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Tombolo: storia e memoria di un mito politico

«E Tombolo diviene l’inferno del dopoguerra italiano»[1]. L’immagine che il giornalista livornese Aldo Santini restituisce nel capitolo di apertura di un suo libro di successo, edito nel 1990 da Rizzoli, viene da lontano ma rispecchia anche, in modo esemplare, una precisa stagione della memoria. Come insegna Maurice Halbwachs, la memoria collettiva adatta il passato ai bisogni, alle visioni e alle motivazioni ideali del presente. Il volume di Santini non sfugge a questa regola. Il suo anno di pubblicazione è di per sé significativo. La fine degli anni Ottanta, con la crisi della narrazione egemonica antifascista, portava infatti a riscoprire, al di sotto della celebrazione della guerra di liberazione contro il nazifascismo, la dimensione della “guerra civile” e della “guerra ai civili” (due concetti che, di lì a poco, avrebbero dominato la critica e la divulgazione storica). Da qui la fascinazione per gli aspetti più antieroici del conflitto totale, nel suo configurarsi come scontro crudele da entrambe le parti, crimini angloamericani inclusi. [1]
Fin dal 1946-47 la pineta di Tombolo – una striscia di litorale tirrenico tra Pisa e Livorno, che ospitò accampamenti e depositi militari alleati – è stata oggetto di un processo mitografico che ha fagocitato e banalizzato i fenomeni della prostituzione bellica e del mercato del sesso rivolto all’esercito occupante, a sua volta sincretizzati in una delle più fortunate icone dell’anti-italianità: La Segnorina[2]. La storia delle donne che si prostituirono clandestinamente con gli alleati ha suscitato la morbosa attenzione dell’opinione pubblica e degli attori della cultura di massa, perfino a livello internazionale. Visitata dalla cronaca nera, dalla pubblicistica e dal cinema dell’immediato dopoguerra, essa ha assunto lo status di luogo della memoria; a distanza di decenni ha acquisito una rinnovata visibilità, coerentemente col clima di revisione anti-antifascista e post-antifascista che si è imposto nel dibattito mediatico e nell’industria culturale. All’uscita del libro di Santini, i lettori del quotidiano più venduto nel Paese poterono essere istruiti sui peggiori cliché di una «torbida leggenda»: Tombolo come «centro di turpitudini, noto in tutto il mondo, [che] contraddistinse l’epoca non ancora dimenticata della degenerazione umana, del delitto, del sesso criminale, della rapina, della diserzione»; «Mecca d’una ricchezza facile e larga»; «linea del massimo livello toccato dalla degradazione e dalla voluttà animalesca d’un Paese costretto a sopravvivere senza pensare più a niente»; «Quotidiana festa panica», teatro di malfattori licenziosi e déracinés «antesignani d’una beffarda dolcevita»; popolata da «incredibili personaggi», segnorine, sciuscià, «», borsari neri, delinquenti e disertori[3]. Tali stereotipi venivano rimessi in circolazione in modo del tutto acritico, riproducendo senza alcun filtro le rappresentazioni create ai tempi della sortie de guerre.

Negli anni della presenza alleata, Livorno e Tombolo costituirono per l’appunto il palcoscenico di un racconto che mostrava al pubblico italiano l’intollerabile relazione tra GIs neri e donne di inesistente virtù. Grazie all’operazione inventiva di giornalisti, intellettuali e artisti, la realtà prosaica di una striscia di costa tra il mare e l’Aurelia fu trasfigurata nella quintessenza del proibito, dell’esotico e del dissoluto, sintesi di un mondo al contempo repellente e affascinante. «Città proibita», «perduta», «paradiso nero»: le varie sfumature di Tombolo, anche sul piano linguistico, denotano la plasticità di un manufatto culturale capace di intercettare gli umori di strati sociali diversi, per estrazione e appartenenza partitica. Tombolo è stato un dispositivo narrativo di grande efficacia, intrinsecamente politico nel rendere immediatamente percepibili i confini di una comunità (locale/nazionale) in via di rifondazione, e il profilo di una democrazia nascente che non intendeva sovvertire le gerarchie di genere e razza: in tal senso, un “mito politico”.
Si consideri, per esempio, la Gazzetta di Livorno. Tramite Tombolo il quotidiano social-comunista denunciò i guasti del capitalismo statunitense e rivendicò l’onore della stragrande maggioranza del popolo italiano, ritenuto antropologicamente estraneo alla corruzione delle «segnorine silvestri» cadute nelle reti dell’alleato nemico. Fu Gino Serfogli, già nel 1946, a scrivere per la Gazzetta un reportage a puntate, poi raccolte in un opuscolo di «cronache sensazionali» andato a ruba nelle edicole al costo di trenta lire. I pezzi su Tombolo, rilanciati dal Corriere d’informazione, conquistarono le pagine della stampa nazionale, codificando i contorni di una storia a metà tra il noir e il mélo. Insieme all’infelice destino delle prostitute, trattate con un misto di denigrazione, maschilismo e moralismo compassionevole, vennero esposte al giudizio del pubblico la depravazione del meticciato interrazziale e l’infelice sorte dei “mulattini”, frutto del malo incontro tra donne scostumate e selvaggi ubriachi, sfrenati e incivili[4]. Lo stesso Santini, all’epoca firma de Il Tirreno, fu tra i primi a descrivere i fatti della pineta, nella quale accompagnò personaggi come Curzio Malaparte e Federico Fellini, a loro volta richiamati dall’eco di turpi misfatti e relazioni pericolose. Il risultato dei “pellegrinaggi” nella mitica Tombolo furono scritti e pellicole cinematografiche che fissarono nella memoria del dopoguerra una narrazione romanzata, in cui rimaneva intrappolato lo sguardo dei narratori, animati dalla volontà di smascherare le nefandezze dell’esercito americano o l’immoralità della Livorno “rossa”, città simbolo del Partito Comunista Italiano, a seconda che a parlarne fossero Indro Montanelli, Arrigo Benedetti, Giorgio Ferroni, Fellini, Alberto Lattuada, Malaparte e altri ancora.
Montanelli ebbe un ruolo decisivo nel trasformare quel lembo di macchia mediterranea nell'”Africa di quaggiù”, applicando le figurazioni della letteratura coloniale al popolo della pineta. Tra gli sceneggiatori di Tombolo, paradiso nero, film uscito nel 1947 sotto la regia di Ferroni, l’ex-volontario in Etiopia aveva dedicato a Tombolo alcuni articoli sul Corriere d’Informazione: emblematica, tra questi, la storia di un fantomatico disertore afroamericano, nascosto nella pineta e impazzito dopo avere scoperto che il figlio «mulatto», avuto da una segnorina, era stato ucciso dalla madre, e avere a sua volta ucciso l’infanticida. Il «» veniva pensato come «il Tarzan e il King Kong» di Tombolo, vestito di una pelle di leopardo e ululante nella notte[5]. Rappresentazioni simili erano offerte da Malaparte, secondo cui nella foresta toscana «Les nègres avaient créé une espèce d’horrible casbah, une jungle habitée par des fauves à l’aspect humain»[6].
uell’immaginario giungeva dunque quasi inalterato in una memoria degli anni Novanta, che continuava a discettare di neri e di donne di malaffare, ricevendo il plauso della stampa italiana. Vale la pena interrogarsi sul perché di questo persistente successo, nonostante esistessero letture altre rispetto alla denigrazione pura e semplice delle segnorine e dei loro rapporti interrazziali. Basti pensare a Senza pietà di Lattuada (1948), la cui epica neorealista comportava, pur con innegabili ambiguità, uno sguardo indulgente verso i perdenti e le figure marginali/criminali, privo della sprezzante stigmatizzazione della promiscuità tra bianchi e neri che aveva segnato il canone dominante di Tombolo, paradiso nero. Innanzitutto, come già accennato, le descrizioni della pineta incorporavano e divulgavano categorie centrali nella ricostruzione dell’identità politica del dopoguerra, quelle di nazione, genere e razza. Attorno ad esse si concentravano questioni di vasta portata: il posizionamento a favore o contro gli Stati Uniti, la critica o l’assenso al capitalismo “d’importazione”, lo svincolarsi o meno dal retaggio razzista coloniale, l’affermazione di una nuova rispettabilità democratica e la difesa della reputazione internazionale italiana, alla quale si legava la condanna dell’amoralità femminile, sulla base di una reiterata concezione sessuata della comunità politica che trovava facile sponda nella contiguità tra la morale comunista e quella cattolica.eri
Anche il razzismo anti-nero valicò gli steccati politici, in modo più o meno consapevole ed esibito. Se il Corriere non lesinò le esternazioni apertamente afrofobiche e razziste, sul settimanale satirico socialista Il Pettirosso, collegato all’Avanti!, apparvero vignette e storie umoristiche che prendevano in giro le segnorine e gli afroamericani. L’immagine beffarda di un GI nero impacciato nel calzare un paio di scarpe, quasi fosse uno scimmione, mentre i civili italiani erano costretti a indossare sandali o a camminare scalzi per via della loro miseria, rende bene lo spirito della rivista[7]. Nelle fonti socialiste e comuniste, la derisione dei militari neri si combinò all’idea che le prostitute fossero espressione di una stanchezza morale, del desiderio di una vita più ricca e agiata. L’antiamericanismo di sinistra sfociò in banalizzazioni razziste che furono censurate dalla stampa afroamericana e dal giornale militare statunitense Stars and Stripes.
Tombolo racchiudeva le tensioni del dopoguerra: l’avvento dell’egualitarismo democratico insieme alla forza dei cliché discriminatori, l’antifascismo patriottico unito a un antiamericanismo corrosivo, fruibile sia da sinistra che da destra. Non solo: dalla bonifica di quell’anti-Italia passava l’emarginazione di un’umanità degenerata, composta da donne immorali, coi loro amanti afroamericani e una nutrita platea di criminali. Questo sacrificio sarebbe stato fondamentale per riaffermare l’onore e la bianchezza nazionale, lasciando alle spalle le colpe del fascismo, le rovine della guerra e l’onta di una sconfitta che la permanenza dell’alleato invasore rendeva palpabile (e talvoltun insopportabile). Proprio all’ombra di queste contraddizioni nasceva un mito profondamente evocativo, destinato a riemergere nei vari percorsi della memoria.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA

  1. Aldo Santini, Tombolo, Milano, Rizzoli, 1990, p. 7.
  2. Cfr. Chiara Fantozzi, L’onore violato: stupri, prostituzione e occupazione alleata (Livorno, 1944-47), «Passato e Presente», 34, 99, 2016, pp. 87-111; Vinzia Fiorino, Smarrimenti e ricomposizioni. Il dopoguerra a Pisa 1946-1947, Pisa, Ets, 2012, pp. 39-41; Charles L. Leavitt IV, The Forbidden City: Tombolo between American Occupation and Italian Imagination, in Guido Bonsaver, Alessandro Carlucci e Matthew Reza (a cura di), Italy and the USA: Cultural Change Through Language and Narrative, Cambridge, Legenda, 2019, pp. 143-155.
  3. Così nella recensione di Silvio Bertoldi, Quella torbida leggenda delle «segnorine» di Tombolo, «Corriere della sera», 24 maggio 1990, p. 5.
  4. Chiara Fantozzi, Raccontare Tombolo. Prostituzione di guerra e confini della cittadinanza nella transizione alla democrazia, «L’italianista», 38, 3, 2018, pp. 418-432;
  5. Silvana Patriarca, Il colore della repubblica. «Figli della guerra» e razzismo nell’Italia postfascista, Einaudi, 2021.
  6. Indro Montanelli, C’è un pazzo che urla nella pineta, «Nuovo Corriere della Sera», 30 marzo 1947, p. 3.
  7. Curzio Malaparte, Deux Chapeaux de paille d’Italie, Parigi, Les Editions Denoël, 1948, p. 54.
  8. Scarpe, «Il Pettirosso», 4-11 febbraio 1945, p. 1.



