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Riflessioni sulla crisi della mezzadria nel Carmignanese

Un paio di anni fa, lavorando ad una ricerca sul tramonto della mezzadria nella zona di Prato con particolare riguardo alla situazione della Val di Bisenzio, ebbi modo di constatare che ben poco era stato scritto sull’argomento per quanto concerneva il Carmignanese, un territorio dove l’agricoltura ha sempre rivestito (e tuttora riveste) un’importanza rilevante e dove esistevano alcune grandi fattorie, prima fra tutte quella di Capezzana, che contava circa 120 poderi (per farsi un’idea delle sue dimensioni, davvero eccezionali, basti pensare che la Fattoria del Mulinaccio, la più grande della Vallata, che si estendeva su di un’area equivalente all’incirca alla metà del territorio dell’attuale Comune di Vaiano, comprendeva in tutto 36 poderi).

Alcune notizie sull’agricoltura a Carmignano si trovavano in opere che, per quanto interessanti e di gradevole lettura (pensiamo ai volumi di Giuseppe Mauro Bindi e di Arrigo Cecchi), rivestivano più il carattere della memorialistica che quello della ricerca storica.

Altri lavori (per esempio Carmignano. Quotidinanità e istituzioni tra Ottocento e Novecento, di Fabio Panerai) avevano un taglio sociologico, oppure fornivano solo degli spunti – sia pure stimolanti ­– sull’argomento in questione (ci riferiamo al libro di Nadia Barducci e di Paolo Gennai sulla Resistenza nel Carmignanese).

L’unica ricerca specificamente dedicata all’agricoltura nella zona (quella di Silvia Palumbo, intitolata Un’indagine sull’agricoltura nel comune di Carmignano) risaliva al 1988 ed abbracciava un periodo successivo a quello di cui ci occupiamo.

Ciò che mancava era una ricostruzione d’insieme, centrata sui fattori che determinarono la fine della mezzadria, l’abbandono delle campagne e le successive trasformazioni economiche e sociali: nacque così l’idea – subito accolta, con squisita sensibilità culturale, dal Comune di Carmignano – di lavorare ad una pubblicazione su questi temi. Il libro, arricchito da un saggio introduttivo di Fabio Bertini ed intitolato “Levassi di cappello e venir via”. Agricoltura e crisi della mezzadria nel Carmignanese, è uscito nell’aprile di quest’anno per i tipi della casa editrice Polistampa di Firenze.

Le fonti su cui lavorare erano, per fortuna, numerose: fonti archivistiche, fonti a stampa, fonti orali e risorse in Rete.

I principali documenti su cui si basa il saggio sono stati reperiti presso l’Archivio del Comune di Carmignano, presso quello della Camera del lavoro di Prato e fra le carte prodotte dalla Confederterra toscana, custodite a Firenze nella sede della CGIL regionale.

Di centrale importanza sono state le fonti a stampa, in primo luogo il periodico Toscana nuova, che pubblicava di frequente delle corrispondenze da Carmignano a firma di Gennaro Meli, scomparso di recente, segretario della Lega coloni e mezzadri e consigliere comunale del PCI nei primi anni Cinquanta.

Come spesso accade in questo genere di lavori, le fonti orali hanno avuto un ruolo di primo piano: con gratitudine voglio quindi ricordare tutte le persone che, in tempi diversi, hanno saputo fornirmi delle informazioni di grande interesse.

Utili sono state infine le risorse in Rete: pensiamo soprattutto all’Archivio della cultura contadina, consultabile online dal sito del Comune, che raccoglie una serie di interviste condotte da Giovanni Contini Bonacossi negli anni Novanta.

Il titolo del volume (“Levassi di cappello e venir via”), tratto da un componimento poetico in ottava rima del contadino carmignanese Luigi Socci, ci pare che riassuma con grande efficacia la natura del rapporto che intercorreva fra padroni e mezzadri, costretti ad obbedire senza possibilità di replica: come spesso accade il poeta popolare riesce a cogliere con precisione il fulcro dell’argomento di cui si occupa, il nocciolo della questione, ed a renderlo con quell’immediatezza che non a tutti è dato di possedere.

“Levassi di cappello e venir via”, dunque. Cerchiamo allora di ricostruire, in estrema sintesi, le condizioni dei contadini carmignanesi negli anni Cinquanta-Sessanta, gli anni che videro la fine del sistema mezzadrile.

Senza alcun dubbio la loro vita era una vita molto difficile: i mezzadri vivevano in case fatiscenti, senza servizi e – spesso – senza acqua corrente (anche qui c’era chi era costretto a percorrere 1-2 chilometri a piedi per approvvigionarsi di acqua alla sorgente più vicina); dovevano fare con le loro braccia il lavoro che avrebbero dovuto fare le macchine; le opere di miglioramento fondiario non venivano realizzate dai proprietari; il ritardo nella chiusura dei saldi era quasi la regola ed altrettanto poteva dirsi della pratica degli addebiti illegali.

Il dato che, tuttavia, balza agli occhi con maggior evidenza è quello della tenuità del reddito mezzadrile: basti pensare che, come è stato rilevato in precedenti studi, un operaio guadagnava in media all’incirca il triplo di un contadino e che nel Pratese il reddito medio mensile di un mezzadro era superiore solo a quello di un ragazzo addetto all’avvolgitrice di filati, “a far cannelli”, come si dice.

Nessuna meraviglia, dunque, che i contadini volessero abbandonare le campagne. Il discorso valeva soprattutto per i giovani, che fuggivano dai poderi rifiutando una vita senza prospettive, identica a quella dei genitori, per cercare in città un lavoro meno massacrante e più redditizio, maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.

La mezzadria era insomma condannata: ma i padroni volevano davvero salvarla?

In realtà, si può sostenere che essi – assumendo un atteggiamento di rigida chiusura nei confronti delle richieste avanzate dal movimento contadino – contribuissero scientemente all’affossamento dell’istituto mezzadrile, dato che il loro vero obiettivo non era la sua difesa, ma piuttosto la trasformazione in senso capitalistico delle aziende agricole, il passaggio alla conduzione a salariati.

E questo fu proprio ciò che accadde anche a Carmignano: non per nulla in un suo libro di memorie l’agrario Ugo Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, ha scritto che la fine della mezzadria consentì ai proprietari una gestione delle aziende più agile e, con l’abbandono delle colture promiscue, necessarie al sostentamento della famiglia colonica, rese possibile un’utilizzazione più razionale del suolo.

Questa fu la linea che finì col prevalere, anche se c’era la possibilità di politiche alternative – imperniate su una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla – la cui realizzazione fu resa impossibile dalle resistenze degli agrari e delle forze politiche di maggioranza, che costituivano il loro referente al governo ed in Parlamento.




I bombardamenti su Siena (1944)

La storiografia si è a lungo rivolta allo studio delle incursioni aeree sul territorio italiano da un punto di vista prettamente bellico, dedicando quindi grande attenzione alle operazioni militari e tralasciando spesso le conseguenze prodotte sul territorio e sulla popolazione civile. Tuttavia, come ha osservato Nicola Labanca, quella dei bombardamenti aerei non è storia militare ma è storia à part entière della guerra totale: è la storia non solo delle forze armate che la realizzano ma dei governi che ne decidono gli obiettivi come delle società civili che ne sopportano gli effetti.[i] Questo, peraltro, è ancor più vero per un territorio come quello senese, il quale visse in maniera assolutamente singolare l’esperienza della guerra aerea.[ii]

Come in molte altre città d’Italia, anche a Siena l’allestimento delle misure di difesa antiaerea in vista di futuri conflitti ebbe inizio a partire dagli anni Trenta. Nel 1936 si svolsero le prime prove di oscuramento in tutta la provincia senese,[iii] cui seguirono nel maggio del 1940 due giorni di esercitazioni per eventuali attacchi chimici.[iv] La mancanza assoluta di fondi rese tuttavia impossibile affrontare le spese necessarie alla costruzione di rifugi antiaerei, all’istallazione di un impianto di sirene di allarme e persino all’acquisto dell’equipaggiamento per le squadre di primo intervento. Di questi problemi si lamentò più volte l’Ispettore Provinciale di Protezione Anti Aerea, tenente colonnello Giuseppe Crocini, il quale denunciò inoltre la scarsa coscienza antiaerea dimostrata dagli enti e dalle istituzioni cittadine.[v]

A causa di tali carenze, Siena giunse al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, totalmente sprovvista di qualsiasi struttura difensiva.

