Per una “casa della memoria al futuro” a Maiano Lavacchio

nella nostra vita di ogni giorno
Albert Camus, 1946

 

Quando, più o meno quindici anni fa, all’ISGREC fu portato un pacchetto con alcuni oggetti, fra cui una tessera forata dal proiettile che aveva ucciso Attilio Sforzi il 22 marzo 1944 – era inimmaginabile quel che oggi sta accadendo: la concreta prospettiva di un luogo di memoria a Maiano Lavacchio.

Attilio è uno degli undici “martiri d’Istia”, vittime di una strage di esclusiva responsabilità fascista. L’episodio, non l’unico o il più sanguinoso nel grossetano, nei nove mesi di sciagurata complicità nella “guerra ai civili” tra il fascismo repubblicano di Salò e l’alleato occupante (esercito e formazioni speciali della Germania hitleriana), creò un sentimento di rivolta nella popolazione locale, che andò oltre la condanna politica. Disumana l’esecuzione sommaria di pochi giovani pressoché disarmati, atroce lo strazio di genitori lasciati ad assistere a una morte insensata. Ne possediamo ricostruzioni e spiegazione storica1, ma è anche alla sensibilità di uno scrittore che conviene ricorrere per far “sentire” il clima di quei momenti:

saforzi_portoarmi Gli ultimi istanti volarono come un vento teso, assordante. Corrado ebbe appena il tempo di abbracciare il fratello Emanuele e baciarlo: caddero di schianto, l’uno sull’altro, ammucchiati, rami rinsecchiti dal sole e divorati dal fuoco crepitante. Improvvisa una folata piena di colombi si aprì in verticale dai coppi rossastri del tetto grande, e volò di traverso a Montebottigli. La gente stordita seguì il volo, lontano, finché gli occhi poterono vedere tra il verde del forteto: uno spettro, l’elmetto nero traballante sugli occhi, dall’angolo del caseggiato vide saltar fuori il Cariti che tirava l’organetto a bottoni; e cantava a gola piena un’aria siciliana incomprensibile, colma di mestizia, di scherno, di passione carnale, di odio e di vendetta: innaturale. 2

L’evento è stato oggetto di commemorazioni annuali fin dal 1945, con una cerimonia nel tempo più partecipata e solenne, in un luogo che non ha mai cessato di trasformarsi. Dove avvenne l’esecuzione, è stata costruita una cappella. Poco distante, ai ragazzi è stato dedicato un sobrio monumento, dal 2016 affiancato da una targa con codice QR, che rinvia al sito www.cantieridellamemoria.it per la narrazione dell’evento. Accanto a questo, altri segni di memorie sono diffusi nell’area compresa fra la frazione di Istia d’Ombrone e il comune di Magliano. Un bassorilievo e una pietra d’inciampo ricordano le storie contigue di deportati politici, in località Campospillo, mentre fra Maiano Lavacchio e la frazione di Istia è possibile seguire il sentiero percorso dai carretti che trasportarono i corpi dei ragazzi verso la Chiesa di Istia, in violazione del divieto di celebrare funerali e dell’ordine di seppellire i ragazzi in una fossa comune. Fu il parroco, don Omero Mugnaini, a compiere un clamoroso gesto di rivolta. La risposta che gli si attribuisce, alle minacce delle autorità civili e militari italiane e tedesche: “Voi pensate ai vivi, ché ai morti ci penso io”, non rimase una frase: gli undici feretri furono accompagnati al cimitero da una folla, mentre ai lati della strada erano puntate sul corteo funebre le mitragliatrici.

La storia dei ragazzi provenienti da altri luoghi ebbe poi un seguito in quelli. A Cinigiano, i genitori di Alfiero Grazi adottarono il disertore tedesco (dodicesimo del gruppo sorpreso la notte tra 21 e 22 marzo nella capanna delle macchie di Montebottigli e fortunosamente sfuggito alla morte), che affrescò la cappella del cimitero di Cinigiano, dove fu definitivamente sepolto Alfiero. Quando il corpo di Antonio Brancati nel 1967 fu riportato a Ispica, lo accompagnò l’antifascista grossetano Francesco Chioccon3. La lettera ai genitori di questo ragazzo siciliano è una fra le tante pubblicate, dei condannati a morte della Resistenza italiana; analogamente pubblicata, anche se in un volume locale, l’orazione tenuta da Chioccon a Ispica.

È naturale che da una vicenda di tale forza emotiva subito siano nate canzoni in ottava rima, secondo una tradizione locale di musica popolare, ma anche dopo anni, in un continuum, fino ad oggi, la storia dei ragazzi uccisi abbia ispirato scrittori e autori di teatro4.

Hanno avuto una straordinaria capacità mitopoietica la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza (undici “agnelli” in un opuscolo commemorativo scritto a pochi mesi di distanza5), il gesto coraggioso del prete e dei grossetani che sfidarono le mitragliatrici, il racconto della crudeltà dei comportamenti dei fascisti. Nel cosiddetto processone per i crimini dei fascisti repubblicani, la corte d’Assise straordinaria dispose per i responsabili condanne severe, in nessun caso applicate interamente. Se nell’immediato dopoguerra il contesto della guerra civile lasciò che questa comparisse come una fra le tante storie di Resistenza, e i ragazzi, come nel rapporto del Capo della Provincia Ercolani, soggetti “politici”, la completa ricostruzione storica ha messo in luce la particolare complessità di questo, che è un episodio di “guerra ai civili”, ma con vittime che hanno fatto comunque una scelta netta, rifiutando l’arruolamento imposto dal bando Graziani nel costituendo esercito della RSI. Hanno disobbedito6, il loro gesto ha provocato altra disobbedienza, se immediatamente è nata la formazione partigiana della zona, cui ha aderito addirittura una donna testimone dello scempio. Il fine di pulizia del territorio delle politiche duramente repressive del fascismo repubblicano, a Grosseto gestite con il pugno di ferro dell’ex-ufficiale viterbese Alceo Ercolani, dopo il 22 marzo del ’44 sortì l’effetto opposto, allargando l’area del dissenso esplicito della popolazione locale, nelle campagne e in città.

Da qui è necessario prendere le mosse per leggere il passaggio dall’appena ventilata ipotesi di vendita a privati di un edificio-simbolo della strage, nel luogo dove fu consumata, all’attuale progetto di creazione di un luogo di memoria. Non appena il Comune di Magliano in Toscana espresse la necessità di intervenire su un edificio malridotto e inutilizzato, anche alienandolo, una risposta corale dal territorio fu così persuasiva da bloccare ogni intervento a rischio di “inquinamento”. L’edificio è la vecchia scuola elementare, che raccoglieva bambini dell’area rurale, costruito negli anni di urbanizzazione delle campagne maremmane, post-riforma agraria.

L'ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

L’ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

Il valore simbolico non appartiene allo spazio fisico – aula, casa del custode – ma alla sua capacità evocativa; fu nell’edificio del podere, nella stanza adibita ad aula della scuola all’epoca degli avvenimenti, che i ragazzi furono rinchiusi dopo l’arresto, la notte tra 21 e 22 marzo, e processati e condannati a morte. Sulla lavagna i due fratelli Matteini scrissero il messaggio “mamma Lele e Corrado un bacio,”. Quel frammento staccato dal rettangolo d’ardesia a quadretti bianchi e quelle parole tracciate col gesso bianco devono aver pesato come un macigno sulla coscienza di chi, concittadino colpevole o complice, l’ha vista riprodotta tante volte sulle pagine delle cronache locali nei dintorni delle commemorazioni annuali o se l’è trovata di fronte, entrando nella stanza del Sindaco di Grosseto, dove fu collocata nel 1976.

Così è partita una sfida: trasformare lo spazio fisico – la piccola scuola anni Sessanta – in un luogo di memoria. Operazione di per sé culturalmente complessa (come trovare una chiave per dare la giusta misura al rapporto tra significante e significato?), assai impegnativa in un tempo in cui nuovi e inediti contesti impongono un sovrappiù di riflessione sul rapporto con il passato e la storia. A queste si sono sovrapposte, sovrastandole, le difficoltà concrete: risorse, competenze, tempi… Lungi dall’essere questi ostacoli superati, il dato attuale è un percorso avviato e in atto.

 

MAIANO LAVACCHIO LUOGO DI MEMORIA VIVA

Come il pescatore di perle che arriva nel fondo del mare
non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per liberare
staccando dalla profondità le cose preziose e rare, perle e coralli,
e per riportarne frammenti alla superficie del giorno
nuove forme e formazioni cristallizzate, rese invulnerabili contro gli elementi,
sopravvivono e aspettano solo il pescatore di perle
che le riporti alla luce come “frammenti di pensiero”
H. Arendt, Il pescatore di perle

La svolta è arrivata dall’incontro con un architetto, Edoardo Milesi, non nuovo a interessi per temi analoghi – a suo tempo si era occupato del Memoriale italiano di Auschwitz. Da un fitto scambio di idee, sopralluoghi e infine confronti con il Comune ha preso forma l’idea di un luogo di memoria viva, che dal frammento di storia sottratto alla futura dimenticanza possa trarre pretesto per proporre una “partecipazione a esperienze culturali anche su altro”. Il fine: non rinnovare “epoche già consumate”, piuttosto, come il pescatore di perle che evoca la visione della storia di Walter Benjamin, produrre una cultura per il futuro.

area scuolinaScegliere un luogo, riempirlo di cose e simboli, stabilirne l’uso sono operazioni tutt’altro che facili: crocevia di saperi, intenzioni pubbliche, tradizioni e sensibilità individuali. Fuori da sovrapposizioni meccaniche e forzature, serve tenere ferma l’idea che non c’è una corrispondenza facile tra fatti, memorie, significati e valore storico. La partizione degli spazi che il progetto architettonico prevede è rappresentazione del carattere di memoria viva, non schiacciata su un evento, non prospettiva di museo da visitare solo per conoscere o provare emozioni, entro i limiti di un preciso e circoscritto contenuto storico. Il materiale che possediamo comprende i dati fattuali delle storie, le culture di cui portano tracce la fisicità dei luoghi, gli ambienti e persone che li abitano. Ma la scelta condivisa tra l’ISGREC, l’architetto e il Comune è stata quella di andare oltre i limiti di un rapporto esclusivo con il luogo in quanto teatro di un evento, oltre i rischi dell’uso autoreferenziale della memoria.

