali lì e levagli tutto quello che hanno messo dentro. Te strappa…” Collaborava, senza saperlo, con i partigiani della brigata Garibaldi e di Giustizia e Libertà[5].

45827559_2158044134228805_6909145466227654656_nIl padre tornò a Montecatini nel 1945 dopo essersi trattenuto a Ruoti per svolgere l’attività di interprete per il principe Ruffo di Calabria con gli ufficiali anglofoni sbarcati in Italia e di istitutore di inglese della principessa Maria Lucia Ruffo. “Era un professore di inglese e altre lingue splendido, mio padre. Si fermò a Roma, e poi venne su e arrivò. Io mi ricordo quando torno. Da anni non lo vedevo più ma l’avevo sempre presente perchè mia nonna non faceva altro che raccontare di papà. E stavo accendendomi una cicca, pensa te, ero terrorizzato. Io non fumavo davanti a mio padre nemmeno quando avevo vent’anni. Mi misi una cicchetta in bocca e in quel mentre vedo una jeep che si ferma proprio davanti a casa mia, con un ufficiale. E vedo mio padre che scende. La prima cosa… Non sapevo se inghiottire questa cicca o cosa… So che in qualche modo la spensi, la buttai. E poi entrò mio padre, abbracci e baci“.
Ricordava la liberazione di Montecatini come una festa di biciclette. Tutti gli abitanti tirarono fuori dalle loro case le bici che avevano nascoste per evitare che venissero prese dagli occupanti. I poliziotti avevano una fascia al braccio con la scritta CLN, cioè “Comitato di LIberazione Nazionale”. Finita la guerra Alberto trovò lavoro come fattorino in un albergo del lido di Venezia e poi nel ’52 venne “adottato dalla città di Roma dove cominciò a lavorare presso l’Hotel Continentale come cassiere del ristorante e segretario dell’albergo. Scoprì presto via Margutta, che divenne la “sua” strada, e Piazza di Spagna, dalle quali rimase folgorato. Si intratteneva spesso presso il bar Notegen dove conobbe i più grandi esponenti della vita culturale romana dell’epoca: Campigli, Mafai, Amerigo Tot. Il padre andò a trovarlo solo una volta a Montecatini e morì a sessantuno anni senza che il figlio potesse  funerale a causa della mancanza di soldi. A fine anni Cinquanta con una inchiesta sulla sinagoga di Roma per la rivista “Roto sei-Sei rotocalchi in uno” cominciò a dedicarsi al giornalismo e incontrò il rabbino Elio Toaff. Collaborò con la rivista Il Mondo diretta da Pannunzio grazie ad Aldo Garosci, amico dei fratelli Rosselli e co-fondatore di Giustizia e Libertà. Nel 1963, come già detto, si sposò in Campidoglio in bicicletta con Eva Fischer, cittadina iugoslava unitasi alla lotta partigiana italiana. È stato l’ideatore di Shalom, il primo quotidiano degli ebrei italiani e animatore del gruppo di amici composto fra gli altri da Enrico Modigliani, Mariolino Di Segni e Ariel Toaff che nei primi anni Settanta si impegnò per cancellare le scritte antisemite ricorrenti all’epoca sui muri della capitale. Negli anni Settanta affiancò all’attività di giornalista quella di scrittore, creò per una TV locale il controgiornale, una trasmissione di news ironica che ebbe un notevole successo tanto che un noto imprenditore milanese gli chiese, ottenendo una risposta negativa, di trasferirsi al Nord per lavorare con lui. A partire dagli anni Ottanta ha esteso i suoi interessi anche alla pittura.

Alberto è scomparso il 1 novembre 2014 nella sua casa di Trastevere a Roma. Amava dire spesso con il solito spirito “In Italia il due novembre ricordano i morti… chissà se quest’anno nonno Alfredo arriva primo!”.

[1]Ruoti è un comune italiano di 3551 abitanti della provincia di Potenza in Basilicata facente parte della Comunità Montana Marmo Platano (fonte Wikipedia)
[2]Nel sito del Cdec e in quello di Anna Pizzuti non figurano uomini di nome Fiorentino catturati. Risultano invece arrestate e deportate ad Auschwitz due sorelle: Ada Fiorentino, nata a Roma il 9/12/1866, arrestata il 5/11/43, partita il 9/11/43 e arrivata ad Auschwitz il 14/11/43 e Margherita Fiorentino, nata a Pisa il 22/8/1888. E’ possibile che ad anni di distanza Alberto confonda i nomi indicati con i volti di altre persone.
[3]Nel sito del Cdec e in quello di Anna Pizzuti non risultano deportati con questo nome. Forse il signore citato riuscì a sfuggire alla cattura.
[4]Don Guido Barni, nato a Montevettolini, laureato in teologia e filosofia, venne nominato nel 1912 parroco di Santa Maria Assunta a Montecatini. Resse la parrocchia fino al 5 agosto 1952. Fra le sue opere ricordiamo nel nel1917 l’istituzione dell “l’ospizio della Carità” e di una biblioteca circolante
[5]Le brigate Garibaldi operanti durante la Resistenza erano organizzate dal Partito Comunista Italiano e composte quindi principalmente da comunisti. Furono le formazioni partigiane più numerose e quelle che subirono il maggior numero di perdite. I suoi componenti si distinguevano per un fazzoletto rosso che portavano al collo. Le brigate di Giustizia e Libertà erano legate al Partito d’Azione e coordinate da Ferruccio Parri. I suoi componenti si distinguevano per l’uso di un fazzoletto verde.




