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“come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro…”

Tutto era ormai compiuto. Nella notte fra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo aveva votato, Mussolini, presentatosi al cospetto del Re credendo di riceverne il sostegno, che mai era mancato, era stato invece arrestato; il generale Badoglio aveva costituito il nuovo governo. Eppure l’annunzio viene trasmesso solo a tarda sera, alle ore 22.48, con due proclami del Re e di Badoglio. Chiusa in casa la popolazione resta quasi attonita prima di sprigionare pianti e risa di gioia che si intrecciano negli incontri per le scale dei condomini, mentre la voce si sparge anche nelle famiglie che non hanno la radio.
Ma è soprattutto dalla mattina del 26 luglio che anche a Firenze, come in molte città italiane esplode la gioia della popolazione in numerose manifestazioni spontanee caratterizzate dall’esposizione dei tricolori nazionali. Mentre viene annunciato il passaggio dei poteri dalle autorità civili a quelle militari con la proclamazione del coprifuoco e dello stato d’assedio.
La “caduta” di Mussolini era immediatamente identificata con il concretizzarsi della fine della guerra e di una svolta positiva nelle proprie vite a fronte delle paure e dei disagi causati dal conflitto, aggravatisi con il passare dei mesi, che avevano suscitato una crescente insofferenza e quindi un progressivo distacco dal regime. Nessuno presta fede alle parole del maresciallo Badoglio. “. . la guerra continua..“. Ecco perché, quando pochi giorni dopo, la mattina del 28 luglio, si diffonde la voce incontrollata che sarebbe stato firmato l’armistizio dal nuovo governo, le fonti di polizia avvertono il capo della Polizia Senise che i fiorentini si sono subito abbandonati a manifestazioni di gioia nel centro della città. Nonostante venga subito fatta sgombrare ogni manifestazione e sia chiarità la falsità della notizia, nella popolazione “traspare un vivo, immenso desiderio di pace e di tranquillità” (da Relazione Commissario Capo PS Ingrassia a capo della polizia Senise, 28 luglio 1943).,”I cittadini che s’incontravano per le strade e negli uffici si abbracciavano con effusione, come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro, come se la possibilità di esprimere quanto covava nel loro animo da tempo creasse un nuovo rapporto sociale e desse un significato dimenticato alle parole patria e nazione.” [C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia editrice, 1961, p. 16]
Si formano cortei esultanti, pur senza parole d’ordine. Convergono in piazza Vittorio Emanuele) ora piazza della Repubblica) e quindi in piazza del Duomo cantando i vecchi inni del Risorgimento. Si sventolano i tricolori, si inneggia al Re e al Badoglio, forse sperando che avessero davvero la ricetta per portare l’Italia fuori della terribile situazione nella quale era stata condotta dal Regime. Una speranza che certo non temeva conto di complicità e responsabilità passate che invischiavano tutta la classe dirigente del Paese, ben oltre il Duce e la sua stretta più ristretta, ma soprattutto delle dinamiche internazionali e in particolare dell’interesse militare strategico che il controllo della penisola aveva per l’alleato germanico. Eppure, una speranza comprensibile, nella sua stessa ingenuità, come sollievo temporaneo dopo mesi di timori, lutti, miserie. Una speranza che responsabilizza ed evita in quelle ore scontri o assalti ai luoghi fascisti, stupendo lo stesso servizio d’ordine immediatamente attivato dalla Questura che temeva disordini “sovversivi”. Ma una speranza destinata a infrangersi presto. Un’altra manifestazione è animata in piazza San Marco, sede del rettorato, da parte degli studenti universitari e delle scuole medie: sventolano i tricolori e gridano “viva la pace” anche se carabinieri e forze dell’ordine intervengono e li disperdono.
Tuttavia in quelle prime ore, è la gioia la nota dominante. La popolazione festeggia gli stessi presidi dei militari schierati per mantenere l’ordine pubblico. I fascisti quasi paiono svanire nel prendere atto di un mutamente generale ed inarrestabile. Pochissimi incidenti: qualche percossa e qualche giacca strappata a fronte di quei fascisti che avevano deciso di mantenere comunque il distintivo del partito all’occhiello. Ma nessuna violenza grave viene registrata; solo scontri con qualche sparatoria sul ponte alla Carraia. Anche le voci sul presunto omicidio del ras di San Frediano, Gambacciani, che sarebbe stato gettato in Arno come lui aveva fatto nel 1938 con un giovane antifascista è del tutto falsa, visto che il fascista riapparirà vivo e vegeto dopo l’8 settembre. Tra il 26 e il 27 secondo la Nazione solo 30 persone si presentano ai vari ospedali cittadini per ferite da percosse (di cui solo uno grave). Certo sono indici di violenza comunque praticate, ma comunque minime se si considera ciò che avrebbe potuto accadere dopo tanti anni di soperchierie, angosce, brutalità praticate dai fascisti, dopo le sofferenze di quei mesi di guerra e nel contesto di violenza radicale di quel conflitto. La rabbia si scatena contro i quadri e i busti del Duce, le targhe di strade e piazze intitolate a esponenti o simboli del regime.
Intanto le forze antifasciste iniziano a muoversi. Accanto allo spontaneismo delle prime manifestazioni operano i gruppi antifascisti, almeno i più organizzati. In particolare i comunisti si ritrovano già la mattina del 26 luglio nella casa di Fosco Frizzi (dirigente del movimento giovanile comunista, arrestato e condannato al carcere durante il ventennio) e stampano in ciclostilato un primo appello alla popolazione. Uno degli obiettivi che viene posto per le manifestazioni dei giorni successivi è la liberazione dei prigionieri politici dal carcere delle Murate. Vengono mobilitate le cellule clandestine del partito, in particolare quelle presenti negli stabilimenti industriali come la Galileo, presidiati dai carabinieri.
Ma è l’insieme delle forze antifasciste a muoversi, riunite nel Comitato interpartitico, composto da Marino Mari e Aldobrando Medici Tornaquinci per i liberali, Enzo Enriquez Agnoletti e Carlo Furno per gli azionisti, Arturo Bruni, Alfredo Bruzzichelli e Diego Giurati per i socialisti, Mario Augusto Martini e Adone Zoli per il partito dei cattolici: la Democrazia cristiana; Giulio Montelatici per i comunisti. Il Comitato interpartitico si reca in Prefettura per chiedere lo scioglimento del fascio, provvedimenti contro i fascisti, la liberazione dei detenuti politici. Il prefetto si limita a trasmettere al Ministero le richieste. Grande prudenza anche da parte delle autorità militari, con il Comando del Corpo d’Armata che tiene i soldati consegnati nelle caserme, evitando incontri con la popolazione. Il 30 agosto all’Università è nominato rettore Piero Calamandrei.
Nel mondo del lavoro si cerca di coinvolgere gli operai con l’Appello dell’Unione proletaria di Firenze, pubblicato sulla Nazione del 28 luglio, edizione sequestrata:
In questo momento critico, in cui i nostri animi si aprono alla speranza siamo ancora esposti alle insidie dei nostri nemici. Per venti anni avete ascoltato gli ordini di chi vi ha sempre ingannato, promettendovi molto e non concedendovi nulla.
L’Unione proletaria è il fronte di tutte le organizzazioni che durante l’oppressione fascista non hanno cessato di combattere per i nostri diritti. Oggi l’unione proletaria è l’unico organo in grado di dirigervi e di mettervi in guardia contro gli agenti della reazione. […]
Operai! Attenti a non ripetere gli errori del ’20 che cadrebbero a nostro danno. Attenti agli atti inconsulti! Vigilate sui macchinari delle fabbriche che sono la garanzia della nostra vita! Operai imparate a conoscervi! I soldati sono vostri fratelli. Non diffidate di voi stessi. Unitevi! Viva la libertà! Viva l’Italia!“.
Nelle industrie sono costituite le “commissioni di fabbrica” che iniziano ad avanzare richieste riguardanti i salari e l’alimentazione. L’Unione dei commercianti intanto indice un referendum fra i soci per eleggere le proprie cariche.
Nelle settimane successive i partiti antifascisti cercano di organizzarsi, uscendo dalla clandestinità. Il 22 agosto i socialisti costituiscono la sezione del Partito in casa del vecchio Gaetano Pieraccini, fra i fondatori del PSI nel 1892. Il Partito d’Azione tiene la propria assemblea regionale nella sede di “la scena illustrata” in lungarno Guicciardini e dal 5 al 7 settembre terranno proprio a Firenze, in casa di Carlo Furno e Enriquez Agnoletti il primo congresso nazionale. Sempre il 5 settembre i liberali si riorganizzano nel movimento “Ricostruzione liberale”; nasce anche un raggruppamento della Democrazia del Lavoro. Il partito comunista , che la sera del 20 agosto aveva ricostituito il comitato provinciale, si rafforza con l’arrivo di dirigenti di grande spessore politico e organizzativo come Giuseppe Rossi, Mario Fabiani, Guido Mazzoni, Mario Garuglieri e all’Università viene costituito il Fronte della Gioventù. Fra i dirigenti comunisti molti affermano con sicurezza che i tedeschi occuperanno presto il Paese, soprattutto se il Governo Badoglio non farà appello al popolo e non farà consegnare le armi dall’esercito. A favore della richiesta di una mobilitazione popolare per la pace e contro la presenza nazista convergono anche socialisti e azionisti nel corso di una riunione tenuta con i comunisti il 3 settembre. Escono I primi periodici antifascisti: il partito d’Azione pubblica “oggi e domani”, i socialisti “Socialismo”, La Pira pubblica due numeri del bollettino “San Marco” che illustra il suo programma cristiano-sociale; i comunisti distribuiscono 2L’Unità” che arriva da Milano e diffondono manifestini vari.
Ma la Storia segue un corso diverso. Queste timide tendenze saranno presto bloccate da un nuovo proclama nella notte. E per gli uomini e le donne, le forze sociali e politiche si aprirà una stagione terribile, a fronte del prolungarsi della guerra totale, del manifestarsi dell’occupazione nazista e del governo fascista collaborazionista di Salò. E tutti si troveranno di fronte alla sfida decisiva per cambiare il futuro di se stessi, della città e del Paese.




