1

Da regnicoli a cittadini europei

In occasione del 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione, grazie al sostegno della Regione Toscana e la rete con gli istituti della Resistenza toscani, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pistoia, ha proposto un corso di formazione per docenti di scuola superiore sulla storia della Repubblica il rapporto con la società italiana delle diverse generazioni per riscoprire la paziente artigianalità nella costruzione della costituzione e che di “urgente” in quel ’48, ci fosse solo la partecipazione democratica ad una giovane repubblica.

Il corso, svoltosi nei giorni 14, 21, 28 marzo 2018 presso la Sala Bigongiari della Biblioteca San Giorgio di Pistoia, per un totale di 12 ore, è stato la prima tappa di un ampio progetto che ha coinvolto gli studenti in un lavoro di approfondimento, rendendoli protagonisti di una riflessione sui valori costituzionali e sulla più recente storia nazionale.

Per quanto riguarda il nostro istituto, il corso ha avuto come relatori ricercatori e docenti universitari ed ha approfondito, in un climax, la genesi e l’applicazione della Costituzione partendo dai costituenti pistoiesi (Dalla guerra di Resistenza alla Costituzione, M. Palla, Le elezioni dell’assemblea costituente e i costituenti pistoiesi, F. Mazzoni, Il sistema politico-istituzionale dell’Italia Repubblicana, G. Mobilio; L’applicazione della Costituzione nella storia della Repubblica, D. Santagati; Diritti e realtà del lavoro nel secondo dopoguerra, S. Bartolini; Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia Repubblicana, M. Galfrè) al contesto postbellico alle questioni della costituzione europea e della cittadinanza (Dalla fondazione della CEE ad oggi, G. Laschi, Unione Europea e diritti individuali, P. Caretti; La Costituzione europea a confronto con la Costituzione italiana, C. Lodici.)

Tra docenti partecipanti, quattro sono le professoresse che si sono rese disponibili a proseguire con le loro classi un percorso sull’Italia repubblicana e la Costituzione coordinato da chi scrive, nell’arco di tempo da marzo a novembre 2018 su temi prescelti.

La scuola, il lavoro, la democrazia e l’identità di un popolo unito e diviso sin dalla sua nascita, ed infine la prospettiva di una cittadinanza europea, sono le tematiche più sentite per una generazione che ha la possibilità di confrontarsi con coetanei dei paesi del “vecchio continente”, per motivi di studio , lavoro o semplicemente svago.

Ecco quindi che la classe IV A ordinario del Liceo Scientifico “Amedeo di Savoia”, con la professoressa Caterina Marini ha intitolato il proprio progetto Da regnicoli a cittadini:100 anni di cammino verso la democrazia; un’analisi comparata tra Statuto Albertino e Costituzione che mette in evidenza le novità apportate dall’assemblea Costituente, partecipata e arricchita dalla presenza delle donne; altro tema affrontato è l’importanza dell’istruzione per i nuovi cittadini da formare, che si trovano davanti a qualcosa di ancora sconosciuto, la sovranità popolare, la democrazia.

La professoressa Giovanna Sgueglia con la classe VA Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale IPSAAABI ”De Franceschi” ha scavato fino alle radici, cercando l’essenza dell’appartenenza italiana, attraverso gli uomini e le idee; L’identità italiana:analisi della storia, degli uomini e dei luoghi che ci hanno fatto quello che siamo,è il titolo di una riflessione sulle parole “patria” e “nazione”, usate e abusate, incensate e tradite, nella partecipazione o nel bieco opportunismo.

Cittadini italiani e europei, infine è il titolo dell’approfondimento storico giuridico delle classi VA tecnico economico e VB Scienze applicate ITCS “Filippo Pacini”, con le docenti Paola De Pasquale e Paola Nelli; una ricerca in “tandem” sulla complessità della cittadinanza al tempo dell’Unione europea con al centro il tema del lavoro, studiato sul versante del Diritto e vissuto, come nell’esperienza dell’alternanza scuola lavoro di alcuni alunni in Germania che hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con coetanei di un altro paese dell’Unione europea.

I frutti di questi lavori saranno presentati in occasione del Convegno provinciale il 21 novembre prossimo, ospiti nuovamente della Biblioteca San Giorgio. Saranno presenti Monica Galfrè dell’Università di Firenze e Mariuccia Salvati, dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna; la prima concentrerà il proprio intervento sulla storia della scuola italiana, luogo centrale per la formazione di cittadini e di osservazione della società, come ben si evince dalle numerose riforme dedicate a questo settore dello stato; Monica Galfrè si soffermerà in particolar modo sui mutamenti del secondo dopoguerra, dalle eredità della scuola gentiliana alla grande trasformazione degli anni Settanta, attraverso i protagonisti della scuola: i ministri, ma sopratutto  docenti e studenti.

Mariuccia Salvati ci parlerà di lavoro: diritti, doveri, condizioni e possibilità, di uno Stato che nell’articolo 4 della sua Costituzione menziona il lavoro come fondante “per il progresso materiale e spirituale della società”; un unicum nella storia costituzionale europea del dopoguerra, per un articolo collocato in posizione primaria fra i principi fondamentali, figlio della Rivoluzione Francese, delle lotte dei lavoratori, dei movimenti sociali e politici che dalla metà dell’Ottocento ponevano come base dello Stato sociale il lavoro e la solidarietà . Lavoro e cittadinanza era e rimane un binomio valevole, negli anni dell’aspro scontro tra la cultura cattolica sociale della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista, come nell’odierna società globalizzata.

Durante il convegno didattico sarà proiettato un episodio della web serie sulla Costituzione  raccontata attraverso i luoghi e le figure di rilievo della Toscana del dopoguerra.

Alla fine di questa giornata ci sorprenderà la performance teatrale Fratelli d’Italia di Ultimo Teatro Produzioni Incivili, di e con Luca Privitera. Contemporaneità e storia, partigiani e cittadini di oggi ci racconteranno un paese e dei suoi ossimori, delle sue speranze e delle cocenti delusioni, del ripiegamento su se stesso e sulla forza di andare avanti, comunque.




La Costituzione è giovane! Viaggio in Toscana tra i principi fondamentali della nostra democrazia

Quindi, voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica…

Nel 1955, a sette anni dall’entrata in vigore della Costituzione, in quello che è forse il suo più celebre discorso tenuto ai giovani, Piero Calamandrei rivolgeva alle nuove generazioni un accorato appello a tener viva la Carta fondamentale, quel «testamento di centomila morti» nato dalla guerra e dalla Resistenza, che, per quanto in parte già realtà, costituiva ancora un «ideale, una speranza, un impegno» per il futuro, da coltivare, affermare e mantenere vivo. Ai giovani, appunto, il compito di metter dentro quel «pezzo di carta» l’impegno, la volontà a mantenere e inverare, nel presente e di fronte alle sfide dei tempi, le promesse di quel programma fondamentale di eguaglianza e di libertà. Un compito non facile, considerata la «malattia» – l’indifferenza – che Calamandrei vedeva allora offendere già lo spirito della Costituzione e contagiare pericolosamente coloro a cui quella Carta avrebbe in futuro parlato: i giovani appunto.

Oggi, a settant’anni dalla promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana, la speranza di Calamandrei – che la Costituzione fosse cioè in grado di parlare ai giovani e che questi lo fossero di parlare per essa – rimane quanto mai attuale e la sfida ancora aperta. In una società in rapida e continua trasformazione, dove vecchie e nuove forme di indifferenza e di diseguaglianza insidiano la tenuta dell’originario patto costituzionale, c’è bisogno sempre più di saper parlare ai giovani affinché riscoprano le fondamenta storiche e ideali della nostra società democratica, ne prendano quindi consapevolezza sentendosi parte integrante di essa. Parlare ai giovani, dunque, della Costituzione, con serietà e passione, ma lasciando a loro la libertà di misurarsi con i principi fondamentali sanciti nella Carta, non astrattamente ma con uno sguardo alle situazioni del loro tempo e con la sensibilità derivante dalle esperienze del loro vivere presente; parlare ai giovani lasciando loro la libertà di capire – sotto la direzione di una “buona guida” – non solo “quando” e “perché” quei principi sono nati e in che modo e in che misura e con quali difficoltà si sono potuti affermare nella storia dell’Italia repubblicana, ma di scoprire soprattutto che essi continuano a parlare al nostro tempo al quale ancora pongono le stesse sfide delle origini, quelle cioè di costruire – come indicava e indica la Costituzione – una società più giusta, equa e democratica. La nostra Costituzione, infatti – diceva ancora Calamandrei – non è «immobile», né ha «fissato un punto fermo», ma apre invece «le vie verso l’avvenire».

Sant'Anna_05-min

Enrico Pieri, sopravvissuto alla strage di S. Anna di Stazzema, racconta la sua storia – Dall’episodio “Là dove è nata la Costituzione” (Foto Rumi produzioni)

Parlare ai giovani e far parlare i giovani di Costituzione è la sfida raccolta da un innovativo progetto di web serie prodotto nell’ambito del programma “Costituzione: la nostra Carta d’Identità: 1948-2018” dall’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea con la collaborazione della rete degli Istituti della Resistenza toscani e diretto dal regista Nicola Melloni (Rumi Produzioni). Affidandosi a una struttura narrativa fresca e dinamica ma con la serietà e il metodo dell’indagine storica assicurati dalla consulenza scientifica di docenti ed esperti (Simone Neri Serneri, Catia Sonetti, Matteo MazzoniMonica Rook) il progetto si propone di riflettere sui principi fondamentali della Carta, risalendo ai presupposti storici, ripercorrendone le principali tappe di attuazione e infine interrogandosi sulla attualità di quei principi nella società presente. Al centro della web serie sta un vero e proprio viaggio di scoperta compiuto in Toscana attraverso luoghi e storie personali capaci di rendere testimonianza del percorso storico di nascita e di affermazione dei nostri principi costituzionali, ogni volta affrontato tramite un costante dialogo generazionale tra “testimoni” del tempo e “protagonisti” di oggi. Quattro giovani tra i 17 e i 24 anni, Marta Casini, Elma Kamberi, Francesco Parsi e Davide Mandolini, ciascuno portatore di una propria storia personale in grado di metterlo in contatto e di farlo dialogare con problemi e aspetti al fondo della Costituzione, sono accompagnati e guidati lungo questo percorso da Monica Rook, insegnante della scuola secondaria. Questa, mettendoli in comunicazione con vicende e protagonisti rappresentativi delle battaglie compiute per l’affermazione e l’attuazione nella società dei principi costituzionali, li aiuta e li stimola a confrontarsi – sempre a partire dalla loro sensibilità, dalla loro esperienza e dai loro interessi – con alcuni aspetti chiave della cittadinanza repubblicana.

