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Il conflitto di Cecina

Sul finire del gennaio 1921 Cecina, modesta ma vivace cittadina allora facente parte della provincia di Pisa, fu teatro di un duro scontro che coinvolse squadristi livornesi e socialisti locali, tra i quali il sindaco e alcuni membri della giunta comunale. Lo scontro, in cui venne ferito mortalmente il fascista Dino Leoni, si colloca al centro di intricate vicende che portarono alla prematura fine della neoeletta amministrazione socialista.

Gli anni che separano il primo conflitto mondiale dall’avvento del fascismo sono per l’Italia una fase di grande instabilità politica e agitazione sociale. Sulla scena pubblica del Paese si affacciano movimenti di massa contrapposti, impegnati fin da subito in una lotta violenta a tal punto da ricordare i toni di una guerra civile. Ai frequenti scioperi e disordini di piazza agitati dalle rivendicazioni delle classi lavoratrici rispose ben presto un fenomeno del tutto nuovo ma destinato a condizionare profondamente la storia italiana degli anni successivi: lo squadrismo fascista. La tensione sociale raggiunse il suo apice a seguito delle elezioni politiche del 1919 e, specialmente, di quelle amministrative del 1920, che videro una netta affermazione del Partito Socialista in numerosissimi comuni. In Toscana, su un totale di 290 comuni, ben 151 andarono ai socialisti, seguiti a grande distanza dai conservatori. Questo risultato elettorale portò a un intensificarsi delle azioni squadriste in tutta la regione, volte a colpire le amministrazioni passate agli odiatissimi “nemici rossi”.

Anche a Cecina le amministrative del 1920 segnarono l’affermazione di una maggioranza socialista. La nuova giunta era guidata da Ersilio Ambrogi, personalità di spicco della scena politica tirrenica, deputato nella Circoscrizione Livorno-Pisa e successivamente aderente al neonato Partito Comunista d’Italia. Il 9 dicembre 1920, in una delle sue prime sedute, l’amministrazione comunale votò una deliberazione con cui si decideva di rimuovere dalle sale del municipio la targa in bronzo che riportava il celebre Bollettino della Vittoria, ovvero il documento ufficiale con cui il generale Armando Diaz aveva annunciato la resa dell’Impero austro-ungarico e la fine delle ostilità sul fronte italiano. Le ragioni che spinsero la giunta a prendere questa decisione non sono totalmente chiarite dalle fonti, ma il gesto – forse dovuto all’euforia seguente il trionfo elettorale – non è certamente un caso isolato nelle turbolente cronache di quegli anni. Un indizio si può trarre dalle parole dello stesso Ambrogi il quale, interpellato in più occasioni al riguardo, dichiarò sempre che le motivazioni della rimozione della targa furono politiche, così come politica era stata, a suo dire, l’affissione della stessa. Lasciando da parte le considerazioni sulla felicità del gesto, quel che è certo è che questo costituì il casus belli dei disordini successivi.

•Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova) (img2).

• Perizia topografica del tratto della Via Emilia teatro del conflitto (Archivio di Stato di Padova).

Un primo scontro, seppur a parole, fu cominciato dall’articolo Intelligenti pauca, uscito sul settimanale cecinese Vita Nuova il 12 Dicembre 1920. L’articolo, firmato «C.», molto probabilmente è da attribuirsi a Renato Cambellotti, esponente di spicco del fascismo locale che guiderà la 23° Legione Maremmana nella Marcia su Roma. Con un tono decisamente aggressivo, l’autore intima ai membri della giunta comunale – i «signori bolscevichi» – di non procedere con la loro deliberazione e promette che la targa sarà comunque rimessa al suo posto da «coloro che seppero tutte le ansie, i disagi e i dolori della trincea». La risposta della controparte arrivò il 26 dicembre sulle pagine de La Fiamma, settimanale della Federazione Socialista di Pisa. Nel suo articolo intitolato CONIGLI!!!, Pierino Cateni, personaggio vicino al sindaco Ambrogi, difende vigorosamente la rimozione della targa – vista come simbolo della guerra in cui «si spinse il proletariato al macello» – e conclude provocando il suo anonimo interlocutore, senza risparmiarsi: «È già molti giorni, che è stata tolta la targa, e coloro che ci minacciavano di rimetterla immediatamente, non si sono ancora mostrati. Vigliacchi! Vigliacchi! Vigliacchi!».

La promessa controffensiva ebbe luogo un mese più tardi: nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1921, un gruppo di fascisti penetrò nel municipio e rimise al suo posto la targa. Non si conoscono con certezza i nomi dei componenti del gruppo, si sa solo che a prendere parte alla spedizione furono fascisti locali supportati da squadristi appartenenti ai Fasci di combattimento di Livorno, Pisa e, forse, Firenze. La partecipazione di fascisti provenienti da città, come il capoluogo toscano, anche piuttosto distanti da Cecina, non deve sorprendere. I Fasci operavano in stretta collaborazione ed erano organizzati in una ben definita struttura gerarchica; le azioni venivano decise nelle sezioni dei centri maggiori, dove erano definite anche forze e strategie da mettere in campo, mentre quelle dei centri minori rappresentavano una sorta di presidi, utili a fornire supporto durante le incursioni nella provincia. La mattina del 25, il sindaco e gli assessori vennero a conoscenza dei fatti della notte precedente e, dopo aver ordinato che la targa fosse nuovamente rimossa, proclamarono lo sciopero generale. La tensione era altissima.