Nel Centenario della Marcia su Roma… aria di revoca… a Montecatini Val di Cecina

Venerdì 28 ottobre 2022 il Consiglio comunale di Montecatini Val di Cecina ha votato all’unanimità la revoca della “Cittadinanza onoraria” conferita a Benito Mussolini l’11 maggio 1924[1] e la rettifica delle denominazioni di “Piazza della Repubblica” e di “Via Ettore Muti”, as-segnate dal commissario prefettizio il 20 novembre 1943[2].
Deliberazioni poi mai revocate, di cui siamo venuti a conoscenza fortuitamente durante il riordi-no, tuttora in corso, delle carte dell’Archivio storico comunale, in precedenza pressoché inaccessibile alla consultazione e mancante di gran parte del materiale documentario risalente proprio al Ventennio.
Tant’è che, ad esempio, la documentazione relativa al conferimento della “Cittadinanza onoraria a Mussolini”, non essendo più disponibile il Registro delle Delibere di Consiglio dell’anno 1924, è stata rinvenuta per puro caso all’interno del faldone contenente il Carteggio del 1930.
Si tratta, appunto, della Deliberazione[3] che faceva seguito all’invito inoltrato ai Comuni, tramite i prefetti, dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo affinché le Amministrazioni riconoscessero il Capo del Governo “Cittadino onorario” entro il 24 maggio 1924, IX Anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nonché giorno d’insediamento del nuovo Governo (due settimane dopo sarebbe stato assassinato Giacomo Matteotti).
Non sappiamo se unanime, ma grande fu sicuramente l’adesione da parte dei Comuni. Nel caso nostro, a differenza di altre Amministrazioni della Provincia di Pisa, nelle motivazioni del confe-rimento, oltre all’esaltazione della figura del Duce, è possibile riscontrare un evidente risentimen-to ed un senso di rivalsa sull’egemonia socialista iniziata nel lontano 1895. Ma questo è possibile semmai constatarlo consultando il testo della delibera e gli articoli pubblicati nell’occasione sia su “Il Corazziere”[4] sia su “l’Idea Fascista”[5].

A Montecatini le elezioni amministrative del 7 gennaio 1923 sancirono la vittoria della lista fasci-sta che «grazie all’instancabile operosità del Commissario Prefettizio sig. Giulio Malmusi del Fa-scio di Pisa […] ebbe unanime approvazione conquistando maggioranza e minoranza»[6].
La nuova Amministrazione, che faceva seguito a quella socialista eletta il 19 settembre 1920 e di-missionaria dai primi di novembre 1922, non aveva quindi opposizione ed era composta da fa-scisti della prima ora, da ex combattenti e da nazionalisti aderenti al fascismo immediatamente dopo il 28 ottobre, data fatidica che procurò un repentino “mutamento di idee” ed una massiccia iscrizione al Fascio.
Oltre ad una forte rappresentanza del cosiddetto notabilato paesano, per anni relegato ad un ruolo marginale nella politica locale, a far da gregariato nella composizione del Consiglio troviamo ex socialisti massimalisti ed esponenti del sindacalismo rivoluzionario, alcuni dei quali era-no stati protagonisti della Marcia su Roma mentre altri aderirono al PNF giusto in tempo per es-sere annoverati tra i fascisti antemarcia, tramite opportuno ravvedimento pubblico[7].
Nel fervore iniziale, la Giunta guidata da Anselmo Tonelli, non mise tempo in mezzo e nella seduta di insediamento deliberò l’adesione alla Federazione dei Comuni Fascisti[8]; mentre nella riunione del 23 aprile 1923[9], fu stipulato l’abbonamento a “l’Idea Fascista”, organo della Federa-zione Provinciale Pisana, su proposta del Sindaco che ne motivò l’utilità in quanto «in detto giornale si pubblicano i resoconti della Federazione dei Comuni Fascisti».
Fu quello un anno ricco di manifestazioni di gaudio e di esaltazione del regime che culminò con l’inaugurazione del Parco della Rimembranza del 4 novembre, preceduta di pochi giorni dalla Commemorazione della Marcia su Roma nel suo primo anniversario. Una grandiosa celebrazio-ne di cui “Il Corazziere” , oltre a farci partecipi dei discorsi del segretario politico della Sezione fascista, Francesco Mori, e del sindaco Anselmo Tonelli che parlò «in assenza dell’oratore ufficiale Prof. Fanciulli» (esponente di spicco dello squadrismo fiorentino, legato al Fascio X di Lar-derello organizzato da Piero Ginori-Conti, fu assai noto per le scorribande punitive anche in Val di Cecina) sull’opera svolta in un anno dal governo nazionale, ci offre uno spaccato del clima di allora, ben manifesto soprattutto nelle parole di don Cesari che, a quanto risulta, officiò più da “prete prefettizio” che da “pastore di anime”.

[…] Suggestiva la Messa al Campo, nuova per Montecatini, detta in Piazza Vittorio Emanuele, apposi-tamente addobbata, alla quale ha partecipato qualche migliaia di persone. Il paese era imbandierato e molte abitazioni elegantemente addobbate con drappi e arazzi.
[…Dalla Piazza del Municipio (Piazza Garibaldi); n.d.r.] il corteo per Via XX Settembre raggiunse Piazza Vittorio. Dopo l’attenti con la tromba l’arciprete inizia la Messa. Al Vangelo pronunciò un ispirato di-scorso di circostanza esaltante l’opera del Capo del Governo, il sublime sacrificio dei Caduti Fascisti, morti per un grande ideale, per una causa santa: la salvezza dell’Italia dal nemico interno che voleva ri-durre la Patria nostra come fu ridotta la Russia dal bolscevismo […].

Il 1924 si aprì invece con un altro evento di grido: l’annessione di Fiume. Alla notizia della firma del Trattato Italo Jugoslavo del 27 gennaio, a quel che riporta il corrispondente de “l’Idea Fascista”[11], vi fu una vera e propria manifestazione di esultanza per l’avvenimento, con inneggiamenti di piazza a Gabriele D’Annunzio e a Benito Mussolini per aver restituito Fiume all’Italia. Nella Sala del Consiglio «i signori Mario Mori (Segretario politico della Sezione Arditi; n.d.r.), Cav. Anselmo Tonelli, Sindaco e Tertulliano Borri[12], Segretario Comunale […] esaltarono l’opera illumi-nata del Capo del Governo, i Legionari volontari la cui gloria soltanto ora è riconosciuta e valo-rizzata ed ebbero parole di fuoco verso i governanti del passato che col loro nefasto po-li[ti]cantismo tradirono la Città olocausta».
Una dialettica politica segnata dal delirio populista, cui da tempo anche noi abbiamo purtroppo dovuto abituarci.
La partecipazione e l’esultanza per l’avvenimento fu talmente grande che – prosegue il corrispondente Marino Bartolini – «per acclamazione fu approvato l’invio del seguente telegramma a S.E. Mussolini: Popolazione montecatinese dopo manifestazione tripudio per annessione di Fiume sente dovere inviare eccellenza vostra sensi devozione ammirazione sagace opera vostra di Governo. Sindaco Tonelli».
In un contesto simile è facile comprendere perché Montecatini, noto per le sue lontane tradizioni socialiste, risultò tra i Comuni più solerti della provincia di Pisa a conferire la cittadinanza onora-ria a Mussolini, precedendo in quella “rincorsa simbolica” la città di Pisa, seduta del 23 maggio[13]; Pontedera, 22 maggio[14]; e altre località come Volterra, 16 maggio 1924.
Vale la pena, credo, riportare parte della Deliberazione del Consiglio comunale dell’11 maggio 1924[15].

Adunanza del giorno 11 Maggio 1924 di 1a convocazione
Oggetto: Conferimento della cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini.
L’anno millenovecentoventiquattro e questo giorno undici del mese di Maggio, alle ore 10,30 in Monte-catini, nella sala delle adunanze […] si è riunito il consiglio Comunale […] Assiste il sottoscritto (Tertul-liano Borri) Segretario per le funzioni di legge […]

Su proposta del Sindaco Cav. Anselmo Tonelli
a sua Eccellenza l’On. Benito Mussolini, Capo del Governo Nazionale, Duce del Fascismo, artefice primo dei più grandi immancabili destini della Patria, valorizzatore della Vittoria, assertore della sacra civiltà latina, che prepara con mano sicu-ra, con cuore ardente, con volontà tenace, la nuova grandezza della Patria Italiana
IL CONSIGLIO COMUNALE,
nella prossima ricorrenza del 24 Maggio
memore, fedele, devoto
a piena entusiastica unanimità
CONFERISCE
la Cittadinanza Onoraria del Comune di Montecatini Val di Cecina, e dà mandato al Sindaco di effettuarne la partecipa-zione mediante un telegramma da esso proposto e così concepito:

«Eccellenza Mussolini,
Civico consesso Montecatini Val di Cecina, adunato Consiglio Comunale, constatato il lavacro elettorale alla fama trentennale sovversivismo questo Comune, riaffermando devozione Governo Nazionale, ammiratore vostre magnifiche doti di Duce e di Capo del Governo Nazionale, seguendo esempio capitale, decreta entusiasto conferimento vostra Eccellenza cittadinanza ono-raria. Sindaco Tonelli»