Sei i temi, le questioni e gli aspetti trattati (la tragedia della guerra e la rinascita dell’Italia; le lotte per la dignità del lavoro e contro il precariato; il diritto al sapere, che dev’essere per tutti; la tutela del bene comune; la diversità, che è ricchezza e non un ostacolo; l’impegno collettivo e la partecipazione), a ognuno dei quali sono legati uno o più principi costituzionali, un luogo e una storia significativi. Sei, dunque, gli episodi, i capitoli, di cui si compone la web serie, aperta e chiusa da due di questi che conferiscono in particolare al progetto una circolarità di senso e di tempo e che non a caso, a differenza degli altri, vedono la partecipazione di tutti e quattro assieme i giovani protagonisti.

Sant'Anna_02-min

Riprese dell’episodio della web serie ambientato a S. Anna di Stazzema (foto Rumi Produzioni)

Come Calamandrei più di sessant’anni fa invitava i giovani a ricercare l’origine della Costituzione in quei luoghi dov’essa era nata (le montagne, le carceri, i campi dove caddero i partigiani e ovunque, in sostanza, «un italiano era morto per riscattare la libertà e la dignità»), la serie si apre con un episodio ambientato nel luogo in Toscana che più di altri lega a sé simbolicamente e moralmente la drammatica eredità del processo di uscita dalla Guerra civile europea, dando monito al contempo dei presupposti culturali, morali e politici sui quali la Costituzione repubblicana fonda le proprie basi. Per andare “La dove è nata la Costituzione” i quattro protagonisti scelgono infatti di recarsi accompagnati da Monica a Sant’Anna di Stazzema, luogo teatro dell’efferata strage di civili compiuta nell’agosto 1944 dalle truppe di occupazione naziste. L’ambientazione e la vicenda incarnano tristemente, divenendone ammonimento, le conseguenze di un’articolazione della società europea chiusa, basata su di un nuovo ordine politico (quello voluto dai regimi nazisti e fascisti) aggressivo, razzista e incardinato sulla sopraffazione e persecuzione efferata di chiunque a quell’ordine si fosse opposto o sottratto. Il ripudio della guerra come strumento di offesa, la volontà di costruire una società pacifica e inclusiva, sono invece elementi imprescindibili alle fondamenta del patto costituente sancito dalla Costituzione italiana. Temi questi sui quali i quattro giovani si confrontano a Sant’Anna attraverso il dialogo intrattenuto con Enrico Pieri, sopravvissuto alla strage e figura attivamente impegnata nel promuovere una cultura di pace, rispetto e tolleranza, e tramite una riflessione comune condotta assieme allo storico, docente e presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea Simone Neri Serneri.

Sant'Anna_03-min

Enrico Pieri dialoga con i protagonisti della Web serie: (da sinistra a destra) Monica Rook, Elma Kamberi, Davide Mandolini, Marta Casini e Francesco Parsi (foto Rumi Produzioni)

Dal rifiuto di una società costruita in antitesi a un progetto comune, inclusivo e democratico, deriva l’importanza del riconoscimento e della salvaguardia degli interessi e dei bisogni comuni a tutti i contraenti del patto costituente. Il diritto-dovere alla tutela dei “beni collettivi” – un concetto ampio ma fondamentale che va dalla tutela del paesaggio naturale e dei beni culturali a quella della salute individuale e richiama l’impegno costituzionale a garantire la difesa di questo patrimonio pubblico costituito dai beni materiali e immateriali che appartengono alla collettività – è un altro tema di confronto al quale è dedicato il secondo episodio (“Beni collettivi, un patrimonio comune”). Qui sono le vicende riguardanti la storia dello sfruttamento dei bacini minerari del Val d’Arno Superiore e dell’evoluzione del complesso di Santa Barbara – da sito estrattivo massicciamente coltivato a centrale termoelettrica tra le più importanti d’Italia e, solo più recentemente, oggetto di riqualificazione ambientale – a offrire occasione per una riflessione sui possibili squilibri prodotti dall’eccessivo sfruttamento a fini economici di una risorsa naturale comune e di contro sulla necessità di tutelare una gestione equilibrata del bene collettivo coniugandola con le esigenze di sviluppo di un territorio e delle comunità che lo abitano. L’incontro che Marta Casini, giovane protagonista dell’episodio, farà accompagnata da Monica con Fabrizio Viligiardi, un amministratore locale impegnato attivamente nella gestione del territorio e nella riqualificazione paesaggistica e ambientale dei vecchi siti estrattivi, le permetterà di ampliare la riflessione sulla questione della tutela del “bene collettivo”, integrandola peraltro con la propria esperienza personale di giovane volontaria molto attiva nel campo sanitario e della pubblica assistenza.

Al diritto al sapere, inteso in senso ampio come piena e fattuale possibilità di libero accesso a tutti gli ambiti della cultura e della conoscenza, è dedicato invece il terzo episodio. L’ambientazione è offerta dalla scuola di Barbiana, luogo divenuto simbolo grazie a l’impegno di Don Milani di una battaglia condotta a favore di un’istruzione pubblica aperta a tutti, egualitaria e democratica, tale da garantire a ciascuno indistintamente e indipendentemente dal suo status sociale il raggiungimento di quel pieno sviluppo della persona umana garantito dalla Costituzione (art. 3), fattore di dignità sociale e mezzo col quale esercitare una cittadinanza attiva, libera e consapevole (“Sapere è potere”). È Francesco Parsi, giovane e dinamico studente delle superiori, che Monica accompagna a Barbiana. Qui, da prospettive diverse e ciascuno con la propria sensibilità, i due discutono e riflettono assieme a Francesco Carotti, uno degli ex allievi di don Milani, sulle battaglie combattute a Barbiana, e altrove nella società italiana, per l’attuazione di un diritto all’istruzione e al sapere egualitario, sulle conquiste conseguite ma anche sui limiti e sulle inadeguatezze della scuola di ieri e di quella di oggi.

Dedicato al tema dell’uguaglianza e al suo rapporto con la libertà è il quarto episodio. Al centro vi è la questione della tutela delle diversità come fattore di effettiva uguaglianza: due diverse storie personali di diseguaglianza generate da distinti fattori di diversità personale si confrontano, senza sovrapporsi e nelle loro specificità, entrando però in contatto su di un comune cammino di consapevolezza e rivendicazione. Da un lato, la storia di Giuliana Gentili, attivista dei diritti delle donne e tra le fondatrici a Grosseto, tra anni Settanta e Ottanta del Novecento, del Collettivo Femminista e del Centro Donna, dunque protagonista di lunghe battaglie contro forme di diseguaglianza di genere e a favore del pieno riconoscimento della parità dei diritti. Dall’altra, invece, la storia di Elma Kamberi, giovane ragazza nata e cresciuta in Italia da famiglia di origini kossovare e privata fino al diciottesimo anno di età della cittadinanza italiana, ottenuta a fatica solo dopo una lunga trafila burocratica e una non facile rivendicazione della propria identità personale segnata da pregiudizi e resistenze. Nel dialogo che si crea tra le due protagoniste e grazie al ruolo di mediazione esercitato da Monica, emerge una riflessione profonda e problematica sull’attualità dei diritti di eguaglianza sanciti dalla Costituzione e sull’impegno ancora necessario affinché, ieri come oggi,  a ogni cittadino, senza distinzioni di sesso, genere, religione, lingua, cultura e condizioni sociali, sia ancora assicurato di raggiungere quell’uguaglianza sostanziale che sola garantisce il pieno sviluppo della dignità personale e sociale necessaria alla sua libertà.

Piombino_MG_9085-min

Il regista Nicola Melloni (a sinistra) concorda gli ultimi dettagli con i testimoni Giorgio Molendi e Paolo Maiolini prima di girare una scena dell’episodio ambientato nelle acciaierie di Piombino (foto Davide Mandolini)

Al successivo episodio è invece affidato il tentativo di riflettere sul tema del lavoro e sulla sua effettiva capacità di costituire, oggi come in passato, un elemento ancora fondamentale alla cittadinanza repubblicana, nella sua duplice accezione di diritto – che la Repubblica si obbliga a rendere effettivo – e di dovere – per cui il cittadino è chiamato con esso a svolgere una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società (art. 4). Nel corso della storia dell’Italia repubblicana, perché queste premesse di cittadinanza fossero mantenute il lavoro ha richiesto – e ancora richiede – un continuo sforzo di adeguamento delle sue reali condizioni ai principi di tutela salariale, previdenziale e sindacale garantiti sulla carta dalla Costituzione. Per ripercorrere alcune tappe di questo processo, coglierne il senso e confrontarsi con storie di lotta alla precarietà e di difesa della dignità sul lavoro, Monica accompagna Davide Mandolini, il giovane protagonista dell’episodio, a visitare gli impianti delle storiche acciaierie di Piombino. A guidarli sono due operai in pensione ed ex sindacalisti, Giorgio Molendi e Paolo Maiolini, che testimoniano delle condizioni di vita e di lavoro vissute all’interno della fabbrica, di quanto fatto negli anni della contrattazione a difesa dei diritti di categoria nonché però delle successive trasformazioni  subite in anni più recenti dall’impiego con il ricorso a forme contrattuali a termine e interinali, incapaci di garantire adeguata tutela al lavoro. Nuove forme di precariato sulle quali riflettere e alle quali Davide, in un confronto tra diritti costituzionali e forme nuove e vecchie di mancata tutela sul lavoro, aggiunge quelle diverse ma analoghe derivanti dalla sua personale esperienza professionale di giovane fotografo freelance, privo di sufficienti sicurezze previdenziali e sindacali.