Note sulla Repubblica sociale italiana in Maremma

Le recenti polemiche innescate dalla prevista intitolazione a Grosseto di una via a Giorgio Almirante, storico leader del Movimento sociale italiano e già funzionario del Ministero della Cultura Popolare della Repubblica sociale italiana (RSI), hanno riportato all’attenzione del dibattito pubblico locale le responsabilità del fascismo nonché il lascito drammatico della guerra civile, combattutasi con accanimento anche in Maremma tra il 1943 e il 1944[1]. Va comunque notato che a fronte di un precoce – e certo comprensibile – interesse storiografico alla vicenda resistenziale, oggetto sin dalla metà degli anni ’60 di significativi tentativi di indagine, non è corrisposta un’altrettanto vivace attenzione all’esperienza del fascismo repubblicano grossetano, fatte salve le pioneristiche ricerche di Nicla Capitini Maccabruni e il più recente lavoro di Marco Grilli sulla strage fascista di Maiano Lavacchio[2]. Altrettanto significativo è il fatto che a comporre un primo affresco complessivo sulla Repubblica sociale italiana nella provincia, seppur di taglio cronachistico e apologetico, fosse nel 1995 la penna di Vito Guidoni, all’epoca giovane ufficiale della Guardia nazionale repubblicana (GNR)[3].

Nel dicembre 2021, la pubblicazione del volume dell’Istituto Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma – curata da Stefano Campagna e Adolfo Turbanti – ha quindi voluto, tra le altre cose, colmare questo gap conoscitivo, potendo ora contare sulla disponibilità della documentazione prodotta nel corso del cosiddetto “processone”, intentato nel dopoguerra dalla Corte d’Assise speciale di Grosseto per giudicare e punire capi e gregari della RSI in Maremma. Grazie anche a questa ricchissima fonte archivistica, in larga parte inedita, la ricerca ha cercato di ricostruire i caratteri identitari, organizzativi e repressivi di un fascismo repubblicano ben deciso a riappropriarsi del perduto spazio politico sgretolatosi con il brusco crollo del regime mussoliniano, imponendo una propria seppur limitata statualità al riparo delle armi naziste[4].

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

All’indomani dell’armistizio e della fulminea occupazione tedesca della penisola, la federazione fascista   riapriva i battenti il 18 settembre 1943. A farsene interpreti, in un contesto segnato tanto dall’incertezza che dalla volontà di rivalsa contro vecchi e nuovi «traditori», erano in primo luogo alcuni esponenti di lunga data del fascismo maremmano: Generoso Pucci, Inigo Pucini e Silio Monti, destinati a ricoprire nei mesi a seguire ruoli politici e istituzionali di primo piano a livello locale. Un aspetto che anche nel caso grossetano lascia intravedere, nonostante i frequenti appelli propagandistici al rinnovamento e a un im­probabile ritorno alle origini sansepolcriste del movimento mussoliniano, quelle linee di continuità, più che di rottura, dell’esperienza della RSI con il defunto regime[5]. A riaffiorare erano inoltre i dissidi interni al fascismo maremmano, trascinatisi lungo tutto il Ventennio[6], che consigliavano la nomina quale commissario federale di una figura del tutto estranea al contesto locale. La scelta sarebbe caduta sul viterbese Alceo Ercolani, già ufficiale del Regio Esercito con alle spalle alcuni importanti incarichi tra le fila del Partito nazionale fascista (PNF), designato poi quale capo della provincia di Grosseto. Nonostante l’attivismo della nuova leadership fascista, il tentativo di mobilitazione ai fini bellici dell’intero corpo sociale si sarebbe dimostrato estremamen­te difficoltoso, scontrandosi da un lato con il palpabile deficit di legittimità della neonata repubblica fascista, gravata dall’invadente presenza dell’«alleato-occupante» e dalla difficile situazione militare[7]; dall’altro, scontando la diffusa indifferenza, quando non l’aperta ostilità, di larga parte della società civile grossetana, stremata da oltre tre anni di conflitto.

Le adesioni al nostro governo repubblicano – sottolineava Ercolani in una relazione stilata nell’ottobre 1943 – pervengono lentamente [e] altrettanto dicasi per le iscrizioni al partito. […] La popolazione nel grossetano è ottima sotto ogni aspetto, ma è perplessa, indecisa politicamente […]. Inoltre l’opera intrapresa da noi viene quotidianamente smantellata dal contegno arrogante e prepotente dei camerati tede­schi. […] Il popolo tutto vede e commenta sfavorevolmente, spronato da coloro che attendono ancora gli inglesi[8].

Un’alterità immediatamente percepibile tanto dal modesto, seppur non trascurabile, numero di iscritti al partito fascista repubblicano – 3.168 aderenti nel marzo 1944, appena una frazione dell’elefantiaco apparato del PNF[9] – che dal disastroso esito delle operazioni di leva, disposte per il Grossetano a partire dalla seconda metà di dicembre 1943. Nonostante l’irrigidimento delle misure coercitive mes­se in campo dalle autorità fasciste, solo un esiguo numero di reclute avrebbe infatti risposto all’appello dell’esercito di Salò, certificando con il proprio dissenso un ormai generalizzato «rifiuto della guerra» impensabile sino ad alcuni mesi prima. Come notava il comando provinciale dell’esercito, a favorire questa vera e propria «renitenza di massa»[10] avrebbe contribuito anche la presenza di «numerose, forti, ben armate […] bande di ribelli», capaci di minacciare la già precaria credibilità e la tenuta stessa dell’ordinamento fascista repubblicano[11]. L’azione via via più aggressiva delle prime formazioni alla macchia – particolarmente intensa nel Massetano e lungo il lembo meridionale della provincia – avrebbe quindi spinto le autorità saloine a mettere in campo una sempre più incisiva reazione repressiva: stante il cauto atteggiamento inizialmente dimostrato dalle forze di occupazione tedesche, scarsamente inclini a intervenire direttamente nella lotta antipartigiana laddove non direttamente minacciati nei propri interessi[12], erano soprattutto i reparti militari e di polizia italiani a rendersi protagonisti, nei primi mesi del 1944, di una serie di operazioni di rastrellamento, sviluppatesi in più occasioni a cavallo delle confinanti province di Siena e Viterbo. Aspetti questi che oltre a rimarcare l’attivismo di Ercolani, già messosi in luce per lo zelo persecutorio dimostrato verso gli ebrei[13], confermano i margini di iniziativa e gli spazi di autonomia – tutt’altro che trascurabili – attribuiti a livello locale alle formazioni armate saloine[14]. Non a caso, è nelle settimane tra febbraio e marzo 1944 che il fascismo repubblicano toscano riusciva a imporsi quale soggetto attivo della violenza, dimostrando sul campo una fattiva e brutale capacità repressiva in larga parte slegata dall’ancora limitata azione antipartigiana condotta dell’alleato tedesco nella regione. Un’offensiva che, come nel caso grossetano, dove numerose erano le camicie nere reduci da una lunga esperienza nel teatro di occupazione balcanico, avrebbe attinto alle pratiche di controguerriglia sperimentate nel corso delle precedenti guerre del fascismo.

La violenta dialettica con le formazioni partigiane trovava in Maremma il massimo sfogo nei tragici episodi del Frassine – dove il 16 febbraio venivano fucilati cinque membri della banda Camicia Rossa – e nella strage perpetrata il 22 marzo successivo a Maiano Lavacchio: in questo caso, 11 tra renitenti e sbandati catturati sui bassi rilievi di Monte Bottigli erano passati per le armi dai militi della GNR dopo un simulacro di processo sommario, alla presenza di alcuni dei familiari delle vittime accorsi dalle vicine case coloniche nel tentativo di salvare i propri cari[15]. La ricercata ostentazione del successo, volta a riaffermare la fermezza e la radicalità d’intenti delle autorità della RSI, tradiva in realtà le malferme fondamenta del potere fascista. In tal senso, ha notato Toni Rovatti, «la debolezza sul piano della legittimità, che caratterizza costituzionalmente il nuovo Stato fascista», si dimostra «una chiave interpretativa essenziale» per comprenderne l’«evoluzione nelle scelte sull’uso politico della violenza» estrema[16]. Gli effimeri successi delle forze nazifasciste non avrebbero in ogni caso impedito il crescente sviluppo del movimento resistenziale, sempre più padrone dell’iniziativa e capace ormai di contendere il controllo di ampie porzioni del territorio maremmano. Con l’inoltrarsi della primavera e la ripresa dell’offensiva alleata sulla Linea Gustav, la situazione era destinata rapidamente a precipitare, mentre le ultime segnalazioni inviate dal capo della provincia denunciavano il senso di abbandono e l’angoscia serpeggiante tra le schiere fasciste, già falcidiate dalle numerose defezioni. «La si­tuazione qui è gravissima e peggiora di giorno in giorno» lamentava Ercolani sul finire di maggio. «Non ho le armi e i pochi ar­mati non sono assolutamente sufficienti a fronteggiare le bande. Da otto mesi chiedo invano […] armi e rinforzi. Finora ho potuto resistere […]; ma ora non più. Bisogna provvedere tempestivamente!»[17].

L’improvvido allontanamento del capo della provincia, assentatosi l’8 giugno per conferire con il ministro dell’Interno, segnava infine il disordinato tracollo delle residue strutture politico-militari ancora presenti nella provincia, che si accompagnava con le ultime violenza sfogate nell’imminenza della disfatta contro una popolazione punita per aver voltato le spalle al fascismo[18]. Difficile azzardare una stima su quanti – tra militari e civili, in diversi casi seguiti dalle proprie famiglie – avrebbero deciso di abbandonare la provincia e riparare oltre l’Appennino, per sfuggire alle incognite della Liberazione e continuare la guerra al fianco delle forze tedesche. Mentre la federazione fascista prendeva sede nel piccolo centro gardesano di Bardolino, i reparti superstiti della GNR convergevano in buona parte verso Vicenza, dimostrando nei mesi a seguire un rinnovato impegno nell’azione di controguerriglia. Interessante infine notare come l’ex-capo della provincia Ercolani, elogiato dal segretario del PFR Pavolini per il «comportamento» tenuto di fronte alla «spinta dei ribelli»[19], fosse dirottato alla guida dell’Ente nazionale per l’assistenza ai profughi e la tutela degli interessi delle province invase, che avrebbe assunto nel corso dell’estate 1944 compiti politicamente assai delicati per la tenuta del residuo consenso al fascismo repubblicano.