C’è una relazione sempre più urgente da proporre al nostro lavoro sulla memoria. Fenomeni che si consideravano irripetibili, valori acquisiti una volta per tutte rivelano invece una pericolosa precarietà. Gli anniversari recenti – la Grande Guerra e l’emanazione delle leggi razziali italiane – i prossimi – l’inizio della II guerra mondiale – sono materia viva: xenofobie, razzismi, fino a genocidi e stragi di civili hanno diverse geografie, ma sono tornati ad essere parte del tempo presente. Molte di quelle che sono state a lungo memorie europee condivise sono escluse dal calendario civile in ampie zone dell’est Europa. La pace si è trasformata in tregua armata, carica di tensioni crescenti. Così la cifra della memoria è la sua capacità di guardare al futuro.

L’idea forte, divenuta un vero progetto – tavole e calcoli metrici e preventivo dei costi – è stata quella di Spazi da abitare: le stanze della memoria dei Martiri d’Istia aperte, contenitori di esperienze da fare, che conservino e via via sedimentino tracce del rapido transito o di una più lunga permanenza di persone. Cucina, foresteria, porticato esterno.

Pochi e semplici arredi, una sezione didattica con strumenti essenziali per stages, visite didattiche , laboratori e seminari.

I primi ad abitare quel che potrà essere realizzato nel novembre 2018 saranno gli studenti e gli insegnanti europei dell’Erasmus+ Our memories and I7. Già una trentina di classi di scuole superiori stanno lavorando a monitorare identità personali, familiari, delle comunità di appartenenza, a testare con esperienze personali o di gruppo quel che rimane intorno a loro del passato comune, più o meno vicino a loro (nessuno è nato prima del 2000). Insieme ai loro insegnanti e a un artista8 hanno cominciato ad esplorare musei e memoriali, a sperimentarsi come autori di un’elaborazione del proprio vissuto personale e di gruppo (familiare, etnico…). Gli studenti francesi e spagnoli hanno trovato rispettivamente nel Mémorial di Rivesaltes e nel Museu Memorial de l’exili (MUME) di La Jonquera materia per leggere un passato di fuga di massa dalle violenze di una guerra civile. Spagnoli e brigatisti internazionali hanno lasciato tracce del loro passaggio attraverso i Pirenei; il Museu Memorial de l’exili è stato edificato 10 anni fa sulla frontiera9. Le storie personali di cui sono piene carte, fotografie, registrazioni presenti nel MUME in una settimana di lavori di gruppo sono state materiale di studio, riflessione e comparazione su altre, nuove frontiere, che altri popoli attraversano.

erasmusplus

Il gruppo dell’Erasmus+ nel campo di Rivesaltes

A Rivesaltes sono conservate storie analoghe e diverse. È un campo nato negli anni Trenta del Novecento, ma vi sono stati ristretti anche algerini negli anni Sessanta. Oggi è un modernissimo laboratorio, spazio per studi e progetti culturali. Si sono cimentati in gruppo sull’esperienza del Memoriale gli studenti dei paesi partner, in una babele di lingue e competenze storiche che ha prodotto corti-circuiti interessanti. L’ultima tappa dell’esperimento collettivo sarà Maiano Lavacchio, stavolta a guida grossetana. Servirà a misurare l’efficacia dell’idea progettuale con i destinatari privilegiati, giovani lontani dalle vicende da cui scaturisce la scelta dei luoghi.

Certo, lo spazio piccolo del nostro insediamento rurale non potrà somigliare a luoghi che sono stati oggetto di generosi investimenti pubblici. Del resto, la pur alta capacità rappresentativa della strage di marzo a Maiano Lavacchio non è comparabile alla enormità dei fatti cui rimandano La Jonquera e Rivesaltes: la marea umana che oltrepassò i Pirenei, le decine di migliaia di indesiderabili, gli antifascisti, gli ebrei che a Rivesaltes vissero l’anticipazione del lager, fino ai citati algerini10

Tuttavia, la comparazione tra vicende, il dialogo e il lavoro comune tra persone portatrici di esperienze e saperi diversi sono le condizioni che danno senso lavoro su storia-memoria.

Quelli attuali sono giorni cruciali per questo progetto. È stata appena ufficializzata l’acquisizione da parte dell’ISGREC della scuola, in forza di una convenzione che dà avvio alla ricerca di risorse finanziarie. Il 22 la commemorazione vedrà, come al solito, la presenza delle istituzioni e di cittadini. Ci saranno anche gli studenti del Liceo linguistico Rosmini, reduci dal primo viaggio dell’Erasmus e per i prossimi due anni impegnati in Our memories and I.

Nessun indizio materiale dà evidenza a queste novità, ma per la casa della memoria al futuro di Maiano Lavacchio il primo passo – l’uscita dal regno di utopia – è fatto; non era il più facile.

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Note:

1 Il primo tentativo di ricostruzione della vicenda è in M. Magnani, La strage di Istia d’Ombrone (22 marzo 1944), Il Grifone, Grosseto 1945. In molte pubblicazioni successive esistono riferimenti e qualche sintetica cronaca del fatto. È del 1995 un volume prezioso per le fonti che utilizza: C. Barontini, F. Bucci, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci “ragazzi”, un decoratore mazziniano, un disertore viennese, ANPI, Grosseto. Una completa ricostruzione storica è in M. Grilli, Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, edizioni ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2014.

2 G. Gianni, Nell’ombra delle stelle, Il paese reale, Grosseto 1973.

3 L’orazione di Chioccon è riprodotta in N. Capitini Maccabruni, La Maremma contro il nazifascismo, Provincia di Grosseto, 1984, pp. 143-8.

4 Un primo spettacolo teatrale fu rapppresentato a Grosseto negli anni Sessanta. È Oltre il ponte, autore e regista Mario Sermoni. Recente è AG46, produzione NONE-ISGREC, rappresentato più volte nel 2006.

5 M. Magnani, cit.

6 Cfr. il capitolo La scelta, in C. Pavone, Una guerra civile. Storia della moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 3-62.

7 L’Erasmus+ Our memories and I ha avuto inizio nel settembre 2017 ed ha durata biennale. I paesi partner sono: Croazia, Francia, Germania, Italia, Spagna. I partner italiani: il liceo linguistico dell’Istituto Rosmini e l’ISGREC. Sedi dei partner stranieri: Split in Croaiza, Perpignan in Francia, Figueres in Spagna, Berlino in Germania.

8 Due gruppi di studenti – i francesi e gli spagnoli – hanno già prodotto manufatti esposti in mostre allestite nei due licei (Monturiol di Figueres e Pagnol di Perpignan). Le performances prodotte dai ragazzi stimolati da Rma Kroke

9 All’ingresso del MUME una targa con loghi grossetani e toscani ricorda il passaggio di antifascisti che dalla Toscana erano andati a combattere come volontari nella guerra di Spagna e da lì entrarono in campi di concentramento. Cfr. in questo sito il database Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola. La storia dei campi è in E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini, ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2017.

10 Cfr. F. Bensaci-Lancou, Fille de harki. Éditions de l’atelier, s.d.. Fatima Bensaci racconta la storia quasi sconosciuta, in Francia forse rimossa, della minoranza algerina degli harkis, che furono internati dopo la guerra d’Algeria nel campo di Rivesaltes.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




“Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione”

Il salvataggio e la distruzione del patrimonio artistico pistoiese durante la seconda guerra mondiale sono i protagonisti di questa inedita e singolare ricerca a cura di Alessia Cecconi, storica dell’arte, direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica) della Valdibisenzio, e di Matteo Grasso, storico, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia.

La ricerca delle vicende pistoiesi è confluita in una mostra svoltasi a Pistoia nel Chiostro di San Lorenzo, dall’8 al 20 settembre 2017, e in una pubblicazione edita nel novembre 2017 da Pacini Editore.

Dagli archivi storici della Soprintendenza fiorentina, dai numerosi archivi pistoiesi e dall’Archivio nazionale di Washington sono emersi documenti, registri, carteggi e minute che hanno permesso di ricostruire le vicissitudini accadute alle opere d’arte dei musei e degli edifici religiosi, la loro messa in sicurezza, le protezioni in muratura, i trasferimenti nelle ville di campagna e le distruzioni causate della guerra.

Tra le principali novità della ricerca c’è la ricostruzione, per la prima volta, del ruolo della villa di Pian di Collina a Santomato di proprietà Beretta. Nel 1942 la Soprintendenza individuò tra Firenze, Arezzo e Pistoia una ventina di nuovi rifugi per le opere d’arte in modo da proteggerle dalle offese aeree: tra queste la villa di Pian di Collina. Nell’estate 1943 le sale della villa videro arrivare il primo camion di opere con i dipinti, provenienti dagli Uffizi, di Filippo Lippi, Beato Angelico, Luca Signorelli, Rosso Fiorentino, Parmigianino. Una ventina di capolavori ai quali si erano aggiunte altre casse ritirate dalla villa di Poggio a Caiano contenenti i sette capolavori medievali di Pistoia ricoverati nel 1940 alla Villa Medicea, fra cui il Crocifisso di Giovanni Pisano e l’imponente Crocifissione di Coppo e Salerno di Marcovaldo.

Ampio spazio è stato dedicato ai bombardamenti alleati su Pistoia, colpita pesantemente fra il 1943 e il 1944, a causa della presenza di vie di comunicazione e di numerosi obiettivi industriali e militari, che provocarono oltre centocinquanta vittime, distruzioni pesantissime e il completo sfollamento della città. Nel territorio della Diocesi dodici chiese furono rase al suolo, cinquantuno risultarono gravemente lesionate e sessantatré leggermente danneggiate.