Tutto il Consiglio in piedi, applaude lungamente al Capo del Governo con entusiastica associazione del pubblico presente. Dal che si è redatto il processo verbale.
Il Presidente: Cav. Anselmo Tonelli – L’Anziano: Orzalesi Adon Noè – Il Segretario: Borri Tertulliano

Ettore Muti

Da notare che in calce all’estratto della Delibera, anch’esso convalidato dal sottoprefetto di Volterra, è riportata la seguente annotazione, alquanto bizzarra ma forse perfettamente in linea con i tempi: «Si dà atto che tutti gli altri Consiglieri assenti dalla adunanza hanno aderito alla presente deliberazione».
Ovviamente dopo la Liberazione erano ben altre le problematiche da risolvere, poi, come spesso accade, il trascorrere del tempo affievolì la memoria o più probabilmente indusse alla rimozione di certi episodi del passato che, a vario titolo, vedevano coinvolti non pochi concittadini che magari nel frattempo con una certa disinvoltura erano abilmente passati a galleggiare se non a sguazzare in acque diverse. Dalle carte in nostro possesso non risulta infatti che la Cittadinanza sia mai stata revocata.
Da qui – senza retropensiero alcuno ma certi delle garanzie offerte dal nostro sistema democrati-co e consapevoli di non trovarci attualmente nelle condizioni in cui versava l’Italia nel primo do-poguerra – la proposta che proprio nel giorno del Centenario della Marcia su Roma, data assai significativa della Storia d’Italia, il Consiglio fosse chiamato a valutare l’opportunità della revoca.
Sappiamo bene che non è possibile disconoscere o mutare la storia (certamente non potrà farlo un atto simbolico a distanza di un secolo).
Ma dovremmo anche sapere che indagare e prender coscienza del nostro passato può aiutare a comprendere e gestire meglio il presente e ad affrontare il futuro con maggior consapevolezza. Nell’esprimersi a favore dell’annullamento di quanto deliberato l’11 maggio 1924, il Consiglio ha colto anche l’opportunità di rafforzare quel comune sentimento di antifascismo che è il principio cardine della nostra Costituzione.
Analogamente, nella medesima riunione consiliare, è stata accolta anche la proposta di rettifica delle denominazioni di Piazza della Repubblica e di Via Ettore Muti (novembre 1943) che rap-presentarono, forse, l’ultimo atto di esaltazione fine a sé stesso di un regime agonizzante.
Una denominazione che tuttavia andò ad assumere (per i successivi 79 anni) un sapore beffardo per la comunità montecatinese, la cui piazza principale era ancora ufficialmente dedicata non alla nostra Repubblica Democratica che prese vita il 2 giugno 1946, ma a quella che fu la Repubblica Sociale Italiana o di Salò. Il disorientamento generale che fece seguito agli eventi del 25 luglio e poi dell’8 settembre 1943, non risparmiò neppure l’Istituzione prefettizia di Pisa[16] .
Dopo la caduta del fascismo e le conseguenti dimissioni del podestà Francesco Mori, il prefetto badogliano Ferdinando Flores, designò Lino Sinicco commissario prefettizio di Montecatini. A seguito poi degli eventi dell’8 settembre fu nominato prefetto di Pisa Francesco Adami, ex con-sole della Milizia nonché fondatore del Fascio repubblicano, che si rese protagonista di atti di violenza, intimidazioni e arresti indiscriminati, tanto da essere ben presto rimosso da tale carica dallo stesso suo patrocinatore, ossia il «Ci penso io» pisano allora ministro dell’Interno, Guido Buffarini Guidi[17].
Adami, nel breve tempo che rimase in carica, nominò commissario del Comune di Montecatini il ragionier Vincenzo Paglianti, fascista della prima ora di Orciatico/Lajatico, un duro e puro assurto ben presto ad incarichi di un certo prestigio, poi esponente non di secondo piano del Fa-scio Repubblicano di Volterra: personaggio, insomma, ad immagine e somiglianza dell’Adami stesso[18].
Questi, immediatamente prima di essere rimosso e sostituito da Oreste Giglioli, con Delibera del 20 novembre 1943[19], in omaggio al «Nuovo Stato Repubblicano» provvide a variare la denomi-nazione di Piazza Vittorio Emanuele in Piazza della Repubblica, che tale sarebbe rimasta, senza alcuna rettifica, anche dopo il 2 giugno 1946.
Non solo, intitolò anche un tratto di Via Roma[20] a Ettore Muti[21]. Fino dai primi di settembre la propaganda fascista presentò Muti come un martire, tanto che a Roma gli fu subito dedicata una piazza. Dedica che avvenne poi in molti Comuni, senza però entrare mai nell’uso comune (Montecatini fu liberato 7 mesi dopo), tanto che Via Roma, pur permanendo l’ufficialità della Delibera commissariale, in pratica non perse mai la denominazione originaria.

I nostri Consiglieri, con la rettifica delle suddette denominazioni – decisione democraticamente valutata e da tutti condivisa – hanno inteso prodigarsi in un segnale simbolico ma non demagogico che restituendo verità e dignità storica al nostro Comune, potesse contribuire a rafforzare l’identità locale, in ossequio ai valori espressi dalla Carta costituzionale dai quali non possiamo prescindere.
Come di consueto, nonostante la particolarità degli argomenti all’ordine del giorno, il Consiglio comunale riunito in sessione straordinaria si è tenuto in pressoché totale assenza di pubblico.
Probabilmente non lo ravvisiamo, ma la mancanza di partecipazione e di attenzione per ciò che esula dal privato, sicuramente ci rende meno liberi.

[…] Vorrei essere libero come un uomo

Come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia

Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà

La libertà
non è star sopra un albero
non è neanche avere un’opinione
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione […].

Forse attratti da altro, rinunciamo spesso e con facilità a quella libertà cantata da Giorgio Gaber[22], i cui versi, che prendono ispirazione dalla riflessione filosofica di Rousseau, avevano un tempo suggestionato e teoricamente risvegliato le coscienze di molti. Ma partecipare, lo sappia-mo bene, è un esercizio che porta via testa, tempo e denaro, cosicché finiamo frequentemente per delegare altri a rappresentarci nelle nostre istanze e nei nostri pensieri, accontentandoci di un modo diverso di sentirsi liberi.
Consci di vivere da anni una fase storica socialmente buia, dobbiamo comunque sperare che, in mezzo a sì tanta disaffezione e disimpegno, quel segnale scaturito dal Consiglio comunale del 28 ottobre sia stato in qualche modo recepito con lo stesso spirito che ha caratterizzato la discussio-ne nella medesima seduta.
Per ricordare tale evento e dar maggior risalto a quanto deliberato all’unanimità nel Consiglio comunale del 28 ottobre scorso, giorno in cui altrove, con anacronistiche parate e senza remora alcuna, veniva celebrato il Centenario della Marcia su Roma, abbiamo pensato che presentare e distribuire un piccolo volume inerente all’argomento, fosse il modo migliore o più opportuno per onorare i valori ereditati dall’antifascismo nell’anno del 75° Anniversario dell’entrata in vi-gore della Costituzione (1° gennaio 1948). Una correlazione tra due date storiche – 28 ottobre (1922) e 25 aprile (1945) che determinarono l’inizio e la fine dell’era fascista con la Liberazione e, grazie anche all’indubbio contributo della Resistenza, l’avvio di un nuovo percorso democratico.

NOTE:

[1] Si veda il mio A proposito del concittadino Benito Mussolini, in “La Spalletta” del 4 giugno 2022.

[1] Si veda il mio «Una piazza, un nome, due significatiPiazza della Repubblica… Si, ma quale Repubblica?», in “La Spalletta” del 10 settembre 2022.

[1] Archivio Storico Comunale di Montecatini V.C. [ASCMVC], Delibera di Consiglio n. 138 dell’11 maggio 1924.

[1] “Il Corazziere”, a. XLIII, n. 22, 1° maggio 1924.

[1] “l’Idea Fascista”, a. IV, n. 20, 20 maggio 1924.

[1] “Il Corazziere”, a. XLII, n. 2, 14 gennaio 1923; su Malmusi, fascista pisano tra i più esagitati, rimando al mio articolo, L’avvio del Ventennio a Montecatini, in “La Spalletta”, 4 dicembre 2021.

[1] Si veda, ad esempio, “l’Idea Fascista”, a. I, n. 29, 8 ottobre 1922.

[1] ASCMVC, Deliberazioni di Giunta 1921-1926, Del. 18, 11 febbraio 1923.

[1] Ibid…, Del. n. 114.

[1] “Il Corazziere”, a. XLII, n. 44, 4 novembre 1923.

[1] “l’Idea Fascista”, a. IV, n. 5, 3 febbraio 1924.

[1] Tertulliano Borri, il cui incarico era stato ratificato nella seduta consiliare del 18 novembre 1923, ricopriva allora la carica di decurione della MVSN. Addivenuto nel 1926 alla funzione di Commissario di PS, per fatti risalenti al 1935, Borri (Montalcino, 1899 – Cagliari, 1952) nel 1941 fu condannato dal Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato a 30 anni di reclusione per tradimento – «con la minorante del vizio parziale di mente»: venne evidenziata la «strana condotta tenuta dal Borri sin da ragazzo e nel corso del primo conflitto mondiale (fu decorato al V.M. e quindi congedato con il grado di capitano)» e lo si descrive con il dubbio che fosse stato un «ingenuo e nevrotico funzionario patriottico in cerca di gloria e di promozioni, o un nemico dello Stato» –, quindi, nel giugno 1944, venne scarcerato e deportato in Germania per poi essere rimpatriato nel dicembre 1945.

[1] “l’Idea Fascista” del 25 maggio 1924.

[1] “l’Idea Fascista” del 15 giugno 1924.

[1] ASCMVC, Deliberazioni del Consiglio comunale, Del. n. 138, 11 maggio 1924.

[1] In merito, si veda Alberto Cifelli, L’Istituto prefettizio dalla caduta del Fascismo all’Assemblea Costituente. I Prefetti della Liberazione, Roma, Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, 2008, http://www.ssai.interno.it

[1] Il più estremista e filotedesco dei ministri della Repubblica Sociale Italiana – non estraneo neppure all’eccidio delle Fosse Ardeatine – inviso persino a Mussolini che a fine 1944 lo dimissionò. Con il 25 aprile, dopo aver tentato inutilmente di convincere Mussolini a seguirlo nella fuga in Svizzera, fu arrestato alla frontiera mentre cercava, appunto, di mettersi al sicuro in terra straniera. Condannato a morte da una Corte d’Assise straordinaria, dopo un tentativo fallito di suicidio venne poi giustiziato nel luglio 1945: fu questa l’unica esecuzione delle 35 condanne emesse dalla Corte.