All’indomani della Liberazione, la richiesta di giustizia proveniente dalle comunità colpite dalla violenza saloina avrebbe dovuto attendere sino al 18 dicembre 1946, quanto al termine di una lunga e complessa istruttoria, la Sezione speciale della Corte d’Assise di Grosseto pronunciava condanne piuttosto pesanti nei confronti dei maggiori responsabili del fascismo repubblicano maremmano. I successivi esiti giudiziari della vicenda avrebbero però significativamente attenuato le pene spiccate dalle corte grossetana, palesando la difficile e contradditoria transizione dal fascismo alla democrazia[20].

 

**Note**

[1] Nicola Ciuffoletti, Le vie della discordia. Polemica per l’intitolazione ad Almirante e Berlinguer, «La Nazione» (ed. on line), 15 marzo 2023 (www.lanazione.it/grosseto/cronaca/le-vie-della-discordia-polemica-per-lintitolazione-ad-almirante-e-berlinguer-64674de5). La vicenda è stata oggetto, a più riprese, di attenzione anche dalla stampa nazionale, come ad esempio in Stefano Cappellini, Hanno tutti ragione. Berlinguer, Almirante e la farsa di Grosseto. Si scrive pacificazione, si legge parificazione, «La Repubblica» (ed. on line), 17 marzo 2023 (www.repubblica.it/politica/2023/03/17/news/berlinguer_almirante_grosseto_via_pacificazione_hanno_tutti_ragione-392537736/). Per un più ampio inquadramento si veda inoltre l’approfondimento Perché no a una via intitolata ad Almirante, curato dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea (www.facebook.com/isgrec.istitutostoricogr). Tutti gli URL sono stati verificati alla data del 25 maggio 2023.
[2] N. Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale [stampa], s.l. 1985 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, Effigi, Arcidosso (Gr) 2014. Per uno sguardo bibliografico d’insieme rimando a S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, Effigi, Arcidosso (Gr) 2021, pp. 379–382.
[3] V. Guidoni, Cronache grossetane: settembre 1943 – giugno 1944, Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, Grosseto 1995.
[4] Il presente contributo condensa alcuni degli aspetti già messi in luce in L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista: caratteri, identità, violenza del fascismo repubblicano grossetano (1943-1945), in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit, pp. 131–172, cui mi permetto di rinviare per una più ampia e articolata trattazione. Le carte del procedimento della Corte d’Assise speciale di Grosseto, raccolte in quattro corpose buste, sono conservata in Archivio di Stato di Perugia, Corte d’Assise, Processi penali (ultimo versamento), bb. 79-79quater.
[5] Riprendo qui l’interpretazione offerta da D. Gagliani, Biografie di “repubblichini” e continuità e discontinuità culturali e politiche, in S. Bugiardini (a cura di), Violenza, tragedia e memoria della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2006, pp. 205–213. Per una concisa ma ricca sintesi dell’esperienza del fascismo repubblicano cfr. A. Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2012.
[6] Sui caratteri e i profili del fascismo maremmano vedi M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Effigi, Arcidosso 2018, pp. 51–153.
[7] Sull’occupazione tedesca della penisola, rimane tutto essenziale il lavoro di L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
[8] ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, b. 1, f. 1/Ris, Grosseto – Situazione politico-economica della provincia, s.d. [ma presumibilmente metà ottobre 1943]. Più in generale cfr. S. Campagna, Civili in guerra e guerra ai civili. Per un profilo storico della provincia di Grosseto tra fascismo e secondo conflitto mondiale, in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit., pp. 29–72.
[9] Traggo queste cifre da ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 6, f. 45, Prefettura di Grosseto, Situazione politico-economica della provincia – Mese marzo 1944, 1° aprile 1944.
[10] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp. 218–219. Sul caso grossetano cfr. M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 40 segg..
[11] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, I-1, b. 10, f. 130, 49° Comando Militare Provinciale, Situazione sulla chiamata alle armi dei militari delle classi 1923-1924-1925 per conto dell’Esercito, 18 febbraio 1944.
[12] C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, pp. 86–87.
[13] L. Rocchi, Ebrei nella Toscana meridionale: la persecuzione a Siena e Grosseto, in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), Vol. I. Saggi, Carocci, Roma 2007, pp. 254 segg.; più in generale cfr. S. Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano 2015, che richiama a sua volta l’attenzione sul caso grossetano.
[14] Su questi aspetti, ben evidenziati dalla più recente storiografia, si veda in particolare T. Rovatti, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la RSI, CLUEB, Bologna 2011 e Id., La violenza dei fascisti repubblicani. Fra collaborazionismo e guerra civile, in G. Fulvetti – P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna 2016, pp. 145–168.
[15] L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista, cit., pp. 158–165 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit.. Sull’episodio di Maiano Lavacchio si veda inoltre la mostra virtuale Per noi il tempo si è fermato all’alba.
Storia dei Martiri d’Istia
, raggiungibile all’indirizzo: https://martiridistia.weebly.com.
[16] T. Rovatti, Leoni vegetariani, cit., p. 117.
[17] ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 10, f. 13, Telegramma n. 2522, da capo Provincia Grosseto Ercolani a Ministero Interno Gabinetto, s.d. [ma precedente il 29 maggio 1944].
[18] Tra il 9 e il 10 giugno, nei pressi di Roccalbegna e di Scarlino, militi della GNR venivano uccidevano due civili, presumibilmente le ultime vittime fasciste della provincia.
[19] Lettera di Alessandro Pavolini a Benito Mussolini, 18 giugno 1944, pubblicata in N. Capitini Maccabruni, La situazione della Toscana nel giugno 1944 in alcune lettere di Pavolini al duce, «Ricerche storiche», VIII (1978), n. 2, pp. 538–540.
[20] Sulle vicende del “processone” vedi M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 97 segg.. Sulle aspettative e le reazioni della società civile italiana di fronte alla stagione di giustizia di transizione imbastita nel dopoguerra si rimanda, A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.



Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la stessa riuscita della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




I Comitati di Liberazione Nazionale in Valdinievole

La Valdinievole, come tutta l’Italia intera fra il 1943 e il 1945 subì il passaggio della guerra. I mesi più duri dell’occupazione tedesca; le stragi di civili da parte delle truppe tedesche in ritirata a cui in parte parteciparono vecchi e nuovi fascisti italiani; la nascita e l’ingrossamento del variegato movimento partigiano; il contributo di quest’ultimo alla liberazione della zona insieme alle forze alleate; la nuova occupazione, stavolta anglo-americana, del territorio liberato con l’appoggio dei Comitati di Liberazione Nazionale. Ultimo per ordine di tempo, il tentativo ed i primi passi verso il ritorno ad uno stato di pace e di giustizia che per volontà fu ovviamente diverso dal Ventennio, in alcuni aspetti si fecero invece sentire le continuità con i periodi liberale e fascista ed in altri fu completamente nuovo, frutto della rivoluzionaria Assemblea Costituente. L’elezione di quest’ultima coincise con la fine in tutta l’Italia dell’esperienza ciellenistica. Ma cosa furono in realtà i C.L.N. e come operarono nel delicato periodo della transizione tra guerra (anche civile) e nuova pace man mano che i territori venivano liberati?

La situazione per i civili durante tutto il 1944 in Toscana ed in particolar modo lungo il corso dell’Arno, su cui la linea di battaglia tra Alleati e tedeschi si assesterà per tutta l’estate del 1944, è particolarmente precaria. Le stragi che insanguinano la Toscana in quell’estate testimoniano tanto il tentativo delle forze di occupazione italo-tedesche di eliminare qualsiasi tentativo di resistenza tanto quanto nei fatti colpiscono la popolazione indifesa davanti alla guerra in casa: la Strage del Padule di Fucecchio ne rappresenta l’apice in Valdinievole. É in questo momento delicatissimo che iniziano a lavorare i CLN; spesso già operanti in clandestinità, quindi quando il territorio è ancora sotto occupazione, nel momento della liberazione delle varie località i CLN devono riorganizzare la vita delle comunità partendo dai bisogni primari, come nel caso del Comitato di Alimentazione a Chiesina Uzzanese[1]. Formati ufficialmente da due rappresentanti dei cinque partiti antifascisti riconosciuti, PCI, PSI, Pd’A, DC, PLI, i Comitati in questi difficili mesi avevano il compito di assicurare la distribuzione del cibo ai cittadini che non vi avevano accesso. Nei primi momenti a seguito della liberazione come avviene nel caso di Pescia, attraverso l’uso dei gappisti che non scelsero di seguire la liberazione nelle zone montane, il CLN mantenne il controllo dell’ordine pubblico. Non soltanto, il CLN di Pescia, non appena la città è liberata dai tedeschi, convoca i produttori agricoli della zona per convincerli a completare la trebbiatura e a conferire il grano all’ammasso del popolo perché, causa ruberie, rappresaglie e distruzioni di strade, la popolazione è ormai quasi un mese che non riceve il pane. A Pescia, per ripristinare l’uso dell’acquedotto e della circolazione lungo le strade il CLN sperimenta una pratica innovativa: vengono avviati al lavoro forzato i fascisti repubblicani, i vecchi fascisti e i collaborazionisti dei tedeschi, considerati i maggiori responsabili delle attuali rovine. Di questi, solo i non abbienti furono retribuiti per questo lavoro[2]. Il CLN di Pescia, che insieme a quello di Montecatini rappresentò l’ente guida per tutti gli altri CLN comunali della Valdinievole, convocò per il 21 settembre 1944 una riunione dei sindaci di tutti i comuni valdinievolini. Nell’occasione i CLN dei comuni minori, possono portare alla luce i problemi del loro territorio, trovando intorno ai temi dell’approvvigionamento, della sistemazione dei ponti sui fiumi, la viabilità e le finanze, proposte di soluzioni interessanti. Contemporaneamente il CLN pesciatino nomina una commissione di tecnici incaricata di ripristinare, anche se inizialmente per qualche ora al giorno, la corrente elettrica. L’inverno è alle porte e con la diminuzione delle ore di sole, l’elettricità diventa un bene quasi primario per le abitazioni civili; non soltanto per le abitazioni, l’elettricità è necessaria alla tramvia che collega Pescia con Lucca e fino a poco tempo prima anche con Monsummano. Ormai esautorati di tutti i loro poteri, nel giugno del 1946 i CLN cessano di esistere.