Inizialmente, le autorità affrontarono il problema realizzando alcuni ripari antischegge nei vicoli del centro storico,[vi] mentre i primi grandi ricoveri pubblici, capaci di ospitare alcune migliaia di individui e di resistere perlomeno all’impatto con ordigni da 100 kg,[vii] vennero completati soltanto nel corso del 1943.

Il primo bombardamento subito da Siena il 23 gennaio 1944, in cui persero la vita venticinque persone,[viii] arrivò in maniera del tutto inaspettata, dopo oltre tre anni di guerra durante i quali la città non era mai stata oggetto di attacchi e, proprio per questo, aveva rappresentato un riparo sicuro per chi fuggiva dal conflitto: basti pensare che le strutture ospedaliere senesi arrivarono a contare oltre 6.000 posti letto[ix] e che in tutta la provincia affluirono più di 18.000 sfollati[x], provenienti da ogni parte d’Italia; numeri enormi per il tempo, considerato anche il difficile contesto nel quale queste persone vennero accolte.

La città del Palio subì alla fine un numero piuttosto limitato di bombardamenti – i più rilevanti furono quelli del 23 e 29 gennaio, 8 e 16 febbraio, 11 e 14 aprile – i quali tuttavia causarono più di quaranta morti, assieme alla distruzione della stazione ferroviaria, della Basilica e del Convento dell’Osservanza e di numerose abitazioni private. A queste operazioni più note, si aggiunse inoltre una lunga serie di spezzonamenti e mitragliamenti, di molti dei quali è andata perduta nel tempo la memoria, ma che produssero comunque danni ed alcune vittime. Tra questi vale la pena ricordare lo spezzonamento avvenuto in Piazza San Francesco il 10 giugno 1944, il quale provocò la distruzione di tutte le vetrate della Basilica e l’uccisione di un soldato tedesco, oppure quello che si verificò in Piazza del Duomo e Via dei Pellegrini nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1944, del quale sono ancora visibili i segni sul Battistero e sulle  mura del Museo dell’Opera. Ma l’elenco comprende pure Via Roma e Fieravecchia, spezzonate il 16 maggio 1944, la Barriera di San Lorenzo, Porta Pispini, Via Pantaneto, Via Diacceto, Via San Pietro e molte altre.[xi]

Sebbene la posizione piuttosto defilata e l’assenza di obiettivi di particolare rilevanza militare – con l’unica eccezione della stazione ferroviaria – abbiano posto Siena al riparo da distruzioni particolarmente estese, la città subì comunque gli effetti della guerra aerea su tutto il proprio territorio, non soltanto nelle aree periferiche e di campagna, ma anche all’interno del centro storico, circostanza quest’ultima conosciuta prevalentemente dagli storici locali ed ignorata dai più.

Note:
[i]Labanca Nicola (a cura di). I bombardamenti aerei sull’Italia. Politica, stato e società (1939-1945). Il Mulino; Bologna, 2012, p. 8.
[ii]Questo breve contributo è tratto dalla tesi di laurea dell’autore: La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche. Tesi di Laurea in Scienze Storiche e del Patrimonio Culturale, Università degli Studi di Siena, anno accademico 2016-2017. Per ulteriori informazioni sui bombardamenti aerei nella provincia senese durante il Secondo conflitto mondiale, si vedano Biscarini Claudio. Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944. Del Bucchia; Massarosa, 2008; e Luchini Luca. Siena 1940-1944. Il dramma della guerra e la liberazione. Il Leccio; Monteriggioni, 2008, pp. 93-112.
[iii]Archivio di Stato di Siena [d’ora in poi ASSI], Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 10M, f. 10. 8 settembre 1934 relazione dell’Ispettore Provinciale P.A.A. a Prefetto ed Ufficio dello Stato Maggiore di Firenze.
[iv]Il Telegrafo, 29 Maggio 1940. La perfetta riuscita degli esperimenti di protezione antiaerea.
[v]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 8M, f. 3. 28 settembre 1937, relazione dell’Ispettore Provinciale di P.A.A. al Comando del Distretto Militare di Siena.
[vi]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 6M, f. 15. 13 febbraio 1941, lettera dell’Ispettore Provinciale P.A.A. al Ministero dell’Interno, prot. 2445 P.A.
[vii]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 1M, f. 3. 16 novembre 1942, lettera del Podestà al Presidente del C.P.P.A.A., prot. 13290.
[viii]Questi i nomi delle vittime: Baccheschi Ada; Ridolfi Galeazzo; Carreri Vanda; Carreri Emma; Campolmi Natale; Franci Quirino; Borri Aldo; Saccardi Ubaldo; Centini Fortunato; Colicchi Giulio; Bartoli Elia; Mariti Ezio; Bartalini Giuliana; Pacini Maria; Anatrini Zaira; Anatrini Gino; Anatrini Mario; Del Lungo Primetta; Selvolini Tea; Maccari Santi; Veneri Ida; Maccari Maria; Marzucchi Azelio; Campolmi Duilia; Santi Dina. Cfr. ASSI, Prefettura. Ufficio Gabinetto (1935-1957) – III Versamento (2004), b. 77, f. 41. Elenco delle vittime dell’incursione aerea del 23 gennaio 1944.
[ix]Paoletti Paolo. La vicenda diplomatica del riconoscimento di Siena “città aperta”: tra il falso storico della “città ospedaliera” e la verità oggettiva del centro ospedaliero, in Biscarini Claudio, Meoni Vittorio, Paoletti Paolo. 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena. Nuova Immagine; Siena, 1994, p. 44.
[x]La Nazione, 14 Marzo 1944. Relazione del Capo della Provincia sull’attività svolta dal Partito.
[xi]AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 4. Diari della P.A.A.; AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 5. 1940-1944, Quaderno degli allarmi.




Il Centro di Documentazione di Pistoia: protagonisti e fonti del ’68 pistoiese

All’ultimo piano della biblioteca San Giorgio, un po’ in disparte rispetto al via vai di studenti che frequentano ogni giorno la biblioteca comunale di Pistoia, si trova il Centro di Documentazione. Entrando, tra scaffali pieni di riviste e manifesti, è possibile incontrare ogni pomeriggio un nutrito gruppo di persone che, a titolo volontario, cura e gestisce un archivio, una biblioteca, un’emeroteca e una casa editrice: un patrimonio di materiali fondamentale per studiosi di tutto il mondo.

Il Centro di Documentazione è nato nella temperie culturale della contestazione del 1968 e ha saputo attraversare le stagioni successive, le problematiche interne e i mutamenti esterni, mantenendo un ruolo originale e serio nel mondo culturale pistoiese e italiano.

A cinquant’anni dal 1968 molte delle realtà nate negli anni della conestazione si sono esaurite, il riflusso nel privato ha spento gli ardori di molte associazioni e ha prosciugato le risorse, non solo economiche, di molte esperienze: non è questo il caso del Centro di Documentazione di Pistoia che ha saputo mantenere salde le proprie radici e, allo stesso tempo, rinnovarsi in un mondo completamente mutato.

Ma com’è nata questa esperienza? Nel 1968 Giuliano Capecchi, Paolo Turi e Carmine Fiorillo ebbero l’idea di iniziare a raccogliere in casa del primo, in via degli Argonauti a Pistoia, riviste e materiali da tutto il mondo relativi ai gruppi cattolici, alle attività politiche delle formazioni extraparlamentari, alle diverse aree della marginalità, alla cultura underground: in generale tutto il materiale scritto, indipendentemente dalla provenienza, purché prodotto dai gruppi della contestazione.

Intorno al materiale raccolto si radunò un gruppo di ragazzi che si autodefinì come “un gruppo di giovani che svolgono un lavoro di ricerca e di informazione sui problemi della “nuova sinistra” italiana e dei movimenti rivoluzionari mondiali, con riferimento anche a certe tendenze esistenti all’interno delle comunità cristiane”.