Per la prima volta è stato fatto il punto su tutte le distruzioni del patrimonio monumentale pistoiese, una ferita profonda e da cui però partì un’opera di ricostruzione eccezionale. Nel centro storico fu distrutta la chiesa di San Giovanni Battista e buona parte del Conservatorio, con il suo immenso patrimonio, e furono seriamente danneggiate le chiese di San Domenico e di San Giovanni Fuorcivitas. Alcune bombe cadute sulle città rimasero inesplose, altrimenti oggi non potremmo ammirare in tutta la loro bellezza il palazzo del Tribunale, la chiesa di Sant’Andrea, i faldoni più preziosi dell’Archivio di Stato e il Medagliere Gelli.

Altra importante novità emersa nel corso della ricerca è la requisizione da parte dell’esercito tedesco di importanti opere artistiche fra cui le robbiane dell’ospedale del Ceppo e il quattrocentesco Stemma del Comune che erano state riposte dai funzionari della soprintendenza alla villa di Poggio a Caiano.  Vennero trasferite in Alto Adige insieme a migliaia di opere fra cui alcune sculture di Donatello e Michelangelo custodite nel Museo del Bargello. Furono recuperate nel luglio 1945 grazie al lavoro degli uomini della soprintendenza fiorentina e dei “monuments men”, la task force americana messa in campo per la protezione delle opere d’arte, con l’intervento di vari personaggi tra cui l’arcivescovo fiorentino Elia Dalla Costa e monsignor Giovan Battista Montini, segretario di Stato del Vaticano e futuro papa Paolo VI.

Oltre settanta fotografie accompagnano la mostra e il libro. Provengono da collezioni private e dagli archivi fotografici delle Gallerie degli Uffizi, della Soprintendenza di Firenze Prato e Pistoia, dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, della Fondazione Conservatorio di San Giovanni Battista in Pistoia.

Fra le immagini inedite vi sono quelle del trasporto delle opere artistiche dal Palazzo Comunale, dei camion della Soprintendenza a Pistoia, della protezione al pulpito di Giovanni Pisano nella chiesa di Sant’Andrea, dei danneggiamenti in piazza della Sala con la semi distruzione del pozzo del Leoncino, della distruzione di San Giovanni Battista, delle rovine all’interno di San Giovanni Fuorcivitas, e la Visitazione di Luca della Robbia smembrata per essere portata in sicurezza.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. E’ direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia dal luglio 2016. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. 

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




La guerra aerea in provincia di Lucca 1943-1945

Durante il secondo conflitto mondiale la guerra aerea giunse tardi in provincia di Lucca, concentrandosi prevalentemente tra il novembre del 1943 e il settembre dell’anno successivo. Solo nelle aree rimaste sotto controllo tedesco – alcune porzioni dell’Alta Versilia e della Garfagnana settentrionale – essa sarebbe proseguita fino alla primavera del 1945, quando le forze alleate sfondarono definitivamente la Linea Gotica, dilagando nella Pianura Padana e ponendo fine alla sanguinosa campagna d’Italia. La provincia era a lungo apparsa come un santuario, tanto che fin dal 1940 erano giunti numerosi profughi dalle aree bombardate della penisola, in cerca di una nuova, provvisoria sistemazione o di un luogo più sicuro in cui vivere. Questa illusoria immunità fu dovuta soprattutto al fatto che durante i primi anni di guerra la Lucchesia rimase al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri che decollavano dalla Gran Bretagna. Anche dopo l’ottobre del 1942, quando la strategia britannica virò verso quell’area bombing che veniva già impiegato sul Reich, la provincia continuò a rimanere al sicuro dagli attacchi aerei. In questa fase i bombardamenti non miravano più a bersagli puramente militari, quanto piuttosto al morale dei civili. I vertici della Royal Air Force ritenevano – correttamente – che le difese attive e passive delle città italiane fossero più labili rispetto a quelle tedesche, rendendo quindi la popolazione particolarmente vulnerabile. Lo scopo era quindi soprattutto politico e volto ad accelerare l’uscita italiana dal conflitto, minando, attraverso i bombardamenti, la già traballante fiducia che gli italiani nutrivano nei confronti del regime. In questo contesto la scarsità di obiettivi appetibili – fondamentalmente grandi centri abitati o importanti complessi industriali – giocò a favore della Lucchesia, che riuscì ad evitare anche le pesanti incursioni compiute a partire dall’estate del 1943 nell’ambito dell’Operazione “Pointblank”.
La provincia di Lucca non riuscì però a rimanere completamente estranea alla guerra aerea. A partire dall’autunno del 1943 il suo territorio era ormai nel raggio d’azione dei velivoli alleati ed era inevitabile che la sua rete stradale e ferroviaria venisse inclusa tra i bersagli da colpire. Fin dall’inizio della guerra, anche se a fasi alterne, le ferrovie e gli scali di smistamento erano infatti stati in cima alla lista degli obiettivi, per quanto ad essi fossero stati spesso privilegiati i centri cittadini, quelli industriali o le basi dei sommergibili tedeschi. Dopo almeno 65 allarmi aerei scattati tra settembre e ottobre, e un bombardiere pesante B-24 “Liberator” abbattuto sui cieli di Lucca il 1° ottobre, la prima incursione degna di nota fu compiuta sull’area ferroviaria di Viareggio la sera del 1 novembre 1943. La città era illuminata e la reazione antiaerea quasi nulla, quindi il bombardamento compiuto dai 19 bimotori inglesi Vickers “Wellington” risultò molto preciso. Il raid successivo del 30 dicembre, sempre sullo scalo viareggino, fu eseguito da bombardieri medi B-26 “Marauder” statunitensi ed ebbe conseguenze più tragiche. Il bersaglio non era ben visibile e molte bombe caddero sulle abitazioni adiacenti, causando 19 morti e 51 feriti: il bombardamento risultò così disperso che alcuni ordigni finirono a diversi chilometri di distanza, colpendo il territorio del comune di Massarosa.

8 gennaio 1944: bombe alleate sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

8 gennaio 1944: bombe alleate cadono sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

Il nuovo anno vide invece la stessa Lucca nel mirino delle forze aeree alleate, colpita dai B-26 durante il “bombardamento di Befana” del 6 gennaio e in quello di due giorni dopo. Gli obiettivi erano la stazione ferroviaria e le industrie del vicino quartiere di San Concordio, dove morirono almeno 24 persone, mentre altre decine rimasero ferite. Per molti lucchesi i due bombardamenti del gennaio del 1944 furono la prima esperienza diretta della guerra, nonostante il paese vi fosse impegnato da quasi quattro anni. Non stupisce quindi che quegli eventi si siano fissati nella memoria dei testimoni oculari, come Giovanni Bucci, che durante l’attacco si trovava in casa con il fratello più piccolo:

[…] subito una casa vicino a noi crollò con le macerie che ci sfiorarono. Ricordo cadere giù la macelleria di Fioravante Paoli, detto nel quartiere “Fiore”, che venne estratto dalle macerie e che ebbe problemi alle ginocchia per tutto il resto della sua vita […].

Nei mesi successivi fu soprattutto la Versilia ad essere presa di mira dai velivoli alleati, con Viareggio che da sola, tra gennaio e aprile, subì almeno 17 attacchi sull’area portuale e su quella ferroviaria. Particolarmente distruttivo si rivelò il bombardamento del 13 marzo, quando 27 B-26 colpirono un treno in sosta carico di passeggeri, causando 62 morti e 79 feriti.
L’aprile del 1944 vide l’inizio dell’Operazione “Strangle” (strangolamento), all’interno della quale sono state a volte erroneamente inserite le incursioni avvenute sulla Lucchesia nei mesi precedenti. “Strangle”, come il nome suggerisce, mirava all’interdizione delle vie di comunicazione del Centro e del Nord Italia, così da ostacolare i rifornimenti che giungevano alle forze tedesche in difesa della Linea Gustav, a sud di Roma. Anche se in provincia di Lucca la tipologia delle azioni non subì drastici cambiamenti, in quanto i velivoli alleati si erano sempre concentrati su questi obiettivi, gli attacchi iniziarono ad avere un respiro più ampio. In precedenza erano state soprattutto le stazioni e gli snodi a finire nel mirino, adesso tutta la rete viaria e ferroviaria divenne bersaglio delle incursioni, che in alcuni casi assunsero dimensioni considerevoli. È il caso del bombardamento del 12 maggio su Viareggio, una delle rare occasioni in cui i bombardieri pesanti B-24 della 15ª Air Force statunitense vennero impiegati sui cieli della Lucchesia. Furono sganciate circa 125 tonnellate di bombe, che colpirono lo scalo ferroviario, la linea Lucca-Viareggio e la zona portuale. Fu però nell’accanimento contro il ponte stradale e quello ferroviario di Ponterosso, nel comune di Pietrasanta, che la Versilia sperimentò appieno l’operazione Strangle. A partire dal 18 maggio 1944 la piccola frazione subì quindici attacchi, che tuttavia fallirono nell’abbattere il doppio ponte sul fiume Versilia a causa delle usuali difficoltà di puntamento e delle dimensioni relativamente piccole dei bersagli. Danni più pesanti subirono invece l’abitato di Ponterosso e le frazioni limitrofe. Ironia della sorte, furono i tedeschi alla fine a far saltare i ponti per ostacolare l’avanzata alleata.