La sera stessa, con il pretesto di difendere i commercianti – che a loro dire erano stati costretti con la forza a tenere chiusi i negozi – giunse a Cecina una seconda spedizione di fascisti, stavolta provenienti da Livorno. I leader della spedizione richiesero al vicecommissario di polizia che le autorità tutelassero gli interessi degli esercenti e rimettessero definitivamente al suo posto la targa. Dall’altro lato, ricevuta la notizia dell’arrivo dei fascisti, il sindaco Ambrogi si recò dal maresciallo dei carabinieri per sincerarsi che lo stesso avesse forze sufficienti alla tutela dell’ordine pubblico. Entrambe le parti furono rassicurate dalle autorità, così gli squadristi dissero che sarebbero tornati indietro col primo treno mentre il sindaco, atteso da numerosi compagni nella locale sezione socialista, decise di far rincasare tutti. Gli eventi successivi non sono definiti con assoluta chiarezza dalle fonti. Sicuramente i fascisti non tornarono subito a Livorno – pare per un ritardo del treno – e si avviarono sulla via Emilia, la strada principale del paese, strappando dai muri i

•Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

• Targa commemorativa dell’amministrazione eletta nel 1920, affissa sul municipio vecchio di Cecina (foto T. Barsotti)

manifesti rossi affissi per lo sciopero e improvvisando una parata. Giunti i fascisti sotto il balcone della sezione socialista, dove ancora si trovavano il sindaco e altre persone, scoppiò uno scontro a fuoco tra i due gruppi, terminato solo dopo l’intervento delle forze dell’ordine. Nello scontro – non è possibile dire con certezza quale delle due fazioni abbia sparato per prima – rimasero feriti Arsace Bertelli, un giovane cecinese colpito accidentalmente, e Dino Leoni, capitano della Marina Mercantile e fascista livornese, che morirà il 19 febbraio seguente a causa delle ferite riportate.

Le indagini vennero avviate negli istanti immediatamente successivi ai fatti. Una perquisizione della sezione socialista, alla presenza del vicecommissario di polizia e del maresciallo dei carabinieri, rinvenne nei locali e sul balcone numerose pietre, dei bossoli di rivoltella e alcune munizioni inesplose. L’unica arma sequestrata fu trovata addosso a uno dei fascisti. La mattina del 26 il sindaco Ambrogi e alcuni amministratori – tra i quali spicca Alfredo Bonsignori, colui che aveva proposto la rimozione della targa – vennero arrestati e subito trasferiti nelle carceri di Volterra. La fase istruttoria si concluse un anno più tardi e portò alla sentenza del 1923 presso la Corte di Assise di Padova, che condannò quasi tutti gli imputati a scontare diversi anni di carcere. Il sindaco Ambrogi venne condannato in contumacia in quanto, eletto alla Camera dei deputati per il PCd’I, era stato scarcerato nel giugno 1921 ed era espatriato pochi mesi dopo. A nulla valse il ricorso in Cassazione dei rimanenti imputati, che risultò semplicemente in alcuni aggiustamenti della pena.

Il procedimento penale, pur giungendo alle sentenze di condanna, non servì a gettare definitivamente luce sui fatti del 25 gennaio. La difesa lamentò varie irregolarità sia nel corso delle indagini sia durante il processo, ottenendo pressoché nessuna risposta. Dalle fonti appare evidente l’accanimento delle autorità nei confronti degli imputati. Gli atti, infatti, sembrano far trasparire un piano – impossibile dire se anteriore o posteriore ai fatti – volto a rovesciare la giunta. In questo senso, è utile ricordare le vicende immediatamente successive. Dopo la rimozione dalla carica del sindaco Ambrogi, stabilita con decreto reale il 30 gennaio 1921, prese il suo posto l’assessore anziano Dante Vannozzi. Quest’ultimo scrisse ripetutamente al prefetto di Pisa e al sottoprefetto di Volterra per denunciare le minacce di morte a lui indirizzate dai fascisti locali, senza ottenere dalle autorità nessun provvedimento concreto. Perciò, il 25 aprile successivo Vannozzi si dimise assieme a tutti gli assessori e i consiglieri di maggioranza. L’episodio, come numerosi altri emergenti dagli atti, avvicina le vicende di Cecina a quelle dei tantissimi comuni italiani nei quali l’azione fascista rappresentò il perno su cui rovesciare quelle amministrazioni comunali ritenute “scomode”.

Tommaso Barsotti, laureando in Storia dell’Università di Firenze, svolge il servizio civile regionale presso l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea (ciclo 26 giugno 2018 – 25 febbraio 2019).




Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955)

“Sento ancora dentro, impressa per sempre, la gioia del primo 8 marzo che festeggiammo in campagna, con tutte le altre.
Partecipavamo agli infuocati ed interminabili dibattiti del PCI. Eravamo giovani, ma avevamo tanto entusiasmo e senso di responsabilità.
Venivamo dalla Resistenza, avevamo visto gli orrori della guerra e volevamo un mondo migliore.”
[Didala Ghilarducci in occasione della morte dell’amica Wanda Breschi, «Il Tirreno», Viareggio 3 gennaio 2007.]

Negli anni del secondo conflitto mondiale in Italia, quando lo stravolgimento sociale divenne insostenibile, le donne si fecero perno e collante di ciò che restava del nucleo familiare, continuando a svolgere i compiti di cura ai quali erano state designate, lavorarono nelle fabbriche, nei servizi pubblici, si fecero staffette senza indugio, nonostante i rischi e i molti pericoli.

Dopo anni di dittatura e guerra, furono protagoniste prima silenziose e poi appassionate dell’alba democratica, in un mondo ormai caratterizzato dalla distruzione, morale e materiale. Ma proprio in quegli anni cruciali in cui vennero decisi i criteri dello sviluppo economico e la ricostruzione del paese, che tipo di scelta compirono quelle donne che con il voto erano ormai cittadine a pieno titolo?

Queste le premesse che hanno dato vita a Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955), il volume di Alessandra Fulvia Celi e Simonetta Simonetti in uscita nella collana Quaderni della Commissione Regionale per le Pari Opportunità della Toscana. “Ricostruire”, perché l’Italia era un paese annientato nelle sue strutture tangibili, ma anche nel tessuto relazionale. Moltissimi gli orfani che vivevano per strada, i profughi, i reduci esausti. Le prime donne che si impegnarono nella ricostruzione furono quelle che erano uscite dall’azione partigiana o dalla militanza cattolica. Ma a queste pioniere tante altre si unirono, spesso agendo dalle associazioni, che divennero luoghi di crescita e formazione: le donne che provenivano da piccole realtà furono spronate alla lettura, perché alcune erano digiune su argomenti quali i diritti e il significato di essere cittadine. Tante, dopo l’associazionismo, entrarono in politica, arricchite dell’esperienza di condivisione di ideali e obiettivi con le compagne. Le cattoliche, le partigiane, le donne dell’UDI, quelle del CIF in un primo momento unirono le forze e riorganizzarono scuole, asili, mense, punti di riferimento per gli sbandati e per le famiglie che cercavano di ripensare a una normalità.