Un pratese “Giusto tra le Nazioni”

La vicenda di Gino Signori è abbastanza eccentrica rispetto ai miei interessi di storico, dato che io mi occupo prevalentemente di storia del movimento operaio e contadino, del sovversivismo e dell’anarchismo. Tuttavia, quando Manuele Marigolli e Fiorenzo Fiondi mi proposero di ricostruirla per conto dell’Associazione culturale per il lavoro e la democrazia, accettai subito con molto interesse. Riproporre oggi la figura di Signori, noto ai più soltanto come pittore, in un momento in cui l’intolleranza e l’odio per i diversi  sembrano prevalere assume infatti un particolare significato perché ci fa capire che i valori della solidarietà sono valori perenni, valori che non vanno mai dimenticati.

L’esistenza di Gino Signori è stata, nel contempo, un’esistenza comune ed eccezionale.

Nato a Barga nel 1912 in una famiglia di modeste condizioni che si trasferì negli anno Venti a Schignano e successivamente a Figline di Prato, Signori non ebbe modo di compiere studi regolari e cominciò a lavorare da ragazzo, prima, per un breve periodo, alla Direttissima e poi in fabbrica.

Richiamato alle armi nel 1941, venne catturato dai tedeschi all’Isola d’Elba pochi giorni dopo l’8 settembre ed immediatamente avviato in Germania. Dal punto di vista giuridico, la condizione di Gino era quella di “internato militare”, una categoria inventata dai nazisti per sottrarre i prigionieri di guerra italiani alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra ed all’assistenza della Croce rossa (nel diritto internazionale gli internati militari sono in realtà i soldati di uno stato belligerante sconfinati nel territorio di uno neutrale che ha l’obbligo di trattenerli per evitare che tornino a combattere).

Rispetto ai suoi compagni, Gino aveva due vantaggi: era in possesso della qualifica di infermiere specializzato e parlava discretamente il tedesco. Nell’estate del 1944 egli si trovava ad Amburgo dove, come infermiere, si prendeva cura delle vittime dei micidiali bombardamenti cui era sottoposta la città e godeva quindi di una relativa libertà di movimento.

Una sera, mentre si recava da Finkenwerder all’ospedale di Amburgo, Gino si imbatté in una colonna di ragazze ebree. Quelle che restavano indietro venivano sistematicamente eliminate. Signori vide che una ragazza, che non ce la faceva a tenere il passo della colonna, stava per essere uccisa: ubbidendo allora ad un impulso più forte di lui, e rischiando la propria vita, affrontò il soldato armato di mitra che stava per sparare alla ragazzina e lo convinse a risparmiarla.

Quella ragazza era un’ebrea praghese che rispondeva al nome di Hana Tomesowa. Gino la nascose nel campo dove era internato fino al momento della liberazione e, contemporaneamente, aiutò anche molte altre giovani israelite, fornendo loro cibo ed assistenza.

Tornato a Prato, Signori non si fece pubblicità, non parlò molto di questa esperienza, che pure aveva segnato la sua vita e sarebbe stata alla base della sua arte. Nel 1964, vent’anni dopo i fatti, venne però contattato da un camionista bresciano, un certo Giuseppe Bosio, che aveva avuto modo di conoscere Hana nell’albergo dove essa lavorava. Hana gli aveva chiesto di cercare il suo salvatore, fornendogli i pochi dati di cui disponeva, ed alla fine Bosio era riuscito nell’intento. Nel giugno del 1964 Hana venne a trovare Gino nella sua casa di Figline: a testimonianza di quell’incontro resta anche la foto che pubblichiamo, in cui si vede chiaramente Signori mentre osserva il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro di Hana.

Nel 1984, al termine di una procedura lunga e complessa, Yad Vashem – l’istituto commemorativo dell’Olocausto, che ha sede a Gerusalemme e si occupa di rintracciare e ricordare i non ebrei che, disinteressatamente ed a rischio della vita, aiutarono gli ebrei negli anni delle persecuzioni naziste – attribuì a Gino la qualifica di Giusto fra le Nazioni. La medaglia dei Giusti gli venne consegnata l’anno successivo, nel corso di una cerimonia svoltasi nel Palazzo comunale di Prato.

Questa, in estrema sintesi, la vicenda di Gino Signori. A questo punto bisogna chiedersi perché egli agì come agì, quali furono le motivazioni del suo coraggioso comportamento. Ebbene, se nei documenti e nella memoria di chi lo ha conosciuto cerchiamo una risposta a questa domanda, vediamo che Gino – al pari degli altri Giusti fra le Nazioni, a cominciare da Giorgio Perlasca, quello forse più famoso – trovò del tutto naturale mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di una innocente.

Signori chiude così i suoi ricordi:

Io […] ho l’anima in pace in quanto non ho nulla da rimproverarmi perché ho rischiato più volte la […] vita per fare del bene agli altri […] Se dovessi ripercorrere quel Calvario di sofferenza, non mi discosterei di un sol passo dalla condotta da me tenuta.

“Fare del bene agli altri” è dunque una cosa da considerare del tutto naturale e – si potrebbe dire – quasi scontata. La malvagità e la violenza sono innaturali. Questa, al di là di ogni retorica, è la grande lezione che Gino ha saputo darci.