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

La differenza più marcata con i mesi invernali fu però l’impiego relativamente diffuso di piccoli gruppi di cacciabombardieri. La quasi totale assenza di aerei tedeschi (o della Repubblica Sociale Italiana) permetteva l’utilizzo massiccio dei caccia alleati in missioni di attacco al suolo, armati con bombe e con le armi di bordo, per lo più mitragliatrici pesanti. Impiegati in modo flessibile e senza ordini troppo rigidi, ai piloti veniva data ampia discrezione sull’attacco di “bersagli occasionali” dopo aver portato a termine la missione principale. Queste rapide, spesso improvvise incursioni, causavano danni molto meno gravi rispetto a quelle dei bombardieri medi e pesanti, ma tenevano sotto costante pressione le truppe tedesche in movimento allo scoperto nelle ore diurne. Erano anche fonte di continua preoccupazione per la popolazione civile perché a volte era proprio quest’ultima a farne le spese, o come danno collaterale o per essere stata confusa con i tedeschi. Attacchi di questo tipo resero ogni luogo della Lucchesia potenzialmente a rischio, tanto che diversi territori rimasero del tutto al sicuro dai bombardamenti per essere però saltuariamente oggetto di incursioni da parte di questi agili velivoli. Un caso tipico in Versilia è quello del comune di Massarosa, dove esse causarono la morte di almeno dieci persone – tra le quali un soldato tedesco – e il ferimento di altre cinque. Gli attacchi aerei proseguirono per tutta l’estate fino a ridosso dell’arrivo delle forze alleate, che entro la fine del settembre del 1944 avevano respinto i tedeschi da quasi tutto il territorio provinciale.
Le aree più settentrionali dell’Alta Versilia e della Garfagnana, colpite anch’esse fin dall’estate, rimasero in mano tedesca, continuando di conseguenza ad essere martellate dagli aerei alleati, che miravano, oltre che alle solite vie di comunicazione, a depositi, magazzini e concentramenti di truppe. In una di queste azioni, compiuta su Castelnuovo Garfagnana il 13 febbraio 1945, alcuni cacciabombardieri, probabilmente nel tentativo di colpire una postazione di artiglieria tedesca, centrarono invece un rifugio antiaereo, provocando la morte di 30 persone. Si calcola che tra il luglio del 1944 e l’aprile dell’anno successivo la zona attorno al capoluogo garfagnino fu interessata da circa 70 incursioni. Altre colpirono il territorio del comune di Minucciano, mentre durante l’estate erano state prese di mira le aree di Camporgiano e Piazza al Serchio.
Da questa rapida carrellata è evidente la sproporzione con cui le bombe colpirono il suolo lucchese. Se nell’entroterra la Garfagnana soffrì considerevolmente, i comuni limitrofi a Lucca – su cui però abbiamo meno dati – furono meno interessati dall’offesa aerea. Nel caso specifico della Mediavalle del Serchio, la distribuzione degli attacchi seguì di fatto solo la linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio. La stessa Lucca, fatta eccezione dei già citati bombardamenti del 6 e 8 gennaio 1944, venne attaccata solo sporadicamente e, nelle settimane che precedettero e seguirono l’arrivo degli Alleati, fu danneggiata più dal fuoco dell’artiglieria che dalle bombe aeree. La fascia costiera della Versilia rimase nel centro del mirino a lungo e fu colpita duramente, ma anche nel suo caso la geografia delle incursioni è peculiare della diversa importanza data dagli Alleati a determinati obiettivi. Viareggio, con il suo porto e il suo scalo ferroviario che fungeva da collegamento con Pisa, dove nell’estate del 1944 il fronte rimase fermo per alcune settimane, fu colpita almeno 47 volte – 70 secondo altre fonti -, con la frequenza dei bombardamenti che aumentò a partire dal maggio del 1944. La città ebbe un bilancio finale di 125 morti, a cui si deve aggiungere un numero più alto di feriti. Anche la minuscola Ponterosso, per via del suo doppio ponte, fu interessata da quasi 20 attacchi. Viceversa, Massarosa e Camaiore, avendo infrastrutture meno importanti, subirono solo poche incursioni, anche se quest’ultima fu oggetto di due bombardamenti piuttosto pesanti il 22 e il 28 luglio 1944.

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta durante un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta da un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Si tratta comunque di numeri quasi insignificanti nel contesto generale della guerra aerea, soprattutto se raffrontati con quelli di altre aree della penisola, per non parlare del Nord Europa. Anche i bombardamenti più massicci – quelli di Lucca del gennaio 1944 e quelli di Viareggio – videro l’impiego di poche decine di velivoli e il costo complessivo in vite umane, per quanto tragico, fu tutto sommato contenuto. Tuttavia, per chi si trovò suo malgrado sotto le bombe, l’esperienza non era dissimile da quella di decine di migliaia di altre persone – civili e militari – che subirono attacchi aerei durante la guerra. Al senso di impotenza e di terrore provato durante le incursioni si sostituivano la disperazione e la rabbia una volta appurati i danni e fatta la conta dei morti e dei feriti. Così Silvio Basile ricorda il bombardamento di Camaiore del 22 luglio, uno dei pochissimi subiti dalla città:

Quei criminali avevano fatto strage di povere donne venute lì (nella piazza del mercato) da tutta la vallata a prendere il sacchetto di grano distribuito dall’annona. I muri, o quel che ne restava, erano ricoperti di pezzetti di cervello. Era tutto un lamentarsi di feriti e un urlare di gente accorsa. Un giovane correva fra le buche aperte dalle bombe invocando sua madre a perdifiato […].

A fianco di commenti come questo, del tutto comprensibili date le circostanze, vi sono ricordi sorprendentemente favorevoli nei confronti degli aviatori alleati. Così ricorda Giovanna Davini, che si trovò sotto le bombe a San Concordio il 6 gennaio 1944:

[…] La considerazione verso gli Alleati rimase immutata nonostante queste bombe del giorno di Befana. Il fascismo, almeno nella nostra famiglia, dopo le leggi razziali e l’entrata in guerra, non godeva più di alcun consenso.

Del resto, lasciando in questa sede da parte le lunghe, spesso aspre, diatribe attorno al bombardamento strategico, nate già durante la guerra e proseguite fino ad oggi, da questa disamina appare chiaro come gli obiettivi presi di mira in Lucchesia dai velivoli alleati fossero completamente legittimi. Le azioni aeree mirarono quasi esclusivamente all’interdizione delle vie di comunicazione e, in misura minore, a colpire concentramenti di truppe. Inevitabilmente, a causa della cronica difficoltà nell’identificare i bersagli e dell’intrinseca imprecisione delle bombe e degli strumenti di puntamento dell’epoca, in molti casi a farne le spese fu anche la popolazione civile. Vittima, quest’ultima, di una guerra fortemente voluta dal regime fascista, gestita e combattuta malamente, che portò alla distruzione del paese e alla morte di quasi mezzo milione di italiani, almeno 70.000 dei quali caduti sotto le bombe sul suolo nazionale.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




La reazione dentro l’innovazione. Il contratto di mezzadria toscano nel 1928

Preceduto da un nuovo capitolato colonico stipulato dai sindacati fascisti già nel 1926, il contratto di mezzadria toscano del 1928 è uno spartiacque importante nella storia di questo istituto agricolo nel Novecento, rimanendo in vigore – grazie alle resistenze padronali – ben oltre la fine del Regime. Fu infatti soltanto all’epoca dell’epilogo dell’Italia rurale, nel 1964, che si intervenne per via legislativa a riformarlo.

Arrivato dopo una discussione con gli agrari, che avrebbero preferito restaurare la consuetudine dell’accordo individuale, magari non scritto, il contratto fu spinto dallo stesso Gran consiglio del fascismo, che nel 1927 stabilì che la mezzadria doveva essere regolata tramite accordi collettivi siglati con i sindacati fascisti. Nel 1928 fu quindi varato il “Contratto collettivo di lavoro per la conduzione dei fondi a mezzadria nella regione Toscana”, da subito portato a modello per tutta l’Italia come forma fascista preferita per la regolazione dell’agricoltura, con l’istituto mezzadrile, letto in chiave ideologica come “armonioso”, esaltato e promosso. Nei fatti tuttavia, arrivando dopo la grande stagione di lotte ed avanzamenti – ancorché solo sulla carta – del 1919-20, il contratto del ’28 segnava la vittoria di una feroce reazione.

Sul piano generale, il “capoccia” continuava ad impegnare l’intera famiglia, perpetrando così il modello patriarcale. La “disdetta” veniva di fatto mantenuta libera – con tanto di possibilità da parte del concedente di recidere in tronco in contratto senza preavviso – mitigata solo dall’obbligo di convalida presso al Magistratura del lavoro, che si limitava a sanzionare un’azione già avvenuta, e con la previsione di una possibile accordo tra le organizzazioni sindacali fasciste, chiamate a rappresentare tanto i padroni che i mezzadri e vanificando per questa via qualsiasi reale tutela della parte più debole. Il riparto di tutti i prodotti e i redditi delle industrie poderali restavano ripartiti a metà, secondo i canoni classici della mezzadria. La direzione amministrativa e tecnica rimaneva saldamente in mano al proprietario, con l’esclusiva facoltà di decidere in merito alla scelta delle sementi, delle coltivazioni ed alla loro direzione tecnica, così come gli indirizzi zootecnici.

Il Contratto entrava nel merito di tutte le questioni mezzadrili. Il carattere reazionario era evidente anche in queste questioni più dettagliate. Il colono doveva immettere in proprio gli attrezzi e gli utensili. Tutta la famiglia era tenuta a lavorare sul podere eseguendo in maniera intelligente e disciplinata le istruzioni del proprietario, che in caso di rifiuto aveva la facoltà di assumere dei braccianti addebitando la spesa al mezzadro. Al colono era vietato di svolgere qualsiasi lavoro per conto terzi, salvo autorizzazione del proprietario. Erano a carico del mezzadro il mantenimento delle strade poderali e la manutenzione. Il contadino doveva provvedere anche al trasporto dei prodotti alla fattoria padronale o alla stazione ferroviaria. A metà erano divise anche le spese che sarebbero dovute essere a carico del proprietario, come quelle per i citati trasporti e l’assicurazione sul bestiame. Sempre a metà restavano l’acquisto di concimi, sementi, anticrittogramici e insetticidi, anche se il colono non aveva voce in merito a quali e quanti. Laddove le necessità della produzione moderna comportavano l’uso di macchinari, come nella trebbiatura, il colono doveva pagare un canone di affitto al proprietario, o sostenere la metà delle spese, in aggiunta al proprio lavoro, per l’affitto di macchine necessarie alla lavorazione del terreno. In merito alla vendita dei prodotti, le operazioni spettavano al padrone. Nel caso il raccolto di cereali non coprisse le esigenze alimentari della famiglia, il proprietario avrebbe provveduto con una quota della sua parte, ceduta però a prezzo di mercato. Una norma, fra le numerose, rende bene l’idea del permanere di un regime di potere feudale: le castagne venivano divise a metà, ma la raccolta, la ripulitura del bosco e la potatura spettavano al colono.