Piombino_MG_8999-min

Piombino – ultime prove tecniche prima delle riprese  Monica Rook (a sinistra) con la fonica Manuela Patti (foto Davide Mandolini)

La serie, apertasi a Sant’Anna di Stazzema quale luogo simbolo cui è legata l’origine dello spirito della Costituzione, si chiude in ciclica continuità con l’episodio finale ambientato a Firenze, luogo altrettanto emblematico per le radici storiche e morali della nostra democrazia a partire dal ruolo giocato dall’insurrezione cittadina dell’agosto 1944 e dall’esperimento di autogoverno democratico affidato ai partiti antifascisti del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. La modalità con cui la città esce dalla guerra sperimentando, nonostante le profonde cesure politiche generate dal conflitto, una forte solidarietà popolare, come pure le successive e analoghe esperienze di mobilitazione dal basso e di solidarietà tra cittadini e istituzioni di cui la città si rese protagonista in anni seguenti – quali tra tutti i movimenti di quartiere sorti a partire dalla fine degli anni Sessanta – aiutano a riflettere sul ruolo che l’impegno e la partecipazione popolare giocano sulla costruzione e sul mantenimento dal basso della democrazia. Una storia che i quattro giovani protagonisti guidati ancora da Monica ripercorreranno con un suggestivo itinerario lungo il percorso dell’Arno, dal centro storico al quartiere popolare dell’Isolotto: occasione questa che servirà anche a ciascuno di essi  per trarre, alla luce del viaggio compiuto nei precedenti episodi, una conclusione personale sul senso che la Costituzione mantiene con le radici della nostra storia e col nostro presente.

Della serie, che sarà pubblicata integralmente sul web entro la fine del 2018, saranno proiettate in anteprima alcune parti nell’ambito dei convegni didattici provinciali sul progetto Costituzione: la nostra Carta d’identità 1948-2018 che si terranno a Firenze il 12 novembre 2018 presso il Teatro della Compagnia e a Pistoia il 21 novembre presso la Biblioteca S. Giorgio.




“Mille non sono tornati”

È appena uscito (Novembre 2018), a cura di GD edizioni di Sarzana, il saggio Mille non sono tornati di Ezio Della Mea e Enzo Menconi,  che si colloca nell’ambito delle celebrazioni per la fine della Prima Guerra Mondiale.

Il volume, completo di un’appendice di mappe e di un CD con un data base, è di facile consultazione: i caduti sono suddivisi per frazione di nascita e/o domicilio e se ne raccontano le vicessitudini militari, l’eventuale prigionia, le circostanze del ferimento e della morte, e della inumazione. Esso ricorda tutti i caduti carraresi durante la Grande Guerra, 960 uomini ed una donna, Argentina Dell’Amico.

Lei ha una storia particolare, che merita di essere raccontata: il suo nome compare alla base di un piccolo obelisco che ricorda i caduti. Inizialmente si era pensato ad una crocerossina ma ulteriori ricerche hanno permesso di accertare che ella è morta durante la Seconda Guerra Mondiale, il 20 gennaio 1945, nella zona di Minucciano, in Garfagnana, dove si era recata con altre donne di Carrara per scambiare il sale con farina e altri prodotti. Lì viene a sapere del bombardamento di Carrara e decide di tornare a casa per verificare le condizioni dei suoi familiari. Trovandosi a ridosso della Linea Gotica, rimane uccisa dagli spari dei militari tedeschi.

L’idea di questo saggio è frutto di un’assenza, quella a Carrara, a differenza delle altre città italiane, di un ricordo dei suoi caduti durante la Prima Guerra Mondiale” afferma il coautore Ezio della Mea. Solo recentemente la Regione Toscana ha stanziato il finanziamento per il restauro di una lapide della Grande Guerra nel cimitero di Gragnana, perché eccessivamente deteriorata.

Ed è proprio dalle lapidi che la ricerca alla base di questo libro è iniziata, attraverso la loro ricognizione nei 13 cimiteri carraresi, dopo lo spoglio al Ministero della Difesa dell’albo d’oro dei caduti del ’15-’18. E qui scopriamo che solo in Toscana essi sono stati 46.162, “uomini a cui si deve guardare con rispetto e come ammonimento per il futuro, senza qualsivoglia esaltazione retorica e bellicistica”, scrive Enzo Menconi nella Prefazione.

Le forze combattenti andavano dai 18 (17 se partivano come volontari) ai 43 anni, ma accanto a loro c’erano gli operai militarizzati (dai 12 ai 60 anni). Inoltre, dopo Caporetto, fu necessario richiamare dalle leve di mare soldati per la leva di terra.

Nelle trincee del Carso, sulla Bainsizza, sull’altopiano di Asiago, sul Pasubio, sul Grappa, sul Piave, sull’Isonzo ma anche nella penisola balcanica e in Libia caddero circa 700.000 italiani. 800 erano di Carrara […] Oltre il 50% di quei soldati erano lavoratori del marmo”, scrive Enzo Menconi. Di questi 321, circa il 40 %, sono morti per malattia (prevalentemente broncopolmonite dovuta alle alquanto insalubri condizioni in trincea), 60 muoiono in prigionia (di cui 15 non si sa dove), i restanti per le ferite riportate.

Un esempio dei prigionieri deceduti in mano nemica, è Nicoli Bruno (classe 1895) sepolto a Mauthausen (nome divenuto tristemente noto in epoca nazista), poiché spirato a seguito di una malattia.

A Carrara sono morti anche 88 soldati non carraresi, perché vi erano due ospedali militari. Le cause del decesso riportate nelle cartelle cliniche recitano principalmente congelamento, oltre che ferite. Alcuni sono stati fucilati per i disturbi psichici dovuti ai traumi di guerra, come Arnaldo Bruschi. Egli era stato riformato alla leva e ritenuto idoneo solo ai servizi sedentari, ma, chiamato per la mobilitazione generale del marzo 1917, viene inviato come soldato nella compagnia zappatori. La sua morte è stata oggetto di plurime falsificazioni: sul sito OnorCaduti è riportato che è morto in azione sul Carso il 24 agosto, mentre l’ufficiale alla matricola del distretto militare di Massa trascrive nel Foglio Matricolare di Bruschi che egli “è morto per ferita da arma da fuoco non in combattimento” in analogia a quanto certificato nell’atto di morte del registro del reggimento. Le due annotazioni nascondono una tragica verità: il testimone, tenente Ilio Panzani, riferisce che quel 24 agosto il soldato Bruschi tentava di “scaricare l’arma”, gesto dovuto allo squilibrio mentale causato dalle fatiche precedenti e dalle traumatizzanti impressioni subite. Bruschi viene così condotto al posto di medicazione, con l’indicazione di qualche giorno di riposo. Ma i segni di squilibrio mentale proseguono ed un generale, presente sul posto, ne ordina la fucilazione. Il tenente Panzani, però, al termine della sua relazione scrive che il soldato Bruschi, nel periodo passato alle sue dipendenze “tenne sempre un’ottima condotta e mai ebbi a lamentarmi di lui per nessun motivo”.

Analogamente fucilato, il caporale Ferrari Luigi, ferito da arma da fuoco nei combattimenti di San Michele a Monfalcone. Condannato per diserzione di fronte al nemico, fu eseguita la pena della fucilazione alla schiena. Nessuna lapide lo ricorda, ma dopo la fine della guerra, gli è stata conferita la medaglia commemorativa nazionale. Citando de André: “ora che è morto la patria si gloria / d’una medaglia alla memoria”.

I soldati provenienti da Carrara combatterono principalmente sul Carso, a quota 83, vicino a Monfalcone, in una località non a caso chiamata Monte Calvario.

Ma diamo un nome e una storia ad alcuni di questi soldati. Ci piace ricordare i  fratelli Tusini (Alessandro e Lorenzo) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Alessandro muore il 26 giugno 1916 in combattimento sull’altopiano di Asiago; Lorenzo il 2 luglio colpito al cuore da un proiettile negli stessi luoghi dove, pochi giorni prima, era caduto il fratello minore.

Tristemente analoga la sorte dei fratelli Papini di Colonnata, Olinto (01.05.1892 – 24.10.1915) e Rodolfo (31.10.1894 – 01.11.1915) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Il primo, mentre tentava con il suo reggimento, il 90°, di guadagnare quota 1100, viene ferito all’addome da arma da fuoco e muore in ospedale a Tolmino il 24 Ottobre. La sua salma è stata poi trasferita a Caporetto. Il secondo, nel 12° reggimento di fanteria nella brigata Casale, avanza con i compagni sulla linea alle falde del Podgora, sui trinceramenti nemici, superando una prima linea, difesa tenacemente dagli avversari; il giorno dopo viene espugnata la seconda linea e il 28 ottobre, nonostante le avverse condizione meteorologiche, anche la terza. Ma Rodolfo il 1° Novembre sul Podgora, colpito da arma da fuoco durante un combattimento, cade. La salma attualmente giace al sacrario militare di Oslavia, senza una lapide che lo ricordi. I due fratelli, morti quasi nella stessa settimana, non sono mai stati neppure inumati vicini.

Diversamente i fratelli Pantera di Bergiola Foscalina sono sepolti uno accanto all’altro nel sacrario di Redipuglia (loculo 27347 e 27346), mentre a Borgiola una lapide li ricorda. Andrea è deceduto il 17 settembre 1917 in un ospedale da campo a seguito delle ferite da schegge di shrapnel; Emilio è morto il 12 Gennaio a Trieste nel 1920 a seguito di una malattia contratta quando ormai la guerra stava finendo.

Concludiamo rendendo onore al più giovane dei caduti: Galeotti Ercole. Aveva soltanto 14 anni e 7 mesi. Era operaio del Genio Militare della Prima Armata ed è morto per malattia nel piccolo ospedale da campo di Salò il 22 Ottobre 1918.

Si rende vero onore a lui e a tutti i caduti se ci si impegna per un futuro diverso in una patria che veramente ripudia la guerra.

Questo libro è un monumento cartaceo ai caduti di una guerra di cui questo anno si celebra la fine, da alcuni vista come la quarta guerra di indipendenza e comunque l’ultima di unificazione nazionale. Tuttavia esso “non è e non vuol essere la celebrazione di una vittoria o il rinnovo di antiche contrapposizioni […] ma un piccolo contributo alla ricerca di quel comune legame di civiltà che unisce oggi i popoli di Europa, quel legame che le guerre, i totalitarismi e i nazionalismi non sono riusciti a cancellare”, afferma con vibrante convinzione Menconi.