Questa forma di autogoverno nato dalla volontà delle persone di tornare a guidarsi dopo vent’anni di dittatura e due di guerra civile, avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto nella nuova Italia repubblicana? É su questo tema e sull’intera vicenda ciellenistica, intesa come fattiva collaborazione tra ideologie contrastanti, basti pensare al PCI e alla DC, che può ancora oggi essere utile interrogarsi.

[1] Della Relazione morale ed economica ne troviamo copie originali all’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), all’ Archivio di Stato di Pistoia (ASPt), Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, b. 7, fasc. 9 e alla Sezione di Pescia dell’Archivio di Stato di Pistoia (SASPe), Comune di Pescia postunitario, n. 482, anno 1945, cat. XV, cl. 1, fasc. 6

[2] Verbale dell’adunanza del 12/9/1944 in ASPt, Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, n. 9 , fasc. Verbali delle riunioni del CLN di Pescia

Simone Fanucci ha conseguito la laurea in storia contemporanea presso l’Università degli studi di Pisa, ed è attualmente docente in un istituto secondario di secondo grado della provincia di Pistoia.




Olocausto e finzione filmica.

Diciamolo subito: in questo articolo non si parla del (trascurabile) carrarmato americano, né si mette in dubbio che sequenze come l’ispezione scolastica con lezione sull’ombelico ariano, o la traduzione strampalata delle regole del lager (durante la quale si ride e si prova angoscia allo stesso tempo) possano entrare a buon diritto nella storia del cinema e della comicità. Si tenta piuttosto di inquadrare, argomentandoli il più lucidamente possibile, gli aspetti più problematici di un’opera che, come il suo autore, ha spesso suscitato polarizzazioni istintive e irragionevoli, tra la celebrazione acritica e la condanna sprezzante.

Sembra impossibile parlare del film del 1997 La vita è bella (regia di Roberto Benigni, sceneggiatura di Benigni e Vincenzo Cerami, Grand Prix Speciale a Cannes 1998, tre Premi Oscar nel 1999) senza incappare in un doppio circolo vizioso. Ci sono appunto due questioni di fondo, essenzialmente irrisolvibili, che come tali hanno spesso finito per paralizzare il dibattito: la prima, su cui non credo abbia molto senso soffermarsi, è la necessità di una totale libertà creativa ed espressiva di qualunque artista, anche quando si tratta di scherzare sulla Shoah; la seconda, che ritengo più interessante, è l’assunto per cui un film, non avendo la funzione né la responsabilità di offrire una ricostruzione storicamente coerente (bensì di proporre un racconto di finzione, una favola immaginaria in cui l’incredulità viene sospesa) non possa e non debba essere giudicato per le inverosimiglianze della sceneggiatura. Assunto non scritto da nessuna parte, ma che sembrerebbe comune e largamente condiviso, ripreso di recente in varie occasioni pubbliche dallo storico Miguel Gotor, consulente del regista Marco Bellocchio per il film Esterno Notte (2022), sul caso Moro.

Su questo secondo punto La vita è bella ha ricevuto aspre e rilevanti stroncature da Claude Lanzmann (Il Fatto Quotidiano, 2014), Simone Veil (Corriere della Sera, 2009), Liliana Segre (La memoria rende liberi, Rizzoli 2019), Daniel Vogelmann (contributo presente su www.deportati.it) – mentre è stato valutato positivamente ad esempio da Shlomo Venezia, da Marcello Pezzetti, da Nedo Fiano, per non parlare dell’accoglienza a dir poco trionfale da parte della comunità ebraica americana.

Benigni non aiuta a fare chiarezza. Nella Presentazione che introduce l’edizione a stampa della sceneggiatura (da cui citeremo anche di seguito a più riprese) il regista afferma chiaramente di aver realizzato:

“un film fantastico, quasi di fantascienza, una favola in cui non c’è niente di reale […]. Chissà se un po’ dello sguardo di Giosuè riuscirà a penetrare nello spettatore: certe cose che a forza di nominarle si sono a volte un po’ consumate, come appunto i campi di concentramento e l’orrore dello sterminio degli ebrei, attraverso questo paradosso, attraverso questo gioco dell’irrealtà, potrebbero tornare a stupire, meravigliare, tornare appunto a sembrare, giustamente, impossibili” (ed. 1998, pagine VII – X).

Poche righe più avanti però si contraddice (è diventato col tempo, questo dire contemporaneamente di sì e di no, uno standard della sua affabulatoria comunicazione). La storia narrata dal film, di per sé inventata, pretende però di inserirsi in una ricostruzione storica, non “fantastorica” né fantascientifica:

“Quello che voglio è che il bambino resti sano, integro, e ce la metto tutta e riesco a non farmi piegare fino alla fine, perché quello è proprio un campo di sterminio dove i bambini venivano uccisi pochi giorni dopo l’arrivo, se non addirittura il giorno stesso […]. Noi ricostruiamo perfettamente cosa succedeva in quei luoghi spaventosi”

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A questo punto ci troviamo di fronte a un bivio: o scegliamo di goderci passivamente il racconto, l’immaginario che gli autori dichiarano di aver ricostruito a partire dai fatti storici – in tal caso gli stessi lettori di questo articolo possono evitare di andare oltre – oppure seguiamo Benigni quando ci dice di aver ricostruito perfettamente cosa accadeva in un lager, e in tal caso le domande sono almeno due. Prima domanda: come giudicheremmo un film che raccontasse, ad esempio, la storia di come Anna Frank è avventurosamente sopravvissuta alla deportazione? Certo daremmo per scontato che un tale film si palesasse come totalmente falso, perché altrimenti – se avanzasse pretese di verità storica – nessuno troverebbe stupefacente la stroncatura da parte non solo dello studioso, ma dello spettatore comune.

Seconda e conseguente domanda: come si colloca il film rispetto alla realtà storica? Possiamo scartare l’ipotesi che La vita è bella sia un film ucronico, di quelli che si divertono a fantasticare su come le cose sarebbero potute andare (Inglourious Basterds o Once upon a time in Hollywood, entrambi di Quentin Tarantino); altrimenti, salvo equivoci, non sarebbe tra i film più comunemente replicati in TV o proiettati nelle scuole in occasione del Giorno della Memoria, stabilito proprio “per non dimenticare” ciò che effettivamente è accaduto. Dovremmo anche allontanare il sospetto che determinate situazioni esistano solo nella mente del bambino – come accade, ad esempio, in Jojo Rabbit (Taika Waititi, 2019) – dal momento che il montaggio del film mostra chiaramente l’alternarsi di varie soggettive (di Dora, dello stesso Guido), facendo sì che il pubblico adotti il punto di vista di tutti i personaggi, non solo di Giosuè. Dora, ad esempio, perde ogni speranza quando viene a sapere da un’altra detenuta che i bambini verranno tutti mandati al gas; la ritrova quando sente la voce di Giosuè dall’altoparlante. Non ci troviamo in un sogno, in una dimensione parallela, in un’illusione fallace: il film propone una semplice ed esplicitata divisione tra le cose come stanno e come Giosuè le vede. Un chiaro esempio a conferma di questa impostazione è la celebre scena in cui il bimbo, nascosto in una cabina, guarda il padre attraverso la feritoia; Giosuè resta ancora convinto che tutti stiano giocando, mentre Guido, ben conscio del pericolo, teme che il cane che abbaia sveli ai soldati il nascondiglio improvvisato.

Ma soprattutto, quale interesse avrebbero avuto il pubblico e la giuria dell’Academy Award per un film che non si ricollega alla memoria dell’Olocausto, o che lo fa solo per ingenua ispirazione? Il film – e l’ottimismo da esso veicolato – sembrano avere senso soltanto se noi pensiamo che davvero,  storicamente, un Giosuè si sarebbe potuto salvare (attenzione: non salvarsi dalla deportazione, magari fuggendo dal ghetto o venendo nascosto da qualche parte, come sappiamo essere qualche volta accaduto, ma salvarsi nel lager). È per questo che parlare di “favole” e di sospensione dell’incredulità non è sufficiente a dissipare le critiche rivolte al film; l’analisi di come Benigni e Cerami hanno giocato con i fatti storici per adattarli alla sceneggiatura non è una puntigliosità fine a sé stessa, ma lascia intravedere ambiguità che pesano direttamente sulla ricezione del racconto. Vediamole di seguito.

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Centinaia di articoli e recensioni hanno ribadito, nel corso di venticinque anni, che in questo film un padre fa di tutto per salvare il figlio, nascondendolo dai nazisti; ma questo non è del tutto vero.

In lager, subito dopo il terribile viaggio in treno – che nel film non è evidentemente così terribile, dato che quasi non lascia traccia sui protagonisti – i bambini, direttamente all’uscita dal mezzo, venivano smistati con le femmine e gli anziani,  facendoli uscire dal lato opposto rispetto a quello dei maschi ed immettendo i due gruppi di detenuti in due aree diverse, non comunicanti; Giosuè, invece, viene inspiegabilmente lasciato nel gruppo degli uomini considerati abili al lavoro, perfettamente visibile da tutte le SS (parla ad alta voce del carro armato col babbo e con lo zio, nel bel mezzo del cortile assolato). Le SS possono vederlo chiaramente anche nella baracca, mentre Guido traduce a modo suo le regole del lager; in questa fase Giosuè si salva non perché Guido lo nasconda, ma perché i nazisti non sono poi così cattivi, lo lasciano scorrazzare in giro per un po’. Aspettano.