Ben presto il gruppo corredò il lavoro di raccolta con la pubblicazione di un Bollettino, che dal 1970 divenne Notiziario del centro di Documentazione, per far conoscere le proprie attività e il proprio materiale e per distribuire quello prodotto dai gruppi della contestazione.

Sfogliando i primi numeri della rivista emerge con chiarezza un’iniziale vicinanza del Centro di Documentazione al mondo del dissenso cattolico, cioè a un movimento diffusosi in tutta la Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II che cercò di unire la fede cattolica ad un impegno concreto per la giustizia sociale nel mondo.  I temi del bollettino sono emblematici: le lotte degli afro-americani negli Stati Uniti e in particolare l’uccisione di Martin Luter King; i cristiani e la rivoluzione; le vicende dell’Isolotto, famoso caso fiornetino centrale nel dissenso cattolico italiano, con il volume L’Isolotto: popolo di Dio che in seguito fu ripubblicato da Feltrinelli; il doposcuola, sull’onda dell’esperienza di don Lorenzo Milani (morto nel 1967) e a seguito di alcune esperimenti realizzati a Pistoia dagli stessi membri del Centro.

La politica permeava la scelta di ogni argomento; il Notiziario tuttavia non era una rivista di riflessione politica, come molte ne esistevano in quegli anni, ma era un notiziario appunto: un resoconto di quanto accadeva in Italia a livello editoriale nel mondo della contestazione, che fossero pubblicazioni di case editrici o ciclostilati in proprio di gruppi spontanei. Le case editrici di cui si pubblicarono i cataloghi furono tra le altre La Locusta, Jacka Book, la Claudiana, ora come allora di chiara impronta cattolica.

Il Notiziario offriva strumenti di informazione come elenchi bibliografici su determinati argomenti. Il primo dei quali fu sul tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare, col preciso intento di fornire un’adeguata documentazione alla diffusa mobilitazione contro l’esercito. Il secondo sulla Chiesa in Italia, o meglio, su una specifica parte della Chiesa in Italia quella delle Comunità di base: «Crediamo che queste esperienze di base, seppur fra loro spesso differenti, siano un preciso segno dei tempi. Queste esperienze e altre che non sono documentate in libri rappresentano la vera Chiesa in Italia». Infine un ultimo tema presente tra i primi numeri del Notiziario – e rimasto al centro delle iniziative anche successive del Centro –  fu il tema della salute mentale. I titoli presentati delle bibliografie erano vari e riconducibili a diverse impostazioni ideologiche: il Centro si proponeva di farli conoscere senza censure e senza giudizi, al solo fine di fornire strumenti di conoscenza. Un’impostazione aperta che rispecchia la natura di tutta la collezione del Centro.

Il Centro di Documentazione non si limitò a raccogliere materiali pubblicati da altri, ma fu fin dalle sue origini anche una casa editrice. Scorrendo l’elenco dei titoli delle prime pubblicazioni si nota come la casa editrice permise un contatto tra la piccola cittadina di Pistoia e alcuni importanti intellettuali di quegli anni. Fu pubblicato a Pistoia Il Cristianesimo nel mondo moderno del pastore valdese Giorgio Bouchard, moderatore della Tavola valdese e presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Fu dato alle stampe Cristianesimo e lotta di classe di Giulio Girardi, sacerdote animatore dell’esperienza dei Cristiani per il Socialismo, un movimento diffusosi dal Cile in Europa e in Italia. Tradotto per la prima volta in Italia un testo di Jürgen Moltmann, tedesco riformato tra i più importanti teologi evangelici del ‘900. Infine, stampato il saggio di Ivan Illich  Distruggere la scuola: sei saggi sulla descolarizzazione, nonostante una controversia con l’editore Mondadori che ne deteneva l’esclusiva e che non mancò di ricordarlo al piccolo editore pistoiese con una visita del proprio avvocato.

Da allora il Centro ha cambiato molte sedi ed è diventato una tappa fondamentale per ogni ricerca sugli anni Sessanta e Settanta del ‘900 perchè è riuscito a preservare un importante patrimonio che oggi è possibile conoscere attraverso il catalogo della rete bibliotecaria di Pistoia e, per quanto riguarda le riviste, il catalogo nazionale dei periodici (ACNP).

Francesca Perugi è dottoranda presso l’Università Cattolica di Milano e membro della redazione dei Quaderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”.




Quel 29 giugno del 1944

Il passato imprevedibile

Gli antropologi non sono degli storici, ma hanno una importante componente di formazione legata alle teorie della storicità. L’evoluzionismo, il diffusionismo, il marxismo e lo strutturalismo, che hanno segnato l’antropologia del Novecento, sono teorie che si basano tutte su una idea della storia. Nella mia formazione antropologica mi sono abituato a immaginare il processo storico sulla base di leggi che regolano i comportamenti collettivi (lotta delle classi, evoluzione delle civiltà, diffusione da un centro, modelli simbolici e secondarietà della storia). Con la ‘crisi delle grandi narrazioni’ anche queste idee normative e  generali della storia  si sono fortemente indebolite. A me personalmente, legato come sono – da antropologo – allo storicismo italiano che è attivo anche nel pensiero di Gramsci, si sono aperte possibilità complesse di attenzione e comprensione dei fatti e soprattutto delle rappresentazioni storiche, pur non rinunciando a ricondurle sempre ai processi collettivi di cui ci occupiamo. Nel mio lavoro di collaborazione con l’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, nel quale sono membro della giuria e quindi ‘lettore’, mi è capitato tante volte di avere tra le mani diari, autobiografie, epistolari i cui contenuti narrativi non corrispondevano alle immagini generali che avevo della storia e dei suoi soggetti. In senso generale ‘scandalosi’ per le mie ‘precognizioni’. Mi abituavo così a non dedurre il passato da un modello generale, ma ad aprirlo vistosamente alla varietà delle forme della vita. Poteva essere un maestro fascista in Dalmazia, che non corrispondeva alla mie idea dei maestri fascisti, o un emigrato italiano in Australia, o un prigioniero italiano in India, ma l’idea di parlare di un ‘passato imprevedibile’ mi è venuta leggendo l’epistolario di un giovane aristocratico  siciliano – Fazio Salvo dei Baroni di Nasari  – che a metà dell’800 faceva il Gran Tour al rovescio, dal Sud al Nord, e raccontava come era Firenze per lui in quell’anno, come erano i vestiti alla moda, le serate mondane, poi raccontava Torino, poi la Germania, chiedendo soldi ai familiari, in modalità simili ai ‘bonifici bancari’ (che io ho appena scoperto) ben note a viaggiatori e commercianti di quel secolo[1]. Ma non è un problema di rivalutazione della storia ‘individuante ’ o ‘evenimenziale’, ma piuttosto di apertura a diversi possibili  modi di immaginazione storiografica e antropologica  di tratti del passato.  Intanto nel 1994 mi ero  imbattuto in un mondo per me davvero inimmaginabile: quello del vissuto dei sopravvissuti alle stragi naziste in Toscana. Una esperienza che mi ha cambiato, come succede quando si fanno ricerche importanti.

Stragi

Nel 1993/94 fui coinvolto da Leonardo Paggi in un progetto di ricerca sulla memoria delle stragi naziste in Toscana, che si svolgeva tra Civitella della Chiana e Bucine. Il caso era caratterizzato – oltre che dalla quantità dei morti civili – dalla ostilità dei sopravvissuti verso i comportamenti delle locali formazioni partigiane. Il fenomeno della  ‘memoria antipartigiana’ è noto e documentato lungo tutto il passaggio del fronte tra Toscana ed Emilia.[2] Lo affrontai con un gruppo di ricerca di giovani ricercatori e studenti che venivano dalla Università di Roma (dove allora insegnavo antropologia culturale) e di Siena (doveva avevo insegnato fino al 1991);  insieme ad altri  colleghi storici e antropologi, tra i quali mi  pare importante ricordare  Francesca Cappelletto che scrisse delle stragi naziste anche su riviste internazionali. La ricordo con particolare emozione perché è morta assai giovane. C’era Giovanni Contini, storico orale della Soprintendenza regionale archivistica e la antropologa visiva Silvia Paggi che realizzò un film. Ci fu anche un convegno internazionale In memory: per una memoria europea dei crimini nazisti. La ricerca produsse molto materiale di intervista poi versato alla Regione Toscana. Anni dopo fu la Regione Toscana a riprendere un progetto più ampio di ricerca delle stragi sulla Toscana a tutto campo. La guidò ancora Leonardo Paggi, e io partecipai con un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, alcuni laureati romani, e la direzione di Fabio Dei. Con alle spalle l’esperienza di Civitella fu più facile, ma non meno doloroso incontrare mondi di una Toscana marginale, montana e contadina, così segnati dal lutto.  Puntammo la ricerca sulla ‘rappresentazione degli eventi e del lutto e sui riti di memoria’[3].