La storia è un vaccino, ma, come i vaccini, ha bisogno di richiami.




Dirty dancing: balli “peccaminosi” alla Casa del popolo di Tobbiana

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, una novità esplosiva irruppe sulla scena musicale dell’Italia del Boom: il rock’ n’ roll faceva infatti la sua comparsa nella Penisola, dove avrebbe trovato un’intera generazione pronta a scatenarsi al suo ritmo dirompente.

Questa tendenza musicale proveniente dagli Stati Uniti andò subito diffondendosi nell’Italia del Miracolo: infatti, i giovani del Boom prediligevano, nei loro gusti musicali, suoni dai tratti “esotici” che, almeno all’inizio, provenivano da cantanti statunitensi (come Neil Sedaka e Paul Anka). Il rock’ n’ roll trovò di lì a breve un equivalente locale nei cosiddetti “urlatori”- Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Mina e molti altri – che sfidarono a colpi di grida e note musicali i cantanti melodici tradizionali. Questi nuovi ritmi contribuirono fortemente a definire l’identità di una generazione che considerava la sfera ricreativa come un luogo essenziale per la creazione della propria identità.

È dalla campagna che analizzerò il rapporto che si creò fra le Case del popolo e la diffusione, fra la generazione del Miracolo, della passione per la musica e per il ballo. Prendendo infatti come esempio la Casa del popolo di Tobbiana (posta nel comune di Montale, in provincia di Pistoia), vedremo come queste istituzioni ebbero un ruolo decisivo nell’accompagnare la gioventù di allora nei suoi “balli peccaminosi”.

Era il 1965 quando fu inaugurata la grande sala della Casa del popolo di Tobbiana. Adesso anche in paese c’era un luogo dove ritrovarsi per convegni, conferenze e… ballare!  La domenica, dalle 21.00 in poi, i giovani danzavano sulle note di Jimmy Fontana, di Don Backy, di Little Tony. La serata di inaugurazione fu un grande evento per il paese: nasceva così il Dancing La Roccia.

Molti amori sono nati sulle canzoni suonate al Dancing La Roccia, dove i cuori dei giovani palpitavano a ritmo di musica. Vi è da fare però un’importante precisazione. Ancora alla metà degli anni Sessanta, il paese di Tobbiana restava diviso fra lo schieramento comunista e quello democristiano. I democristiani evitavano di recarsi alla Casa del popolo, e proibivano ai loro figli di frequentarla: infatti, i giovani provenienti da famiglie democristiane non andavano al Dancing La Roccia. In particolare, erano le ragazze a non recarsi a ballare alla Casa del popolo del paese.

Ciò non accadeva solo a Tobbiana: infatti, le ragazze di provenienza democristiana non ballavano in generale. Ancora nel secondo dopoguerra, il ballo era visto dalla Chiesa cattolica come un “diabolico trattenimento”. I balli sono sempre dannosi, a maggior ragione per le donne. È l’essenza stessa del ballo che mette a repentaglio la virtù delle giovani: la vicinanza dei corpi avrebbe infatti portato a uno scoppio dei “bassi istinti” e, di conseguenza, a una relazione sessuale. Per le adolescenti, a cui è richiesta la salvaguardia delle verginità, la cosa migliore sarebbe perciò evitare i balli. Chi, al contrario, si reca a ballare, sa già di poter perdere l’illibatezza e, con essa, la possibilità di un matrimonio soddisfacente. Ma, anche se la verginità non dovesse essere perduta, anche la sola “compromissione coi balli” precluderebbe alla donna la possibilità di trovare un uomo disposto a sposarla: questo spiega il gran numero di sermoni cattolici che insistevano sul tema del ballo peccaminoso, destinato a condannare le impenitenti ballerine alla condizione di sedotte e abbandonate o inevitabili zitelle.

Certamente, alla metà degli anni Sessanta, il condizionamento della Chiesa sulla morale era ancora molto forte, soprattutto nei riguardi del sesso femminile. Del resto, la maggior parte della popolazione italiana avrebbe condiviso ancora a lungo la tradizionale mentalità maschilista e misogina, che prescindeva dal colore politico di appartenenza. Ma vi è da dire che, nei confronti della musica e del ballo, i comunisti potevano vantare, rispetto ai democristiani, una mentalità più aperta e un’esperienza ventennale, iniziata nell’immediato secondo dopoguerra.

Infatti, dopo la fine del conflitto, i primi locali danzanti “popolari” nacquero proprio nelle Case del popolo: e quella di Tobbiana non fece eccezione. Già nel 1947, la dirigenza prese in affitto un piccolo appezzamento di terreno dove costruire una pista da ballo all’aperto. Nacque allora il Dancing Fico Verdino, grazie al quale i paesani giovani e meno giovani poterono riscoprire la loro capacità di divertirsi dopo una guerra particolarmente dura e sanguinosa. Osservando i tobbianesi ballare al Fico Verdino, possiamo notare come la dirigenza della Casa del popolo non fosse mai stata chiusa nei riguardi della dimensione ricreativa – ma che, anzi, avesse creato essa stessa dei momenti di svago per tutta la popolazione. Il Dancing La Roccia pare essere la naturale evoluzione del piccolo Dancing Fico Verdino.

La direzione della Casa del popolo sapeva bene che la grande sala sarebbe divenuta il luogo dove i giovani avrebbero finito per ballare “a ritmo di rock”. Sebbene i ragazzi e le ragazze, al Dancing La Roccia, non restassero mai da soli senza gli adulti (gli attivisti “anziani”, i genitori che accompagnavano a ballare i loro figli), è indubbio che, in generale, da parte dei comunisti vi fosse una maggiore apertura riguardo ai “balli peccaminosi” che tanto preoccupavano la controparte democristiana e la Chiesa cattolica.

Insomma, possiamo dire che, per il paese di Tobbiana come per tante altre realtà simili, fu proprio la Casa del popolo a costituire il primo e più importante luogo di diffusione, fra i giovani, dell’amore per il ballo (peccaminoso!). Di lì a breve, ognuno di loro avrebbe preso la propria strada. Ma, nonostante il fatto che la vita li avrebbe poi portati verso altri luoghi ed esperienze, quei ragazzi e quelle ragazze non avrebbero mai dimenticato quei giorni spensierati trascorsi ballando alla Casa del popolo di Tobbiana.

Daniela Faralli si è laureata all’Università di Firenze in storia contemporanea, con una tesi sulle case del popolo negli anni ’50 e ’60. Attualmente è consigliere dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia.




Pier Carlo Masini (1923-1998), un intellettuale democratico e libertario a vent’anni dalla scomparsa

Vent’anni fa, il 19 ottobre a Firenze, moriva Pier Carlo Masini, uno dei principali intellettuali e uomini di cultura del movimento operaio, socialista e libertario del Secondo dopoguerra.

Pier Carlo Masini nasce il 26 marzo 1923 a Cerbaia, frazione di San Casciano Val di Pesa (FI). Giovanissimo, inizia la propria attività politica e intellettuale negli ambienti del movimento liberalsocialista. Arrestato per attività antifascista nel gennaio 1942, è condannato a tre anni di confino a Guardia Sanframondi, nel beneventano, sul massiccio del Matese. Il 19 maggio 1943 torna a Firenze, riprende i contatti con i vecchi compagni e si avvicina al PCI. Quando le operazioni militari della guerra investono anche la Toscana, Masini non partecipa direttamente ad azioni militari, ma è in prima fila nell’aiutare la popolazione della sua zona, ricoprendo anche incarichi di responsabilità, come vicesindaco di San Casciano Val di Pesa, nominato dagli Alleati, e come membro del CNL locale in rappresentanza del PCI. Nel periodo compreso tra l’ultima fase della guerra e i momenti immediatamente successivi alla liberazione, di fronte alla svolta di Salerno e alla interpretazione togliattiana della lotta al nazifascismo, Masini matura la scelta di abbandonare il PCI e di avvicinarsi al movimento anarchico.

Alcune figure dell’anarchismo storico sono state per lui punto di riferimento culturale e politico: Bakunin, Cafiero, Malatesta, soprattutto Merlino e Berneri. Di Bakunin e Cafiero Masini ammira la dedizione alla causa libertaria, la coerenza e l’intensità della loro partecipazione agli eventi che li videro protagonisti; di Malatesta apprezza il pensiero limpido e lineare, da anarchico “ragionante”; di Merlino e Berneri valorizza la spregiudicatezza teorica, il “revisionismo”, cioè la capacità di mettere a confronto l’anarchismo con le altre componenti teoriche e pratiche del movimento operaio e socialista. Non a caso, già dal dopoguerra Masini instaura un fertile rapporto epistolare con Aldo Venturini, curatore delle opere di Merlino, e con Giovanna Berneri, moglie di Camillo. Per meglio comprendere l’importanza di questi rapporti, basta ricordare la pubblicazione, nel 1957, del volume di Merlino Concezione critica del socialismo libertario per le edizioni De Silva e La Nuova Italia, in collaborazione proprio con Venturini, e quella di scritti scelti di Camillo Berneri Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, curati nel 1964 con Alberto Sorti per Sugar editore.