Alla domanda “come sfugge il bambino alla doccia?” gli autori preparano la risposta – surreale – già nella prima parte, prevalentemente comica e ambientata ad Arezzo: Giosuè detesta farsi il bagno («Non ci voglio andare!»), ragion per cui, quando in lager gli altri bambini vengono chiamati per la “doccia”, lui non ci sta e corre svelto dal padre, presso la fonderia:

GUIDO Che fai? Non ci puoi venire qua! Mettiti lì dietro. Che ci fai qua? Perché non stai coi bambini? […]

GIOSUÈ …Perché hanno detto che oggi i bambini dovevano fare tutti la  doccia! Io non la voglio fare la doccia!

Ma chi sono questi bambini con cui Giosuè dovrebbe stare? Non si tratta dei bimbi tedeschi, figli dei nazisti; Guido riuscirà a infiltrarlo tra loro solo in una fase successiva del film, quella in cui il dottor Lessing lo assume come cameriere. A questi altri bambini si fa riferimento sin dalle prime scene in lager, subito dopo l’arrivo, evocando una dimensione che è divenuta quotidiana: «Che c’è Giosuè, hai giocato con i bambini oggi […] «Sì, ma i bambini non sanno proprio le regole. Hanno detto che non è vero che si vince il carro armato. Non sanno che bisogna fare i punti».

Sono bambini con cui Giosuè può parlare, intendersi; sono gli altri bambini ebrei, che il film non mostra mai e a cui non viene l’idea geniale di sgattaiolare via dalla baracca fino al posto in cui lavorano i padri, magari per escogitare un bel piano di fuga. Anche in questo momento Guido non sta affatto nascondendo il figlio: c’è un luogo, non meglio precisato, in cui è previsto che tutti i bambini ebrei vengano lasciati così, a giocare. Giosuè è ancora vivo perché i nazisti aspettano ancora, aspettano che arrivi il momento della doccia.

Cosa ci ricorda questo aspettare, dove lo abbiamo già visto? Sono le stesse, inspiegabili esitazioni del villain del cinema di ogni tempo, che trovandosi di fronte l’eroe inerme, disarmato e indifeso – da James Bond ad Avatar 2 – potrebbe ucciderlo in ogni momento e tuttavia, seguendo un cliché ormai abusato dagli sceneggiatori, aspetta e fa sì che l’eroe abbia il tempo di riorganizzarsi e vincere; ma il lager non è Pandora, i nazisti non sono Ernst Stavro Blofeld.

Dopo che Giosuè è “miracolosamente” sfuggito alla camera a gas, il padre – adesso sì – inizia effettivamente a “nasconderlo” e gli ordina di non muoversi mai dalla baracca: ora ogni sua azione dovrà muovere dall’imperativo categorico di proteggere il bambino. Subito dopo, però, lo carica sulla carriola e se lo porta nel luogo più pericoloso – una casupola provvisoriamente abbandonata dai tedeschi – per “telefonare” alla mamma tramite gli altoparlanti, rivelando così la sua presenza a tutto il campo (altre domande sorgerebbero spontanee allo spettatore, se il montaggio e la sospensione dell’incredulità non lo trascinassero in un lager fantasioso: ad esempio come può il bambino, dopo giorni, non soffrire la malnutrizione? La sceneggiatura permette a Guido di far cenare Giosuè assieme ai figli dei gerarchi, dall’antipasto al dolce)!

 

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La principale funzione delle invenzioni sinora descritte è quella di salvare il bambino fisicamente; ma la vera ragione per cui il lager in La vita è bella non è storicamente verosimile è che, per avverare il messaggio che gli autori vogliono passare, il bambino non può e non deve mai vedere la morte; è questo l’elemento che più stride con il valore di rievocazione storica che La vita è bella, pure tramite un meccanismo di finzione e invenzione («Come in una favola c’è dolore») pretende comunque di portare con sé («Questa è la mia storia. Questo è il sacrificio che mio padre ha fatto»).

L’unica volta in cui il bambino si trova davanti a uno degli enormi mucchi di cadaveri (la cui apparizione agghiacciante è indelebile nella memoria di chi ha liberato i campi) non li vede, essendo addormentato tra le braccia del padre. Nelle varie occasioni in cui trotterella da solo qua e là per il campo, senza quindi che agisca la protezione del padre, Giosuè non vede nulla di brutto – non necessariamente un cadavere o un’esecuzione sommaria, ma nemmeno un detenuto che riceve una percossa; nulla che possa spezzare l’illusione creata da Guido.

Nel secondo capitolo di Se questo è un uomo, Sul fondo (1947), Primo Levi racconta di come le nuove matricole del lager venissero dileggiate da personaggi come “il dentista”; costui diceva che «tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio», che «chi tira bene di boxe può diventare un cuoco», che «chi lavora bene riceve dei buoni-premio». Nel film di Benigni il disagio reale dev’essere occultato al bambino, invenzioni simili a quelle del “dentista” devono essere credute. Ribadiamo ancora una volta la contraddizione di partenza: da un certo punto di vista non ha senso impostare un confronto ad armi pari tra un racconto filmico e una testimonianza storica. D’altro canto questo film si mette in una posizione talmente ambigua da rendere inevitabile la riflessione. Basti pensare che proprio dal capitolo finale di Se questo è un uomo, oltre che da un brano del testamento di Lev Trockij, Benigni e Cerami hanno tratto spunto per il titolo definitivo: «Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso»; ma Levi si riferiva alla vita fuori dal lager.

Benigni, senza forse rendersene conto, ha pure detto – Nella Presentazione già citata – che la sua intenzione era proprio quella di far sì che l’Olocausto tornasse a sembrare qualcosa di irreale e impossibile: «[…] certe cose […] come appunto i campi di concentramento e l’orrore dello sterminio degli ebrei, attraverso questo paradosso, attraverso questo gioco dell’irrealtà, potrebbero tornare a stupire, meravigliare, tornare appunto a sembrare, giustamente, impossibili». L’incredibile affermazione si pone in evidente contrasto con tutto ciò che un testimone della Shoah può dire o rappresentare: equivale a rimpiazzare il Meditate che è questo è stato di Levi con uno stupefatto e incredulo «Possibile che sia stato?». Evidenti le ragioni per cui Segre, Veil, Lanzmann hanno parlato di una menzogna e di una storia «senza senso».

Benigni, dal canto suo, risponde – con una certa assertività – che:

“La storia è esattamente quella che si vede: una famiglia spezzata che cerca disperatamente di sopravvivere in mezzo allo sterminio […] la violenza non viene negata, i morti ci sono e ci sono le camere a gas […]. Sullo schermo c’è un padre con un figlioletto. Ridere ci salva, vedere l’altro lato delle cose, il lato surreale e divertente, o riuscire a immaginarlo, ci aiuta a non essere spezzati, trascinati via come fuscelli, a resistere per riuscire a passare la notte, anche quando appare lunga lunga… e si può far ridere senza offendere nessuno: c’è tutto un umorismo ebraico molto spericolato a questo proposito” (ed. 1998, pagine VII – X).

Di nuovo la botte piena con la moglie ubriaca: nello stesso momento in cui evoca gli aspetti surreali e immaginari – invitando così gli spiettatori ad accettare questo lager così come avevano accettato la Sicilia di Johnny Stecchino – il regista li chiama anche a figurarsi una famiglia che «cerca disperatamente di sopravvivere in mezzo allo sterminio». È Benigni a presupporre che il film si rifaccia alla realtà storica, quando afferma che il lager del film «rappresenta tutti i campi di concentramento del mondo» e che «ridere ci salva, vedere l’altro lato delle cose»; purtroppo nei campi di concentramento non esisteva alcun altro lato delle cose.

Giosuè non sarebbe sopravvissuto: non solo non conosce le vere regole, ma gliene sono state fornite altre, fantasiose e insensate, con l’obbedienza al padre come unico riferimento – il che avrebbe costituito tutt’altro che un vantaggio nel darwinismo spietato del lager, dato che il padre stesso le infrange o le cambia di continuo, anche mettendo a repentaglio l’incolumità del figlio. Non essendo scemo, il bambino ha finalmente capito qualcosa: «ci bruciano tutti nel forno», dice un giorno a Guido; il padre si affretta a rassicurarlo che è tutto un gioco, lì non c’è alcun pericolo, devono tenere duro e accumulare punti per vincere il carro armato. È come se il film obbligasse il pubblico a un salto di fede: dobbiamo credere a tutto quanto avviene, perché se non ci crediamo, ciò significa che il bambino è morto.

La scena più forzata di tutte è forse proprio la morte di Guido, nel finale: i nazisti scoprono che sta fuggendo, lo individuano appeso al muro, gli puntano addosso un enorme faro segnaletico: è un bersaglio facile. Perché non gli sparano e basta? Dato che ci troviamo nelle fasi finali dell’evacuazione del campo, le SS in fuga non hanno letteralmente un secondo da perdere, certo non per farsi scrupoli a eliminare un detenuto ribelle. Invece il soldato esita con il mitra puntato, aspetta una buona manciata di secondi, finché un superiore (che spunta dal lato sinistro dell’inquadratura, dice la sua battuta e subito scompare, provvidenziale Deus ex machina) gli intima in tedesco: «Non qui….portalo al solito posto!». Allora il soldato accompagna Guido, sempre con una certa lentezza (l’attesa già descritta) dietro un muro distante dal cortile centrale, dove infine gli spara. A una prima visione si può pensare che il «solito posto» dietro il muro sia una fossa comune, o che vi sia allocato uno di quegli spaventosi assembramenti di cadaveri destinati a essere bruciati in fretta e furia, durante lo smantellamento atto a cancellare le tracce dell’orrore; però il luogo della morte di Guido si palesa come un vicolo isolato, una zona neutra che le esigenze della narrazione vogliono distante non dal cortile centrale, ma dagli occhi del bambino. Ciò che richiede il tributo emotivo, la scommessa a favore della vita, la commozione sarà facilmente accettato come verosimile dagli spettatori, senza che nulla li obblighi al riscontro storico; mentre, per ogni elemento che palesemente non torna, il regista è pronto a rispondere: «chi ha mai parlato di un lager? È tutta finzione!». Se un film riceve critiche per la sua inverosimiglianza, queste critiche sono sciocche e ingenue, perché il film è una favola; se però vince l’Oscar evidentemente il film parlava dell’Olocausto, storicamente inteso.