Celi e Simonetti, con un vasto lavoro di ricerca negli archivi (Prefettura; Archivio del Partito comunista italiano; archivi nazionali e locali di UDI e CIF; archivi storici comunali) nonché presso l’archivio privato di Maria Eletta Martini, e ancora attraverso interviste e raccolta di materiale iconografico, hanno tratteggiato in modo incisivo le storie di donne delle province toscane e ne hanno raccolto le preziose testimonianze.
Le realtà locali, quindi, appaiono come un laboratorio di verifica, spesso di criticità, delle strategie decise a livello nazionale da associazioni e partiti ed emerge chiaramente quanto fossero diversi gli approcci, ma comuni gli obiettivi, nelle diverse zone della nostra regione. Nei territori di montagna, ad esempio, le associazioni si impegnarono in diverse campagne che consistevano nel dare possibilità ai bambini orfani o che vivevano in estrema povertà, di passare l’inverno presso famiglie che avevano mezzi sufficienti. Questo tipo di esperienza, come molte altre di tipo assistenziale, era percepita dalle donne come urgentissima, «Erano le cose spicciole che necessitavano: cibo e vestiti e riparo per vivere, e noi riuscivamo, attraverso le nostre reti, a procurarli».

I partiti, invece, sembravano non andare al cuore del problema, «Dovevamo sensibilizzare prima gli uomini […]. Incontravamo resistenze che venivano dai compagni. Gli asili nido, la maternità, erano argomenti che loro ritenevano di poca importanza. Da lì discussioni a non finire e, naturalmente, ciò significava arrestare o almeno rallentare il nostro lavoro».
Il paese aveva grande bisogno di cambiare il modo di fare assistenza e concepire un moderno Stato sociale. All’indomani della pace, invece, era fermo alle riforme tentate dal passato regime. L’infanzia, ad esempio, veniva per lo più gestita dall’OMNI o dagli istituti religiosi, ma le donne combatterono affinché l’assistenza sociale divenisse un’attività democratica e lo fecero attraverso le associazioni e la politica.

Molte furono le delusioni: la passione si scontrò, nella pratica dell’agire politico, con modelli culturali radicati e rigidi. I compagni uomini non si dimostravano del tutto convinti della presenza femminile nelle file dei partiti: persino all’interno della Costituente, le donne trovarono ostacoli e ostilità da parte di alcuni. Mancavano prove concrete di fiducia, eppure molte di loro avevano partecipato attivamente alla Liberazione. «Credo proprio di interpretare il pensiero di tutte noi consultrici invitando a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole […] ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse, ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica e giustizia sociale».

Celi e Simonetti delineano con grande cura la realtà contraddittoria e dura nella quale dovettero muoversi le donne impegnate in politica e nelle associazioni negli anni del dopoguerra e negli anni Cinquanta. Ma dal loro lavoro emerge soprattutto la grande passione, la dedizione, la consapevolezza e la forza che ha dato vita alle grandi battaglie delle donne italiane.




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




“Any battle and bombardment against the town is nonsense”.

Dopo la liberazione di Pisa le truppe americane procedono verso Lucca, attraverso la bassa valle del Serchio. Il 2 settembre infatti il 3° battaglione della 92° Divisione “Buffalo”, dopo aver superato l’Arno, nei pressi di Cascina, costeggia il versante occidentale del Monte Pisano e giunge, prima a Pappiana poi a Ripafratta, dove si scontra con le truppe tedesche.

Le retroguardie tedesche della 65° divisione e della 16° divisione SS arretrano nel settore costiero e nei dintorni meridionali di Lucca. Anche i distaccamenti e i presidi della 36° Brigata nera Mussolini, dopo essere stati fatti convergere su Lucca a partire dal 31 agosto, nelle prime ore del 2 settembre, lasciano la città e si trasferiscono a Bagni di Lucca. Nonostante il ripiegamento nazista e fascista repubblicano però, proprio in questi giorni concitati, si consuma nel territorio lucchese un grave rastrellamento, quello dei monaci della Certosa di Farneta. Nella notte tra il 1 e il 2 settembre infatti un gruppo di soldati della 16° Divisione SS irrompe nel convento, dove, da diversi mesi, i monaci, con il sostegno dell’arcivescovo di Lucca Antonio Torrini, offrono assistenza e ospitalità a ebrei, partigiani e perseguitati politici. La guerra messa in atto dai nazisti, non si rivolge dunque solo ai civili e agli oppositori politici, ma anche al clero. Il rastrellamento conferma i sospetti tedeschi, e dunque sia i civili accolti nella Cerosa, sia i monaci, vengono catturati e trasferiti a Nocchi, dove vengono sottoposti a torture e sevizie. Il primo massacro dei rastrellati a Farneta si consuma il 4 settembre, a Pioppeti, dove vengono fucilati 21 civili. Il 6 settembre invece due certosini, mentre vengono trasferiti al carcere di Massa, per avere lamentato di non riuscire a proseguire nel percorso, vengono freddati. Infine il 10 settembre vengono uccise a colpi di arma da fuoco 37 persone, tra cui 10 certosini e 7 civili rastrellati a Farneta.

Nonostante la presenza tedesca si faccia ancora sentire attraverso la politica del terrore, l’impossibilità di una seria difesa di Lucca e il ripiegamento verso le prime alture della città e la Linea Verde, allontanano lo spettro di consistenti combattimenti intorno al capoluogo. Gli alleati continuano ad avvicinarsi e, conquistato il Monte Pisano, si appostano intorno a Vorno, poco distante dalla linea difensiva tedesca sull’Ozzeri, a pochi chilometri a sud di Lucca, e dispongono per il cannoneggiamento della città.