Il rapporto con gli anarchici non è facile. Il giovane Masini, pieno di entusiasmo e di iniziativa, spesso si scontra con compagni più anziani, esausti per la lunga lotta al fascismo, spesso isolati ed emarginati dall’egemonia politica dei partiti marxisti. L’anarchismo italiano del dopoguerra, nonostante la grande tradizione e le simpatie popolari che riscuote ancora in alcune aree del paese, appare a Masini povero culturalmente ed organizzativamente, limitato e spesso paralizzato da diatribe interne. Masini si propone di contribuire a togliere l’anarchismo dalla sua emarginazione, creando per questo una rete di collaborazioni, spesso esterne al movimento, nella speranza che il travaso di culture diverse ma vicine possa far crescere una nuova pianta su una radice antica. L’idea di dare inizio a un processo di rinnovamento del movimento si concretizza con «Gioventù anarchica» (1946-1947), periodico redatto insieme a Carlo Doglio. Nonostante la sua breve vita, il giornale suscita interessi e collaborazioni anche fuori dal movimento. Masini prende contatto, per esempio, con il Movimento di Religione di Ferdinando Tartaglia e Aldo Capitini, con il periodico bergamasco «La Cittadella», con le piccole organizzazioni della “sinistra comunista” bordighiste e trotzkiste. All’interno della FAI, Masini si occupa inizialmente della Commissione antimilitarista, ma il suo impegno progressivamente si intensifica come conferenziere e, dal 1948, come redattore di «Umanità Nova» e collaboratore della rivista «Volontà» (1947-1949). Lo scontro interno alla FAI fra il gruppo di giovani che si muovono intorno a Masini e le componenti più tradizionali del movimento, matura fra il congresso di Livorno (23-25 aprile 1949) e quello di Ancona (8-10 dicembre 1950). L’idea di Masini è quella di costruire un “partito libertario”, con una dimensione teorica e pratica dell’anarchismo aderente alla nuova realtà economica, politica e sociale dell’Italia del dopoguerra, capace di stringere alleanze, su posizioni prettamente internazionaliste e legate alle lotte dei lavoratori, con una presenza costante all’interno del sindacato: sono le basi che portano alla nascita del periodico «L’Impulso» e dei “Gruppi anarchici d’azione proletaria” (GAAP). La costituzione dell’organizzazione è anche, però, l’inizio di un lento ma costante distacco di Masini dall’anarchismo militante tradizionale, che lo porterà, nel giro di pochi anni, ad approdare al socialismo democratico.

La maggiore passione culturale di Masini, che lo caratterizzerà per tutta la vita, è la ricerca storica. Laureatosi in Scienze politiche a Firenze nel novembre del 1946, studia con impegno la storia dell’anarchismo proprio per far fronte alle mistificazioni e all’egemonia culturale del PCI. Negli anni in cui Masini ricopre l’incarico di redattore di «Umanità Nova» (dal 1948 agli inizi del 1950) e collabora con il «Libertario» (1950/52), non c’è fascicolo su cui non venga riportato, oltre a quello di politica, un articolo di storia. Si tratta di veri e propri saggi che, a volte, escono a puntate, mentre la passione intellettuale per l’analisi dei documenti, di libri e di riviste rare è documentata dalla rubrica firmata con lo pseudonimo “L’Archivista”. Costante, anche se l’appello cade molto spesso nel vuoto, è il  suo richiamo alla necessità per gli anarchici di ricostruire il proprio percorso storico in forma critica, per strappare dall’anarchismo quell’etichetta di fenomeno folcloristico e “preistorico” del movimento operaio, che gli storici togliattiani tentano di attribuirgli. L’attività di ricerca va anche oltre gli ambiti militanti, confrontandosi da subito con quella parte della rinnovata storiografia contemporanea sul movimento operaio che inizia allora a fare i primi passi. Di qui, per esempio, la collaborazione alla rivista «Movimento operaio» di Gianni Bosio, con cui intrattiene per circa vent’anni una fittissima corrispondenza. In questa intensa fase di ricerca storica, Masini collabora con il giovane Gino Cerrito – successivamente docente presso l’Università degli studi di Firenze – e l’anziano militante Ugo Fedeli.

L’esperienza dei GAAP confluisce, tra il 1956 e il 1957, con i “Gruppi d’Azione comunista” nel “Movimento della Sinistra comunista”, un’esperienza composta da militanti provenienti da piccole formazioni della sinistra extraparlamentare (bordighisti, trotzkisti, ex-pci come Giulio Seniga o come Bruno Fortichiari, tra i fondatori del pcdi nel 1921 ecc.), che ha il merito, tra il ’56 e il ’58, durante e dopo la crisi ungherese, di rappresentare, con un vivace dibattito e un’intensa attività, la parte internazionalista e antistalinista della sinistra rivoluzionaria italiana. Con Seniga, in particolare, Masini stringe un’amicizia profonda e una collaborazione culturale, che negli anni Sessanta producono l’esperienza della casa editrice Azione comune. Lo scioglimento dei GAAP, l’affermarsi all’interno del “Movimento della Sinistra comunista” di tendenze neo-leniniste e l’insuccesso organizzativo di MSC come forza alternativa al PCI e al PSI, convincono Masini ad abbandonare qualsiasi residuo militante e teorico libertario, per approdare fra la fine del 1958 e l’inizio del 1959 nel PSI. L’ingresso nell’area socialista viene preceduto dalla pubblicazione di due ciclostilati redatti da Masini, La corrente di ‘sinistra’ vista da sinistra e Una classe un partito, due documenti dichiaratamente internazionalisti, classisti e decisamente anticomunisti. La tesi di fondo è quella che solo attraverso un partito socialista unificato, con al suo interno una corrente libertaria e internazionalista, è possibile smascherare l’inganno comunista, e dare una vera prospettiva politica alla classe operaia. Inoltre Masini, sostenendo gli “autonomisti” all’interno dell’organizzazione, si propone di contribuire all’opposizione contro la sinistra del partito con l’obiettivo di riconsegnare il PSI alla sua vera vocazione: quella nata con la Prima Internazionale e legata alle tradizioni democratiche risorgimentali. È in questo periodo di intensa partecipazione al dibattito politico che Masini entra in contatto con la redazione di «Corrispondenza socialista», stringe rapporti di amicizia con Giorgio Galli, Stefano Merli e Gaetano Arfè e, inoltre, incontra Giuseppe Faravelli, socialista riformista di tradizioni proudhoniane, amico di Andrea Caffi e curatore dell’indipendente «Critica sociale». Sono gli anni in cui Masini si dedica alla ricerca storica per scrivere saggi sulle tradizioni laiche, risorgimentali, libertarie, federaliste e anticlericali del primo socialismo italiano. Pur ricoprendo incarichi prima nel PSI e poi nel PSDI, nel quale milita dal 1969 al 1992 (segretario provinciale di Bergamo e membro del Comitato centrale), non si candida mai a nessuna carica pubblica, né di consigliere comunale né di parlamentare, motivando questa scelta con la volontà di mantenersi coerente sul piano etico, suo costante tratto distintivo. La sua originale concezione del socialismo, inteso come sintesi fra due anime, quella riformista (Turati e Prampolini) e quella rivoluzionaria e libertaria (Malatesta, Merlino e Berneri), rimane un caso isolato nel panorama del socialismo democratico italiano di quegli anni.

Federazione_AILNel 1958 viene pubblicato dalla casa editrice Avanti!, Gli internazionalisti. La Banda del Matese, 1876-1878, seguono a ruota i primi tre volumi degli scritti di Bakunin e nel 1963 La Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Atti ufficiali 1871-1880 (atti congressuali; indirizzi, proclami, manifesti) (Edizioni Avanti!). In questo periodo continuano le collaborazioni a periodici come la «Rivista storica del socialismo» e «Movimento operaio e socialista».

Per capire l’importanza di questa attività, va ricordato che nei primi anni Sessanta, a parte piccole case editrici di movimento come le edizioni Antistato, la Fiaccola e la Libreria della FAI, non esistono nel panorama editoriale italiano collane o testi sull’anarchismo. Nel ’59 esce Il Socialismo anarchico in Italia di Enzo Santarelli, edito da Feltrinelli, poi nient’altro: gli scritti di Masini, sparsi su riviste e quotidiani, divengono quindi l’unico punto di riferimento sul piano della ricerca storica. Solo più tardi, alla fine degli anni Sessanta, le case editrici più importanti, sull’onda della contestazione giovanile, riscoprono l’anarchismo. Proprio dalla scarsità di iniziative editoriali indipendenti nella sinistra nasce, su iniziativa di Seniga, la casa editrice Azione Comune che vede in Masini uno dei principali animatori. La collaborazione con la casa editrice è importante sotto diversi punti di vista: la linea editoriale tende a portare alla luce i temi dell’azione politica e culturale di Masini. Le pubblicazioni di Azione Comune offrono per la prima volta, soprattutto ai lettori giovani, testi sconosciuti e inediti della storia del socialismo italiano ed internazionale. Scorrendo il catalogo della casa editrice, si trovano nei vari titoli i temi cari a Masini e alla sua visione di un socialismo umanista e libertario. Nel 1962 Masini ripubblica il volume di Rosa Luxemburg, Centralismo o democrazia (Replica a Lenin), che era già uscito nel 1957; nel 1966 da alle stampe l’opera di Camillo Berneri, Mussolini psicologia di un dittatore. Le diverse attività culturali e politiche non distraggono Masini dal suo principale interesse e cioè la ricerca e la ricostruzione delle vicende dell’anarchismo italiano, ed è proprio Masini a studiarlo e difenderlo sul piano storiografico nell’ambito delle celebrazioni del centenario della nascita della Prima Internazionale. La sua comunicazione al convegno di Firenze su Il movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici del 18-20 gennaio 1963, La Prima internazionale in Italia, rimane un’opera fondamentale tra quelle dedicate alle origini del socialismo e dell’anarchismo italiano. In questo contesto vanno inseriti i volumi Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, (1969), la biografia di Cafiero (1974) e Storia degli anarchici nell’epoca degli attentati (1981), tutti editi da Rizzoli.

La presenza di Masini è costante in numerosi convegni a carattere storico, sia militanti che no, come quello organizzato dalla Fondazione Einaudi a Torino nel dicembre 1969, Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, o quello di Venezia del 1976 nel centenario della morte di Bakunin organizzato dal Centro Studi Pinelli di Milano, inizio di una nuova stagione di analisi e riflessioni storiche. Nel 1969 Masini fonda a Bergamo la Biblioteca Max Nettlau, che per anni, in tempi difficili per la ricerca di materiali preziosi, rappresenta una tappa fondamentale per chiunque si accinga allo studio dell’anarchismo. Nel ’78 escono i volumi Poeti della rivolta, da Carducci a Lucini e Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana. Negli ultimi anni della sua vita si dedica a studi su Manzoni, Alfieri e Porta. Nel 1993 partecipa alla fondazione della «Rivista Storica dell’Anarchismo», di cui sarà membro del comitato scientifico, e alle attività della Biblioteca Franco Serantini, cui lascerà in eredità il suo prezioso archivio e una ricca collezione di pubblicazioni.