[1] Una cospicua biografia di Paglianti è riportata da Alberto Simoncini nel volume Dal Rosso al Nero, Peccioli, Grafitalia, 2022.

[1] Delibere commissariali n. 1291 e n. 1292 del 20 novembre1943, da ASCMVC, “Libro Delibere Podestà e Giunta 1941-1951”.

[1] Da notare che la denominazione Via Roma era stata assegnata (a Via delle Miniere) nel 1931, per soddisfare la disposizione di Mussolini (1° agosto 1931/IX) di intitolare una via non secondaria dei capoluoghi alla Città Eterna (Culto di Roma: 21 aprile del 753 a.C. Natale di Roma = Festa del Lavoro, dal 1924 in luogo del Primo Maggio).

[1] A Ettore Muti fu intitolato il tratto di Via Roma che dall’incrocio con Via Sant’Antonio conduce fino al Ponte. Fascista della prima ora, eroico aviatore in tutte le guerre del Ventennio, politico, già segretario del PNF, Muti fu ucciso il 24 agosto a Fregene dai Carabinieri mentre cercava di sfuggire all’arresto che, a quanto sembra, si era reso necessario essendo stato segnalato come facente parte di un complotto di fascisti e tedeschi per un attacco su Roma da tenersi il 28 agosto.

[1] Giorgio Gaber, La Libertà, dall’album “Dialogo tra un impiegato e un non so”, Tracce, 1972-1973.

L’articolo è tratto dal volume curato da Rosticci, Un Consiglio comunale particolare, presentato e distribui-to in occasione della ricorrenza del 25 Aprile 2023.
Una manifestazione “un po’ fuori dall’ordinario”, senza la presenza esclusiva dell’oratore di tur-no ed il rituale delle ridondanti frasi di circostanza ma con il coinvolgimento diretto dei giovani, svoltasi nella Sala del Consiglio del Comune di Montecatini Val di Cecina (Pisa) al cospetto di un pubblico insolitamente numeroso.
Forse siamo riusciti a coinvolgere, ad appassionare la gente comune, a renderla, una volta tanto, “protagonista” di una cerimonia che, come di frequente accade, non risulta che fine a sé stessa. E sappiamo bene che le ricorrenze di facciata a lungo andare disamorano, rivelandosi spesso assai più utili al presenzialismo, alla visibilità del personaggio (di solito un politico) chiamato a far da primo attore, che non alle finalità istituzionali.




Lavoratori di tutto il mondo unitevi

Nella notte fra il 3 e il 4 marzo 2022 il mondo è rimasto con il fiato sospeso alla notizia del bombardamento russo della centrale nucleare di Zaporizhzhia, in Ucraina, una fra le più grandi d’Europa. Un evento che ha suscitato sdegno, timori, ansie e paure apocalittiche, anche sulla scorta della memoria del disastro di Cernobyl del 1986, sempre in Ucraina. Ma una notizia che in Toscana, per la precisione a Pistoia, ha anche risvegliato molti ricordi e senso di vicinanza e solidarietà alla popolazione colpita dalla guerra, che si sono concretizzati in una serie di telefonate e messaggi al segretario provinciale della Camera del lavoro CGIL. Con il corso della storia cambiano gli stati, i confini, i sistemi di traslitterazione dall’alfabeto cirillico a quello latino, ma non erano in pochi a capire subito che si trattava proprio di quella città a lungo gemellata con il sindacato pistoiese e al tempo dell’Unione sovietica nota in Italia con il nome di Zaporojie (o con sue varianti quali Zaparojie, Zaporojki…). Chi si faceva vivo intendeva segnalare le proprie emozioni nel sentire il nome di quel luogo carico di ricordi associato all’immane tragedia della guerra, ricercando al tempo stesso tracce di quella storia e di quella memoria. Tracce che fortunatamente sono ben custodite nell’archivio storico della Camera del lavoro di Pistoia gestito dalla Fondazione Valore Lavoro, dove è conservata un’intera busta titolata proprio Zaporoje URSS, che conserva tutti i documenti del gemellaggio
Si tratta di una vicenda di cui fu promotrice proprio la CGIL locale nel 1969. Era la vigilia dell’Autunno caldo e in Italia già si respirava l’aria delle mobilitazioni degli anni Settanta, mentre nel mondo continuava il processo di decolonizzazione. L’internazionalismo, l’amicizia fra i popoli, l’unità dei lavoratori erano temi molto sentiti. L’occasione fu data da un incontro fortuito fra il Segretario della CGIL di Pistoia Giuliano Lucarelli e la delegazione dei sindacati sovietici, fra cui il Segretario generale Nicolai Romanov, al congresso nazionale della Confederazione a Livorno nel giugno di quell’anno. A seguito di uno scambio reciproco informale di disponibilità ad ospitare delegazioni sindacali, il 19 giugno e il 2 agosto Lucarelli scrisse a Mosca a Romanov per finalizzare l’accordo, allegando una scheda descrittiva sulla provincia di Pistoia con specificati i settori industriali presenti e lasciando la scelta della città da gemellare ai sovietici, dichiarando al contempo la volontà dei pistoiesi di ospitare per primi la delegazione in visita. Lucarelli aggiungeva anche che di recente un sindacalista pistoiese, Angiolo Mungai, si era recato in visita in URSS ospite dei sindacati delle istituzioni di Stato, tornando entusiasta dell’esperienza vissuta[1]. Il 12 agosto da Mosca veniva comunicato che il Consiglio dei sindacati di Zaporoje aveva risposto favorevolmente alla richiesta dei pistoiesi[2]. Ne nasceva uno scambio epistolare tra l’organizzazione di Pistoia e quella di Zaporojie, con il francese usato come lingua franca, che si prolungava per alcuni mesi, con alcuni ritardi nelle risposte dovuti anche, come apprendiamo da una lettera di Lucarelli del 14 aprile 1970, «à l’intense développement des luttes ouvriéres en Italie ces derniers mois».
Alla fine la prima delegazione sovietica da Zaporojie arrivò il 2 luglio 1970. Nel dare notizia della visita a enti locali, associazioni ed aziende del territorio la CGIL fornì anche una descrizione della città gemellata attraverso l’opera sindacale: «La regione di Zaporojié che si estende su un territorio di 27mila kmq con una popolazione di 1 milione e 700mila abitanti, è un importante centro industriale nel Sud dell’Ucraina ai confini con la Crimea. La città omonima, che conta 650mila abitanti, oltre che grande centro industriale è un importante centro culturale e di istruzione altamente qualificato. L’acciaieria di Zaporojié produce 4 milioni e mezzo di tonnellate di acciaio all’anno e oltre 3milioni di tonnellate di laminati e profilati destinati alle industrie ferroviarie, trattoristiche, automobilistiche. Occupa 17mila operai (di cui 6.000 donne) 1.400 ingegneri e tecnici, 500 impiegati. Un altro colosso è la “Zaporojski Transpormaber Zavod”, che produce attrezzature elettriche e soprattutto trasformatori per 50 milioni di Kilovolts-ampere all’anno. La sua manodopera, in larga parte formata da giovani e ragazze, è costituita da 12.000 operai e 2.300 tecnici e impiegati. Anche l’agricoltura è altamente sviluppata. Zaporojié è un importante centro culturale con 135 scuole generali dell’obbligo con 10 anni di frequenza, 10 Istituti Tecnici e Facoltà di Ingegneria, di Medicina, di Pedagogia, di Ricerca scientifica ecc. Nella città vi sono 128 Biblioteche, 30 cinema, studio televisivo, il Palazzo della Cultura ecc.» [3].
Il programma della visita, che si prolungò fino all’11 luglio, non trascurava niente e portava i sovietici a stretto contatto con il territorio. Furono invitati ad incontrare la delegazione gli altri sindacati, CISL e UIL, i partiti PCI, PSI e PSIUP, l’ARCI[4], furono richiesti materiali per organizzare visite alle bellezze artistiche della città all’Ente provinciale per il turismo, si chiese a Renato Risaliti, storico dell’URSS e dell’Europa orientale ed al tempo impegnato anche nella politica locale, di fornire la sua opera di conoscenza linguistica[5] , furono organizzati gli incontri con i comuni e la Provincia e con le aziende del territorio ed anche ì colazioni con le diverse case del popolo, fra cui quella del Teso sulla montagna[6]. Di numerose aziende disponiamo della risposta positiva ad accogliere la delegazione: Arco di Montecatini (confezioni); Unione cooperativa della Valdinievole; Fratelli Capecchi piante[7]. Dal programma sappiamo anche che la delegazione visito la Supercoop di Montecatini, le municipalizzate ad Agliana, la centrale del latte, il centro riconversione rifiuti solidi, lo zoo, l’azienda Franchi, la cooperativa Di Vittorio, l’oleificio cooperativo di Lamporecchio. La SMI rispose freddamente comunicando di aver trasmesso l’invito alla propria Direzione generale[8], poi se ne perdono le tracce. La Breda invece si rifiutò di accogliere la delegazione nel proprio stabilimento, provocando la reazione ferma della CGIL che scrisse all’Intersind accusando la Direzione aziendale di addurre motivi fittizi[9]. Nel saluto alla delegazione, ricevuta in Camera del lavoro, Lucarelli rivendicava le lotte dell’autunno del ’69 che avevano coinvolto numerose categorie anche localmente e rilanciava l’unità internazionale dei lavoratori per la pace e contro il capitalismo e l’imperialismo: «È con questa visione internazionalista e di unità del movimento operaio internazionale , che abbiamo voluto allacciare rapporti fraterni con i rappresentanti dei sindacati di Zaparojié per conoscersi più a fondo, nell’intento di contribuire tutti assieme alla battaglia generale che i lavoratori di tutto il mondo conducono per la pace, contro l’imperialismo, contro le forze totalitarie e fasciste, per l’emancipazione dei lavoratori, la libertà dallo sfruttamento capitalistico»[10].
Nel 1972 fu la volta della visita dei pistoiesi a Zaporoije. Inizialmente doveva svolgersi nel 1971 ma un’improvvisa e grave malattia di Lucarelli – che in seguitò venne a mancare – fece saltare il viaggio. Nonostante la grave perdita del promotore del gemellaggio l’iniziativa andò avanti e la delegazione che si recò in URSS nel 1972 fu composta anche da un rappresentante della CISL, Sauro Gori, su esplicita richiesta dei sovietici di includere gli altri sindacati italiani[11], e fu guidata da Silvano Cotti, nuovo segretario della Camera del lavoro. Il gruppo, composto anche da Duilio Puccianti del consiglio di fabbrica della SMI e da Paolo Innocenti della FILLEA di Montecatini, arrivò in URSS il 30 agosto. La stampa sovietica diede risalto alla visita dei sindacalisti italiani. Oltre ai consueti incontri nelle sedi sindacali, la delegazione fu portata a visitare la diga sul Dnepr, i servizi sociali, la palestra sul ghiaccio, l’acciaieria, le case di riposo, i centri culturali, i gruppi di pionieri, i servizi sanitari, incontrò il sindaco, si recò sul mare d’Azov dove visitò anche un sovchoz e un asilo. Tra le altre, il gruppo visitò anche un’azienda dove venivano prodotti i materiali oleosi per lo stabilimento FIAT di Togliattigrad. Durante la permanenza uno degli italiani, Puccianti, si ammalò e venne ricoverato in una clinica sovietica, dove rimase in osservazione per diversi giorni essendogli stati diagnosticati problemi renali seri che vennero curati in loco. Di conseguenza il Puccianti rientrò in Italia successivamente al resto del gruppo. In una lettera inviata a Pistoia durante la degenza esprimeva una valutazione che racchiudeva tutte le speranze che ancora buona parte degli operai italiani riponevano nell’URSS a quel tempo: «vi dirò che i medici sono sorpresi che nelle attuali condizioni fisiche si possa ancora essere operai metalmeccanici, anche se valutiamo tutta l’attenzione ed il valore che essi danno della persona e dell’uomo, e non come da noi dopo la macchina»[12].
La soddisfazione della delegazione italiana per la visita fu tale che il 30 settembre il Cotti inviò una lettera al sindaco di Pistoia, il comunista Francesco Toni, per invitarlo a prendere in considerazione un gemellaggio anche istituzionale con Zaporojie, rispetto al quale il sindaco della città ucraina aveva già dimostrato a voce un interesse[13].
Negli anni successivi i rapporti fra i sindacati di Zaporoje e quelli di Pistoia andarono avanti. Lo scambio di auguri in occasione del Primo maggio, del nuovo anno ed anche per le feste della Liberazione divenne abituale e furono organizzati nuovi scambi. Nel 1973 i pistoiesi invitarono nuovamente i sovietici per il 1974, questi ultimi si resero disponibili a tornare nel 1975[14]. La seconda visita avvenne nel mese di settembre per esplicita volontà della Camera del lavoro che voleva far partecipare i sindacalisti sovietici alle celebrazioni della Liberazione di Pistoia l’8 settembre. La visita però, inizialmente prevista dal 4 all’11 del mese, all’ultimo momento slittò al 18-25 settembre. Da un appunto manoscritto sappiamo che Sanguinetti dell’ufficio internazionale della CGIL a Roma aveva indicato per quell’occasione di «avere con sindacati sovietici rapporto più vivace aderente alla nuova realtà internazionale. Cile, Portogallo, cosa facciamo…? Porre esigenza che nei rapporti – a livello internazionale – fra CGIL e sindacati sovietici, si esca dal semplice formalismo degli “evviva” e si istauri rapporto più politico, che affronti problemi “nuovi” che emergono nel mondo»[15]. La delegazione era composta da Petr Pavlov, segretario regionale, Victor Kazatchovsky, presidente comitato sindacale dell’azienda Azovcabel, e da Nicolai Medvedkov. Fu organizzata anche una visita a Collodi al Parco di Pinocchio, circostanza che alcuni mesi dopo diede luogo alla donazione al Parco delle edizioni in lingua russa delle Avventure di Pinocchio, a quanto pare molto diffuse in Unione sovietica[16]. Nonostante il ritardo rispetto alle celebrazioni resistenziali, in quell’occasione fu comunque organizzata una visita nel paese di Agliana al monumento dedicato al partigiano sovietico Ivan Baranovskij, nome di battaglia Paolo, combattente della Brigata Bozzi caduto in quella località, una visita alla Breda – che questa volta non si negò – con un incontro con il Consiglio di fabbrica e un incontro con gli operai della Ital Bed in “assemblea permanente” da diversi mesi[17]
La delegazione pistoiese tornò in URSS nel 1978, questa volta composta da Graziano Battiloni della segreteria CGIL, Floriano Frosetti del consiglio di fabbrica Breda e Marcello Vettori del sindacato enti locali[18]. Nel consueto discorso di saluto, oltre ai temi all’ordine del giorno del programma sindacale che venivano sempre richiamati, Battiloni ricordò Baranovsky ed enfatizzò in più occasioni il successo elettorale delle sinistre, e del PCI in particolare, alle elezioni politiche del 1976[19].
Nonostante l’uscita della CGIL dalla Federazione sindacale mondiale (FSM) legata all’URSS in favore dell’adesione alla Confederazione europea dei sindacati (CES) a fine anni Settanta, nel novembre del 1980 una nuova delegazione sovietica giungeva a Pistoia, composta da Juri Vladimirovc Efrenov e Valentin Vassilievic Podporin. Il discorso di saluto di Battiloni era però molto diverso da quegli degli anni Settanta. L’accento si spostava dalle lotte operaie e dalla vicinanza con il paese della rivoluzione del ’17 ai temi della politica internazionale del tempo, assicurando l’azione di contrasto alla guerra fredda e di sostegno alle politiche di disarmo del sindacato italiano, condannando la politica americana in Iran e l’espansionismo israeliano ma sottolineando anche che «gli avvenimenti della Polonia aprono, nella società polacca, importanti possibilità di sviluppo democratico» e che «il sindacato italiano ha espresso, a suo tempo, la contrarietà e il disaccordo per l’intervento sovietico in Afghanistan. Per questo, facciamo un appello perché, attraverso la vostra delegazione sia accelerato il ritiro delle truppe e sia garantito al popolo afghano il diritto a decidere da sé le proprie scelte». Parole forti, che si tentava poi di stemperare richiamando l’amicizia tra gli italiani e il popolo sovietico e la volontà di non rompere il sodalizio anche a fronte di disaccordi su alcune scelte, perché fra amici era lecito rimproverarsi qualcosa[20].
Quella del 1980 fu l’ultima visita. Da lì in poi gli scambi si interrompono. L’archivio tace sui motivi, che tuttavia è lecito ipotizzare vadano ricercati nei mutati rapporti che le parole di Battiloni del 1980 facevano cogliere, nella nuova collocazione internazionale della CGIL ed anche nella situazione particolarissima che l’URSS attraversò nel corso degli anni Ottanta fino alla sua dissoluzione. Tuttavia, almeno per i pistoiesi, sembrava trattarsi di una pausa più che di un addio. Il gemellaggio doveva essersi radicato fra i sindacalisti italiani. Lo testimonia l’ultimo fascicolo della busta d’archivio, titolato 1990 Zaporozhye. Nel clima post ’89 a Pistoia si pensò subito di riallacciare i rapporti di scambio. Ma evidentemente era troppo tardi, il mondo cambiava inesorabilmente, di lì a poco l’URSS cessava di esistere e dei sindacati di Zaporojie si perdevano le tracce. Il fascicolo era destinato a rimanere vuoto, testimone silenzioso di una volontà mai concretizzatasi.
Da quest’ultimo tentativo sono passati più di 30 anni ed è arrivata una centrale nucleare che prima non c’era. Del gemellaggio il ricordo si era affievolito fin quasi a scomparire. Ma non del tutto. La tragica notizia del bombardamento ha spazzato via la polvere che si era depositata su questa vicenda, ed a Pistoia, come già nel 1990, ci si è ricordati della città sulle rive del Dnepr. La Camera del lavoro ha interrogato i propri archivi prendendo spunto da questa amicizia del passato per lanciare un appello pubblico per la pace. Battiloni, ormai anziano, intervistato dai giornali locali ha ricordato con emozione quel tempo e quei viaggi, ed anche i punti di divergenza con i sovietici che erano progressivamente emersi, vivendo con sofferenza i fatti di guerra del presente[21]. Una piccola storia di amicizia internazionale, che continua a scagliarsi contro la grande storia della guerra fra i popoli.
[1] Archivio storico Camera del lavoro CGIL Pistoia, Busta Zaporoje URSS (d’ora in poi ASCGILPT, B. Zaporoje), Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli al Segretario generale dei sindacati sovietici 19 giugno 1969; lettera di Lucarelli a Romanov 2 agosto 1969.