Si riconoscevano piccoli miglioramenti, quali l’obbligo del proprietario a fornire una casa adeguata al podere ed in buone condizioni, anche igieniche, e provvista in qualche modo di acqua. La manutenzione straordinaria dei fabbricati, le opere di bonifica e soprattutto le nuove piantagioni erano in linea teorica a carico del proprietario, che però di norma profittava della sua posizione di potere per evadere questi obblighi. Per la manutenzione di attrezzi e utensili si riconosceva una compartecipazione del proprietario, che poteva provvedervi con una quota forfettaria. La famiglia poteva poi tenere per i suoi consumi un orto e un pollaio, le cui dotazioni massime di animali da corte dovevano essere stabilite dai patti aggiuntivi.

Questi “miglioramenti” non erano comunque una novità, anzi per la gran parte erano già stati ottenuti durante le lotte precedenti. Venivano mantenuti, in forme attenuate, perché non inficiavano la sostanza della mezzadria, Il sindacato fascista poi doveva salvare almeno un’apparente funzione di tutela. La sostanza del Contratto era però una netta riaffermazione del potere degli agrari e la cancellazione delle conquiste più avanzate delle organizzazioni cattoliche e socialiste. Non va dimenticato poi che i patti aggiuntivi provinciali, con i loro riferimenti alle consuetudini, aggiungevano ulteriori aggravi sulla famiglia mezzadrile.

In conclusione, il contratto era nettamente sbilanciato sia dal punto di vista economico che nella regolazione dei poteri delle parti verso un “assolutismo” padronale. Il suo mantenimento anche in epoca repubblicana segnò un grave vulnus nelle campagne ai diritti nati con la Costituzione, e fu tra i motivi che impedirono una trasformazione democratica degli assetti proprietari dell’agricoltura italiana negli anni della Ricostruzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro e fa parte del Consiglio dell’Associazione italiana di storia orale. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione. Ha curato le due mostre La mezzadria nel Novecento: lavoro, storia, memoria e La chiave a stella. Il lavoro industriale nel ‘900. Insieme a Giovanni Contini ha realizzato il film documentario In cerca della felicità. Storie di immigrati a Pistoia.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2018.




Le “cose che si legano male col caffellatte che si piglia la mattina”. Tullio Mazzoncini e il dovere di ricordare.

Non è impresa facile tratteggiare il profilo di un uomo come Tullio Mazzoncini. Ma è doveroso il ricordo e il tributo alla sua figura dignitosa e appassionata. Fu figura di spicco nella Resistenza di Maremma, fu il lievito per far crescere sin dal primo momento la consapevolezza nei suoi giovani concittadini, con cui aveva condiviso lunghi anni di dissidenza fino al momento della guerra di Spagna, momento in cui tutto fu più chiaro e sembrò possibile anche una nuova via.

Fu un proprietario. La sua bella villa grossetana, edificata in un orto comprato nel 1910 da suo padre in Via Mazzini, ingentilita da un grazioso giardino, in pieno centro storico, è lì a ricordarcelo. Non cercava il riscatto sociale, quindi, ma semplicemente rivendicava la dignità e la libertà che in quel momento il regime umiliava e negava.

In contatto con l’ambiente universitario antifascista, attraverso gli amici Geno Pampaloni e Antonio Meocci, fu lui ad organizzare l’incontro a Grosseto con Ranuccio Bianchi Bandinelli, allora esponente di quel liberal socialismo nel quale principalmente Mazzoncini si rispecchiava. Chiamò i suoi amici, tutti quelli che riuscì ad invitare a casa sua senza dare nell’occhio, per condividere questa consapevolezza e far scattare nelle coscienze la ricerca di giustizia e la speranza in un nuovo possibile riscatto. Comprese, tuttavia, che il momento storico richiedeva un’anima cospirativa, un’organizzazione efficace, una più coraggiosa propaganda come quella che era agita nelle file del Partito Comunista.

Con la caduta del fascismo le attività da lui promosse si fecero più intense e la speranza si riaccese nell’animo dei giovani e della popolazione. I rappresentanti dei partiti antifascisti, riuniti clandestinamente in un primo comitato militare, continuarono i loro incontri a casa Mazzoncini. C’erano Albo e Raffaello Bellucci, Giuseppe Scopetani, Aristeo Banchi e Antonio Meocci, tutti amici e per lo più coetanei. Erano quelle ore convulse e appassionate, piene di entusiasmo e pulsanti di attività frenetiche. Urgeva prepararsi agli eventi ed essenziale era la propaganda, occorreva assolutamente attirare giovani alla lotta.

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Tullio Mazzoncini

Con il cavallo a sella o col calessino per via delle strade impervie e impraticabili, Mazzoncini si spinse fino ai luoghi più remoti della vasta provincia, parlò con la gente ricevendo appoggio e solidarietà, rafforzando la convinzione di essere ad una svolta cruciale e la certezza che i tempi fossero finalmente maturi per una lotta condivisa di liberazione. In questa sua entusiastica attività di propaganda incontrò tutti quelli che divennero poi i protagonisti della Resistenza in Maremma. Ne ebbe così rinnovata motivazione per continuare quella che ormai era divenuta la sua missione.

L’8 settembre non lo colse impreparato: subito rispose all’appello della storia con i suoi speranzosi amici di sempre. Senza esitazione, coraggiosamente interpretò la situazione come un’opportunità.

Fu la sua una scelta generosa e convinta, che si manifestò con un’azione precisa e meditata, anche se apparente frutto di un ottimismo eccessivo. Si recò assieme ad altri rappresentanti di partiti antifascisti dal Prefetto di Grosseto per offrire collaborazione e subito dopo dal Colonnello Comandante del ditretto militare per preparare l’occupazione senza eccessivo spargimento di sangue dell’aeroporto. Ma le autorità civili e militari non offrirono risposte. Presero tempo, ostentando indecisione e, nascondendosi dietro la mancanza di ordini superiori, si sottrassero alle responsabilità, non seppero o non vollero rischiare.

Quando i bombardamenti a Grosseto si fecero sempre più pressanti, la sua tenuta di Campospillo, a Magliano in Toscana, divenne il centro delle attività di diffusione e propaganda, il luogo in cui assieme ai compagni organizzò una febbrile attività. Alla fine del novembre 1943 un delatore, lo stesso fattore della tenuta, condusse a Campospillo le milizie fasciste. Ci fu una perquisizione. Come ci risulta dal telegramma del capo della provincia Alceo Ercolani furono trovati un ciclostile, del materiale di propaganda, alcune armi.

Foto storica della tenuta di Campospillo

Foto storica della tenuta di Campospillo

A seguito di questo drammatico fatto, Giuseppe Scopetani, Albo Bellucci e Tullio Mazzoncini furono arrestati e la loro attività cospirativa si concluse. Le loro vite cambiarono bruscamente corso. Ci furono la prigionia, gli interrogatori, i processi e infine la deportazione. Giuseppe Scopetani e Albo Bellucci non tornarono mai nella loro Grosseto, l’uno fucilato barbaramente  a Mauthausen, l’altro ucciso dagli stenti e dalla malattia nel sottocampo di Gusen. Solo Tullio Mazzoncini tornò dall’inferno. E come tutti i “salvati” ne ebbe la vita segnata. Quando iniziò a parlare, volle ricordare i suoi compagni, i suoi amici. Pochissimo volle parlare della sua esperienza personale:

«…non ne parlo volentieri. Ogni volta che ne parlo e che la ricordo, si rinnovano una tale angoscia, una tale amarezza, un tale disgusto dell’umanità perché non si può mai supporre che l’umanità possa arrivare a quel punto lì di disumanità. Per cui sono cose che si  legano male col caffellatte che si piglia la mattina, con quel ritmo di vita civile che quando si riprende sembra un sogno che sia esistita…» (1)

Tullio Mazzoncini a Firenze

Tullio Mazzoncini a Firenze

Eppure la vicenda che lega indissolubilmente Mazzoncini alla storia della Resistenza e alla storia della deportazione politica in Maremma risulta con forza essere elemento centrale e parte costitutiva di una testimonianza di vita, tratto fondativo di una personalità. È parte di una figura complessa che ha rivestito un’importanza particolare nel contesto culturale della Maremma.

Mazzoncini, infatti, fu uomo colto, attento e curioso interprete della realtà culturale della città, amico di Luciano Bianciardi, di Tolomeo Faccendi, di Ildebrando Imberciadori, di Carlo Cassola, oltre che di Antonio Meocci; le sue lettere sono copiosamente presenti negli archivi degli intellettuali maremmani. Recentemente la tesi di laurea di Loretta Melosini sulla sua biblioteca personale, oggi conservata nella Tenuta di Campospillo, ne ha restituito la dimensione intellettuale,  aprendo nuovi scenari di indagine per la ricostruzione dell’ambiente culturale maremmano del secondo dopoguerra.