La ricerca di Civitella fu una vera iniziazione. Mi ero formato agli studi sulla Resistenza con una ricerca sulla memoria orale dei testimoni della Spartaco Lavagnini, e della Garibaldi Boscaglia, tra Siena e Pisa. Avevo della Resistenza una immagine un po’ epica, e un po’ radicale. Nei primi anni ’80 collaborai con l’Istituto di Milano (INSMLI), allora diretto da Guido Quazza su temi della didattica della storia, e i miei riferimento cominciarono ad essere meno epici e più legati alla vita quotidiana, Quazza e poi Claudio Pavone – da dentro la loro esperienza – ci avevano insegnato a far calare l’epos e il tasso di ideologia dalla memoria della Resistenza, e a far crescere la comprensione di molteplici storie di giovani, spesso confuse, complesse da discernere, formatesi sul campo talora a partire dai renitenti alla leva. Anche alla Resistenza Quazza aveva osato estendere il tema del ‘personale’ , della spontaneità, che tanto aveva caratterizzato la fine degli anni ’70 e l’esplosione  del femminismo. E Pavone ci aveva inquietato e fatto riflettere sulla nozione di ‘guerra civile’ che chiedeva una nuova complessità dello sguardo storico. Ciononostante fu duro per me affrontare l’incontro con i rappresentanti delle famiglie di Civitella colpite dalla strage, disposte a collaborare solo a patto che noi non li confondessimo con il mondo della resistenza e non difendessimo quella resistenza locale che vedevano come causa prima della strage. Gli antropologi tendono sempre – metodologicamente – ad essere dalla parte dei loro testimoni, e questo ci facilitò l’impresa.  E questo risultò per me poi un arricchimento e una apertura imprevista alla comprensione.

Non sapevo se era la fine del mondo

I risultati condivisi della nostra ricerca non furono accettati facilmente, e fu soprattutto il libro di Giovanni Contini La memoria divisa (Milano Rizzoli 1997) a essere bersaglio di interpreti troppo fedeli alle ideologie e alle letture  più classiche della memoria antipartigiana.

Io ebbi una grande difficoltà ad elaborare questa esperienza. E debbo dire che dovetti accettare la presenza di una forte componente emotiva, un senso di smarrimento e di recupero della ragione, che è giusto raccontare in sede storica e antropologica. Come è giusto fare la storia e l’antropologia dei sentimenti, è anche giusto riconoscere il ruolo dei sentimenti nella ricerca.

La comunità di Civitella si aprì alle nostre interviste, i miei studenti furono adottati e coinvolti nelle memorie luttuose  e nella incessante presenza di un cordoglio mai compiuto del tutto.

Al centro della ricerca si posero decisamente i racconti. I racconti delle vedove, che in parte erano stati già proposti sulla rivista Società nel 1946, con stile orale, colpivano molto . Raccontavano delle giornate di sole, legate all’arrivo dell’estate, ai lavori della campagna, traversate dal dolore, dalla paura, dalle mitragliatrici, dal sangue, da eventi indicibili, fissati nella memoria come sul nitrato d’argento di una pellicola fotografica.

Il racconto su Società della vedova Marsili, mi rimase nella memoria:

 “…Non si vedeva che cadaveri di uomini, ma non potevo conoscerli perché i miei occhi erano velati dal dolore e dalla paura. Non sapevo se era la fine del mondo…” (Giuseppa Marsili vedova Tiezzi, in Società ,7-8, 1946)

La fine del mondo era anche il titolo della raccolta di scritti postumi dell’antropologo Ernesto De martino, dedicate a quelle che lui chiamò ‘apocalissi culturali’. Così mi colpirono i racconti dei corpi portati ai cimiteri, dei bambini testimoni di morti tragiche di persone carissime, il tutto legato a un cielo azzurro, a una giornata di sole, a una presenza delle messi e dei lavori agricoli.  La pioggia compare nella strage di Monte Sole, quando era cominciato l’autunno e il fronte si era spostato più a Nord.

Così anche i racconti dei bambini che trasportando in delle carriole i corpi dei loro cari improvvisamente prendevano velocità e si rincorrevano, e ridevano, e così finivano per far rientrare il  gioco dentro la morte.

I fatti, i ‘nudi fatti’ sono ora – asciutti ma capaci di suscitare ancora interpretazioni – nella scheda su Civitella della Chiana dell’Atlante delle Stragi naziste e fasciste in Italia. Meno di una pagina.  Che senso ha allora questa mia riflessione?

Il vecchio marinaio

Ho spesso raccontato ai miei studenti, ma anche in conferenze esterne all’Università, e di recente anche con un Power Point, questa esperienza di ricerca. E – nel tempo – la ho sentita sempre più attuale. Le morti dei civili si sono moltiplicate nelle guerre che hanno caratterizzato il mondo dopo la caduta del muro. Quel che appariva un episodio ai margini della Resistenza italiana, è diventato paradigmatico delle guerre nel mondo. Mi colpisce che ancora qualcuno parlando pubblicamente dica che bisogna tenere memoria  perché non succeda più. Succede ancora e più di prima. Ma, soprattutto andando a presentare a  Crespino sul Lamione  il libro sulla strage scritto da Valeria Trupiano nel quadro della nostra ricerca,  in quel piccolo centro di montagna[4], dove i riti della memoria si sono radicati in un ambito fortemente religioso, mi parve evidente che gli eredi del dolore e della morte di quella terra di confine dell’Appennino, erano più vicini al dolore del mondo per le stragi dei civili di quanto fossi io, vissuto dentro la guerra ma a distanza di sicurezza. E pensai che ricordiamo per sperare, per non perdere il filo con il passato, per dare senso ai morti e al futuro, per capire meglio il dolore degli altri, non perché non succeda più.

La lettura  che feci di Civitella in una chiave ‘demartiniana’[5] in termini cioè di lutto, di cordoglio, di memoria  e di lamento funebre,  oltre la storia dei fatti, mi apriva ai temi della pietà, del perdono, che hanno traversato la filosofia postbellica ( Paul Ricoeur, su Francia e Germania; Nelson Mandela sulla riconciliazione in Africa Australe etc…) e alla comprensione dei traumi legati alle guerre vicine (in specie quella che ha fatto esplodere la Yugoslavia) , alla possibilità di comprensione e di conciliazione . Mi pareva così di animare la memoria partigiana togliendola da fondamenta un po’ invecchiate e aprendola a nuove implicazioni. Ci sono due temi che ancora mi piace ricordare, ma che chiedono un racconto ulteriore.

Leonardo

Leonardo Paggi è uno storico del quale ho avuto ammirazione già dagli anni ’70 quando tentò una analisi gramsciana della società toscana e del rapporto tra passato e presente in questa regionesulla rivista Critica Marxista , ho poi collaborato al progetto Civitella, e ancora in seguito a delle iniziativa ad esempio dedicate al film di Giorgio Diritti,  L’uomo che verrà  (2009),  sulla strage di Monte Sole, ma mi è piaciuto anche il libro Il popolo dei morti, nelle sue scritture ci sono sempre tentativi di  trovare un senso generale ai processi, di aprire varchi diversi da quelli consueti alla storia – ormai nota nei fatti e nei documenti – dell’Italia nella seconda guerra mondiale, quella in cui lui ed io siamo nati.

Ma a Civitella venni a sapere che lì era stato ucciso dai tedeschi anche suo padre, medico a Firenze, resistente di famiglia ebraica, che era andato a visitare la famiglia e aveva creduto di essere al sicuro dove la famiglia era sfollata. La famiglia ne fu fortemente segnata. Paggi Gastone 37 anni  è nella lista dei morti  della strage. Le liste dei morti sono tra le cose più emotivamente significative di queste memorie.