[2] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera del 12 agosto 1969 a firma Sergueev, originale in cirillico copiata in traduzione francese.

[3] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, modello di lettera del 1° giugno 1970.

[4] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere dl 27 giugno 1970.

[5] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere del 26 giugno 1970.

[6] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Programma visita delegazione sovietica Zaparoje’ 30 giugno 1970.

[7] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS.

[8] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera della Società metallurgica italiana del 4 giugno 1970.

[9] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli del 26 giugno 1970.

[10] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Saluto del segretario generale della CCdL di Pistoia alla delegazione dei sindacati di Zaparojié nell’URSS.

[11] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Nedobyvailo a Lucarelli, originale in francese; lettera di Lucarelli alla CISL del 13 aprile 1971; lettera di Lucarelli al Presidente del consiglio dei sindacati di Zaporojie Nedobyvaile del 4 maggio 1971. ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera del 31 luglio 1972.

[12] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, resoconto manoscritto del viaggio; lettera manoscritta di Puccianti del 7 settembre 1972.

[13] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Cotti a Toni del 30 settembre 1972.

[14] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Silvano Cotti a Pavel Nedonuyailo e la risposta.

[15] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), appunto manoscritto. Le sottolineature sono nell’originale.

[16] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), lettera del 9 gennaio 1976.

[17] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), documento Una delegazione dei sindacati sovietici di Zaporojie ospite della nostra provincia.

[18] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, comunicato stampa del 1° agosto 1978.

[19] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, discorso di saluto manoscritto.

[20] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc.1980 Zaporoje URSS delegazione materiale. Documento Battiloni saluto alla delegazione di Zaporoje 24 novembre 1980.

[21] La nazione, 6 marzo 2022; Il giornale di Pistoia e della Valdinievole, 11 marzo 2022.

 

Stefano Bartolini, direttore della Fondazione Valore Lavoro e della rivista “Farestoria”, responsabile degli archivi CGIL Toscana e coordinatore del gruppo dell’AIPH dedicato alla Public History del lavoro. Fa parte della redazione della rivista Il De Martino. Ha pubblicato articoli di approfondimento sulla Public History sulle riviste “Clionet” e “Officina della storia”




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la stessa riuscita della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




Alcune considerazioni sul 100° anniversario della marcia su Roma (1922-2022).

D. – Il centenario della marcia su Roma ha rappresentato un’opportunità per avviare una discussione collettiva a tutto tondo sull’avvento del fascismo e sul ventennio di dittatura, per approfondire questioni e scardinare luoghi comuni troppo a lungo dati per assodati. Tuttavia ci pare che il contesto politico odierno e la concomitanza con le elezioni politiche non abbia contribuito in senso positivo e abbia, per così dire, inquinato la discussione, appiattendo sostanzialmente il dibattito su un allarmistico ritorno del fascismo da un lato e una pervicace apologia dall’altro. Qual è la sua sensazione?