Parte della biblioteca di Mazzoncini

Parte della biblioteca di Mazzoncini

Seguendo il sogno di giovinezza di divenire giornalista, Mazzoncini scrisse anche sui giornali locali. Era un uomo di cultura che credeva nei valori dell’amicizia e della lealtà: «so di avere creduto in molte cose, tutte crollate. Forse quello che mi è meno mancato è stato il conforto degli amici», scrive intorno agli anni ’80 in una sua memoria. Nel catalogo della mostra postuma dedicata allo scultore maremmano Tolomeo “Meo” Faccendi, leggiamo una vibrante testimonianza dell’affetto che legava i due intellettuali:

«Confesso infatti di avere un grande, insolvibile debito con i miei amici, da quelli scomparsi ai viventi, da cui ho sempre tratto conforto ed aiuto. A loro debbo, se ho potuto superare crisi dolorosissime che mi avrebbero spinto a decisioni estreme; confesso qui che non ricordo di aver trascorso una giornata lieta che non sia stata illuminata, riscaldata, dal sorriso dei miei amici».

Lo stesso vibrante senso di amicizia trapela dall’articolo “Quando l’idea si sconta a Gusen“, dedicato al ricordo del compagno di prigionia Albo Bellucci. Per tutta la vita Mazzoncini cercò notizie e testimonianze sulla prigionia e la morte dei suoi due compagni, di cui si sapeva pochissimo. Negli anni ’70 riuscì a rintracciare un compagno di prigionia del Bellucci, il professor Aronica, testimone dei suoi ultimi giorni di vita.

Agli amici caduti dedicò il bassorilievo in gesso commissionato a Tolomeo Faccendi, oggi donato al Comune di Grosseto. Una copia in bronzo dello stesso è presente nella tenuta di Campospillo ed è stato oggetto di una recente valorizzazione in chiave memoriale da parte del progetto “Cantieri della memoria”.

Il 9 gennaio 2018, su iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza di Grosseto e dei familiari sarà posata una pietra d’inciampo a Campospillo, il doveroso omaggio alla memoria di un uomo di grande valore morale e intellettuale.

(1) In: Loretta Melosini, I libri del “Sor Tullio” Mazzoncini a Magliano in Toscana”. Tesi di laurea A.A. 2009-2010 Università della Tuscia.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

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Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2018.




«Giovane e oscuro a un seggio illustre».

Era il 23 giugno 1919, quando Domizio Torrigiani, avvocato toscano vicino al partito radicale, accettava la sua designazione alla guida del Grande Oriente d’Italia riconoscendo, nel discorso d’insediamento, di essere salito «giovane e oscuro a un seggio illustre». Torrigiani, che succedeva all’ormai anziano Ernesto Nathan, diveniva Gran Maestro a soli quarantatré anni e avendo fino ad allora dato poco risalto pubblico alla sua appartenenza massonica.

Il discorso di insediamento, di ampio respiro, risentiva dell’eccezionalità del momento storico: le trattative di pace erano in corso di svolgimento e il Paese faticava a riprendere il suo normale corso. Quella nomina, dunque, veniva interpretata come un segnale di apertura dell’ordine massonico verso un rinnovamento -d’età e d’intenti- che il periodo di profonda conflittualità sociale e politica rendeva necessario, attraverso il passaggio di testimone alla generazione che aveva raggiunto la maturità negli anni dell’ultimo giolittismo e della Grande Guerra.

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Lettera di D’Annunzio a Torrigiani, 7 settembre 1920 (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»).

Proprio nel suo scritto programmatico, Torrigiani definiva la partecipazione italiana al conflitto come la più alta manifestazione dell’incidenza massonica nella storia nazionale, un vero e proprio coronamento delle lotte risorgimentali per l’unificazione. Lui stesso era partito volontario ed aveva combattuto fino alla fine delle ostilità.

Tra i suoi primi atti in veste istituzionale, alla fine dell’estate 1919, l’appoggio a Gabriele D’Annunzio nell’impresa di Fiume. Torrigiani non farà mistero del suo interessamento personale per la questione e sosterrà, anche in seguito, di averla difesa con convinzione, prendendo, tuttavia, le distanze da progetti rivoluzionari e allontanandosene definitivamente ai primi del dicembre 1920, alla vigilia della drastica occupazione della città istriana, per cui aveva invece suggerito una risoluzione pacifica.

È cosa ormai nota come consensi e aiuti al movimento fascista siano giunti, tra il 1919 e il 1922, anche dal Grande Oriente d’Italia; un atteggiamento di benevolenza che si legava, in particolare, ad alcuni aspetti del primo fascismo: lo spirito patriottico, la tendenza repubblicana, l’anticlericalismo e l’ostilità nei confronti di popolari e socialisti.

Anche Torrigiani, pur con la necessaria prudenza, parve guardare con interesse all’avanzata di Mussolini: alla vigilia della marcia su Roma egli dichiarava, infatti, di considerare il fascismo una «rivolta necessaria» a mettere fine alla confusione del dopoguerra, sottolineando come, in particolare, l’idea di rinnovamento della «coscienza nazionale» costituisse un elemento di affinità e vicinanza.

Ma si trattava di uno scenario destinato ben presto a mutare: conquistata la direzione del Paese, le vere intenzioni di Mussolini non tardarono a manifestarsi con atti di governo che contraddicevano il programma originario: primo fra tutti, il cambio di orientamento nel rapporto Stato-Chiesa.

Appartiene a questa fase un’importante intervista del Gran Maestro al «Giornale d’Italia» (30 dicembre 1922): Torrigiani ribadiva la lealtà della massoneria a Mussolini, prendendo le distanze dalle accuse di antifascismo che gli venivano mosse. Si trattava, tuttavia, di una vicinanza sottoposta ad alcune condizioni e vincolata al rispetto dell’idea di laicità dello Stato, principio irrinunciabile per l’avvocato e l’istituzione rappresentata. Dunque, una fedeltà fatta di dubbi e di incertezze; e d’altronde, lo stesso Torrigiani non aveva mai fatto mistero di temere l’imprevedibilità di Mussolini.

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«Giornale d’Italia», Roma 20 febbraio 1923 (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»)

Era l’inizio di un deteriorarsi dei rapporti sempre più rapido.

Il 28 gennaio 1923, la Giunta di Palazzo Giustiniani convocava a Roma la sua Assemblea; vi prendevano parte circa cinquecento delegati con lo scopo di stabilire la condotta da tenere nei confronti del governo. Nel corso dell’adunanza, l’avvocato, chiamato a controbattere alle accuse di antifascismo che gli erano state mosse, non volle cedere alla pregiudiziale anticlericale.

L’incontro vide l’Assemblea spaccarsi fra quanti avrebbero voluto seguire un indirizzo di incondizionato appoggio al fascismo e chi rivendicava per la massoneria una posizione «al di sopra dei partiti», «nella concezione superiore degli interessi della patria». Fu proprio tale orientamento a ottenne la maggioranza dei consensi, portando alla riaffermazione dell’idea di laicità dello stato, del rispetto delle libertà politiche e delle organizzazioni sindacali.

Riferendosi alle conclusioni dei lavori, un dispaccio filogovernativo del 30 gennaio 1923 annunciava che il Gran Consiglio si sarebbe occupato presto della questione dell’associazionismo segreto: la nota suonava come un’autentica minaccia.

Mussolini, dalla sua, era ormai certo che la massoneria, dichiarandosi al di sopra dei partiti, non potesse essere conciliabile con il suo governo. Era inoltre consapevole che combatterla, in un paese profondamente cattolico, avrebbe assicurato il consenso dei fedeli. Il 15 febbraio 1923, dunque, il Gran Consiglio, a maggioranza, dichiarava incompatibile l’appartenenza alla massoneria con l’adesione al Partito Nazionale Fascista.

Di fronte al nuovo attacco, Torrigiani tornava ad offrire garanzie di lealtà. Il 16 febbraio inviava una circolare alle Logge per confermare la volontà di fiancheggiare il governo, invitando tutti ad applicare le direttive votate. Allo stesso tempo cercava di difendere l’Ordine, ricordando a Mussolini come: «le nostre Logge ed i nostri membri non hanno mai mancato in fedeltà alla Patria». In quei giorni, tuttavia, aveva inizio una serie di assalti squadristi contro sedi del Grande Oriente, mentre l’8 agosto 1924 il Consiglio Nazionale fascista approvava un ordine del giorno che ratificava la rottura definitiva con la massoneria.

Il 6 settembre 1925, l’Assemblea costituente dell’Ordine tornava a rieleggere Torrigiani alla guida della Logge e, data la gravità del momento, gli conferiva poteri pieni e straordinari.

Due mesi più tardi, il 4 novembre, scattava l’azione poliziesca per reprimere un possibile attentato contro Mussolini. Tito Zaniboni e il generale Luigi Capello, di nota affiliazione massonica, erano arrestati con l’accusa di esserne gli ideatori. Palazzo Giustiniani veniva invaso e saccheggiato, mentre il Ministero dell’Interno diramava l’ordine di far occupare le Logge.

A distanza di poco più di due settimane, nel mese di novembre, il Senato approvava definitivamente la legge 2029 sulla «disciplina delle associazioni, enti e istituzioni e sull’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato», mirando, in maniera specifica, a colpire la massoneria. Consultandosi con i suoi consiglieri Torrigiani decideva, vista la gravità del momento, di sospendere i lavori di tutte le Logge.

Per far funzionare l’organizzazione attorno al Gran Maestro, che manteneva la carica, si era formato, intanto, un comitato ordinatore: Torrigiani lo presiedette fino al 1926, quando, dopo aver ricevuto notifica circa l’annullamento dell’acquisto di Palazzo Giustiniani, comprato dall’Ordine nel 1911, lasciava ufficialmente l’Italia per motivi di salute, trasferendosi in Costa Azzurra.

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Il Gran Maestro al confino (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»)

Nel frattempo, il procedimento contro i responsabili dell’attentato del 1925 andava avanti. Veniva chiesta l’imputazione di Zaniboni e Capello «per tentato omicidio premeditato e per guerra civile». Il nome del Gran Maestro compariva tra gli imputati. L’11 aprile 1927 avevano inizio le udienze. Torrigiani si trovava ancora in Francia, ma decideva di rientrare in Italia, nonostante in tanti avessero cercato di dissuaderlo dal proposito di consegnarsi nelle mani del regime.