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Il ponte a Monte S. Quirico approntato dagli alleati (Fonte Archivio ISREC Lucca)

La sera del 3 settembre i partigiani della formazione “Bonacchi” approntano dunque un piano d’azione: circa duecento uomini sono mobilitati e, mentre alcuni sono impegnati a piegare gli ultimi baluardi nazisti, anche nel centro storico, altri stabiliscono un contatto con i reparti alleati. Il commissario del Cln Vannuccio Vanni e il comandante della brigata Mario Bonacchi decidono di inviare una squadra di uomini con un messaggio che invita a non bombardare la città. All’alba del 4 settembre i partigiani avviano uno scontro a fuoco con i nazisti, asseragliati sull’Ozzeri, e presso il ponte di Frati, riescono a piegare l’ultimo baluardo tedesco e a passare. Raggiunto il comando alleato, consegnano il messaggio di Vanni al colonnello J.R. Schermann, che decide di inviare un gruppo di soldati alleati in esplorazione l’indomani mattina presto, assieme ad alcuni partigiani, per verificare la situazione in città.

La Relazione sull’attività svolta dalle squadre d’azione patriottica appartenenti alla formazione “M. Bonacchi” riporta che “le squadre che avevano operato sull’Ozzeri, inquadrate e con bandiera in testa, alle 8 del 5 settembre entrarono per Porta S. Pietro e, tra le acclamazioni della folla, si portarono al Palazzo del Governo, già occupato e presidiato dalle squadre rimaste in città”. Appurata quindi la veridicità del messaggio di Vanni, le truppe americane possono avanzare liberamente e alle 11.45 del 5 settembre, la prima pattuglia americana del 370° Combat team, al comando del capitando C.F. Gandy, entra in città da Porta S. Pietro. I tedeschi si ritirano definitivamente verso la Garfagnana, spinti anche dalle truppe alleate e partigiane che utilizzano un ponte provvisorio sul Serchio a Monte San Quirico.

In città il Cln tiene la sua prima assemblea libera, alla presenza di Renato Bitossi e Giuseppe De Gennaro per il Pci, Aldo Muston per il Pda, Ferdinando Martini per la Dc, Frediano Francesconi e Giulio Mandoli per il Pri, e Enea Melosi per il Pli e in quell’occasione il socialista Gino Baldassari viene nominato sindaco di Lucca. Inizia così una nuova fase della storia della città: quella della pacificazione e della ricostruzione.




Benigni e la Toscana: tra biografia e maschera

Considerando quanto Roberto Benigni (attore e personaggio) sia emblematico, per l’immaginario comune, della comicità toscana e dei suoi aspetti dialettali e dissacranti, può essere sorprendente constatare come solo in due film (La vita è bella e Pinocchio, su 8 di cui è regista) abbia scelto la Toscana come ambientazione – e il discorso vale soprattutto per la prima metà de La vita è bella ambientata ad Arezzo, dal momento che la Toscana fiabesca di Pinocchio è stata in gran parte ricostruita nei Cinecittà Umbria Studios di Papigno (Terni).

Terrigna e a tratti brutale la Toscana dell’esordio attoriale con Berlinguer ti voglio bene (1977), film in le sue stesse reminiscenze autobiografiche di Benigni vengono restituite come una grande «parodia popolare della psicanalisi» (S. Bernardi, I mille volti della risata (aspetti del cinema comico italiano), in Si fa per ridere…ma è una cosa seria, a cura di Sandro Bernardi, La Casa Usher, Firenze 1985 ed estremizzate in tinte grottesche dalla regia di Giuseppe Bertolucci. Difficile dimenticare lo sproloquio delirante “vomitato” dal protagonista Cioni Mario, che vaga sul ciglio di un fosso, dopo che gli amici gli hanno fatto credere (per scherzo) che sia morta sua madre. Ma il film prende anche in giro, con vero amore, i dibattiti della Casa del popolo: «Basta con la tombola. Sospensione d’ì  ricreativo, principia avviare il curturale…seduti perdio! […]. Ecco il tema: “pole la donna permettisi di pareggiare con l’omo? No – Sì – s’apre ìddibattito». Dopo Berlinguer, Benigni non girerà più in Toscana prima de La vita è bella, se si eccettuano incursioni brevissime e secondarie, come le poche riprese effettuate presso la certosa di Calci (Pisa) per le scene in convento del film Il Piccolo diavolo. Persino il popolarissimo Non ci resta che piangere (1984), co-diretto con Massimo Troisi e teoricamente ambientato nella campagna toscana, è in realtà quasi interamente girato tra Viterbo, Latina e le campagne umbre. Una tra le poche location realmente toscane, probabilmente l’unica, è la spiaggia di Cala di Forno in Maremma (nella finzione, la spiaggia spagnola di Palos che i due raggiungono nell’improbabile missione di fermare la partenza di Colombo).

Mentre per La vita è bella la scelta di Arezzo e della Toscana è come il ritorno ad un porto sicuro. Dice lo stesso Benigni in un’intervista del 1998: «Ho deciso di girare ad Arezzo perché non avevo mai diretto un film in Toscana. […] Dovevo pensare all’immagine che volevo dare della città, se volevo rappresentare piazza della Signoria a Firenze o il Colosseo a Roma, diventava difficile. […] non volevo perdere tempo per la rappresentazione di una città dal punto di vista stilistico. Dato che la Toscana è la mia regione, che non ci ho mai girato e che ci sono state importanti comunità ebraiche che sono state decimate dalla follia nazista, mi sono detto che era la cosa più facile. In più, è proprio lì che sono nato.»

Nella Piazza Grande di Arezzo avvengono il secondo incontro di Guido/Benigni con Dora (Nicoletta Braschi), la corsa in bicicletta col figlio Giosuè (Giorgio Cantarini), la celebre gag in cui fa cadere una chiave “dal cielo” gridando «Maria! La chiave!».

Ma la “toscanità” di Benigni va oltre lo specifico quantitativo delle locations, affonda le sue radici in un contesto più generale: lo spopolamento delle campagne e la scomparsa della mezzadria che accompagnano gli anni del boom economico, provocando il vero e proprio esodo di centinaia di migliaia di italiani che partirono «dai luoghi d’origine, lasciarono i paesi dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni, abbandonarono il mondo immutabile dell’Italia contadina e iniziarono nuove vite nelle dinamiche città dell’Italia industrializzata […]». (Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989). Cenni biografici a parte – La famiglia Benigni a fine anni ’50 emigra da Misericordia (frazione di Arezzo a poca distanza da Castiglion Fiorentino, dove Roberto nasce il 27 ottobre 1952) a Vergaio, frazione di Prato – è appunto in questo scenario che acquista senso e potenza comica la maschera incarnata da Benigni nelle sue prime manifestazioni, quel contadino inurbato che in città non si trova per nulla a suo agio, non ne comprende la geografia e i segni, un po’ come il Bertoldo di Giulio Cesare Croce, contadino di proverbiale astuzia che, dopo aver risolto gli indovinelli del re Alboino, venne da lui assunto come giullare e giocoliere; ma non potendo abituarsi alla vita di corte ed ai suoi banchetti sontuosi, «morì con aspri duoli / per non poter mangiar rape e fagiuoli». Bertoldo azzurro (1973), spettacolo scritto e diretto da Marco Messeri, è guarda caso uno dei primi e più pregnanti episodi teatrali con Benigni coprotagonista.