Alfredo Marasti è nato a Pescia nel 1990. Laureato in Scienze dello Spettacolo, abbina alla scrittura (Storia e rappresentazione. Come il cinema italiano ha raccontato il fascismo, 2015), l’attività di cantautore (Premio De André 2006, Premio Miglior Testo Musicultura 2013). Ha diretto due lungometraggi indipendenti (Ivardùsh, 2013 e Due per due, 2016) e tutti i suoi videoclip. Ha pubblicato gli albumAltri Tempi (2020) e Ultimo D’Annunzio (2022), concept album epico-drammatico sul celebre poeta, insieme al cortometraggio omonimo (trilogia di videoclip co-diretti con Chris Mazzoncini). Nel 2021 è tra i vincitori del premio Adelio Ferrero per la critica cinematografica. Nel Novembre 2022 è uscita per Edizioni Falsopiano il suo secondo libro, una monografia su Roberto Benigni intitolata Il piccolo diavolo e l’acqua santa – Roberto Benigni dalla dissacrazione al politicamente corretto.




La Città Bianca in camicia nera: gli anni della guerra

Poverannoi!”: l’Italia entra in guerra

Quando il 10 giugno 1940 Mussolini si affaccia dal balcone di Palazzo Venezia per annunciare l’ingresso italiano nel conflitto, il regno di Carlo Scorza a Lucca si è concluso da otto anni, e con esso il tentativo del ras cosentano di scalzare “quel gelatinoso collante di interessi” (Umberto Sereni) che costituiva il sistema di potere cittadino. La vita era proseguita, il volto della città stava cambiando: nel corso degli anni ’30 vengono inaugurate nuove infrastrutture (l’autostrada A11 Firenze-Mare, la tratta Montecatini Terme-Lucca, l’aeroporto di Tassignano), i templi del commercio (il Mercato del Carmine) e del pallone (lo stadio Littorio, oggi Porta Elisa, ultima eredità di Scorza che l’aveva fortemente voluto), i luoghi della memoria fascista (il sacrario ai caduti fascisti sul baluardo S. Paolino, oggi sostituito dal monumento al musicista Alfredo Catalani)[1].

La guerra scatenata dalla Germania di Hitler nel 1939 fino a quel momento era sembrata lontana, nonostante le esercitazioni antiaeree, le prime limitazioni sulla vendita di alcuni alimenti e i cortei del maggio 1940 contro Francia e Inghilterra [2]: poi la “spettacolosa adunata del popolo lucchese […] che resterà impressa nei secoli […]. La folla ha avuto un solo sentimento, ha sentito un solo dovere: quello di accorrere attorno ad un altoparlante per udire la parola del Duce”[3]. Così il quotidiano La Nazione; in realtà, ricorda Loredana Pera (classe 1926), non c’è altra scelta:”quando Mussolini dichiarò guerra […] il suo discorso fu trasmesso via radio alla città, e tutti furono obbligati, se non volevi passare dei guai, ad ascoltarlo”[4]. “Una marea di gente”, è la testimonianza di Neva Fontana, nata nel 1927, “ma obbligata ad andarci. Poverannoi!, si stava lustri se non ci si andava!”[5]. È il momento delle delazioni, bastano poche parole tacciabili di disfattismo per ritrovarsi in guai seri: nel migliore dei casi un rimprovero da parte del proprio datore di lavoro, come accade alla madre della Pera, la sigaraia Velia Luporini, denunciata da una collega per aver commentato sarcasticamente le possibilità di una vittoria italiana[6]; altrimenti si aprono le porte del carcere di S. Giorgio, dove alcuni membri della Milizia fascista portano il professor Favilli, uno dei docenti dell’allora sedicenne Divo Stagi, per sottoporlo all’umiliazione dell’olio di ricino [7].

Il giorno successivo le prime partenze per il fronte francese (i miliziani del Battaglione Intrepido); il 15 giugno la benedizione dell’altare, con l’arcivescovo Torrini che esorta i fedeli lucchesi all’obbedienza in tempo di mobilitazione: porta la stessa data la circolare del Ministero dell’Interno che dispone l’arresto degli ebrei stranieri tra i diciotto e i sessant’anni, ritenuti “elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari” [8]. In provincia di Lucca per coloro che sono ad un tempo nemici dello Stato e della presunta purezza razziale, dopo i primi provvedimenti limitativi sul commercio disposti dalla Questura nel marzo 1940 [9], si aprono le porte delle sedi di internamento di Castelnuovo Garfagnana, Bagni di Lucca e Altopascio [10]: i successivi due anni sarebbero stati all’insegna delle privazioni e del più totale isolamento, tanto che i severissimi regolamenti impediscono agli internati persino di disporre di denaro e gioielli di valore [11].

Dalla caduta alla rinascita: la prima fase della RSI a Lucca

Sono passati tre anni dall’inizio dell’avventura bellica italiana: la “guerra parallela” prefigurata da Mussolini si è rivelata un fallimento su tutti i fronti, portando al definitivo crollo del regime ufficialmente suggellato nelle drammatiche ore del 25 luglio 1943 [12]. Il fascismo si scioglie con una rapidità tale da lasciare sconcertati gli alleati tedeschi, e nemmeno la nomina di Carlo Scorza a segretario del PNF qualche mese prima – nel segno di un ritorno all’instransigenza delle origini – è bastata a invertire il declino [13]. La sera dell’8 settembre l’annuncio dell’armistizio, accolto dai lucchesi con la gioia di chi vi scorge l’imminente fine del conflitto: pochi giorni dopo la liberazione di Mussolini per mano tedesca, la rinascita del fascismo sulle rive del Garda e, il 16 settembre, la riapertura del fascio lucchese sotto la guida di Michele Morsero – parallelamente alla nascita delle prime formazioni partigiane capeggiate da Manrico Ducceschi e Carlo Del Bianco [14].

Per tutti i dodici mesi successivi fino alla liberazione di Lucca (5 settembre 1944), la Repubblica sociale avrebbe cercato in ogni modo di legittimarsi agli occhi della popolazione con scarsi risultati: tre capi si sarebbero alternati al vertice della provincia dopo Morsero (il duro Mario Piazzesi, il più moderato Luigi Olivieri e infine il fedelissimo di Pavolini, l’empolese Idreno Utimpergher), scontrandosi da un lato con la disobbedienza civile di fatto della Chiesa lucchese (che non raccoglie l’invito delle autorità repubblicane a convincere i giovani a rispondere ai bandi di leva, disertati in massa [15], e anzi fornisce assistenza e aiuto a ebrei, prigionieri di guerra in fuga e partigiani [16]), dall’altro scontando la crescente ostilità della popolazione civile causata dalla pratica dei rastrellamenti, effettuati allo scopo di scovare renitenti o braccia abili da destinare al lavoro coatto in Germania (è quanto accade ad esempio il 21 agosto 1944 proprio nel capoluogo di provincia, dove pur non essendovi alcuna vittima i fascisti si lasciano andare a veri e propri atti di brigantaggio a danno degli arrestati [17]). Il tutto senza dimenticare la guerra ancora in corso, che lambisce sempre più da vicino il territorio: il 1° novembre viene bombardata Viareggio, il 6 gennaio 1944 è la volta di Lucca stessa. E mentre da sud le truppe Alleate avanzano, il morale vacilla – e così pure le sempre più deboli istuzioni repubblicane: resta loro, come mezzo di autoaffermazione, soltanto l’esercizio della violenza, l’esibizione della forza per mascherare la debolezza.

Il “posto d’onore”: la XXXVI° “Mussolini” e gli ultimi colpi del fascismo lucchese

Quando a cavallo tra il 1943 e il 1944 inizia a prendere corpo la militarizzazione del nuovo Partito fascista repubblicano, decisa al I° congresso del Partito fascista repubblicano di Verona (anche per far fronte al disastroso risultato dei bandi di leva della RSI), Lucca si trova a giocare il ruolo fondamentale di “città campione” (C. Giuntoli), la prima in assoluto nell’Italia sottoposta a occupazione tedesca a veder costituita sul proprio territorio una Brigata Nera – la famigerata XXXVI “Mussolini”, nata con ben otto giorni di anticipo rispetto a quanto stabilito dal decreto costitutivo che ne autorizzava la creazione e comandata da Utimpergher. “Le ragioni della scelta di Pavolini […]”, ha sottolineato Carlo Giuntoli, “furono probabilmente legate a tutta una serie di ragioni tattiche, Lucca era infatti una delle poche città toscane […] non ancora minacciate dalle truppe anglo-americane”; al contempo però gioca un ruolo non secondario la “fiducia che [Pavolini] nutriva in questo gruppo di fedelissimi” [18]. Sono gli stessi “fedelissimi” che avevano rivendicato dalle colonne dell’Artiglio – il foglio del fascismo lucchese – il proprio “posto d’onore” nelle neo-costituite BN [19].

Scarsa in termini numerici tanto da essere una brigata soltanto nel nome (236 effettivi [20], in larga parte veterani e reduci della Grande guerra e del primo squadrismo, oppure giovani nati e cresciuti sotto il regime[21]), la XXXVI° di Utimpergher rinuncia anche a quel poco di copertura istituzionale che la RSI aveva cercato di ammantare le proprie azioni fino al giugno 1944: i brigatisti neri sono entusiasti collaboratori, nelle vesti di spie e delatori, dei tedeschi nell’opera di ripulitura delle retrovie del fronte, un’occasione unica per portare avanti vendette personali e rappresaglie: come nel caso della Certosa di Farneta, presso la quale si rifugiava l’ex direttore dell’ospedale psichiatrico di Maggiano e antifascista militante, Guglielmo Lippi Francesconi, arrestato ai primi di settembre dai tedeschi assieme al resto degli occupanti del convento e fucilato a Massa pochi giorni dopo, vittima della delazione del collega/rivale Vittorio Marlia, acceso sostenitore del regime[22]; oppure il camaiorese Amedeo Biancalana, sospettato autore di scritte antifasciste consegnato ai tedeschi che lo giustizieranno dal vicecomandante locale della XXXVI° Cirillo [23]; e ancora le spedizioni punitive, come quella di San Lorenzo a Vaccoli (la prima in assoluto, il 3 agosto 1944), per vendicare l’attentato contro due commilitoni e vede i brigatisti razziare il paese e arrestare 5 uomini, poi deportati in Germania [24].