La rete dei piccoli paesi

Emilio Lussu e Nuto Revelli

Lussu e Revelli sono uomini di straordinario profilo nel nostro Novecento. In modo diverso tra loro, anche per età, sono stati significativi della Resistenza, della battaglia contro le guerre, e figure di alto valore morale. Li ho conosciuti entrambi, ma solo di Emilio – che aveva 52 anni più di me – sono stato amico. Nuto lo ho incontrato sulla strada delle fonti e della storia orale, Emilio nella sinistra socialista sarda e nel PSIUP. Di entrambi ammiro i libri che hanno scritto Emilio come grande testimone e protagonista, Nuto oltre che come testimone e protagonista anche come ricercatore capace di restituire la coralità delle voci contadine. Grandi libri i loro, tradotti in tante lingue. Un pezzo dell’ Italia che ci piace sia conosciuta nel mondo. La rete dei piccoli paesi, che è un coordinamento informale tra soggetti che hanno interesse a scambiarsi esperienze, li coinvolge  entrambi.

un_caffè_ad_armungia_2018-101

Panorama di Armungia con nuraghe in alto (foto di Simone Mizzotti)

Armungia

La rete è nata infatti, nella forma attuale, dopo che l’Associazione Nazionale Bianchi Bandinelli che si occupa del patrimonio culturale ha dato un premio all’Associazione Casa Lussu riconoscendone la attività di “tutela come impegno civile”. Era il 2016, ho collaborato con Casa Lussu di Armungia (in provincia di Cagliari, il paese natale di Emilio Lussu) a realizzare un convegno-festa per il premio che coinvolgesse varie realtà simili a Casa Lussu, ovvero realtà in cui il lavoro culturale cerca di dare nuova vita a paesi a rischio tracollo demografico. Armungia ha oggi circa 400 abitanti tanti anziani e pochi bambini. Qui Tommaso Lussu, nipote di Emilio, romano, è tornato, riabitando la casa degli antenati (conservata in stile tradizionale) e dedicandosi alla tessitura a mano imparata sul posto da una donna novantenne , grande tessitrice alla maniera antica. Il suo ritorno con la compagna Barbara (nipote della tessitrice) ha avviato ad Armungia un piccolo processo di ripresa di iniziative, un lento ri-orientamento di una realtà rassegnata alla marginalità e allo spopolamento. Il premio è stato del 2016 e nel 2018 si è tenuto il terzo festival Un caffè ad Armungia che mette insieme progetti culturali di qualità,  esperienze di vari piccoli paesi e varie artigianalità. Ad Armungia c’è un museo del paese e un Museo di Emilio e Joyce Lussu, tracce di una storia culturale significativa, ma – senza la vitalità portata dalla nuova iniziativa – anche quei musei rischiavano di essere dei morti-viventi.

Paraloup e Soriano

A partire dalle iniziative  di Armungia, ci siamo messi in contatto con  Paraloup, che  è un rifugio di montagna che nel 1943 fu la sede iniziale della prima banda partigiana di Giustizia e Libertà, di cui facevano parte oltre Revelli anche Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco. La Fondazione Revelli lo ha restaurato e fatto rivivere impegnandolo sui temi del riabitare la montagna. A Paraloup la rete dei piccoli paesi ha conosciuto anche il progetto di mettere on line le interviste di Nuto che hanno dato fondamento ai libri Il mondo dei vinti e L’anello forte.  Un altro incontro la rete lo aveva fatto a Soriano Calabro in provincia di Vibo Valenzia, un paese di maggiore consistenza demografica, ma in forte calo, che investe sui musei, sulla sua storia di terremoti ma anche sulla produzione alimentare e dolciaria di qualità. La Calabria è terra di piccoli paesi abbandonati, Vito Teti ne ha raccontato, in vari libri e anche in una costante militanza per il ritorno, nei blog e su Facebook. Riace è un paese simbolo dell’accoglienza e della integrazione progettata dei migranti. I piccoli paesi della Calabria e Paraloup avevano già una loro ‘rete del ritorno’, condividendo progetti di rivitalizzazione dei paesi e impegni per ‘restare paese’, resistendo allo svuotamento e alla desertificazione.

Monticchiello - Teatro povero - "Quarantanniquaranta", scena della Resistenza [2006]

Monticchiello – Teatro povero – “Quarantanniquaranta”, scena della Resistenza [2006]

Monticchiello

Nella nuova rete abbiamo coinvolto anche Monticchiello, una frazione di Pienza, luogo anche della battaglia di Monticchiello, episodio significativo della resistenza senese. Qui da  più di 50 anni è nato il Teatro Povero di Monticchiello che usa l’autodramma’, un teatro in cui i testi sono riflessioni sul destino della comunità e gli attori sono i membri di essa. Esso si è costituito in Cooperativa per difendersi dall’esodo e per creare condizioni di vivibilità per gli anziani e anche  di inclusione per migranti. È forse la realtà più consolidata della rete, anche se la sua situazione demografica resta sul confine. Qui  nel 1999 fu rappresentato l’autodramma Quota 300 (300 è  l’indicatore del crollo demografico e della perdita di tutti i servizi) in polemica con le amministrazioni pubbliche.   Nel tempo l’autodramma si è rivelato un modo di ‘porre il centro in periferia’ (una espressione di Adorno sulla scrittura di Benjamin, che abbiamo adottato a emblema della rete). Tutti gli anni, i protagonisti del teatro e con loro la gente dei posto e dei dintorni, diventano una frontiera dei temi caldi del mondo e del fronte delle piccole comunità. Infatti si tratti della memoria contadina, dell’agricoltura moderna, del capitalismo finanziario, del turismo invasivo, o dello spopolamento, a Monticchiello se ne discute. Il teatro ha un po’ il ruolo di assemblea ateniese. Al tempo stesso il teatro – come messa in scena della comunità – è uno dei modi diffusi nella rete per ‘farsi centro’ per ‘essere nella storia’.

Altavalle ed altri

Ed è così che succede anche in altri centri della rete: ad Altavalle, un paese del Trentino, nato dall’unificazione di due paesi, e anche a Introd, in Val d’Aosta. In entrambi i luoghi si fa teatro storico e comunitario sulla propria memoria e identità locale.

La rete è anche attraversata dai musei che, in questi contesti, diventano dei presidi utili per le politiche locali di rinascita. A Introd il Museo etnografico Maison Bruil fa rete tra i produttori del cibo locale e ne facilita la vendita e la certificazione, fa quindi comunità  locale come altrove fa il teatro. A Cocullo è invece la grande festa religiosa di San Domenico che si svolge col protagonismo dei ‘serpari’ esperti del territorio. Nella rete entrano anche interlocutori diversi, spesso attraverso dei giovani che, seguendo la traccia dei nonni e/o dell’infanzia,  tornano a vivere nei luoghi.E’ questo  il caso di Padru,  piccolo paese vicino a Olbia in Sardegna, dove  nella frazione Sa Pedra bianca è nata l’associazione Realtà virtuose che lavora sulla qualità ambientale e sulla memoria dell’uso del territorio, costruendo eventi e documentando anche la ‘fonosfera’, l’ambiente sonoro. Invece in provincia di Rieti il Comune di Flamignano attraverso la sua pro-loco, si connette portando nella rete una diversità biologico-agricolo-gastronomica: la lenticchia di Rascino. Mentre i diversi piccoli paesi dolenti e spopolati dell’Appennino calabro che si rianimano d’estate con processioni, concerti, feste, eventi culturali, sono rappresentati dal lavoro sul territorio e dai libri ed articoli di Vito Teti, antropologo dell’Università della Calabria. Vito Teti  abita a San Nicola di Crissa da quando è nato, ha avuto il padre emigrato in Canada e la vita universitaria a Roma. La sua scelta di restare-tornare è un modo di porre il centro in periferia. In questo orizzonte di piccole realtà ci sono tanti festival, il ruolo di registi, fotografi, appassionati, che animano queste comunità periferiche (ad esempio tra i compagni di ‘rete’ Dordolla, Topolò, Portis, nel Friuli) che cercano di dare senso ai luoghi che si vanno perdendo.

Coscienza di luogo

Queste esperienze hanno come cornice comune il dibattito sul territorio, sul ruolo della città, delle produzioni agricole e artigiane, il rilancio delle zone interne con le agricolture basate sui prodotti ad origine protetta, e la progettazione di un’offerta turistica e gastronomica di alta qualità e differenza locale. Le accomuna  anche la lotta contro la distruzione del territorio e la sua marginalizzazione. Il Presidente Mattarella ha riconosciuto che occorre fare uno sforzo collettivo perché i cittadini delle isole e delle aree di montagna e marginali possano essere cittadini come quelli delle metropoli o delle città di pianura. Esiste un gap di cittadinanza che lo è anche di democrazia. E le città che crescono in modo irrazionale e rischiano di perdere il rapporto con la qualità ambientale e con le fonti primarie della vita tendono a esplodere,  e si rende necessario un  riequilibrio di cui le piccole comunità oggi in via di ri-abitazione si sentono una sorta di avamposto. Su questi temi un importante punto di riferimento analitico è quello degli scritti di Alberto Magnaghi sulla ‘coscienza di luogo’, ma anche la prospettiva territorialista elaborata da Giacomo Becattini sulla base dell’esperienza dei distretti toscani.  Dal 2017 un modo di incontrarsi della rete è quello delle pagine di una rivista on line Dialoghi Mediterranei che viene realizzata a Mazara del Vallo. Dal n. 27 del  settembre 2017 fino all’ultimo numero, il 33, ci sono stati interventi di vari protagonisti della rete accompagnati da miei editoriali. Nel mio editoriale del n. 27 c’è anche una bibliografia di riferimento. La sezione della rivista si chiama “Il centro in periferia”.




“Io sono quel che sono..”: storia di Alberto Baumann, ebreo.

Io sono quel che sono… io vivo ai margini della città… sono un ragazza di strada” cantavano nel lontano 1966 i Rokes in una canzone che, sebbene temporalmente successiva, ben rappresenta l’infanzia “complicata” che Alberto Baumann passò a Montecatini.

Alberto è stato definito un “artista eclettico, un cantastorie sfacciato, un comunicatore innovativo”, ha scritto poesie, racconti e canzoni, realizzato opere pittoriche e gioielli in oro e argento, è stato un giornalista creatore di format televisivi. Ha vissuto da personaggio “contro”: dopo essersi sposato nel 1963 con Eva Fisher, una donna di tredici anni più grande di lui, recandosi in bicicletta in Campidoglio a Roma, decise nel 1967 di partire per la Guerra dei Sei Giorni come corrispondente di guerra lasciando a casa la moglie e un figlio di tre anni.