R. – Sono abbastanza d’accordo sulla lettura della discussione in atto sul centenario, su queste due tendenze parallele. Nella storia, come sappiamo, nessun fenomeno politico si ripropone alla perfezione: in questo caso infatti non c’è, a mio parere, nessuna ripetizione del fascismo, seppur sia presente un’apologia molto superficiale, che si affida a luoghi comuni viventi nell’immaginario collettivo.
La mia impressione è che la vera valutazione non può che essere prematura. Abbiamo assistito ad un anno di numerose iniziative e convegni, c’è stato un enorme sforzo collettivo di discussione ed elaborazione sul tema da parte non solo dell’ambiente accademico, ma anche di tutte quelle istituzioni fuori dal circuito universitario, come la rete nazionale dell’Istituto Parri, circoli e associazioni, che da decenni ormai operano con attività di ricerca e divulgazione. Infatti credo che, per quanto siano presenti dei limiti, non sia da sottovalutare questo impulso dato dall’anniversario, che ha portato – com’è naturale – ad allargare il focus dalla marcia su Roma a tutto il ventennio, come pure al periodo del primo dopoguerra, e che per osservare gli effetti sollecitati dai dibattiti si debba attendere qualche anno, o quantomeno aspettare la pubblicazione degli atti.
Oggigiorno abbiamo a disposizione innumerevoli strumenti e possibilità di accesso libero e diretto ad archivi, biblioteche, luoghi di cultura in cui poter confrontarsi con la storia e le sue fonti. È costante l’impegno per scuole, istituti, università libere e della terza età affinché avvenga un processo di professionalizzazione della storia e della sua complessità. Si tratta ovviamente di un continuo tentativo in atto in questo senso per comunicare la storia in modo friendly, per renderla alla portata di tutte e tutti. Quello che mi chiedo quindi, e purtroppo non ho una risposta, è come mai di fronte a questo contesto in cui tutto sommato abbiamo a disposizione materiale, strumenti e possibilità di approfondimento, continui questo fenomeno di edulcorazione di un passato che si preferisce o rimuovere o evocare con tono qualunquistico. E qui c’è un problema che riguarda la politica italiana: il decadimento della preparazione politica, della serietà dell’approccio della classe politica da almeno trent’anni è un processo evidente che, legittimato dai media, ha inciso negativamente nel contrastare quella che abbiamo chiamato la professionalizzazione della storia e della sua fruizione.

D. – Abbiamo attraversato un momento in cui un revival del tema del fascismo ha portato una discreta produzione, spesso accompagnata da una troppo comoda semplificazione degli avvenimenti, da una visione banalizzante – se non proprio edulcorata e mitizzante – e colma di ingombranti rimozioni. Forse attualmente manca una sorta di educazione alla complessità, non nel senso che tutto debba essere raccontato in modo complicato, tutt’altro: una delle missioni degli storici e delle storiche deve essere quella di rendere la disciplina fruibile ad un pubblico ampio, parlando della storia senza omettere le sue sfaccettature, promuovendo sì una semplificazione attraverso una selezione ragionata degli avvenimenti, pur senza creare un racconto rigido di causa – effetto o di date svuotate di significato. Che ne pensa, è possibile invertire questa tendenza ed educare in questo senso alla complessità della storia?

R. – Sarebbe sicuramente un grande obiettivo, di cui a mio avviso potrebbe essere un passaggio fondamentale quello di investire maggiormente sullo studio della storia del XX secolo. La priorità dovrebbe essere quella di promuovere, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, la conoscenza del Novecento, cui purtroppo ad oggi sono dedicate poche ore di didattica e spazio ridotto nei manuali, affinché si permetta a studentesse e studenti di comprendere come elementi del passato condizionino anche il nostro presente.
Credo però che un passo in avanti sia necessario: ci troviamo di fronte ad una situazione in cui la storia è poco conosciuta non solo fra i giovani, per cui forse si potrebbe pensare ad una sorta di educazione permanente alla complessità della disciplina e allo studio, che vada oltre il confine scolastico. Bisognerebbe infatti in qualche modo, educare a contestualizzare il quotidiano in relazione al passato, senza che della storia venga attuato un appiattimento, cui spesso assistiamo da decenni soprattutto attraverso alcune operazioni attuate dai mass media e da parte della politica. Secondo me la storia professionalizzata, e non come rigido accademismo, è da considerare un bene comune; sarebbe d’avanguardia l’insegnamento al valore dei beni comuni e culturali, di quella che possiamo definire come una cultura diffusa, che sappiamo essere oggetto di percorsi innovativi in alcuni istituti.
Dunque l’obiettivo di un progetto politico-culturale per un domani caratterizzato dalla centralità dell’educazione alla complessità, dovrebbe essere quello di superare questo appiattimento che allo stato attuale non può che produrre un senso di smarrimento nella cittadinanza tutta.

Marco Palla, Mussolini e il fascismo. L'avvento al potere, il regime, l'eredità politica, Giunti Editore, 2019D. – Abbiamo già citato i rischi dell’uso pubblico della storia da una parte, e dall’altra della necessità della costruzione di una memoria collettiva basata su ricerche scientifiche portate avanti da storiche e storici. Eppure ci pare che la ricerca storica sia sempre meno finanziata e che l’insegnamento della disciplina sia preso sempre meno in considerazione nel sistema scuola. Secondo lei qual è lo stato di salute della ricerca storica in Italia?
R. – È innegabile che negli anni c’è stata una diminuzione dei finanziamenti per scuola, università e ricerca che ha inevitabilmente portato ad un depotenziamento della conoscenza e della scuola. Purtroppo possiamo affermare che nei decenni passati i governi di orientamenti politici differenti hanno preferito la strada di una cosiddetta razionalizzazione, che si è concretizzata sostanzialmente in tagli, che hanno portato ad un progressivo peggioramento rispetto alla prassi esistente un tempo di una classe dirigente in generale quantomeno sensibile ad ammodernare e ad investire. Ciò ha prodotto, appunto, una decrescita di cui oggi sono facilmente visibili le conseguenze. Probabilmente, e anche questa è una scelta che al momento non mi pare sia presente nell’agenda politica, una soluzione ai definanziamenti potrebbe arrivare dal ridurre anziché aumentare le già ingenti spese militari. Gli archivi, le biblioteche, gli istituti, che promuovono e permettono di fatto la ricerca, hanno altresì bisogno di risorse, sono servizi che devono essere realmente liberi e accessibili e che in quanto tali lo Stato deve garantire alla comunità tutta. Inoltre, fatemi dire una cosa su cui già molti colleghi si sono espressi e su cui sono d’accordo: sono contrario all’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro, per me la scuola deve rimanere un luogo di saperi liberi. Credo fortemente in una scuola gratuita, pubblica, laica, pluralistica e libera da un insegnamento etico ereditato dalla scuola gentiliana fascista.
Per quanto riguarda la realtà universitaria penso sia necessario un ampio cambiamento, ad esempio con una stabilizzazione dei finanziamenti soprattutto per i percorsi post-laurea, lasciando libero spazio a rigorose ricerche innovative nel campo della storia di genere o della storia culturale e provando a scardinare l’attuale concezione della ricerca storica, che sembra irrigidita verso narrazioni militari e di storia della politica. Per far sì che questo avvenga, e che ci sia una vera e propria valorizzazione della ricerca, sono necessarie, appunto, maggiori risorse, che permettano davvero un sostentamento decoroso per giovani ricercatori e ricercatrici. Pensiamo, giusto per fare un esempio, ai dottorati senza borsa che sono stati istituiti recentemente: rappresentano una farsa per cui poi rischia di risultare accettabile soltanto per chi è già in condizione di sostenersi (o essere sostenuto) economicamente.

D. – Ultimamente vari studi, come il volume curato da Ceci e Albanese I luoghi dell’Italia fascista, che fa da corredo al portale da poco consultabile online, hanno evidenziato come ancora oggi siano molteplici le tracce evidenti e concrete di un passato fascista. Non sempre oggetto di commemorazioni, vie, piazze, edifici e monumenti fanno comunque parte della vita quotidiana della cittadinanza e, senza che questa se ne accorga, possono diventare di fatto simboli dei nostri valori (o meglio, disvalori).

R. – Penso che sulla questione della toponomastica l’approccio debba essere complesso e differenziato senza che l’idea sia semplicemente quella di abbattere tutto: alcune cose si possono cambiare con un tratto di penna, altre abbisognano di didascalie o altri strumenti che documentino i segni del passato che la repubblica italiana riconosce; perché il fascismo fa parte della storia d’Italia e non può essere messo fra parentesi né tantomeno dimenticato, va studiato e contestualizzato. Poi questo è un discorso complesso perché oltre ad alcuni monumenti o vie che richiamano direttamente alla simbologia e al fascismo stesso, esistono anche una serie di opere che si rifanno più a movimenti artistici esistenti durante il fascismo che alla sua ideologia, si pensi al razionalismo architettonico. Alla fine credo che sia una riflessione di buon senso quella di Giorgio Candeloro: non tutto quello che è stato costruito, studiato, fatto durante il fascismo va attribuito al fascismo, e al tempo stesso neanche separato da quello che il fascismo è stato. Dall’altra parte ci sono le battaglie, veramente di retroguardia, che fanno le amministrazioni di destra a livello sia nazionale che locale, come quella per non cancellare la cittadinanza onoraria a Mussolini. Questo dovrebbe essere quasi un automatismo, una scelta immediata. Eppure quanti sono oggi i comuni che hanno cancellato questa onorificenza? C’è inoltre da parte di alcune amministrazioni locali addirittura la promozione di nuove celebrazioni con statue e intitolazioni a presunti patrioti italiani, che in realtà non sono altro che parte della classe dirigente fascista, si pensi ad esempio al busto di Graziani nella sua città natale.
Quindi direi che è importante contestualizzare, differenziare, per decidere quali dei lasciti del fascismo mantenere e quali no, coinvolgendo la cittadinanza e cercando di rendere visibile e comprensibile ciò che conserviamo, magari interpellando anche storici ed esperti. Azzardo in aggiunta un’ultima considerazione riguardo le leggi razziali: oggi nel 2023 non c’è stato alcun risarcimento reale per le comunità ebraiche, i cui membri furono espulsi dall’ambito civile. Questo sarebbe un atto di civiltà minimo.