Ma la forza esplosiva, dirompente del primo Benigni sta proprio nel rovesciare la dinamica propria di Bertoldo: non è tanto lui a doversi adattare alla realtà che lo circonda con astuzie ed infingimenti, ma è la realtà che si adatta a lui in ogni sketch, curvata dal suo stesso sproloquio torrentizio e de-semantizzante, talvolta scurrile ma al contempo di una disarmante sottigliezza, in cui il tradizionale scetticismo del contadino che teme di essere ingannato da chi ne sa più di lui si mescola felicemente con gli strumenti del sarcasmo e del paradosso.

Nel monologo di Benigni, andato raffinandosi nel tempo, i doppi sensi, gli equivoci e i buchi del linguaggio diventeranno veri e propri strumenti di contestazione che il contadino scaglia – dopo un breve momento di ossequioso e timoroso rispetto – verso un sistema che lo sovrasta e schiaccia, e che assumerà volti diversi. Ad esempio il volto del direttore Diolaiuti nell’episodio In banca di Tu mi turbi, di fronte al quale Benigni, in cerca di un prestito di 100 milioni, prende a strillare: «Allora se io ho bisogno di una melanzana…. una melanzana! Devo andare dall’ortolano e devo avere un miliardo di melanzane a casa? A me non me l’ha mai chiesto l’ortolano “ce l’hai lei un miliardo di melanzane?” MAI! Nè di pesche, pere […]».

Da Berlinguer ti voglio bene ad oggi l’immagine di Benigni ha subito due metamorfosi: la prima tra anni ’80 e ’90, quando inizia a scrivere i film con Vincenzo Cerami e “smussa” il diluvio dialettale in funzione di una comicità più sofisticata, che ne vuol fare un Chaplin italiano (Il piccolo diavolo, Johnny Stecchino, Il mostro, La vita è bella); la seconda nei vent’anni successivi, quando è diventato (o l’hanno fatto diventare) divulgatore culturale capace di legare con un unico filo (ormai più rosa che rosso) la Divina Commedia, il Canto degli Italiani, la Costituzione più bella del mondo e i Dieci Comandamenti. Nelle lecturae Dantis e nei vari interventi di divulgazione, il dialetto toscano diventa quasi un pretesto nei primi venti minuti ancora carichi di blande battute sulla politica: Benigni finge di essere il solito folletto incapace di articolare un discorso ordinato, tanto è elettrizzato e scoppiettante di istinti primari, per poi stupire il pubblico nella seconda parte, con la declamazione del testo effettuata in una sacralità solenne, con un italiano corretto e teatralmente impostato, fluido e quasi del tutto privo di increspature dialettali.

Alfredo Marasti si è laureato all’Università di Firenze con una tesi sulla rappresentazione del fascismo nel cinema italiano nel 2015. Ha pubblicato “Storia e rappresentazione: come il cinema italiano ha raccontato il fascismo” presso la tipografia Affinità elettive nel 2015. 




Gli archivi dello sport in Toscana: un patrimonio da salvare

Lo sport nasce subito visibile: foto, giornali, filmati, periodici e programmi tv, accompagnano le discipline e celebrano i campioni. Eppure questa visibilità non esaurisce la memoria dello sport, esiste una memoria ancora “oscura”, quella rappresentata dagli archivi delle società sportive che, così diffuse sul territorio toscano, come su quello nazionale, sono capaci di disegnare il sorgere e l’espandersi nel corso del Novecento di un fenomeno sociale che coinvolge, in modo diretto e indiretto, le nostre vite. La vigilanza messa in opera dalla Soprintendenza Archivistica per la Toscana nei confronti degli archivi dello sport in Toscana dal punto di vista cronologico comprende due fasi, la prima tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’80 del Novecento e la seconda apertasi con la metà degli anni Duemila. Dal punto di vista dell’oggetto di vigilanza un unicum è il rapporto costante con una società sportiva, la Mens Sana 1871 di Siena, attivo dalla fine degli anni ’50 del Novecento; legati a contingenze del momento sono stati, invece, i rapporti con altre società sportive.

I primi tentativi di censimento
Un primo tentativo di censimento di archivi dello sport, senza esito di rilievo, fu intrapreso a metà degli anni ’60. Il soprintendente pro tempore di allora, confidando nella collaborazione dei direttori degli archivi di stato di alcune province, chiese informazioni sulla presenza di archivi di società sportive anteriori al Novecento nelle rispettive città. Gli archivi di stato coinvolti furono i seguenti: Grosseto, Lucca, Massa, Pisa, Pistoia. Le risposte inviate indicarono solo per Pisa e per Lucca la nascita di società sportive ante 1900 (nello specifico una a Lucca e tre a Pisa) ma segnalarono la assenza di documentazione d’archivio. Circa venti anni dopo, tra il 1984 e il 1987 la Soprintendenza si attivò nei confronti di alcune società come la Lega Navale Italiana e il Club Alpino, entrambi per la sola provincia di Firenze, la UISP sezione di Prato, i Canottieri Pisa, il Siena Calcio, senza però che fossero emanati singoli provvedimenti di tutela.