È stato soprattutto un ebreo, se non forse per religione, sicuramente per senso di appartenenza, soprattutto a partire dall’emanazione delle leggi razziali nel 1938.

Alberto Baumann nacque “per caso”, come diceva lui stesso, a Milano nel 1933 e giunse all’età di due anni a Montecatini Terme dove il padre ungherese Alessandro, un giornalista rimasto a vivere in Italia dopo essere stato inviato al seguito dell’esercito austro-ungarico aveva assunto l’incarico di direttore dell’Ufficio Propaganda, quello che oggi si sarebbe chiamato Ufficio Relazioni Esterne delle Terme e scriveva articoli a sfondo turistico. Con il suo humour diceva che, rincorrendo gli italiani, era arrivato a Viareggio, città nella quale con una cavalleria “da Belle Epoque”, aiutandola a scendere dalla carrozza, visto che aveva una gamba ingessata, conobbe Estelle Piperno, livornese di famiglia ma nizzarda di nascita, che divenne poi sua moglie. Per uno degli strani casi della storia il padre di Estelle, Alfredo, aveva combattuto contro gli austriaci nella guerra appena conclusa.

Montecatini divenne così la città di adozione di Alberto e il teatro della sua vita da “ragazzo di strada”. Nel 1938, a causa delle leggi antiebraiche, il padre, ebreo, apolide e recalcitrante ad indossare il distintivo fascista venne confinato a Ruoti[1], in provincia di Potenza. La Lucania, la terra che meritava il plauso del Duce perchè “non era sufficientemente infetta da tutte le correnti perniciose della società contemporanea” era diventata la terra di esilio per gli oppositori del regime. Alessandro Baumann tornerà a Montecatini in una sorta di licenza per un paio di giorni solo nel 1942.

Il 1938 fu anche l’anno in cui il giovane Baumann avrebbe dovuto fare il suo ingresso nel mondo dell’istruzione. A causa delle già citate leggi leggi razziali non potè però frequentare ufficialmente le aule scolastiche. Come scriveva nei suoi ricordi Alberto, per gli amici Berzi, cioè Albertino in ungherese, grazie al suo spirito di adattamento e all’aiuto del maestro Gennai, continuò però a varcare la soglia della scuola, pur non figurando ufficialmente in quanto ebreo. Ricordava infatti che: “A scuola andavo però non mi sedevo sul banco, oppure mi sedevo e non facevo niente. I compiti li scrivevo ma non me li richiedevano mai… Seguivo le lezioni adagiato in fondo alla classe, sebbene alcune volte riuscivo a farmi spazio tra alcuni compagni, come un fantasma che tutti potevano notare senza poterlo vedere”.

Nel 1939 rimase orfano della madre e, con il padre lontano, fu costretto con la sorella Iolanda, della Loly, a vivere presso i nonni materni titolari di un “banco” di stoffe. Amava rammentare, come segno della povertà familiare, che le cinquanta lire trovate nelle tasche dei pantaloni che il nonno indossava al momento della morte furono usate per pagare il suo funerale.
Per superare le continue difficoltà economiche, la nonna produceva con del sughero tomaie per zoccoli, mentre il nipote si recava in campagna per racimolare rape, barbabietole e la farina gialla con cui fare della polenta.

Il problema del cibo era una costante tanto che i ragazzi della banda di Alberto, il gruppo di via Cappellini di cui faceva parte tra gli altri anche Renzo Montagnani, avevano l’ordine, una volta usciti da scuola, di non tornare a casa se non con qualcosa da mangiare. Montecatini all’epoca era un grande “lazzarett”, cioè un ospedale militare tedesco e così per trovare qualcosa da mettere sotto i denti Alberto si intrufolava spesso nel parco dell’Hotel La Pace dove cercava gli avanzi dei pasti che i degenti meno gravi avevano consumato passeggiando.

Mi ricordo pezzi di pane tedesco con burro e marmellata, questo pane nero… golosamente si mangiava, se te lo davano. E poi si andava a fare castagne, cioè a rubare castagne sulle colline“.

Spesso il giovane Baumann andava ad “aprire il negozio del nonno”. Doveva prendere in pratica una tavola di due metri per uno e mezzo, trovare due “caprette” sulle quali adagiare la tavola stessa e disporre su questo elementare “banco” le mercanzie disponibili per la vendita, cioè tovaglie, cravatte, calzini.
Un giorno con i suoi amici di Via Cappellini, tutti ugualmente affamati, salì su un carro armato tedesco fermo in colonna. Introdotta la mano nel mezzo sottrasse al soldato tedesco addormentato al comando un mitra Mauser con cui, assieme ai compagni, si divertì a imparare a sparare. Il mitra venne poi, con grande rammarico di tutti, preso in consegna da un partigiano.
Alberto nelle settimane seguenti vide con terrore, mentre cercava di trovare le cicche con cui barattare con i contadini del cibo, due persone impiccate nella piazza principale di Montecatini. Al loro corpo era attaccato un cartello con scritto “Questo succede a chi tradisce i soldati tedeschi”. Mentre Alberto passava le donne amiche dei nazisti fotografavano.

Più o meno negli stessi giorni parte degli ebrei catturati in seguito a una soffiata nella retata di Montecatini venne radunata nell’albergo Croce di Malta. Fra i catturati figuravano, a detta di Alberto, anche due fratelli poliomelitici di nome Fiorentino, che erano stati presi con la madre[2] e il signor Abel Colembiowsky, un polacco che girava la città cercando di vendere oggetti utili per il ricamo e il cucito contenuti in una cassetta che portava al collo. La nonna di Alberto decise di mandarlo da quest’ultimo per restituirgli un vassoio di argento che il polacco le aveva prestato. Colembiowsky, alla vista di Alberto nella hall dell’albergo, resosi conto del fatto che questi rischiava di essere riconosciuto in una hall piena di SS e di ebrei come lui, lo cacciò via urlando “come un cane con la bava alla bocca” salvandogli così probabilmente la vita[3]. Nelle ore successive si sparse la voce che le persone catturate fossero state portate in una cittadella vicina, nessuno immaginava all’epoca che la destinazione finale fu il lager.
La scena dell’impiccagione, la retata di Dannecker e il rischio corso nell’albergo da Alberto spinsero nonna Anita a cercare, dopo aver sistemato la piccola Anita dalle suore di don Bosco a Montecatini, di organizzare la fuga del nipote.

Scappato nelle campagne, il ragazzo trovò degli artisti circensi di Firenze che lo presero con loro insegnandogli dei giochi e facendolo esibire. Alberto ricordava di essersi divertito un sacco in quel periodo e di aver imparato molti trucchi che avrebbe usato in seguito anche con i figli, come quello della “sigaretta mangiata” che rispuntava nella sua bocca integra dopo alcuni minuti.

Grazie ad una carta di identità falsa intestata a un inesistente “Gino Fabbri nato a Montecatini il 12 maggio 1933” fornitagli da Monsignor Barni, con cento lire in tasca e un biglietto ferroviario di sola andata, Alberto si recò alla stazione di Montecatini per prendere il treno che lo avrebbe condotto a Sacile, nei pressi di Pordenone. Lungo la strada Alberto si sentì chiamare “Picolo picolo” da un soldato tedesco affacciato a un balcone che gli lanciò un vasetto di marmellata solida. Forse, raccontava con ironia Alberto, “se quel soldato si fosse accorto che ero ebreo non l’avrebbe fatto”.

Nella cittadina veneta, a detta di don Barni[4], avrebbe dovuto incontrarsi con un sacerdote che lo avrebbe ospitato. Nella concitazione di quei momenti il prelato si era sbagliato sul conto dell’amico sacerdote che purtroppo era deceduto ormai da anni. Alberto si trovò quindi solo in un paese sconosciuto e alla mercé di chiunque. Non aveva con se nulla se non pochi vestiti: una maglia girocollo, un paio di pantaloni alla zuava e scarpe troppo grosse per lui. Decise di tornare in Toscana a piedi e trovò rifugio presso la casa di un operaio padre di cinque figli. Questi, dopo averlo ospitato per alcune sere, gli domandò se per caso fosse ebreo e di fronte alla risposta affermativa del giovane con le lacrime agli occhi lo invitò ad andarsene perchè temeva per l’incolumità dei suoi familiari. Gli donò quindi dei soldi e lo accompagnò alla porta.

Vagò a questo punto per alcuni mesi nell’Italia occupata dai nazisti fino a quando incontrò i soldati americani della 5a Armata dei quali divenne una delle mascotte.

Tornò a Montecatini poco prima della Liberazione e si unì a un gruppo di ragazzi più grandi. che lo spinsero a compiere delle azioni di sabotaggio. I nazisti in ritirata cercavano di far saltare con dei candelotti posti ogni 200-300 metri le linee ferroviarie per ostacolare l’arrivo delle truppe alleate. Il suo compito, realizzato con incoscienza e grande divertimento, era quello di spiare i nazisti all’opera e di recuperare l’esplosivo quando questi si erano allontanati impedendo così che la ferrovia venisse distrutta. Ricordava così quel periodo: “E un giorno si vide passare un gruppo di tedeschi che facevano delle buchette sotto il binario. Erano quattro o cinque, facevano questa buchetta, dopo di che riprendevano urla specie di trenino che si guidava con le mani… Andavano avanti e arrivavano altri quattro o cinque, dopo un po’, e mettevano la dinamite, la gelatina, in questa buca per far saltare il binario. Il mio amico Alvaro, molto più grande di me e mio vicino di casa, mi chiamò e mi disse “Berzi”…anzi mi ricordo quando me lo disse aveva il manico della pistola, bianco, che gli usciva di qua… Berzi, vali lì e levagli tutto quello che hanno messo dentro. Te strappa…” Collaborava, senza saperlo, con i partigiani della brigata Garibaldi e di Giustizia e Libertà[5].