Ghezzano (PI), 30 gennaio 2022

**Caterina Carpita dottoranda dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale e Teresa Catinella dottoranda dell’Università di Pisa.




La Città Bianca in camicia nera: il decennio di Scorza

La repressione degli antifascisti sul territorio provinciale

La segreteria Scorza si distingue fin da subito per la violenta offensiva contro le amministrazioni locali guidate dalle sinistre e dai popolari: nel 1925 “cade” Borgo a Mozzano, ultimo comune antifascista [1], il cui commissariamento viene salutato sulle colonne de L’intrepido – il foglio del fascismo lucchese – come una “vittoria morale e reale dei Fasci” [2]. Ma la sola conquista del potere politico non è sufficiente: sono gli individui che debbono essere colpiti, perseguitati, schedati. Gli archivi del Casellario politico centrale – istituito per la prima volta nel 1894 sotto Francesco Crispi e adesso ufficio autonomo alle dipendenze della PS – si gonfiano letteralmente durante il fascismo; nel mirino non soltanto l’adesione a fedi politiche avverse al regime, ma anche la moralità stessa delle persone, soprattutto se donne: così l’anarchica Pia Bertini, residente in provincia di Pisa ma nata ad Altopascio, è sia una sovversiva che una “di facili costumi”[3]. Prostitute dunque, oppure pazze: come Clementina Masini di Monte San Quirico, arrestata nel 1929, le cui parole contro il duce sarebbero da attribuirsi ad un “momento di esaltazione mentale per disturbi psichici”[4].

Gli squadristi imperversano in tutta la provincia, non basta allontanarsi dalla città per essere al sicuro: il montecatinese Agenore Dolfi, già socialista e poi membro del PcdI, viene aggredito più volte tra il 1922 e il 1923 (in un’occasione la spedizione punitiva avviene addirittura all’esterno del tribunale di Lucca, dove assieme a Dolfi viene ferito anche il suo avvocato e compagno di militanza politica, Luigi Salvatori); trasferitosi infine a Viareggio, viene addirittura rapito dagli squadristi e riportato a Lucca, dove subisce l’ennesimo pestaggio. Dolfi sarà infine costretto a rifugiarsi in Argentina, dove continua a spendersi in favore del movimento antifascista: muore nel 1944 in Italia, dove era tornato per prendere parte alla Resistenza, in circostanze mai del tutto chiarite [5]. Come Dolfi, anche il socialista massarosese Giuseppe “Beppino” Cosci, nativo della frazione di Stiava, è costretto all’emigrazione in Francia per sfuggire alle persecuzioni. Verso Cosci, che in paese gode di stima e rispetto, i fascisti lasciano da parte il manganello per ricorrere a più subdole strategie, offrendogli dapprima un posto presso il locale oleificio in cambio dell’adesione al fascio, per poi impedirgli di trovare e mantenere un lavoro che gli consenta di sfamare la numerosa famiglia (arrivando a incendiare i locali della falegnameria aperta da Beppino a Viareggio)[6].

La ferita più grave all’antifascismo però Scorza l’ha già inflitta nell’estate 1925, quando i suoi uomini aggrediscono uno dei più importanti leader dello schieramento liberaldemocratico: il deputato Giovanni Amendola.

20 luglio 1925: il “Delitto Amendola”

Ostile sin dal principio al fascismo e ai suoi metodi illegali, pur partecipando nel 1922 in vesti ministeriali ai due Governi Facta (che includevano anche i fascisti), Amendola nel 1925 è ormai uno dei capi riconosciuti dell’opposizione costituzionale a Mussolini. Già a un anno dalla marcia su Roma il deputato è stato sottoposto a fermo presso la sua abitazione salernitana, per poi subire una prima aggressione nella capitale poche settimane dopo. L’azione contro Amendola viene pianificata dal segretario del PNF Farinacci d’intesa con Scorza, reputato l’uomo giusto per portare a segno il colpo senza lasciarsi dietro “pasticci” (U. Sereni) analoghi a quelli del Delitto Matteotti.

L’aggressione al rappresentante liberale avviene sulla strada tra Montecatini Terme e Pistoia la notte del 20 luglio: come ricorda il figlio Giorgio (poi deputato del PCI), che da Salerno si affretta a raggiungere il padre convalescente a Roma dove è stato trasportato, Amendola “era tutto piagato. Facevano impressione soprattutto le ferite alla testa, all’occhio e all’orecchio. Il corpo era pesto, ma allora non si sapeva che il colpo mortale era stato inflitto proprio ai polmoni” [7]. Amendola sarebbe morto nove mesi dopo in Francia a Cannes, il 7 aprile 1926, e le indagini, svogliatamente compiute dalla magistratura [8], portano a un nulla di fatto: l’aggressione viene fatta passare dal regime come genuina reazione popolare contro l’odiato antifascismo. I bastonatori di Scorza resteranno impuniti, così come il loro capo, che nel dopoguerra fugge in Argentina proprio per non affrontare la giustizia italiana e rispondere dei propri capi d’imputazione (il principale dei quali riguarda proprio i fatti di Montecatini). In suo favore intercedono le gerarchie ecclesiastiche pistoiesi, e fra tentativi di depistaggio e interventi della Cassazione, il processo si concluderà nel 1949 con la concessione dell’amnistia da parte della Corte d’assise di Perugia, scampando al gerarca la precedente condanna a trent’anni di reclusione [9].

Guerra a tutto campo dentro il Partito

Se è vero che i colpi più duri Scorza li riserva agli antifascisti, non più tenero il ras di Lucca si dimostra nei confronti delle opposizioni interne allo stesso PNF: i primi a farne le spese sono addirittura due dei principali rappresentanti del partito in città, Nino Malavasi e Anatolio Della Maggiora. Malavasi, romagnolo di formazione repubblicana e anticlericale [10], nonché tra i fondatori del fascio lucchese, viene allontanato nel marzo 1921 al termine di una campagna diffamatoria per il suo mancato allineamento alle direttive della dirigenza milanese; Della Maggiora, che ricopre il ruolo di segretario ed è inviso a Scorza per la sua alleanza con Augusto Mancini e altri esponenti democratico-borghesi e del combattentismo alla vigilia delle elezioni della primavera 1921, viene a sua volta epurato per la mancata candidatura di rappresentanti fascisti nelle liste del Blocco Nazionale, e la segreteria passa nelle mani dello stesso Scorza.

Per consolidare il proprio potere, il ras cosentano non esita a far scorrere del sangue: il 22 maggio 1921 il sangue è quello di due squadristi, Nello Degl’Innocenti e Gino Giannini, entrambi a bordo del camion partito da Borgo a Mozzano in direzione Valdottavo, colpito nel Morianese da alcuni massi caduti dal soprastante monte Elto. Immediatamente si parla di un attentato antifascista, il casellante di Saltocchio Esmeraldo Porciani – presunto testimone oculare dei preparativi dell’attentato – viene bastonato e preso a rivoltellate da un gruppo di fascisti in piena notte davanti alla propria abitazione, e muore poche ore dopo all’ospedale di Lucca. Scorza nega qualsiasi coinvolgimento fascista, e il processo-farsa contro i responsabili si conclude con l’assoluzione per tutti salvo Alfredo Menesini, datosi latitante (che rientra comunque in seguito ad amnistia e apre una ditta di costruzioni, ricevendo importanti commesse pubbliche). Ben più dura sarà la giustizia nei confronti dei tre “attentatori antifascisti” di Valdottavo (Giannarini, Della Nina e Ramacciotti), condannati su pressione di parte fascista a pene severissime che spaziano dall’ergastolo all’interdizione perpetua dai pubblici uffici [11].

Nel 1927 la fronda antiscorziana dentro il PNF prova a riorganizzarsi attorno al podestà di Lucca Mario Guidi e ai suoi alleati Oscar Galleni e Fedele Pennacchi, membri del direttorio provinciale che intendono screditare Scorza in sede congressuale portando alla luce alcune torbide faccende legate alla Banca di Lucca (disastrosamente gestita dal fratello del gerarca, Giuseppe) nelle quali era implicato anche l’ex deputato di Pescia Tullio De Benedetti [12]: il vicesegretario nazionale Renato Ricci però all’ultimo momento ritira il proprio sostegno ai tre dissidenti, che vengono costretti a dimettersi dalle rispettive cariche ed espulsi dal Partito.

1930 – 1932: Scorza dal trionfo alla caduta

Il regime scorziano a Lucca riceve la sua “consacrazione” ufficiale il 12 maggio 1930, in occasione della visita di Mussolini in città, in ricordo della quale viene aperto nel 1931 un nuovo varco nelle Mura alla presenza del segretario nazionale del PNF Giuriati, Porta della Vittoria (l’odierna Porta San Jacopo, familiarmente detta “il buco nuovo”)[13]. Pochi mesi prima lo stesso Giuriati ha chiamato al proprio fianco Scorza, nominandolo responsabile dei fasci giovanili.

Resta un solo, mal tollerato ostacolo, e proprio nel cuore del regno di Scorza: la potente famiglia Bertolli, ricca dinastia dai ramificati interessi economici, nei cui confronti il ras porta avanti una cauta “guerra fredda” (Umberto Sereni) e che intrattiene buoni rapporti con il neosegretario nazionale Starace, subentrato a Giuriati e ostile a sua volta a Scorza. Nel giro di poco tempo il gerarca di origini cosentane viene costretto a restituire i propri incarichi, e le missive inviate a Mussolini, che certo non ha digerito l’opposizione di Scorza alla sua linea di accordo con il Vaticano, restano lettera morta. La faccenda di Valdottavo viene rispolverata per l’occasione, i fedelissimi dell’autoproclamatosi “condottiero” ed erede di Castruccio Castracani vengono colpiti uno dopo l’altro [14], e il 10 dicembre 1932 viene sancita ufficialmente la decadenza di Scorza dalle pagine del Popolo Toscano [15]. Soltanto un decennio più tardi – in frangenti ben più drammatici per il regime e il paese – il fascismo avrebbe riabilitato Scorza.