Il dibattimento si concludeva con la condanna a trent’anni di reclusione per i due imputati. Il momento era propizio anche per mettere fuori gioco il capo della massoneria che, sebbene assolto per mancanza di prove, veniva comunque arrestato e portato nel carcere di Regina Coeli. Due giorni dopo sarà assegnato al confino di polizia per cinque anni, gli ultimi della sua vita. Il regime, dunque, riusciva ad agire contro di lui tramite misura preventiva che svuotava, di fatto, la stessa sentenza del tribunale.

Tradotto nell’isola di Lipari, vi rimarrà per circa un anno e mezzo, sottoposto a una speciale sorveglianza perché ritenuto detenuto “pericolosissimo”, condizione che lo costrinse a un insopportabile isolamento.

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A Ponza, 1928 ca (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»).

Durante l’estate 1928 la salute di Torrigiani iniziò a deteriorarsi: era affetto da emorragie retiniche causate dall’ipertensione, cominciava a perdere la vista. Dal 20 ottobre 1928 gli fu concesso il trasferimento a Ponza. Anche se ormai malato, non rinunciò alla sua attività. Tra il giugno e il luglio 1931, con i fratelli presenti sull’isola, fondava la Loggia clandestina «Carlo Pisacane», la cui attività proseguiva per circa un anno. Verso la fine del 1931, visto il suo stato di saluto irreversibilmente compromesso, la guida della massoneria di Palazzo Giustiniani era passata ad Alessandro Tedeschi.

Il 21 aprile 1932, dopo quasi due anni di permanenza a Ponza, Torrigiani era finalmente scagionato per «maturazione del termine d’assegnazione»; gli era stata concessa la libertà vigilata. Ottenne la possibilità di recarsi nella villa di famiglia a San Baronto, anche se ormai le sue condizioni di salute apparivano critiche. Si spegnerà la sera del 30 agosto 1932.

La morte del Gran Maestro ebbe ampia eco sulla stampa massonica internazionale: «senza entrare nel merito delle scelte dell’illustre fratello», si legge sul Bollettino della Gran Loggia di Francia, «durante i primi anni del regime fascista Torrigiani si trovò a guidare la massoneria in tempi resi difficilissimi dallo scatenarsi dell’orrore e della barbarie. Circostanze, a fronte delle quali, nessuno si è mai trovato né in Italia né altrove»; e si conclude: «Domizio Torrigiani resterà, nella storia massonica, il Gran Maestro martire».

Articolo pubblicato nel dicembre del 2017.




Persecuzione e deportazione degli ebrei sulla montagna pistoiese

LA PRESENZA EBRAICA A SAN MARCELLO

Nel corso del 1938, in seguito al già citato inasprirsi delle sanzioni contro gli ebrei, il Ministero dell’Interno impose ai Comuni, con l’aiuto delle Prefetture, di individuare attraverso “una precisa rilevazione statistica degli ebrei residenti nei vari comuni alla mezzanotte del 22 agosto” (Collotti E., Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI, Carocci Editore, Roma 2007, p. 31 vol. 2, doc. II.2.)

Ovviamente con tale provvedimento si mirava ad individuare gli ebrei da sottoporre successivamente a forme di detenzione ben più dure.

Il comune di San Marcello provvide prontamente a individuare gli ebrei presenti sul proprio territorio e infatti si nota dai fondi della sottoprefettura di Pistoia, busta 199, cartella “Razza, Censimento degli ebrei”, fogli 132-140, che alla mezzanotte del 22 agosto erano presenti sul territorio sette “capo famiglia o capo convivenza”, per un totale di quattordici persone. Si trattava di ebrei presenti solo in modo temporaneo e per questo non registrati presso l’anagrafe comunale ( Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche nel comune di San Marcello Pistoiese,  edizioni C.R.T, Pistoia, 2002, p. 254). E’ da rilevare che la richiesta mirava ad accertare la presenza di ebrei stabilmente residenti e non temporaneamente presenti. Il comune fu in questo caso estremamente “zelante” nel rispondere alla direttiva del Ministero.

I sette capofamiglia erano:

  • Bassani Alessandro, del fu Eugenio
  • Carpi Cividali Olga, del fu Raffaele
  • Corinaldi Mario, del fu Cesare.
  • De Benedetti Clelia, del fu Salomone
  • Fiorentino Mosè, del fu Benedetto
  • Osima Rimini Bianca del fu Alessandro
  • Teglio Carpi Enrica, del fu Alessandro

È interessante notare che delle persone sopraindicate non risultano tracce nè ne Il libro della memoria, che indica le biografie di tutti gli ebrei deportati fra il ’43 e il ’45, nè nei diversi siti già più volte citati in queste lavoro. In parole povere le persone sopra citate non risultano deportate o almeno non lo risultano dall’Italia.

Si può ipotizzare che, presenti solo temporaneamente sulla montagna pistoiese, siano poi riuscite a fuggire altrove, forse in Svizzera, o in un altro paese, dove possano essere state catturate e sfortunatamente uccise o deportate.

Aldilà dei casi sopra esposti emerge che nel comune di San Marcello non ci furono nè arresti nè deportazioni (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 234). Fra i numerosi atti che Fagioli riporta ve ne è uno particolarmente interessante, la lettera del 20 settembre 1938 inviata dalla direzione didattica dei comuni di Agliana e San Marcello al Podestà nella quale si scrive che:

“Un decreto legge di prossima pubblicazione prevede la istituzione, a spese dello stato, di speciali sezioni di Scuole elementari per fanciulli di razza ebraica in quallunque località dove siano almeno dieci alunni e manchi la scuola mantenuta dalla Comunità isrealitica. Vi prego dunque di farmi sapere, no oltre il 23 c.m., con ogni precisione, il numero dei ragazzi di razza ebraica, residenti in codesto comune.”

Il commissario prefettizio risponde alla lettera tre giorni dopo dicendo che “In relazione al foglio sopra distinto, significo che nessun ragazzo di razza ebraica risiede in questo comune” (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 235-237).

Nel 1938 quindi a San Marcello non dimoravano stabilmente persone di razza ebraica in età scolare.

 IL CASO DEGLI EBREI  CONDOTTI SULLA MONTAGNA DA MONTECATINI TERME

Oltre ai già citati casi, risulta che una buona parte degli ebrei presenti sulla  montagna pistoiese provenisse da Montecatini, una delle nove già citate zone di internamento presenti nel territorio pistoiese.

La comunità di Montecatini Terme in seguito all’ordine del 9 settembre 1941 di Italo Balbo di trasferire in Italia gli stranieri presenti in Libia ospitava un consistente numero di stranieri, per la maggior parte anglo-maltesi, alloggiati in diversi alberghi. Molte di queste persone, come affermato anche dal prefetto di Pistoia Francesco Bianchi non godevano di buona salute. In particolare gli sfollati: “appartenenti in genere a classi sociali dal punto di vista economico ed igienico molto modeste, sono arrivati in Montecatini in condizioni igieniche personali pessime per sudiciume della pelle e degli abiti”. La popolazione locale timorosa di contagi (era particolarmente temuto in quel periodo il tracoma), provata dalle dure condizioni della guerra e inasprita dal fatto, vero o presunto, che queste persone potessero godere di sovvenzioni provenienti dai paesi d’origine, spingeva perchè queste persone fossero destinate altrove.

Del resto all’epoca Montecatini Terme era già una località molto frequentata e i timori che la presenza straniera potesse nuocere all’attività turistica era forte. Membri del partito fascista affermavano che ” si rileva a Montecatini Terme fra le condizioni dei nostri connazionali o rimpatriati dall’Africa Italiana e quelle di parecchi ebrei e internati stranieri […]. Questi ultimi, per le sovvenzioni che a loro provengono per tramite della Svizzera e per il largo sussidio loro concesso, tengono un tenore di vita frivolo e agiato” .

Dalle proteste verbali alcuni cittadini erano passati alle minacce, come si evince dal documento sotto riportato.

In seguito alle pressioni della cittadinanza quindi con il marzo 1942 cominciarono i primi trasferimenti.

Nel novembre 1942 erano comunque presenti a Montecatini ancora 89 anglo-maltesi, che ricevono un sussidio dal governo inglese e uno da quello italiano e circa sessanta cittadini stranieri, di varie nazionalità, internati o allontanati da zone militarmente importanti di altre province.

Il prefetto decise, come si nota dal documento riportato, di trasferire alcuni ebrei da Montecatini in piccoli località periferiche.

 Furono pertanto trasferiti a Cutigliano sulla montagna pistoiese:

Nadel Salomone di nazionalità polacca nato a Lwow, l’attuale Leopoli,  il 09/01/1881. Residente a  Genova dal 1938 . Venne prima internato a Guardiagrele (CH) il 27/07/40 e successivamente a Montecatini dal 09/08/41 fino al 31 agosto 1943.

Eckerling Chana (Chane) di nazionalità polacca nata a Hodorenka il 9 gennaio 1896, residente a Genova nel 1940, internata prima a Guardiagrele (Chieti) il 20/07/1940 e poi a Montecatini il 19/08/41.

Kreisling Edith nata a Vienna, nazionalità tedesca ex austriaca, nata il 16/03/1908, internata a Montecatini il 2/07/43

Weiller Alessandro, nato a Prijedor (Iugoslavia), apolide ex italiano, nato il 2/5/1890, residente a Fiume nel 1 1940, internato a Montecatini il 18/08/43.

Mevorah Miriam, nata a Prijedor (Iugoslavia), apolide ed ex italiana, nata il 2/01/1911, presente a Fiume nel 1940 e internata a Montecatini il 2/07/43.moglie di Weiller Alessandro.