Una testimonianza locale  dirà:

“Il Dott. Paggi di Firenze, … viene sorpreso nella sua camera matrimoniale. La Signora ed i bambini furono visti uscire ancor seminudi, con le vesti insanguinate mentre la casa bruciava. I resti del Dott. Paggi, ridotti in cenere, furono pietosamente raccolti in una bacinella”.

Leonardo, che dirigeva il nostro gruppo di ricerca aveva fatto quella esperienza in prima persona. Forse fu questo a farmi sentire, piuttosto che un ricercatore-interprete- divulgatore,  un sopravvissuto. Ho all’incirca la stessa età di Paggi, e quando Civitella della Chiana fu messa a ferro e fuoco io avevo appena compiuto i due anni ed era il giorno del mio onomastico. Ma stavo in Sardegna, dove certo era una bella giornata di sole come a Civitella, ma dove la furia della guerra era lontana.  Ed è in questa veste che mi sono idealmente connesso alle pagine di Primo Levi de I sommersi e i salvati, in cui richiama l’obbligo di testimoniare con un brano della a Ballata del vecchio marinaio di Coleridge :

Since then, at an incertain hour

That agony returns:

And till my ghastly tale is told

This heart within me burns.

Da allora, a ora incerta/ quell’ansia ritorna/ e finchè il mio terribile racconto non è concluso/ il cuore dentro il mio petto  brucia.

Si scrive per contagio dell’orrore ed obbligo a raccontarlo.

Innocenti

Forse sono innocenti i morti dei campi di sterminio, come i morti di Civitella, forse lo sono i civili morti di tutte le guerre. Ed il cordoglio per la morte che li accomuna nella tragedia della guerra mondiale  non è poca cosa. Ormai sembra proprio una sciocchezza separare i mondi delle memoria dolorosa, tanto più che essa è diventata sempre più attuale, sempre più capace di farci capire le guerre del mondo. Dal 1994 qualcosa è cambiato. La storia del lutto di Civitella e quella delle formazioni partigiane sono state rilette nel tempo e sono ormai oggettivamente sullo stesso fronte di memoria. Oggi è possibile più che allora, quando scrissi un testo Il ritorno dall’apocalisse[6], immaginare una memoria resistenziale che possa essere rappresentata come la Madonna degli Innocenti, con un grande manto in cui tutti le vedove e gli orfani e i dolori della guerra possano essere accolti sotto il suo mantello, come nella immagine quattrocentesca dell’Istituto degli innocenti di Firenze.

L’estate toscana del 1944, che ho scoperto nella memoria dei sopravvissuti  venendo dalla Sardegna, la ho ritrovata come un segnale forte di memorie bellica in tante storie di vita dei nonni dei miei allievi fiorentini. Cercando di iniziare i giovani antropologi alle interviste e a raccogliere storie di vita facevo intervistare i nonni, e ce ne erano pochi che non erano stati contadini e non avevano avuto i tedeschi in casa.

La memoria della guerra, abbiamo visto, non serve a che la storia non si ripeta, ma a renderci sensibili al mondo in guerra, a fare vivere con noi il ricordo dei morti, a vivere avendo vicina la loro testimonianza, perché , come scrisse Berti Arnoaldi in un passo fulminante, forse il nostro compito fondativo e comune come studiosi e come cittadini di un paese che ha una Costituzione antifascista, è quello di trasformare i cadaveri  in antenati, che è il senso profondo del cordoglio.

Pietro Clemente è attualmente Presidente dell’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea

[1] P.Clemente, Il passato imprevedibile, in  Primapersona, 2, 1999
[2]  Ora Civitella è ben rappresentata nell’ Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 2016 ; http://www.straginazifasciste.it/wp- content/uploads/schede/CIVITELLA%20IN%20VAL%20DI%20CHIANA%2029.06.1944.pdf
[3] P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,
[4] V.Trupiano, A sentirle sembran storielle. Luglio 1944. La memoria della strage di civili nell’area di Crespino del Lamone, Pisa, Pacini,
[5] E.De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958
[6] Apparve poi nei primi anni 2000 sul sito della Regione Toscana nella pagina dedicata alle stragi, e nle volume che concluse la seconda ricerca, generalizzata a tutta la Toscana e condotta in collaborazione con Fabio Dei : P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,




Aspettando Hitler: la seduzione della bellezza e l’allontanamento da Firenze dell’ebreo Castelfranco.

Di tutti i luoghi che Hitler avrebbe desiderato con forza visitare anche semplicemente da turista, Firenze era la meta più agognata. Ci riuscì, accolto con inquietante bellezza e sfarzo imperiale, il 9 maggio 1938, ottanta anni fa esatti. Hitler, dalla stazione di Firenze, attraversò con l’auto scoperta il centro cittadino addobbato con sequenze ininterrotte di svastiche e bandiere gigliate, per poi dirigersi come prima tappa a Palazzo Pitti e alle sue collezioni artistiche. Quando l’auto varcò il cortile interno della reggia, probabilmente il Führer mai avrebbe immaginato che l’artefice della risistemazione di tanta magnificenza fosse stato proprio un ebreo.

La Toscana e Firenze erano la terza e ultima tappa programmata nella visita ufficiale in Italia, dopo Roma e Napoli, dopo un tour che, dal 3 al 9 maggio, avrebbe fatto fermare l’Italia per una settimana, convogliando energie e masse per salutare al meglio l’alleato nazista. In molte città fu decretata festa nazionale, gli esercizi commerciali furono chiusi, gli alberghi furono attrezzati per accogliere giornalisti e operatori cinematografici. Per Roma e provincia furono confezionate ben 13.000 bandiere tricolori con croce reale e fascio littorio, mentre i monumenti più emblematici della Capitale furono illuminati dalla luce di migliaia di fiaccole e fari, con suggestive e imponenti scenografie che riecheggiavano gli antichi fasti imperiali. Anche Napoli non fu da meno. La suggestiva visione del Golfo di Napoli, con lo sfondo del Vesuvio e della collina del monte Echia, si aprì a Hitler con la gigantesca scritta “Heil Hitler”, mentre di lì a poco avrebbe assistito alla sfilata di 200 unità navali a bordo del transatlantico Rex, con tanto di radiocronaca in italiano e in tedesco sullo sfondo.

Ogni città, in base alla sua vocazione storica e agli intenti del Duce, doveva impressionare il Führer per alcune sue peculiarità intrinseche. A Firenze era stato riservato il compito di sedurre l’alleato con la sua bellezza e armonia rinascimentale, con tanto di Ranuccio Bianchi Bandinelli, tra i maggiori archeologi di tutti i tempi, nel compito -per lui odiatissimo- di Virgilio dell’arte per i due dittatori.

Vorace collezionista e pittore mancato, Hitler amava Michelangelo, Leonardo, Raffaello, il rinascimento fiorentino e i ponti artistici che si erano creati all’epoca con il rinascimento d’Oltralpe. Legami artistici e spirituali che rinascevano nuovamente con l’alleanza dell’Asse: non a caso in una sala degli Uffizi erano stati collocati dipinti fatti arrivare direttamente dalla Germania a dialogo con la collezione di artisti tedeschi già presenti nei musei cittadini.

In questo gioco di seduzione, sotto il controllo di Alessandro Pavolini da Roma e dell’apposito ufficio festeggiamenti istituito in Comune, si erano adoperati schiere di architetti, fotografi, giovani artisti che diedero vita ad apparati effimeri degni di una corte cinquecentesca. Ma soprattutto e suo malgrado si era adoperato Giorgio Castelfranco, lo storico dell’arte ebreo direttore di un luogo altamente significativo per la visita fiorentina, un luogo dove bellezza e regalità si sposavano perfettamente: la Reggia di Palazzo Pitti.

Giorgio Castelfranco, figura di primo piano nel panorama della cultura italiana del Novecento, sia come funzionario della Soprintendenza che come critico militante e mecenate di artisti quali De Chirico e Savinio, nel 1936 era stato promosso a direttore della Galleria di Palazzo Pitti. La meritata carica sarebbe durata pochissimo: dopo aver alacremente lavorato per il riordino e la risistemazione della galleria e degli appartamenti dove il Führer, nel pomeriggio del 9 maggio, avrebbe riposato per un breve tempo le stanche membra, Castelfranco nell’aprile del 1938 fu allontanato dalla città e dal suo museo. Nella studiatissima macchina scenografica del grand tour hitleriano l’ebreo Castelfranco doveva momentaneamente scomparire.