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Il “modello” Mens Sana e l’A.C. Fiorentina
La Mens Sana 1871, che aveva ricevuto, nei confronti del proprio archivio, una nuova dichiarazione di “notevole interesse storico”, la n. 380 del 1981, accompagnata da un elenco di consistenza, che sostituiva quelle già precedentemente emesse nel 1959 e nel 1965, permaneva l’unica società la cui dirigenza teneva e – detto per inciso – ancora tiene rapporti aperti con la Soprintendenza Archivistica per migliorare conservazione e fruibilità del proprio archivio.
All’inizio degli anni 2000, nello specifico nell’anno 2002, fu effettuata una visita presso l’A.C. Fiorentina al momento del passaggio di proprietà dovuto al fallimento della precedente gestione ai fini di valutare la tipologia di documenti presenti e ribadire ai curatori la necessità di salvaguardare la conservazione dell’archivio nella sua integrità.

Il censimento del 2010
Si deve alla Regione Toscana, a partire dalla seconda metà degli anni 2000, la volontà di approfondire la conoscenza storica sulla pratica sportiva nel territorio regionale attraverso convegni specifici e il finanziamento, del censimento, pubblicato nel 2010, “delle fonti e degli archivi dello sport toscano” attuato dalla Società Italiana di Storia dello Sport con il coinvolgimento della Soprintendenza Archivistica. Diviso per province e ordinato cronologicamente per data di fondazione, ogni società sportiva che avesse compiuto al momento della pubblicazione almeno cinquanta anni dalla fondazione era presa in considerazione. Grazie al censimento è stato possibile conoscere numero e tipologia delle società sportive toscane ancora in attività e avere informazioni di base sugli archivi societari.

Il convegno Archivi dello sport a Siena
In occasione della giornata di studi Gli archivi dello sport: documenti per la storia di Siena nel Novecento (2 aprile 2014) la Soprintendenza Archivistica ha voluto effettuare un ulteriore censimento, attraverso l’invio di un questionario, sulla tipologia di documentazione archivistica presente negli archivi delle società sportive presenti in provincia di Siena, con l’esclusione di quelle oggetto di apposita comunicazione, usando proprio il suddetto censimento. Sui 27 questionari inviati, sono pervenute quattro risposte, quelle relative a due squadre di calcio: la Sinalunghese di Sinalunga e la Chiantigiana di Gaiole in Chianti, una relativa al gioco del tamburello, la polisportiva Turrita e l’Associazione dei Cronometristi Senesi, che ha sede a Siena.

Logo e foto d'epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa)

Logo e foto d’epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa-Carrara)

La situazione degli archivi dello sport nel 2014
Dalle risposte risalta l’assenza di conservazione di documentazione “antica” che non sia o iconografica o “museale” mentre i più antichi documenti d’archivio “cartacei” risalgono al massimo a venti anni indietro. Per specificare, le società non conservano nel tempo documentazione contabile o amministrativa in senso lato, compresi i carteggi dei dirigenti e i tesserini degli associati, ma quasi esclusivamente trofei e fotografie. Nessuna società è dotata di un locale dedicato ad archivio o a museo, possiede solo un armadio posto in sala riunioni o in sala di presidenza che ha funzione di contenitore di archivio e tanto meno è presente una persona che ha incarichi di conservatore/archivista. Il fatto che solo quattro società abbiano risposto all’indagine mostra anche la mancanza di interesse o di consapevolezza nei confronti della trasmissione della testimonianze della propria attività nel tempo.

Percorsi per il futuro: un patrimonio da salvare
Pur dallo scarso numero di archivi censiti è possibile, dare una idea di come possa essere composto un archivio di società sportiva nel 2014: presenza di trofei, raccolte di fotografie, presumibilmente non ordinate, assenza di documentazione cartacea “antica” ossia antecedente alla metà degli anni ’90 del Novecento. Di fronte a un risultato non incoraggiante ma non inaspettato, due possibili strade possono, allora, essere individuate per garantire la trasmissione della memoria dello sport a livello locale: il deposito dei documenti più antichi delle società sportive presso gli archivi comunali competenti per territorio, accogliendo una nuova serie di archivi dello sport come archivi aggregati; incontri con i presidenti di società provincia per provincia – organizzati in collaborazione con enti o istituzioni – al fine di chiarire ai responsabili la necessità e l’importanza di conservare la propria memoria ordinatamente oltre il ricordo “visibile” del trofeo o della foto, evitando scarti periodici e arbitrari giustificati solo con una “cronica mancanza di spazio” delle sedi.

 




Antiche villeggiature, la grande scoperta della Val di Bisenzio

Le Antiche villeggiature, un articolato progetto regionale di ricerca e memoria partecipata, condotto dalla Fondazione CDSE (Centro di documentazione storico etnografica) in Val di Bisenzio, ha portato alla luce un suggestivo racconto collettivo che ha come sfondo gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento e vede protagonisti, tra gli alti, Amelia e Joe Rosselli con i loro figli, Aldo, Carlo e Nello. La pubblicazione Antiche Villeggiature: Val di Bisenzio e Montepiano tra Ottocento e Novecento è curata da Annalisa Marchi, Alessia Cecconi, Luisa Ciardi e Cinzia Bartolozzi che hanno condotto una ricerca accurata e minuziosa.

Vacanze e vacanzieri della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento vengono raccontati per la prima volta in una pubblicazione, stracolma di curiosità, luoghi, personaggi e fascinose foto d’antan (sono addirittura 254). Con dovizia di particolari vengono alla luce gli aspetti della svolta turistica che vede protagonisti gli Appennini, da Prato fino a Bologna.

La solida e curiosa borghesia della Belle Epoque – fiorentina ma non solo – elegge Montepiano a buen retiro estivo mentre la sezione del Club Alpino italiano contribuisce a promuovere la Vallata con iniziative, escursioni e pubblicazioni.

Incontriamo Amelia e Joe Rosselli, scrittori come Renato Fucini e poi musicisti, professionisti e industriali. Dall’Inghilterra, dalla Germania e dagli Stati Uniti, alla ricerca di esperienze originali, arrivano turisti dai gusti raffinati. Tutto verrà raccontato tra luglio e agosto attraverso un ricco calendario di iniziative pubbliche, presentazioni e spettacoli teatrali nei Comuni di Vernio, Cantagallo e Vaiano. Due le mostre documentarie e fotografiche in programma (a Migliana e all’Archivio di Stato di Prato).