 Dai dati disponibili sul portale del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e sul sito sito www.annapizzuti.it, che raccolgono i dati degli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, risulta che Salomone Nadel e Eckerling Chana (Chane) furono liberati a Bari il 15 febbraio del 1945, mentre Kreisling Edith e Mevorah Miriam furono liberate a Roma. Evidentemente in qualche modo riuscirono a fuggire alla cattura e a passare la linea del fronte scendendo nel meridione.

Il destino di Alessandro Weiller fu purtroppo diverso perchè come sopra indicato venne deportato e morì in un campo di concentramento a tutt’oggi sconosciuto.

 IL CASO DEGLI EBREI CATTURATI A CUTIGLIANO E PRUNETTA

Un destino molto diverso caratterizzò purtroppo gli ebrei livornesi sfollati a Cutigliano che furono catturati a gennaio 1944 ad opera di militari italiani e tedeschi.

Furono catturati nella località della montagna pistoiese:

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 14/1/1920. Deportato a Auschwitz fu l’unico del gruppo a sopravvivere.

– Baruch Clara di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 23/4/28. Morì ad Auschwitz il 15 aprile 1944, dopo la liberazione del campo.

– Baruch Isacco di Baruch David e Benezra Giuditta, marito di Cadina Masriel, nato a Smirne il 20/3/1890.

– Baruch Marco di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 27/11/31

– Baruch Susanna di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 21/10/29

– Masriel Cadina di Moise Masriel e Susanna Masriel, moglie di Baruch Isacco, nata a Smirne il 24/12/1900. Uccisa il 26 febbraio 1944

– Pesaro Gualtiero di Leone Pesaro e Argia Piperno, marito di Rosa Cremisi, nato a Livorno il 23/7/1896

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 14/1/1920

Tutti finirono ad Auschwitz con il convoglio partito da Fossoli il 22 febbraio 1944 e qui, salvo come detto Baruch Behor Michele trovarono la morte.

In un’occasione successiva alla retata del 26 gennaio furono catturati:

– Pesaro Arnaldo di Leone Pesaro e Argia Piperno nato a Livorno il 23/10/1900. Arrestato a Cutigliano, morì nell’eccidio di Ponte alla Lima di cui si parlerà successivamente.

– Tullio Levi di Angelo Levi e Rosilde Ravà, nato a Parma nel 1876, sposato con Elisabetta Nesti. Catturato con alcuni abitanti del luogo venne fucilato presso il cimitero di Pianosinatico (vedi paragrafo successivo)

La cattura del primo gruppo di persone avvenne il 26 gennaio 1944, favorita da spie italiane.  Non fu necessario ricorrere alla ricerca casa per casa perchè la presenza degli ebrei era nota alla polizia locale che intimò agli sfollati di presentarsi in caserma per le cinque del mattino del 26 gennaio. L’ebrea Nina Molco, nel suo diario ricorda che supplicò il locale maresciallo di lasciare stare lei e sua zia Clelia a causa della tarda età (87 anni) di quest’ultima. Il maresciallo la invitò a presentare un certificato medico che attestava le precarie condizioni di salute dell’anziana e così le due donne poterono rimanere a Prunetta fino alla liberazione, vivendo comunque nelle privazioni e con l’ansia di un arresto imminente. Nel maggio ’44 Clelia morì’ e Nina continuò a raccontare nel suo diario della presenza di truppe tedesche e le razzie compiute dagli invasori per procurarsi il cibo nonchè il costante pericolo di rappresaglie. Nina Molco annotò anche che «Tutti quelli che erano qui, e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare». Lo scritto lascia trapelare che quindi a cadere vittima dei nazi-fascisti furono soprattutto gli ebrei appartenenti ai ceti popolari, quelli che non avevano risorse sufficienti a consentire loro di accedere ad eventuali vie di fuga. Si fa presente inoltre, ed è un dato importante, che alcuni, probabilmente temporaneamente residenti e quindi non registrati ufficialmente, riuscirono a fuggire alla cattura.

I Baruch, erano sfollati presso la pensione Catilina, oggi un negozio di abbigliamento, nella piazza principale del paese. Erano fuggiti a Livorno da Smirne nel 1933 dove Michele, l’unico che sopravviverà, lavorava come manovale. Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, aveva perso il lavoro. La famiglia era sopravvissuta solo grazie all’elemosina della comunità ebraica fino al momento della deportazione. Catturato con la famiglia, fu imprigionato per circa un mese presso il carcere delle Murate a Firenze, poi condotto a Fossoli e da lì con un viaggio di quattro giorni in cui potè consumare solo da un panino alla marmellata a Auschiwitz. Subito separato dal resto della famiglia non vide più nessuno. Comprese il destino dei suoi familiari solo in un secondo momento. “…Mentre facevamo l’appello – scrisse quarant’anni dopo Michele – di fronte alle nostre baracche vedevamo un’altra baracca molto grande, con una grossa ciminiera le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori. Noi nuovi del campo non sapevamo che cosa venisse fatto là e per appagare la nostra curiosità domandammo a qualcuno più anziano del campo a cosa serviva quella ciminiera e così venimmo a sapere che quello era un forno crematorio. Poi domandai quando potevo incontrarmi con la mia famiglia, me purtroppo seppi la verità e cioè che i miei cari erano stati barbaramente stroncati nelle camere a gas ed i loro corpi fatti scomparire per sempre nel forno crematorio. Mi sentii mancare il terreno sotto i piedi pensando ai miei cari ed a quanto avevano dovuto soffrire… allora per diverso tempo implorai la morte, perché ero rimasto solo ed avevo appena ventiquattro anni” Il Tirreno, ed. Livorno, del 25 maggio 2009).Ad Auschwitz rimase quattro mesi, poi passò per molti campi fra cui Mathausen, Bergen Belsen e Dachau. Fu liberato in un piccolo campo della Germania Orientale il 20 aprile del ’45 dalle truppe russe e rimandato in Italia dopo quattro mesi di cure (Intervista disponibile in http://digital-library.cdec.it/cdec-web/audiovideo/detail/IT-CDEC-AV0001-000209/michele-behor-baruch.html)

A Prunetta, una località ad internamento libero, dove cioè gli ebrei potevano muoversi con una certa libertà, il 26 gennaio furono arrestate le sorelle Gabriella e Vera De Cori, di origine pisana e sfollate con l’anziana madre, Giuseppina Ambron sulla montagna pistoiese. Furono  catturate con l’inganno dal questore Chicca che le aveva invitate a presentarsi in Questura per regolare alcune pratiche. La madre venne rilasciata perchè anziana con la promessa che le figlie sarebbero state liberate entro poche ore. In realtà furono condotte via senza abiti invernali a Firenze prima e a Fossoli dopo, per poi finire la loro esistenza probabilmente a Auschwitz. La madre inviò una supplica al ministro dell’Interno sostenendo che aveva perso il marito e il figlio durante la prima guerra mondiale e sostenendo l’italianità della sua famiglia. Al momento dell’istanza della signora Ambron probabilmente le figlie erano già decedute. Con le sorelle il 26 gennaio 1944 furono catturati da italiani alcuni ebree jugoslavi provenienti da Aosta, originarie della zona di  Zagabria.

Dal sito del Cdec e dal sito annapizzuti.it risultano inoltre catturate a Prunetta:

–                    Fiser Regina, nata il 1/1/1909 da Massimiliano Fiser e Giulia Svez a Nosice (Iugoslavia). Condotta a Fossoli da qui con il convoglio nr. 08 del 22 febbraio partì per Auschiwitz dove giunse quattro giorni dopo. Non è sopravvissuta al campo di concentramento.

–                    Weiss Nada,  nata a Zagabria il 12 aprile 1916, figlia di Norbert Weiss e Giza Haim. E’ sopravvissuta alla Shoah.

Il responsabile della deportazione, il questore di Pistoia, pisano come le sorelle De Cori, non ha mai pagato per il suo crimine, grazie all’amnistia concessa ai collaborazionisti.

 LE STRAGI DEL LANIFICIO TRONCI E DEL CIMITERO DI PIANOSINATICO: LA MORTE DI ARNALDO PESARO E DI TULLIO LEVI

Il fratello di Gualtiero Pesaro, uno delle vittime della retata del 26 gennaio, Arnaldo, morì nella strage del lanificio Tronci, avvenuta in seguito alla vendetta nazista successiva ad un attacco partigiano contro le truppe tedesche che stavano risalendo la penisola. A Casotti fra il 26 e il 27 settembre 1944 le truppe tedesche rastrellarono infatti 35 abitanti e li rinchiusero nel lanificio Tronci, situato lungo il torrente Lima. La situazione già precaria dei prigionieri peggiorò con la fuga di Guido Vasetti, uno dei detenuti. Il comandante tedesco che aveva minacciato in un primo momento di fucilare cinque prigionieri successivamente ritornò sulle sue decisioni e liberò gli ultrasessantenni, fra cui il titolare dell’azienda Raffaello Tronci. Questi, saputo che i tedeschi se ne erano andati, ritorno nel pomeriggio nei pressi del lanificio e udì l’esplosione dei locali che provocarono la morte di cinque persone fra cui il già citato Arnaldo  Pesaro.

In un altro attacco contro un convoglio tedesco compiuto dai partigiani guidati da Ducceschi morirono due soldati ed uno rimase ferito. La ritorsione nazista fu pronta, la zona di Pianosinatico ed il territorio del comune di Cutigliano vennero rastrellati con l’obiettivo di “ripulirlo” dalla presenza partigiana.

Undici prigionieri, in prevalenza ultrasessantenni, vennero condotti presso il cimitero di Pianosinatico a fucilati. Tra essi, anche il professore ebreo Tullio Levi ( cfr. scheda  su http://www.straginazifasciste.it/)

Inoltre, per garantire la ritirata, i tedeschi minarono quasi tutte le abitazioni di Cutigliano.

 Sulla strage furono avviate indagine dalla procura militare di Roma nel 2010. Il 30 giugno fu fissata un’udienza con richiesta di accertamenti sull’esistenza in vita di militari tedeschi sospettati della strage.

 Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2017.