Furono le inquietanti prove generali di disposizioni messe in atto con le successive leggi razziali. Così Castelfranco, all’inizio del 1944, in una relazione all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale ricordava quei momenti:

È curioso che riuscii ad avere mezzi abbondanti nella primavera del 1938 sui fondi per le trionfali accoglienze fatte in Italia a Adolfo Hitler; avendo già da tempo studiato le questioni relative, potei, rapidamente, in poche settimane, realizzare un riordino parziale, che diede nei suoi limiti ottimi risultati. Mi occupai io anche del restauro del passaggio tra Pitti e Uffizi e del riordino delle collezioni di ritratti ivi esposte. Durante la visita di Hitler fui mandato con ridicoli e finti pretesti a Modena a reggere la R. Galleria Estense; avevo comunque accelerato i lavori intrapresi, che lasciai oramai terminati. Dall’estate del 1938 in poi la mia attività fu, per ovvie ragioni, ridotta; curai però ancora qualche piccolo lavoro ai locali di Pitti. Da allora cessarono anche le mie pubblicazioni e in genere, debbo dirlo, la mia attività di studi ebbe una brusca interruzione.

Nel settembre 1938 lo storico dell’arte siglò uno degli ultimi documenti, se non l’ultimo, come direttore di Palazzo Pitti, ovvero la relazione di tutti i lavori condotti tra il gennaio e il maggio 1938 nella Galleria Palatina. Il grande cantiere d’accoglienza aveva previsto il tappezzamento in seta delle sale di Marte, Apollo e Venere, la pavimentazione o il restauro di essa in tutte le sale, l’apertura di finestre sul giardino, l’abbellimento con pastelli -cari al Führer- dell’ambiente tra Palazzo Pitti e Corridoio vasariano. Niente era stato lasciato al caso: “sistemate adeguatamente  anche le latrine nell’ammezzato del Rondò di destra del palazzo” chiosava Castelfranco nella sua relazione conservata negli archivi della Soprintendenza fiorentina.

Il 20 gennaio 1939, dieci giorni prima del suo definitivo licenziamento per l’applicazione del R.D. del 15 novembre 1938, sarebbe giunto a Castelfranco, dal Ministero dell’Educazione Nazionale, il diploma a Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, prestigiosa e beffarda onorificenza.

Alessia Cecconi (Prato, 1981), storica dell’arte, è direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica, Vaiano, Prato); collabora inoltre da molti anni con la Fondazione Memofonte di Firenze. Le sue ricerche e pubblicazioni sono dedicate alla letteratura artistica di età moderna, alla storia della tutela del patrimonio, al rapporto tra arte e memoria. Ha coordinato per la Regione Toscana il progetto ”Resistere per l’arte: guerra e patrimonio artistico in Toscana”, tema al quale ha dedicato le sue ultime pubblicazioni e mostre. Da sempre interessata all’educazione al patrimonio, è co-autrice del manuale di storia dell’arte per la scuola media inferiore Arte e Immagine (Gruppo RCS-Fabbri editore, 2014). 




Lavoro, fiori e lambrette.

La festa del lavoro in Italia non rinacque, dopo la seconda guerra mondiale, solo come momento politico e istituzionale, ma assunse significati più ampi e partecipati, diventando la rappresentazione di uno spaccato della società nelle sue diverse epoche. Da giornata di astensione dal lavoro e di mobilitazioni si andò allargando, includendo la socialità ed eventi capaci di “mettere in scena” la stessa “cultura” dei lavoratori, assumendo al suo interno eventi sportivi e ludici come i balli, la musica, la cucina. Una festa popolare dunque, come le sagre e feste di paese, da cui trasse forza e ramificazioni. Agli aspetti prettamente rivendicativi e a quelli politici si andò col tempo affiancando una ritualità, un farsi “tradizione”, attraverso un percorso di adattamento e mutamento che ci ha lasciato in eredità un complesso di consuetudini, come la distribuzione dei garofani rossi, radicate nell’immaginario di larghe fasce sociali.

1946: 1 Maggio a MarescaNel secondo dopoguerra i sindacati furono all’opera per rimettere in campo la celebrazione, abrogata dal fascismo. Con la Repubblica il 1° maggio si prendeva un posto, sancito anche dal carattere di festa nazionale attribuitogli dalle istituzioni.
Nel pistoiese si giunse a una prima messa a punto sistematica del suo svolgimento negli anni successivi alla rottura dell’unità sindacale del 1948. Fu un’opera portata avanti dalla CGIL, a partire dal biennio 1950/51, ed in particolare dal sindacato dell’agricoltura, la Confederterra. Il momento centrale si andò articolando attorno al corteo del capoluogo, Pistoia, senza però tralasciare la diffusione locale, esplicata nelle tante più piccole manifestazioni degli altri centri, che andavano da cortei e comizi veri e propri alle “veglie” nell’aia, politicizzando un’antica tradizione del mondo mezzadrile.

Il corteo di Pistoia, salvo qualche minimo cambiamento di percorso, è da sempre lo stesso, una sfilata per le vie del centro cittadino con l’arrivo finale nella piazza del Duomo. La partenza è sempre stata davanti alla sede della Camera del Lavoro. Fin dagli anni ’50 emerse una sua strutturazione interna, a tutt’oggi immutata. La prima parte del corteo riservata alle rappresentanze istituzionali, con i loro gonfaloni, e alla banda comunale, segnale della piena cittadinanza dentro allo Stato conquistata dal “popolo lavoratore” con la Repubblica, seguita da uno “spezzone” più politico, con gli striscioni contenenti messaggi di stringente attualità, ed a ridosso le rappresentanze dei lavoratori, a partire da quelle delle aziende o fattorie in lotta.
Già in quel decennio si fece strada con forza la pratica di non far sfilare solamente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche i simboli del loro lavoro, i trattori per le campagne e gli autobus prodotti nella fabbrica cittadina, la Breda. All’unità dei lavoratori, simboleggiata dall’alleanza tra contadini e operai, i “mezzi meccanici”, come venivano chiamati, aggiungevano altri significati simbolici. Erano cioè una dimostrazione di modernità, utili per attirare i giovani e a mostrare con orgoglio il prodotto della fatica e della professionalità dei lavoratori. Sempre a quegli anni risale l’organizzazione della distribuzione dei garofani rossi da parte delle donne, una presenza mai venuta meno.

1969A partire dalla seconda metà degli anni ’50, e con sempre più forza negli anni ’60, intorno al corteo sorsero una miriade di eventi collaterali, dalla lotteria al torneo sportivo, dalle mostre di pittura alla gara di ballo, con il corollario di cene e feste, nel capoluogo organizzate nel parco di Monteoliveto. La data penetrava in profondità nella società locale, divenendo un riflesso delle trasformazioni dell’Italia e degli italiani, con le loro passioni politiche.
Nelle cronache della festa si ritrovano i segnali della Storia, dall’operaio che in una riunione nel 1968 chiedeva maggior attenzione agli studenti alle diatribe tra i vecchi sindacalisti e i più giovani, che nel 1969 pretendevano di sfilare nel corteo con le loro lambrette “smarmittate”, una nota che può sembrare di costume ma che ci racconta, con una battuta, il cambiamento epocale, sociale e culturale, che affrontava l’Italia in seguito al miracolo economico.
Emergevano nuovi attori e nuovi oggetti. E sempre su questa scia vanno lette le preoccupazioni per le infiltrazioni degli autonomi, se non del terrorismo, ma soprattutto il prepotente ingresso del femminismo in piazza del Duomo nel 1977, quando un gruppo di donne dette fuoco al manichino di una strega, danzando in cerchio, dando vita a reazioni impreviste e inaspettate, come quelle della CISL che si schierò dalla loro parte a differenza del PCI che le contestò.