Sorprendenti i legami tra l’ebraica e cosmopolita famiglia Rosselli (trasferitasi a Livorno da Roma nel Settecento) e Montepiano. Amelia Pincherle (è la zia di Alberto Moravia) e il marito Joe Rosselli scoprono Montepiano nel luglio 1896: Aldo, il loro primo figlio, ha soltanto un anno. Negli anni a venire trascorreranno qui molti periodi di vacanza e montepianine saranno le balie di Carlo e Nello Rosselli: Maria Morganti e Virginia Mazzetti. “Sai che qui in paese tutti si ricordano di voi quando eravate a Montepiano? C’è il padrone della mia pensione che si rammenta con molto affetto di voi, i Nathan…”, scrive da Montepiano Nello Rosselli alla madre Amelia nel 1919.

L’aria buona e la tranquillità che poteva offrire la villeggiatura a Montepiano era stata scelta proprio pensando al piccolo Aldo, nato nel luglio 1895 a Vienna, dove Amelia e Joe si stabilirono appena sposati. A Montepiano trascorreranno le loro vacanze per diversi anni sia i Rosselli che i Nathan. La madre di Joe, Henrietta Nathan era inglese e sorella di quell’Ernesto Nathan famoso per essere stato, prima l’erede testamentario di Mazzini, e poi per essere eletto, a inizio Novecento, sindaco di Roma con il blocco popolare. A Londra, dove Mazzini sopravvisse grazie agli aiuti delle famiglie Nathan-Rosselli, il padre di Joe, Sabatino Rosselli, aveva aperto un ufficio di cambio nella City. “Stando al corpus delle numerose lettere rinvenute presso il Fondo Rosselli (conservato all’Archivio di Stato di Firenze) Amelia inizia a frequentare Montepiano qualche anno prima di trasferirsi a Firenze.- si legge nel volume –  Le trame di intimità e le note di costume che affiorano nelle lettere aprono finestre luminose e contribuiscono a ricostruire un pezzo della storia della villeggiatura a Montepiano, nonché frammenti privati dell’epopea della famiglia Rosselli”.

La svolta turistica della Vallata e di Montepiano, quest’ultima già famosa a Firenze per il suo straordinario burro, è legata all’affermazione della nuova cultura della villeggiatura di fine Ottocento. Decisivo è il completamento, tra il 1885 e il 1892, della Strada Maestra che finalmente collega San Quirico a Montepiano. Non è davvero un caso che proprio nel 1892, a Montepiano, si registri un boom di 500 turisti.

Sono tre giovani della sezione fiorentina del Club Alpino italiano: Michele Gemmi, Giuseppe Ricci e Luigi Alessandri i promotori della stagione d’oro dell’Alta Valle. A far da pioniere alla svolta turistica è però Emilio Bertini che con la sua instancabile attività fa conoscere e amare la Val di Bisenzio di cui pubblica una guida che resta una pietra miliare del genere. Le iniziative di moltiplicano: nel 1879 la sezione del Cai di Firenze, insieme a quella di Bologna, organizza una doppia traversata Bologna – Prato. “Con l’arrivo dei villeggianti comparvero locande, trattorie e i primi affittacamere e furono pubblicate guide con itinerari e indicazioni – raccontano le autrici – Per i decenni a venire la Val di Bisenzio avrebbe richiamato italiani e stranieri, letterati ed artisti, industriali e scienziati, personaggi che spesso lasciarono nei loro scritti pubblici e privati ricordi e tracce affascinanti della loro villeggiatura. Montepiano, che si arricchì di ville e villini e ospitò anche numerose colonie terapeutiche”.




Emozioni e politica. Alle radici del mito Pietro Gori

La figura di Pietro Gori (1865-1911) ha avuto di recente un nuovo sussulto di notorietà per la controversa scelta della giunta di Portoferraio di modificare la toponomastica cittadina andando ad incidere su uno dei luoghi simbolicamente più forti del mito goriano. Le polemiche accese, le discussioni, le lettere di protesta e i presidi di manifestanti che hanno accompagnato la decisione di cancellare l’intitolazione della piazza nei pressi del municipio all’autore di Addio Lugano Bella testimoniano, al di là dell’episodio di cronaca, forme di sopravvivenza di una memoria popolare verso un uomo politico singolare che nel tempo è stata certificata da seri studi storici e demoantropologici. Morto come tutti gli eroi giovane e bello, l’8 gennaio 1911, Gori fu salutato fra l’Elba, Piombino e Rosignano da uno dei più imponenti funerali mai visti all’epoca, che hanno concorso a rafforzarne l’aurea mitica, e spesso quasi sacrale, che lo ha a lungo circondato.

Capace di suscitare forme di identificazione in grado di sconfinare nella dimensione della vera e propria celebrità politica e della venerazione popolare, ben oltre il perimetro dei militanti libertari, si impose certamente come uno dei più amati leader politici italiani dell’epoca. Se l’esistenza del mito è largamente documentata, meno poco sappiamo però delle ragioni e dei motivi che ne stanno alla base e che ne favorirono la popolarità.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Pietro Gori è stato un personaggio pirotecnico, ricco di inventiva e di risorse, grazie a un’abilità e a uno stile comunicativi che meritano di essere approfonditi e che si avvalsero dell’ampio ricorso a canali, linguaggi e contesti all’apparenza non strettamente politici (teatro, poesia, musica, letteratura); modello di leadership per tanti propagandisti del proprio movimento, Gori fu il campione di un anarchismo sentimentale a forte tasso emotivo. Artefice di un propria strategia di “andata al popolo”, agì su molteplici piani per alimentare un immaginario dotato di una propria forza persuasiva, con stratagemmi retorici e di altra natura in grado di funzionare soprattutto in relazione al proprio pubblico di riferimento.

Per rendersi credibile ai suoi interlocutori, lui, nato borghese e benestante, sposò un’etica di vita ascetica, profetica e votata al sacrificio, divenendo non a caso noto a tutti col sopranome biblico di Apostolo dell’Anarchia o dell’Ideale, incorporando fino in fondo nell’esperienza quotidiana le virtù anarchiche e proletarie.