Mussolini_manifattura_Lucca 1930

Mussolini in visita alla Manifattura Tabacchi durante il suo soggiorno a Lucca nel 1930 (foto di Ettore Cortopassi, 1930; Archivio Fotografico Lucchese, ECN 2329)

[1] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del saggio di Nicola Laganà Borgo a Mozzano: l’ultima amministrazione comunale antifascista della Lucchesia (1924-1925), secondo i documenti d’archivio e le cronache dei periodici locali, in “Documenti e Studi – Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca” n. 27/28, dicembre 2006, pp. 17-143

[2] Ibidem, p. 19

[3] Teresa Catinella, Bertini, Pia, in Gianluca FULVETTI, Andrea VENTURA (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 54-55

[4] Marta Giusti, Masini, Clementina Maria Luisa, in Ibidem, pp. 138-139

[5] Andrea Ventura, Dolfi, Agenore, in Ibidem, pp. 91-93

[6] Andrea Ventura, Cosci, Giuseppe, in Ibidem, pp. 80-81; vedi anche Vanda Puccetti, Memorie su Beppino Cosci (a cura di Fabio Flego), Pezzini, Viareggio 2010

[7] Giorgio Amendola, Una scelta di vita, BUR, Milano 1979, pp. 126-127

[8] Umberto Sereni, Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217

[9] Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 166-167

[10] La convergenza tra settori del repubblicanesimo di matrice mazziniana e fascismo a Lucca porta anche alla nascita di un periodico di respiro nazionale, Retaggio”, pubblicato dall’agosto al dicembre del 1924. La sua breve ma significativa storia è stata ricostruita nel dettaglio da Nicola Del Chiaro nel saggio L’Edera con il littorio. “Retaggio”: un ambizioso periodico mazziniano fascista (Lucca, agosto-dicembre 1924), in “Documenti e Studi” 42/2017, pp. 41-63

[11] La vicenda è stata ricostruita approfonditamente da Nicola Laganà nel saggio L’eccidio di Valdottavo: domenica 22 maggio 1921. Un falso attentato antifascista, ordito dal fascista Carlo Scorza e realizzato dai suoi squadristi, in “Documenti e Studi” 32/2010, pp. 11-76

[12] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del già citato saggio di Umberto Sereni Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in particolare pp. 201-206

[13] Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, p. 129

[14] In particolare si vedano a titolo di esempio i casi di Luigi Stefanini (segretario del fascio di Altopascio) e Artidoro Nieri (subentrato a Scorza come segretario federale provinciale dopo che questi era stato eletto alla Camera dei deputati), entrambi approfonditi nel saggui di Moreno Bertolozzi Uomini e vicende del fascismo di Altopascio (1922-1932… e oltre, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 17-37

[15] Umberto Sereni, Op. cit., in particolare pp. 206-217




Tra storia e memoria

Il progetto

Che relazioni sussistono tra storia e memoria? In che modo lo studio della memoria può, se ne è in grado, contribuire allo studio delle questioni storiche? Cercheremo di rispondere a queste domande nella relazione che segue, incentrata su uno dei database prodotti dal PRIN 2017-2020 “School Memories between Social Perception and Collective Rapresentation”. Il PRIN (gestito dalle Università di Macerata, Firenze, Roma Tre, Campobasso e Milano Cattolica) ha prodotto un portale, www.memoriascolastica.it. Quest’ultima raccoglie fonti educative divise in tre sezioni: memoria collettiva, memoria pubblica e memoria individuale. Su quest’ultima, denominata “Memorie educative in video”, ha lavorato l’unità dell’Università di Firenze, raccogliendo le memorie scolastiche di studenti, insegnanti ed educatori. Per ogni memoria è stata stilata una scheda tra le 500 e le 1000 parole.

Riguardo a questo database, è necessario fornire alcuni dati. Ad adesso sono state caricate 250 schede, con altrettante interviste. Le interviste sono state condotte da studenti del corso di Storia dell’educazione, ovvero studenti del secondo anno del corso di Scienze della Formazione primaria, che hanno ricevuto un’istruzione di base su come condurre un’intervista. Contiamo, sulla base degli studenti iscritti al corso in questo anno accademico, di ottenere altre 250 interviste in più. Gli intervistati avevano un range d’età abbastanza vasto: la più anziana, Marcella Dei, è nata nel 1932, il più giovane, Giulia Freni, nel 1996. La maggior parte delle persone intervistate è nata negli anni Cinquanta e Sessanta, come è desumibile dalla disaggregazione delle interviste per decenni coperti: due riguardano gli anni Trenta, ventidue coprono gli anni Quaranta, 56 gli anni Cinquanta, 86 gli anni Sessanta, 118 gli anni Settanta, 81 gli anni Ottanta, trentatré gli anni Novanta, ventuno gli anni Zero, di cui solo due memorie d’infanzia, le altre memorie professionali. Un’intervista può coprire più decenni. Per quanto riguarda la disaggregazione territoriale, l’87% delle interviste affronta memorie di persone che hanno frequentato la scuola in Toscana: questa contingenza ci consente di studiare le memorie scolastiche anche in un’ottica regionale. Altra questione riguarda la divisione per genere, con le interviste concesse da donne nettamente superiori a quelle rilasciate da uomini.

Alcune questioni metodologiche

Molte sono le questioni di metodo sollevate da un tale approccio. Innanzitutto, la potenzialità ermeneutica della memoria nello studio della storia. La memoria, facoltà conoscitiva degna di studio nell’antichità e nella prima età moderna, con la rivoluzione scientifica ha conosciuto un notevole ridimensionamento. Solo con il secolo Ventesimo è stata rivalutata quale facoltà conoscitiva, prima da Bergson e successivamente dalla fenomenologia. La questione è stata riproposta da Demetrio, e più nello specifico, dalla storia orale. Per Giovanni de Luna, lo storico oralista deve maturare una profonda consapevolezza sulla specificità delle fonti con cui lavora: la persona, con la sua soggettività, i suoi dolori, il suo desiderio di focalizzarsi su un argomento piuttosto che su un altro; la sua memoria, che può lasciarsi condizionare o può, se non esercitata, scivolare nell’oblio.

Altre precisazioni di fondo. Bisogna ricordarsi che le interviste sono state condotte, in massima parte, da studenti. Questa strategia può aver portato a prodotti visivi meno impattanti e, talvolta, a domande non centrate. Bisogna tuttavia riconoscere che solo in questo modo è stato possibile, in un lasso di tempo breve, accumulare una notevole quantità di materiale da poter studiare, senza contare l’impatto che l’intervista ha avuto sulle facoltà empatiche e relazionali dello studente.

I percorsi di analisi: alcune proposte. Senza nessuna pretesa di completezza, proveremo a enucleare alcuni percorsi.

La persistenza della riforma Gentile è un assunto condiviso da diversi studiosi, che la scuola degli anni Cinquanta fosse strutturalmente prossima a quella degli anni Trenta. Questa posizione è rivendicata anche da Simonetta Soldani, nell’intervista inclusa nel portale.

Ma come era percepita la scuola in quegli anni? Era una scuola, innanzitutto, che conosce rigide partizioni. Partizioni di genere. Sociali. E territoriali. Spiccava, su tutto, il contrasto tra le pluriclassi di campagna e le scuole di città. Ad accorgersene, chi si trasferiva dall’una all’altra. Accade ad esempio ad Antonella Bruni, nata nel 1962 a San Gimignano, che afferma di non esser stata in grado di padroneggiare l’alfabeto fino alla fine della seconda elementare.

Partizioni sociali. Benché ricorrano figure di maestri che decidano di aiutare i bambini più poveri ad affrontare l’esame di ammissione alle scuole medie, la scuola come validatrice dell’esistente ricorre in diverse testimonianze. Nella maestra di Roberto Cacciatori (n. 1945), pronta a telefonare a casa dell’intervistato per esprimere tutto il suo sdegno davanti alla scelta della famiglia, di condizioni sociali invero piuttosto modeste, di iscrivere il figlio all’esame di ammissione per le scuole medie. Ancora più icastica la maestra di Rosanna Perferi (n. 1949): “Le querce non fanno limoni” afferma infatti l’insegnante per frustrare le ambizioni familiari di far proseguire gli studi alla bambina, nata in un contesto di agricoltori inurbati nell’aretino. E influenzate dalla classe sociale sembrano anche le punizioni corporali, apparentemente inferte soprattutto a chi proveniva da contesti sociali maggiormente disagiati.

Il Sessantotto In questo quadro di validazione dell’esistente e in cui la scuola era percepita nelle vesti di custode di ruoli sociali codificati, il Sessantotto è spesso ricordato come una cesura radicale. Ad essere accentuato è il suo momento ludico, di rottura degli schemi, come nell’intervista a Maria Alessandra Sabbatini. All’interno delle interviste possiamo distinguere quelle due generazioni di cui parla Francesca Socrate: la prima generazione, quella del discorso impersonale, e la seconda, più focalizzata sulla propria individualità, come sottolinea Anna Auzzi (n. 1961). Istituzioni soffocanti, come la scuola nel pre-Sessantotto, e, negli anni Settanta, soprattutto per le donne, la famiglia.

Narrazioni femminili In questo contesto le narrazioni femminili giocano nel nostro discorso un ruolo di estremo interesse. Innanzitutto, è lecito chiedersi perché le donne siano privilegiate dai nostri studenti, questione che potremo approfondire tramite un questionario da somministrare al termine dell’intervista. In secondo luogo, dobbiamo notare una maggiore insoddisfazione delle donne, diversamente dagli uomini, che affermano sempre di esser soddisfatti del proprio percorso di vita. Quali i motivi? Possiamo supporre che le donne riversassero maggiori aspettative nella scuola. Potremo però anche supporre che per le donne sia più facile esternare emozioni negative internalizzate, come la tristezza e il rimorso, rispetto agli uomini: questi ultimi, soprattutto per quanto riguarda le coorti di età più avanzate, spesso non sono stati educati a esternare questo tipo di sentimenti. A prescindere da quale sia la causa, forte rimane il rammarico delle donne per il fatto di non aver potuto continuare a studiare, eventualità spesso limitata ai fratelli maschi. Ed è sulle donne che la trasformazione dell’istituzione scolastica, soprattutto di quella elementare, negli anni Settanta, ha le maggiori ricadute. L’evoluzione della scuola si pone infatti in frizione con strutture familiari che spesso ricalcano quelle dei decenni precedenti, come ricorda Sandra Longi, dal m. 17.10: gli insegnanti più giovani e innovativi «ti facevano anche vedere un’altra prospettiva… un’altra società magari noi ragazzi dell’epoca nati negli anni Sessanta invece a casa magari avevamo un padre di stampo patriarcale che l’uomo va ubbidito che il padre è la figura principale nella famiglia è quello che detta le regole più della mamma perciò insomma io alla fine con questa cosa della maestra che insegnava in un certo modo mi scontravo a casa con il padre».

 

Chiara Martinelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze, dove insegna Storia dell’educazione e dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Ha svolto incarichi presso le Università di Ferrara, Milano Bicocca, Roma La Sapienza e Siena. Membro del Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, è redattrice nei comitati editoriali di “Rivista di Storia dell’Educazione” e “Farestoria”. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Echi e suggestioni del Sessantotto nella letteratura per l’infanzia” (ETS, 2022) e “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico-industriali nell’Italia liberale” (Aracne, 2019).




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.