Manifesto CGIL 1 Maggio 1967 Un’altra costante è stata la sempre presente spinta all’unità dei lavoratori. La ritroviamo nei discorsi preparatori tutti gli anni, unita a un’attenzione a far si che fosse il lavoro, con le sue rivendicazioni, il vero protagonista della giornata, prima e sopra la politica. Da qui le continue attenzioni e cure contro le strumentalizzazioni, da qui una costante e lunga ricerca di una celebrazione unitaria tra le organizzazioni sindacali. Una ricerca che a fine anni ’60 era sempre più pressante, all’alba di una grande stagione di lotte e di riforme, tale da suscitare anche l’intervento delle Istituzioni a suo favore.
L’unità nelle celebrazioni fu raggiunta a piccoli passi e faticosamente, dapprima con l’adesione delle ACLI al corteo della CGIL nel 1970, seguita l’anno dopo da quella della CISL, mentre la UIL ancora se ne teneva fuori, duramente criticata, mentre si cercava di allargare la spinta unitaria anche agli studenti, invitati ufficialmente a prender parte al corteo con una lettera del 1971. Solo tra il 1972 ed il 1973 aderiva anche la UIL, dapprima con alcune categorie e poi con tutta la confederazione. Ma l’unità è sempre stata un risultato da tener stretto, rimesso in discussione nel decennio dopo dalla CISL, che nel 1984, in seguito al decreto di San Valentino, sfilava via nonostante fosse duramente criticata dalla Chiesa locale, che dal 1979 aderiva alla giornata organizzando la santa messa nella cattedrale. Una ferita che fu sanata solo quattro anni più tardi, nel 1988, quando nuovamente il primo maggio tornava ad essere celebrato in maniera unitaria.

Tra gli anni ’80 e ’90 iniziavano i primi interventi di rinnovamento della festa nel solco di quella che ormai era la tradizione. Nel 1989 veniva inserita una festa per i bambini, e molti interventi nelle riunioni preparatorie rimarcavano che i trattori non erano solo folklore ma racconto ed espressione del lavoro, di quel mondo agricolo 30 anni prima ancora così importante e presto dimenticato, mentre altri proponevano una nuova popolarizzazione della festa, con feste, pranzi e balli, pratiche di socialità andate perse nel decennio delle grandi passioni dei ’70. Iniziava timidamente a muovere i suoi passi una nuova forma di diffusione territoriale, accanto a quella sindacale, affidata alle strutture che il movimento dei lavoratori nei decenni aveva costruito sui territorio, a partire dai circoli ARCI, che nel passaggio di secolo radicavano una “nuova” tradizione di feste e pranzi. La socialità di nuovo legata al lavoro, alla politica e alle comunità locali, espressione della vitalità di una giornata che ha sempre travalicato i suoi stessi confini.

Le notizie relative alla storia del 1° maggio nel pistoiese sono state tratte dall’Archivio storico della Camera del Lavoro di Pistoia.




Nello Niccoli: combattente per la libertà e protagonista della Liberazione di Firenze

Uomo «d’azione e di opere», «valoroso combattente per la libertà», eppur figura di «grande modestia» e «di poche parole», Nello Niccoli (1890-1977) seppe coniugare come pochi impegno politico, passione civile e alti meriti professionali: di lui – avrebbe detto Aldo Passigli in occasione della sua morte – «non sappiamo infatti se lumeggiare più il coraggio antifascista, il coerente politico, l’esemplare pubblico amministratore o l’eminente professionista» (Cordoglio per la morte di Nello Niccoli, «La Voce Repubblicana», 13/05/1977).

Nato a Milano l’8 dicembre 1890 da Vittorio e Luigia Pecchio, Nello Niccoli portò avanti la tradizione familiare di studi agronomici, laureandosi a pieni voti il 27 luglio 1914 presso l’Università di Pisa, dove il padre Vittorio, formatosi nel solco della “scuola agronomica toscana” di Meleto e tra i più eminenti economisti rurali del tempo, era allora docente di Estimo ed Economia agraria. Intrapresi l’attività e l’insegnamento accademici prima a Pisa e poi a Padova presso la Scuola di applicazione per gli ingegneri e l’Istituto “G. Belzoni”, Nello il 24 maggio 1915 fu chiamato sotto le armi  venendo assegnato come sottotenente al 3° Reggimento Genio di Firenze e indi mandato a combattere sul fronte della 3° Armata. Congedatosi nel settembre 1919 col grado di capitano e la croce al merito di guerra, dal 1920 esercitò  come libero professionista l’attività di dottore agronomo, venendo poi nominato nel dicembre di quell’anno direttore di una grossa azienda agricola in Angola di proprietà della Società coloniale per l’Africa occidentale, carica che mantenne fino all’ottobre 1922. Negli anni del regime continuò la propria attività di libero professionista, svolgendo importanti incarichi nel settore dell’estimo, del genio rurale e del catasto, e partecipando agli studi relativi al Nuovo Catasto Terreni del 1939.

Di sentimenti spiccatamente antifascisti, a partire dal 1920 Nello fu tra i fondatori a Firenze del Circolo di Cultura nato attorno alle figure di Gaetano Salvemini e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli e volto a divenire, con la partecipazione di Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Carlo Celasco, Piero Jahier e molti altri, luogo di dibattito e di discussione culturale aperto senza precisi confini politici alle nuove tendenze italiane ed europee. Nello, all’attività del Circolo partecipa attivamente assieme al cugino Alfredo Niccoli  ̶  presso il cui studio avvocatizio posto all’ultimo piano del Palazzo Errera in via degli Alfani si erano svolte le prime riunioni del gruppo  ̶  figurando altresì nell’ambito delle varie iniziative organizzate come relatore di una conferenza sull’Angola portoghese. Conclusasi improvvisamente quell’esperienza nel gennaio 1925 a seguito della chiusura del Circolo per ordine prefettizio e scatenatasi la repressione fascista contro i principali ispiratori del gruppo, Nello contribuisce a organizzare nel luglio successivo la fuga in Francia di Gaetano Salvemini e poi quella in Svizzera di Paolo Rossi, fratello di Ernesto, passando successivamente a far parte del gruppo clandestino di Giustizia e Libertà diretto a Firenze dall’amico Nello Traquandi, col quale Niccoli aveva già collaborato alle pubblicazioni del Non Mollare!.

Nel giugno del 1940, allo scoppio della guerra, Niccoli è richiamato alle armi e mandato col grado di maggiore del Genio in Libia, servizio del quale per sua più tarda ammissione non si dichiarerà «affatto fiero», nonostante ottenga la promozione a tenente colonnello e la medaglia di bronzo al valor militare nella battaglia di Bir el Gobi. Qui, «in due avanzate e in due ritirate nel deserto» – racconterà egli stesso – «bevendo l’acqua melmosa ed infetta dei pozzi» contrae numerose infezioni intestinali che ne segnano a lungo la salute. Rimpatriato nel settembre 1942 a Napoli, Nello, ridotto a pesare solo 39 kg per via delle malattie patite, trascorre sei mesi di convalescenza, al termine dei quali è posto in congedo assoluto.

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Targa affissa a Firenze in via dei Bardi 14 sulla casa in cui visse gli ultimi anni della sua vita Nello Niccoli (foto Zatini)

Rientrato a Firenze, dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943 il suo profondo antifascismo lo porta a ricercare contatti con il movimento resistenziale. Nel dicembre di quell’anno, infatti, per tramite di Orsola de Cristofaro, figlia del professor Renato Biasutti e staffetta partigiana, viene messo in comunicazione con Carlo Campolmi membro del Partito d’Azione fiorentino. Poco dopo, Enzo Enriques Agnoletti, vincendo le perplessità di Nello, gli offre per conto del partito l’incarico di comandante militare e allo scopo di facilitarne il lavoro gli affianca Carlo Ludovico Ragghianti, che sin lì aveva tenuto in mano le fila dell’organizzazione armata. Il comando militare del partito affidato a Niccoli si completa così con le figure di Ragghianti (commissario politico), Athos Albertoni (Aiutante Maggiore), Carlo Campolmi (organizzatore delle squadre di città) Enrico Bocci (organizzatore di Radio Cora) e Maria Luigia Guaita (ufficiale di collegamento con le bande esterne). Tra i compiti che Niccoli, nome di battaglia “Sandri”, assume vi è anche quello di costituire un comando militare unico tra i diversi partiti antifascisti sotto l’egida del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), obiettivo al quale si era già speso a partire dal febbraio del 1944 Ragghianti.