45827559_2158044134228805_6909145466227654656_nIl padre tornò a Montecatini nel 1945 dopo essersi trattenuto a Ruoti per svolgere l’attività di interprete per il principe Ruffo di Calabria con gli ufficiali anglofoni sbarcati in Italia e di istitutore di inglese della principessa Maria Lucia Ruffo. “Era un professore di inglese e altre lingue splendido, mio padre. Si fermò a Roma, e poi venne su e arrivò. Io mi ricordo quando torno. Da anni non lo vedevo più ma l’avevo sempre presente perchè mia nonna non faceva altro che raccontare di papà. E stavo accendendomi una cicca, pensa te, ero terrorizzato. Io non fumavo davanti a mio padre nemmeno quando avevo vent’anni. Mi misi una cicchetta in bocca e in quel mentre vedo una jeep che si ferma proprio davanti a casa mia, con un ufficiale. E vedo mio padre che scende. La prima cosa… Non sapevo se inghiottire questa cicca o cosa… So che in qualche modo la spensi, la buttai. E poi entrò mio padre, abbracci e baci“.
Ricordava la liberazione di Montecatini come una festa di biciclette. Tutti gli abitanti tirarono fuori dalle loro case le bici che avevano nascoste per evitare che venissero prese dagli occupanti. I poliziotti avevano una fascia al braccio con la scritta CLN, cioè “Comitato di LIberazione Nazionale”. Finita la guerra Alberto trovò lavoro come fattorino in un albergo del lido di Venezia e poi nel ’52 venne “adottato dalla città di Roma dove cominciò a lavorare presso l’Hotel Continentale come cassiere del ristorante e segretario dell’albergo. Scoprì presto via Margutta, che divenne la “sua” strada, e Piazza di Spagna, dalle quali rimase folgorato. Si intratteneva spesso presso il bar Notegen dove conobbe i più grandi esponenti della vita culturale romana dell’epoca: Campigli, Mafai, Amerigo Tot. Il padre andò a trovarlo solo una volta a Montecatini e morì a sessantuno anni senza che il figlio potesse  funerale a causa della mancanza di soldi. A fine anni Cinquanta con una inchiesta sulla sinagoga di Roma per la rivista “Roto sei-Sei rotocalchi in uno” cominciò a dedicarsi al giornalismo e incontrò il rabbino Elio Toaff. Collaborò con la rivista Il Mondo diretta da Pannunzio grazie ad Aldo Garosci, amico dei fratelli Rosselli e co-fondatore di Giustizia e Libertà. Nel 1963, come già detto, si sposò in Campidoglio in bicicletta con Eva Fischer, cittadina iugoslava unitasi alla lotta partigiana italiana. È stato l’ideatore di Shalom, il primo quotidiano degli ebrei italiani e animatore del gruppo di amici composto fra gli altri da Enrico Modigliani, Mariolino Di Segni e Ariel Toaff che nei primi anni Settanta si impegnò per cancellare le scritte antisemite ricorrenti all’epoca sui muri della capitale. Negli anni Settanta affiancò all’attività di giornalista quella di scrittore, creò per una TV locale il controgiornale, una trasmissione di news ironica che ebbe un notevole successo tanto che un noto imprenditore milanese gli chiese, ottenendo una risposta negativa, di trasferirsi al Nord per lavorare con lui. A partire dagli anni Ottanta ha esteso i suoi interessi anche alla pittura.

Alberto è scomparso il 1 novembre 2014 nella sua casa di Trastevere a Roma. Amava dire spesso con il solito spirito “In Italia il due novembre ricordano i morti… chissà se quest’anno nonno Alfredo arriva primo!”.

[1]Ruoti è un comune italiano di 3551 abitanti della provincia di Potenza in Basilicata facente parte della Comunità Montana Marmo Platano (fonte Wikipedia)
[2]Nel sito del Cdec e in quello di Anna Pizzuti non figurano uomini di nome Fiorentino catturati. Risultano invece arrestate e deportate ad Auschwitz due sorelle: Ada Fiorentino, nata a Roma il 9/12/1866, arrestata il 5/11/43, partita il 9/11/43 e arrivata ad Auschwitz il 14/11/43 e Margherita Fiorentino, nata a Pisa il 22/8/1888. E’ possibile che ad anni di distanza Alberto confonda i nomi indicati con i volti di altre persone.
[3]Nel sito del Cdec e in quello di Anna Pizzuti non risultano deportati con questo nome. Forse il signore citato riuscì a sfuggire alla cattura.
[4]Don Guido Barni, nato a Montevettolini, laureato in teologia e filosofia, venne nominato nel 1912 parroco di Santa Maria Assunta a Montecatini. Resse la parrocchia fino al 5 agosto 1952. Fra le sue opere ricordiamo nel nel1917 l’istituzione dell “l’ospizio della Carità” e di una biblioteca circolante
[5]Le brigate Garibaldi operanti durante la Resistenza erano organizzate dal Partito Comunista Italiano e composte quindi principalmente da comunisti. Furono le formazioni partigiane più numerose e quelle che subirono il maggior numero di perdite. I suoi componenti si distinguevano per un fazzoletto rosso che portavano al collo. Le brigate di Giustizia e Libertà erano legate al Partito d’Azione e coordinate da Ferruccio Parri. I suoi componenti si distinguevano per l’uso di un fazzoletto verde.




Un pratese “Giusto tra le Nazioni”

La vicenda di Gino Signori è abbastanza eccentrica rispetto ai miei interessi di storico, dato che io mi occupo prevalentemente di storia del movimento operaio e contadino, del sovversivismo e dell’anarchismo. Tuttavia, quando Manuele Marigolli e Fiorenzo Fiondi mi proposero di ricostruirla per conto dell’Associazione culturale per il lavoro e la democrazia, accettai subito con molto interesse. Riproporre oggi la figura di Signori, noto ai più soltanto come pittore, in un momento in cui l’intolleranza e l’odio per i diversi  sembrano prevalere assume infatti un particolare significato perché ci fa capire che i valori della solidarietà sono valori perenni, valori che non vanno mai dimenticati.

L’esistenza di Gino Signori è stata, nel contempo, un’esistenza comune ed eccezionale.

Nato a Barga nel 1912 in una famiglia di modeste condizioni che si trasferì negli anno Venti a Schignano e successivamente a Figline di Prato, Signori non ebbe modo di compiere studi regolari e cominciò a lavorare da ragazzo, prima, per un breve periodo, alla Direttissima e poi in fabbrica.

Richiamato alle armi nel 1941, venne catturato dai tedeschi all’Isola d’Elba pochi giorni dopo l’8 settembre ed immediatamente avviato in Germania. Dal punto di vista giuridico, la condizione di Gino era quella di “internato militare”, una categoria inventata dai nazisti per sottrarre i prigionieri di guerra italiani alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra ed all’assistenza della Croce rossa (nel diritto internazionale gli internati militari sono in realtà i soldati di uno stato belligerante sconfinati nel territorio di uno neutrale che ha l’obbligo di trattenerli per evitare che tornino a combattere).

Rispetto ai suoi compagni, Gino aveva due vantaggi: era in possesso della qualifica di infermiere specializzato e parlava discretamente il tedesco. Nell’estate del 1944 egli si trovava ad Amburgo dove, come infermiere, si prendeva cura delle vittime dei micidiali bombardamenti cui era sottoposta la città e godeva quindi di una relativa libertà di movimento.

Una sera, mentre si recava da Finkenwerder all’ospedale di Amburgo, Gino si imbatté in una colonna di ragazze ebree. Quelle che restavano indietro venivano sistematicamente eliminate. Signori vide che una ragazza, che non ce la faceva a tenere il passo della colonna, stava per essere uccisa: ubbidendo allora ad un impulso più forte di lui, e rischiando la propria vita, affrontò il soldato armato di mitra che stava per sparare alla ragazzina e lo convinse a risparmiarla.

Quella ragazza era un’ebrea praghese che rispondeva al nome di Hana Tomesowa. Gino la nascose nel campo dove era internato fino al momento della liberazione e, contemporaneamente, aiutò anche molte altre giovani israelite, fornendo loro cibo ed assistenza.

Tornato a Prato, Signori non si fece pubblicità, non parlò molto di questa esperienza, che pure aveva segnato la sua vita e sarebbe stata alla base della sua arte. Nel 1964, vent’anni dopo i fatti, venne però contattato da un camionista bresciano, un certo Giuseppe Bosio, che aveva avuto modo di conoscere Hana nell’albergo dove essa lavorava. Hana gli aveva chiesto di cercare il suo salvatore, fornendogli i pochi dati di cui disponeva, ed alla fine Bosio era riuscito nell’intento. Nel giugno del 1964 Hana venne a trovare Gino nella sua casa di Figline: a testimonianza di quell’incontro resta anche la foto che pubblichiamo, in cui si vede chiaramente Signori mentre osserva il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro di Hana.

Nel 1984, al termine di una procedura lunga e complessa, Yad Vashem – l’istituto commemorativo dell’Olocausto, che ha sede a Gerusalemme e si occupa di rintracciare e ricordare i non ebrei che, disinteressatamente ed a rischio della vita, aiutarono gli ebrei negli anni delle persecuzioni naziste – attribuì a Gino la qualifica di Giusto fra le Nazioni. La medaglia dei Giusti gli venne consegnata l’anno successivo, nel corso di una cerimonia svoltasi nel Palazzo comunale di Prato.

Questa, in estrema sintesi, la vicenda di Gino Signori. A questo punto bisogna chiedersi perché egli agì come agì, quali furono le motivazioni del suo coraggioso comportamento. Ebbene, se nei documenti e nella memoria di chi lo ha conosciuto cerchiamo una risposta a questa domanda, vediamo che Gino – al pari degli altri Giusti fra le Nazioni, a cominciare da Giorgio Perlasca, quello forse più famoso – trovò del tutto naturale mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di una innocente.

Signori chiude così i suoi ricordi:

Io […] ho l’anima in pace in quanto non ho nulla da rimproverarmi perché ho rischiato più volte la […] vita per fare del bene agli altri […] Se dovessi ripercorrere quel Calvario di sofferenza, non mi discosterei di un sol passo dalla condotta da me tenuta.

“Fare del bene agli altri” è dunque una cosa da considerare del tutto naturale e – si potrebbe dire – quasi scontata. La malvagità e la violenza sono innaturali. Questa, al di là di ogni retorica, è la grande lezione che Gino ha saputo darci.