Il 5 settembre 1944 Lucca viene liberata, ma i brigatisti neri continuano a spargere sangue: il 23 settembre a seguito di un’azione partigiana viene colpita Castelnuovo Garfagnana (8 vittime uccise a colpi di mitra e rivoltellate dai brigatisti neri, che poi completamente ubriachi si danno al saccheggio)[25]; il 29 settembre a Castiglione di Garfagnana, dove il locale presidio repubblicano si accanisce sul partigiano Luigi Berni, legato per il collo ad un camion con un cavo d’acciaio e trascinato per le strade fino alla morte per soffocamento [26]. Lo scempio a danno del Berni è l’ultimo atto della XXXVI° sul territorio toscano: su pressione delle SS i reparti della brigata sarebbero stati trasferiti prima in Emilia e poi in Piemonte, dove avrebbero continuato ad essere operativi fino al drammatico epilogo del fascismo a Dongo: qui Utimpergher viene fucilato il 28 agosto 1945, lo stesso giorno di Mussolini.

1Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 130-131

2Andrea Ventura (a cura di), La voce dei testimoni, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2020, p. 121

3Cit. in Ibidem, p. 95

4Ivi

5Ibidem, pp. 64-65

6Ibidem, pp. 95-96

7Divo Stagi, Racconto della mia vita, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2019, p. 49

8Cit. in Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, L’internamento libero nel comune di Altopascio (1941-1943), p. 39, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 39-61

9“Il ministro dell’interno […] ha disposto che non debbono rilasciarsi o rinnovarsi licenze per commercio ambulante di articoli di cancelleria e di toilette uso personale a persone appartenenti alla razza ebraica.”, in Virginio Monti, La Questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca, TraLeRighe Libri, Lucca 2021, p. 19

10Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, Op. cit, p. 40

11Ibidem, pp. 42-43

12 Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano 2002, p. 47

13Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista , 1940-1943, Mondadori, Milano 1996, p. 474

14Edoardo Longo, I Neri di Mussolini. Repubblica sociale e violenza fascista in Lucchesia, 1943-1944, tesi di laurea magistrale – Università di Pisa, a.a. 2017-2018, pp. 59-60

15 Ibidem, p. 61

16Il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche e più in generale dei cattolici nella Resistenza è stato aprofondito nel volume a cura di Gianluca Fulvetti Di fronte all’estremo. Don Aldo Mei, cattolici, chiese, resistenze, edito da Maria Pacini Fazzi nel 2014.

17Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…., pp. 79-80

18Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata Nera Mussolini, p. 92, in “Documenti e Studi” nn. 40-41/2016, pp. 89-115

19Ivi, p. 91

20Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata…, p. 94)

21Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 75-76

22Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 51-56, in Gianluca Fulvetti (a cura di), Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca – vol. 3, Pezzini, Viareggio 2016

23 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini, pp. 82-83

24 Ibidem, p. 84

25 L’intera vicenda è stata minuziosamente ricostruita da Feliciano Bechelli nel saggio La rappresaglia fascista del 23 settembre 1944 a Castelnuovo, in “Documenti e Studi” 43/2018, pp. 27-57

26 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 87-88




Un mito intoccabile?

Prefazione 

Strano destino quello del patrimonio culturale, ovvero di quell’insieme di beni che, per il loro valore culturale e memoriale rivestono un interesse pubblico. Definizione apparentemente netta e precisa ma in realtà contingente, suscettibile delle modifiche che tempi e sensibilità diverse possono suggerire. Chi stabilisce l’interesse pubblico dei beni che vengono poi definiti come patrimonio culturale? Chi decide che cosa è patrimonio culturale o no? Sembra, quest’ultima, una domanda banale; ma è una sensazione pronta a dissolversi in chi si ricordi del Medioevo, con il Colosseo adibito a luogo di pascolo, o chi, semplicemente, ricordi la Napoli degli anni Ottanta dove Piazza del Plebiscito era considerata un grande parcheggio. Sono solo due esempi di un elenco potenzialmente lunghissimo. Ma valgono a ricordare una cosa: che siamo noi a definire chi è e che cos’è patrimonio culturale, perché in quel bene rintracciamo i nostri valori e la nostra identità.

All’interno di questa definizione possiamo senza dubbio far rientrare la toponomastica, soprattutto quando in essa parte della popolazione rintraccia i suoi elementi identitari. Il pensiero corre dunque alla recente polemica che ha investito il Liceo Amedeo Duca di Savoia di Pistoia, balzato alle cronache di molti quotidiani in quanto il Collegio Docenti ha proposto un dibattito intorno alla possibilità di cambiarne la denominazione. Innumerevoli le sdegnate polemiche, generate dal fatto che nel nome del Liceo si intravvedeva parte dell’identità della città, e da un sentire comune che identificava in Amedeo Duca d’Aosta, Viceré d’Etiopia sotto il regime fascista, morto nel 1942 prigioniero degli inglesi, una persona non collusa con il Regime.

Dal Liceo al personaggio: il punto dell’analisi storica di Amedeo duca d’Aosta

La questione ha poi travalicato il contesto locale. Ambienti monarchici, giornali conservatori, esponenti di destra e gruppi reducistici sono intervenuti in difesa del duca, agitando lo spettro della “cancel culture” e derubricando i tentativi di problematizzare il personaggio a contraffazioni della storia. Si sono trincerati dietro a una rappresentazione apologetica di vecchia data, fondata su alcuni topoi (l’eroe dell’Amba Alagi, lo sconfitto a cui il nemico tributò gli onori, il “buon colonialista”, ecc.), che ignora quanto emerso negli studi soffermatisi, anche solo en passant, sulla figura . L’incrocio di questi testi, integrato con un affondo sulle fonti a stampa, aiuta a restituire le vicissitudini del principe sabaudo a una dimensione storica.

Il racconto consolidato vuole che Amedeo d’Aosta, nato del 1898, rimase lontano dalla scena politica, almeno fino alla metà degli anni ’30. In effetti, dopo aver partecipato come volontario al primo conflitto mondiale, nell’immediato dopoguerra alternò brevi periodi in Italia, per proseguire gli studi e la carriera militare, a lunghi viaggi in Africa, prima in Somalia, poi in Congo. La data di conclusione del secondo soggiorno è, però, dibattuta: per una versione, più diffusa, il gennaio 1923, per un’altra il settembre 1922, quando si sarebbe riunito al suo reggimento a Palermo. Una questione solo in apparenza di poco conto. Infatti, nella seconda ricostruzione – accettata al tempo, evidenzia Gianni Oliva – il principe, a fine ottobre, avrebbe raggiunto Roma per presenziare, in camicia nera, al corteo squadrista dinanzi al Quirinale. Questo implicherebbe una sua adesione al fascismo, antecedente all’instaurarsi del regime. Del resto, ciò sarebbe in linea con le posizioni assunte dal ramo cadetto della famiglia regnante, di cui era erede. Il duca Emanuele Filiberto, padre di Amedeo e celebrato generale della Grande Guerra, fu precoce sostenitore di Mussolini e, secondo voci del tempo mai confermate, fu dietro ai preparativi per la marcia su Roma, pronto persino a sostituirsi al re e cugino Vittorio Emanuele III, se questi si fosse opposto ai fascisti (A. Merlotti, Savoia Aosta, Emanuele Filiberto di, duca d’Aosta, in Dizionario Biografico degli Italiani, v. 91, 2018).

I Savoia-Aosta persero peso politico negli anni ’20, ma il regime continuò a servirsene a scopo propagandistico, specie del giovane principe. Con il suo stile di vita, incarnava il modello dell’uomo nuovo fascista: atletico, anticonformista, avventuroso, amante dei motori, appassionato dell’Africa e protagonista delle imprese coloniali. Tra il 1925 e il 1931, infatti, prese parte, per lunghi periodi, alla riconquista della Libia, una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Tra le dune libiche, il suo mito si consolidò: la pubblicistica, che lo ribattezzò il “principe sahariano”, dedicò ampi reportage alle sue azioni alla testa dei “meharisti”, le truppe indigene montate sui dromedari, e ai suoi voli nel deserto. Dell’esperienza in Libia, un passaggio poco indagato, perdura un ritratto romanzesco, senza cenni al suo coinvolgimento nell’attività repressiva. Eppure, non ebbe incarichi secondari: fu collaboratore, tra l’altro, del generale Rodolfo Graziani e partecipò all’offensiva contro l’Oasi di Cufra (gennaio 1931), su cui l’attenzione dovrebbe concentrarsi. Stando alla memorialistica e alla stampa coeva, il principe compii bombardamenti aerei contro il centro senusso e partecipò all’inseguimento, dai cieli, dei ribelli in rotta, tra cui vi erano anche donne e bambini. Per la rivista «Time» (Italia: Valanghe; Senussi, 9 febbraio 1931), in un articolo scritto quando i rapporti italo-americani erano ancora buoni, Amedeo si distinse nel bersagliare, con bombe e mitragliatrici, i fuggiaschi.

Rientrato in Italia e divenuto capo del casato, visse a Trieste, dedicandosi al volo e presenziando a iniziative pubbliche. Il duca partecipava alla vita del regime, ma non aveva incarichi di peso. L’occasione giunse sul finire del 1937: Mussolini gli offrì la carica di Viceré d’Etiopia. Avrebbe sostituito Graziani, che, nonostante i metodi brutali, non era riuscito a reprimere la resistenza etiope. Il duce si affidava a una figura prestigiosa,ma impreparata: Amedeo si era laureato con una tesi in diritto coloniale, ma non aveva mai ricoperto cariche politiche di grande responsabilità. Così, forse, il dittatore e gli apparati di regime contavano di avere tra le mani una personalità controllabile.