In secondo luogo, sul piano retorico si dotò di un discorso frutto di un’abile opera di recupero e di rifunzionalizzazione in chiave libertaria e di criticismo sociale di immaginari e tradizioni discorsive a cui il popolo era già ampiamente socializzato. Dalla religione cristiana al risorgimento democratico-popolare, Gori presentò in maniera disinvolta Gesù Cristo e Garibaldi, i primi perseguitati cristiani o i martiri del 1848 come i primi anarchici della storia. Una disinvoltura che si estese abilmente a tradizioni popolari di segno folklorico come quella del Maggio, le cui antiche feste erano da sempre collegate in molte comunità contadine a immagini e significati di rinascita e rigenerazione; esse furono espressamente ricondotte da Gori alla nuova festività politica del 1 Maggio, di cui a cavallo fra due secoli divenne il principale mediatore e propugnatore italiano, radicandola nel paese attraverso un profluvio di poesie, bozzetti teatrali e canzoni a tema (Primo Maggio, Maggio ribelle, Maggio redentore, Tempesta di maggio, La leggenda del Primo Maggio, Calendimaggio).

Oltre alla capacità di sfruttare temi e figure già largamente diffusi fra le classi subalterne, l’opera di conquista e di risignificazione del mondo popolare lo spinse a investire anche l’ambito dei modi e dei registri della comunicazione. Nella realtà dell’epoca composta in larga parte di analfabeti o semianalfabeti in cui dominava ancora la dimensione dell’oralità e una pratica della lettura fortemente intensiva (come nella tradizione religiosa della ripetizione delle parole evangeliche della Bibbia mandate a memoria), Gori prestò particolare attenzione alle forme e ai generi espressivi della cultura e dell’estetica popolari. E fu così che divenne il fondatore della canzone politica popolare italiana, molto spesso recuperando note e arie tradizionali, nonché prolifico interprete della poesia estemporanea. Ciò a prezzo anche di stridenti contrasti fra retaggi tradizionalisti sul piano formale e un incendiario criticismo socio-politico nei contenuti che gli valsero una nota e colorita accusa di convenzionalismo nei quaderni gramsciani.

Ma il disegno comunicativo ad ampio raggio di Gori non si fermò qui, mostrandosi attento ad ogni particolare, nel quadro di una più generale sensibilità alla costruzione della propria immagine. Il suo proverbiale magnetismo oratorio si alimentava, nella testimonianza di militanti e dirigenti anarchici che ne rimasero affascinati, di una studiata modulazione dei gesti e della voce; un’attenzione derivantegli anche dal lungo tirocinio svolto come avvocato in diverse cause celebri, in un momento in cui i tribunali divennero, fra Otto e Novecento, palestre di oratoria investite da un forte processo di teatralizzazione della professione forense esemplificato dalla figura di Enrico Ferri, fra i maestri di Gori. Un cortocircuito fra aule di giustizia e palcoscenico testimoniato nella vicenda goriana sia dalla scrittura di numerosi bozzetti teatrali ma ancor più dalla loro frequente recitazione in prima persona da parte del loro stesso autore.

Un carisma che si alimentava infine di altri segni esteriori in grado, come si direbbe oggi, di fare moda o tendenza e di amplificarne la leggenda. Un anarchismo “banale”, fatto di pratiche minori, di cui è esempio la scelta di un abbigliamento che creò o diffuse uno stile fortemente identitario. Giocando soprattutto con il colore “sinistro” per antonomasia associato all’anarchismo e da esso fatto provocatoriamente proprio, contribuì a radicarne la simbologia attraverso il cappello nero a falde larghe, l’immancabile sciarpa e il grande fiocco o svolazzo, sempre del medesimo colore, noto anche come «fiocco a la Gori», ricordato da numerosi contemporanei ed eternato con grande evidenza nella sua ritrattistica e persino nei monumenti funebri.

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

A completarne le performance comunicative concorsero poi supporti o dispositivi poco convenzionali, tesi a creare un’aura di spettacolarità, come il frequente utilizzo della chitarra, che che in una lettera a un amico avrebbe definito uno strumento «inseparabile» e che divenne uno dei simboli del grande tour di propaganda nordamericano del 1896 condito da oltre trecento comizi; o ancora il ricorso, alla “lanterna magica” nelle conferenze, ossia di un ingegnoso macchinario per immagini che aveva il suo maggiore tratto di modernità nell’essere parte di quelle nuove «macchine della visione», diffusesi nel corso dell’Ottocento a partire dalla Francia dove costituirono forme di precinema preparatorie al cinematografo.

Questo quadro riccamente popolato di suggestive immagini, emozioni e colori, in cui una molteplicità di profili e aspetti finivano per intrecciarsi, faceva della sua opera di propaganda un’esperienza capace di sollecitare più sensi e di incidere in più modi sulla sensibilità popolare, tanto da rendere difficile per lo storico farla rivivere appieno attraverso le fonti. Si spiegano però forse così gli episodi di ammirazione collettiva, se non di vero e proprio divismo, descritti da amici e compagni di partito riguardanti donne, uomini e vecchi che dopo le conferenze circondavano in gran folla la vettura di Gori per protendergli i figli e baciargli la mano, o si stendevano sui binari per impedirne la partenza quando in treno raggiungeva qualche lontana località per un improvvisato comizio. Reazioni analoghe a quelle che, al momento dell’arrivo del suo feretro al cimitero di Rosignano, costrinsero l’ufficiale sanitario a cedere alle insistenti preghiere della folla e ai vincoli delle norme sanitarie praticando un’apertura sulla parte di zinco della bara per consentire a tutti di «vedere, salutare, baciare» un’ultima volta la salma dell’Apostolo dell’anarchia.

*Marco Manfredi, dottore di ricerca, è attualmente docente a contratto in Storia contemporanea presso l’Università di Pisa e collaboratore dell’Istituto della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Livorno. Si è occupato di storia italiana del primo Ottocento, pubblicando saggi e articoli su protagonisti e vicende della Restaurazione e del Risorgimento; negli ultimi anni si è avvicinato agli studi di storia dell’anarchismo italiano. Fra le sue pubblicazioni più recenti su quest’ultimo tema: Italian Anarchism and Popular Culture: history of a Close Relationship, in I. Favretto, X. Itcaina (eds.), Protest, Popular Culture and Tradition in Modern and Contemporary Western Europe (Palgrave Macmillan, 2016), Il neutralismo anarchico, in F. Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia (Le Monnier, 2015)