Nel primo periodo del suo mandato, in effetti, il duca incontrò difficoltà ad imporre la sua politica paternalistica e di conciliazione. Il generale Ugo Cavallero, comandante delle truppe e detentore in sostanza del potere militare, gestì la “pacificazione” in continuità con la condotta di Graziani: in questa fase avvenne la strage di Zeret (9-11 aprile 1939). Sembra che il duca preferisse non ricorrere a tali metodi, perché vanificavano i suoi piani, ma accettò – o, meglio, subì – la strategia del suo sottoposto. Dopotutto, quando il duce, spronato dagli iniziali successi, diede ordine di perseverare con questo approccio, il principe assicurò che la direttiva sarebbe stata eseguita con la massima energia .

Solo dopo la rimozione del generale (primavera 1939), il Viceré ebbe più margini, ma gli ostacoli furono diversi. Le trattative con i capi ribelli diedero risultati limitati, così le azioni repressive proseguirono, pur cercando di salvaguardare i civili. I tentativi di coinvolgere i notabili indigeni nell’amministrazione si scontrarono con l’opposizione del regime a forme di “dominio indiretto”. Non discusse, poi, le misure che contraddicevano le sue politiche. Nel suo mandato trovò applicazione la legislazione razziale e segregazionista, promulgata a partire dal 1937, che, normando la subalternità dei nativi, esacerbava le divisioni tra dominatori e dominati.

Di lì a poco, la crisi internazionale rese prioritaria l’organizzazione dei piani di guerra. L’Africa orientale italiana versava in una situazione disperata, accerchiata da colonie britanniche, difficilmente rifornibile (la Royal Navy dominava i mari) e difesa da un contingente, per metà composto di coloniali, logoro e male attrezzato. I territori del Corno d’Africa erano destinati ad essere perduti. Assalito da dubbi e scettico sull’intervento, si adeguò anche a questa scelta e assunse il comando delle forze regie nella zona. Dopo l’occupazione del Somaliland nell’estate 1940, la situazione iniziò a precipitare. La ribellione prendeva vigore, supportata da Londra, e aumentavano le avvisaglie della controffensiva britannica. Gli fu proposto di chiedere un armistizio separato, ma il principe rifiutò sdegnosamente: avrebbe significato tradire il sovrano, la patria e Mussolini, perdendo l’onore per sé e il casato. Per quanto descritto come una personalità autonoma, le vicende citate restituiscono altresì lo spaccato di una figura inquadrata nel regime, a cui fu fedele nei passaggi più controversi. Il suo atteggiamento dipendeva da un coacervo di fattori (la formazione militare, l’educazione patriottica, la tradizione familiare), che forse includeva anche un’adesione tutt’altro che formale al fascismo e fondata, in buona misura sulla devozione, per il duce, come traspare dai resoconti dei colloqui privati con la moglie del sovrintendente generale britannico in Kenya, Katharine Fannin (Alessandro Pes, British Eyes on the Fascist Empire: il viaggio di Katherine Fannin nell’Africa orientale italiana, in Id. (a cura di), Mare Nostrum. Il colonialismo fascista tra realtà e rappresentazione, Cagliari, Aipsa Edizioni, 2012, p. 26).

Nei primi mesi del 1941, le truppe regie furono travolte dalla controffensiva degli anglo-indiani, a cui si unirono le formazioni irregolari etiopi: il 6 aprile Addis Abeba veniva liberata. I comandi regi si trincerarono in vari ridotti. Il duca d’Aosta, alla testa di una forza piuttosto disomogenea di 7.000 uomini, ripiegò sul massiccio dell’Amba Alagi. Lì si si consumò la battaglia che costituisce la pietra angolare del suo mito. Prima che la narrazione epica divenisse dominante, alti ufficiali criticarono la scelta. Il gruppo montuoso era solo in apparenza inespugnabile e non aveva le risorse idriche necessarie al fabbisogno di migliaia di uomini. Vi erano, poi, alternative migliori, come unirsi ai 40.000 uomini del generale Nasi, nel Gondar (dove avrebbe resistito fino a novembre. A condizionare le mosse del duca furono, forse, l’inesperienza nel comandare grandi corpi ed errori di valutazione (in cui caddero anche generali navigati), oltre che una concezione premoderna della leadership, fondata sull’ostentazione delle virtù guerriere, ma slegata dalla pianificazione e dal calcolo. La scelta ricadde sulla montagna tigrina anche per assicurarsi, nel disastro, una fine memorabile ed eroica, emulando le gesta del maggiore Pietro Toselli, che nel dicembre 1895 vi cadde assieme ai suoi soldati, entrando però nel pantheon degli eroi della nazione.

Il 17 aprile, il Viceré si ritirò sul ridotto. Dopo l’iniziale speranza di poter prolungare la resistenza, il quadro si aggravò rapidamente. Furono presi contatti con i comandi britannici, frenati dalla ritrosia del principe a capitolare: temeva di infangare il suo onore. Neppure l’autorizzazione di Mussolini lo smosse. Tempo perduto, che comportò lo spargimento di altro sangue. Il duca, alla fine, acconsentì alla resa: a persuaderlo fu, forse, il timore che l’assalto finale sarebbe stato condotto dagli irregolari etiopi, di cui si temevano le rappresaglie. Il 19 maggio, il contingente regio lasciò il ridotto, transitando davanti al picchetto d’onore anglo-indiano. Tale aspetto è stato più volte evocato, nel recente dibattito, per provare la statura del personaggio. Nondimeno, in proposito sono necessarie opportune contestualizzazioni. Gli onori militari furono una delle condizioni poste dal Viceré per arrendersi, che i comandi britannici gli accordarono (Rovighi). Dopotutto, tale prassi, seppur di grande valore simbolico, non aveva costi strategici, ma anzi consentiva di risparmiare risorse e permetteva di avere un controllo più saldo sui prigionieri nelle convulse fasi successive alla cattura. Insomma, senza negare che le truppe regie si batterono bene, l’atto dei comandi britannici non può essere reputato spontaneo e disinteressato. Oltracciò, la cerimonia dell’onore delle armi avvenuta sull’Amba Alagi non fu un unicum nella seconda guerra mondiale. Durante l’invasione della Francia, i tedeschi garantirono simili onori ad alcune guarnigioni arresesi, così i britannici, proprio nel teatro africano, omaggiarono più gli italiani sconfitti.

La propaganda fascista sfruttò tale aspetto per enfatizzare la resistenza offerta dal distaccamento e indorare la notizia della disfatta, che preannunciava l’imminente, ma si credeva temporanea, perdita dell’Impero. “L’insuccesso glorioso” dell’Amba Alagi divenne oggetto di un racconto epico, di cui il Viceré ne era l’eroe. La sconfitta andava ricordata sia per celebrare la virtù dei protagonisti sia per alimentare la revanche nazionale. Il motto “ritorneremo” campeggiava nell’immagini del duca, risuonava nelle canzoni. Di lì a breve, questa retorica avrebbe attinto nuova linfa dalla fine prematura del Viceré in prigionia, il 3 marzo 1942, a causa del tifo e della malaria. Il regime sfruttò la notizia per demonizzare i britannici e fece del duca un eroe-martire da vendicare. La sua figura fu celebrata nei pamphlet, nelle iniziative pubblica e intitolandogli strade e edifici pubblici, come lo stesso Liceo scientifico di Pistoia.

Nel secondo dopoguerra, non soltanto i settori monarchici, gli eredi del fascismo e gli ambienti militari custodirono la memoria di Amedeo d’Aosta. Le stesse istituzioni repubblicane, che non avevano del tutto rinunciato alle aspirazioni coloniali, continuarono a celebrarlo. Nell’aeroporto di Gorizia, nel 1962, il presidente della Repubblica Antonio Segni inaugurò il Monumento all’Aviatore, un complesso ospitante una statua in travertino alta 5 metri del duca sabaudo, in uniforme da pilota e con il volto simbolicamente rivolto verso l’Africa, attorniata da dieci cippi commemoranti le sue imprese militari (dal Sabotino, nella Grande Guerra, a Cufra, in Libia, fino all’Amba Alagi). La sua figura fu poi ricordata in film, documentari e reportage delle riviste patinate dedicati allo scontro sulla montagna etiope: in essi, il Viceré spiccava positivamente come emblema del “colonialista buono”, una rappresentazione che ben si accordava col mito del “bravo italiano”. Nonostante, le iniziative pubbliche per ricordarlo si siano rarefatte e le iniziative per ricordarle siano diventate sempre più esclusiva di ambienti di nicchia, la rappresentazione romantica e malinconica, dai tratti quasi agiografici, del duca sopravvive. Sotto la coltre di un mito, «nel complesso […] falso, o falsificabile», come ha scritto Nicola Labanca, vi è una vicenda tutt’altro che lineare, con passaggi oscuri e controversi, che un’indagine storica puntuale dovrebbe farsi carico di ricostruire.

Francesco Cutolo ha conseguito il dottorato di ricerca in “Culture e società dell’Europa contemporanea” presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (novembre 2021).  Attualmente è docente a contratto presso l’Università di Pisa, per l’insegnamento Continuità e gestione della crisi, e “cultore della materia” in Storia contemporanea presso l’Università di Firenze. Dal 2015 collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia, per il quale svolge attività di ricerca e divulgazione sul territorio. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria. Società e storia pubblica» e «Storia locale». La sua ricerca si concentra sulla storia sociale, culturale e militare del primo Novecento. Tra i suoi lavori si segnala: “L’influenza spagnola del 1918-19. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (ISRPt Editore, 2020)

Chiara Martinelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze, dove insegna “Storia dell’educazione” e “Storia ed evoluzione dei servizi per la prima infanzia”. E’ membro del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia; collabora con i comitati di redazione di “Rivista di storia dell’educazione” e di “Farestoria”. La sua ricerca si concentra sulla storia delle istituzioni scolastiche in età contemporanea. Tra le sue opere, ricordiamo “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico–industriali italiane in età liberale” (Roma, 2019).