Il primo contatto Niccoli lo stabilisce in tal senso col colonnello Vito Finazzo, rappresentante della Democrazia Cristiana, poi sostituito dal capitano dell’aeronautica Nereo Tommasi. Seguiranno poi analoghi accordi di collaborazione con socialisti e liberali. Più difficili invece le trattative con i comunisti, rappresentati prima dal comandante partigiano Gino Menconi “Musoduro” e poi da Luigi Gaiani. È con quest’ultimo che l’intesa al fine riesce, quando ai primi di maggio del 1944 si procede alla creazione del Comando Militare Interpartitico, battezzato su suggerimento di Eugenio Artom “Comando Marte” e così composto: Nello Niccoli (Partito d’Azione) comandante; Luigi Gaiani (Partito Comunista) commissario politico; Dino Del Poggetto (Partito Socialista) vice commissario politico; Nereo Tommasi (Democrazia Crstiana) vice comandante; Achille Mazzi (Partito Liberale) Capo di Stato Maggiore.

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Comando Militare Toscano – Relazione sull’attività clandestina e operativa svolta dai Patrioti Toscani nel periodo 8 settembre 1943 – 7 settembre 1944 (ISRT, Archivio Nello Niccoli)

Il Comando interpartitico, che al pari di quello azionista tiene le sue riunioni presso l’abitazione del Niccoli in Piazza dei Mozzi, comincia a lavorare ai primi di giugno, subendo però un durissimo colpo il 7 del mese a seguito della cattura avvenuta da parte dei nazifascisti dei componenti di Radio Cora, la radiotrasmittente clandestina del Partito d’Azione. Tra gli arrestati destinati a subire tristemente la tortura e la fucilazione, vi sono anche Italo Piccagli ed Enrico Bocci, attesi per il giorno seguente da Niccoli a una riunione del comando militare del Partito d’Azione. La loro assenza mette in allarme Nello che, compresa la situazione, giusto prima che i fascisti irrompano nella sua abitazione in Piazza dei Mozzi riesce a trasferire tutti i documenti compromettenti in casa della sorella Miriam in via dei Bardi, dove egli stesso trova rifugio.

Da quel momento, Niccoli è costretto a cambiare continuamente domicilio, dormendo a turno nei vari appartamenti di fortuna che il partito gli ha messo a disposizione e beneficiando una volta alla settimana dell’ospitalità dell’amico Leone Guicciardini al pianterreno dell’omonimo palazzo. Lo stesso Comando Marte perde il suo luogo fisso di ritrovo ed è costretto a riunirsi, a seconda, in casa del colonnello Mazzi, nella fabbrica di ceramiche dell’industriale liberale Renato Fantoni, in chiese, giardini pubblici, per strada, fino a impiantarsi alla fine di luglio presso la sede della Società Larderello, posta all’ultimo piano del cinema Odeon, in Piazza Strozzi. È da qui che il Comando Marte conta di dirigere l’insurrezione cittadina secondo i piani operativi da esso appositamente studiati già da fine giugno e relazionati da Niccoli al CTLN in una riunione tenutasi il 22 luglio nell’ufficio di Natale Dall’Oppio, in via Condotta. Tuttavia, l’intenzione allora preventivata di stabilire un collegamento col comando Alleato allo scopo di coordinare la battaglia per Firenze, nonché l’obiettivo di avviare al momento dell’insurrezione un’azione concomitante delle squadre partigiane attestate sulle due rive dell’Arno, come noto vengono scombinati dall’evacuazione forzata dei lungarni disposta dai tedeschi in vista del brillamento delle cariche di esplosivo posizionate sui ponti.

Vistosi sconvolgere i piani, Niccoli e gli uomini del Comando Marte decidono di attendere, limitandosi a intensificare l’organizzazione dei vari reparti partigiani entro le quattro zone operative in cui era stata divisa la città, mentre nel frattempo il CTLN, prima che i tedeschi chiudano definitivamente l’accesso ai lungarni, riesce a inviare una propria delegazione in Oltrarno guidata dal democristiano Francesco Berti. Dalla sede dell’Odeon, il 3 agosto gli uomini del Comando Marte – avrebbe poi raccontato Niccoli – assistono «come fanciullini impotenti a difendere la propria madre minacciata e colpita» al brillamento delle cariche posizionate dai tedeschi e alla distruzione dei lungarni e di tutti gli attraversamenti fluviali, ad eccezione di Ponte Vecchio.

Il 5 agosto, il tenente Enrico Fischer comandante della 3° compagnia “Rosselli”, accortosi della possibilità di stabilire un contatto tra le due sponde dell’Arno attraverso il Corridoio Vasariano, riesce a stendere lungo questo un collegamento telefonico tra un avamposto partigiano attestato in Palazzo Vecchio e un apparecchio telefonico posizionato in Oltrarno e affidato a Edoardo Detti e a Marcello Ciompi. Allo scopo di prendere contatto con le avanguardie alleate già attestate nei sobborghi meridionali della città il CTLN decide di inviare oltre il fiume Nello Niccoli perché concordasse con gli Alleati il piano per l’insurrezione. Aggirando i presidi tedeschi, assieme a Fischer e a Ragghianti, Niccoli riuscì ad attraversare Ponte Vecchio percorrendo il Corridoio Vasariano fino a una botola aperta su via dei Bardi dalla quale si calò con una corda fissata a circa dieci metri di altezza. Indi riuscì a raggiungere Piazza Pitti, ricongiungendosi ad alcuni membri della delegazione guidata dal Berti. Preso contatto con gli Alleati, Niccoli viene scortato presso un comando tattico posto in via del Gelsomino, dove è ricevuto da un graduato dello Stato Maggiore alleato. Il colloquio, protrattosi per ben tre ore, si rivela però inconcludente, con l’ufficiale che sconsiglia un’azione insurrezionale da parte dei patrioti e Niccoli che si congeda con l’unica rassicurazione di impegnarsi a tenere aggiornato telefonicamente il comando Alleato sui movimenti del nemico. All’alba del giorno seguente, Niccoli si appresta a rifare il percorso a ritroso, stavolta incontrando difficoltà anche maggiori nel riguadagnare il passaggio sul Corridoio Vasariano: «il risalire a forza di gambe e di braccia su una fune senza nodi, col rischio di farmi impiombare dai fucilieri che sparacchiavano in continuazione dalle finestre dei palazzi del lungarno di fronte» – avrebbe rievocato anni dopo il Nostro – «per me, uomo di 54 anni ed in condizioni di forma un po’ precarie, ha rappresentato una impresa di notevole difficoltà» (N. Niccoli, Per la battaglia di Firenze, in La Resistenza in Toscana, Atti e studi dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, n. 8, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 9) Ciononostante, alle nove del mattino, Niccoli riesce a raggiungere incolume via Condotta, facendo rapporto col CTLN.

A seguito della proclamazione dell’insurrezione cittadina l’11 agosto 1944 da parte del CTLN, Niccoli partecipa a tutte le fasi centrali della battaglia per la liberazione della città, potendo contare stavolta anche sul più collaborativo atteggiamento degli Alleati e del comandante divisionale inglese, il quale lo convoca a rapporto tutte le mattine presso il comando installato all’Hotel Savoia di Piazza della Repubblica, prendendo nota della situazione delle forze partigiane e affidando a queste incarichi di perlustrazione. Come riconobbe più tardi lo stesso Niccoli, «si era formato tra noi un clima molto differente da quello da me riscontrato nella mia visita di là d’Arno. Segno evidente che il Comando Alleato aveva riconosciuto ed apprezzato il contributo dato dai partigiani alla guerra di liberazione» (N. Niccoli, Per la battaglia di Firenze, p. 11)

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Appunti di Nello Niccoli inerenti le disposizioni di scioglimento delle bande partigiane cittadine, s.d. (ISRT, Archivio Nello Niccoli)

L’impegno di Niccoli si protrasse anche a liberazione della città avvenuta, quando rivestì importanti incarichi amministrativi: nell’ottobre del 1944 fu nominato membro della Giunta della liberazione  insediata a Firenze dagli Alleati, contribuendo contemporaneamente al delicato processo di epurazione dello Stato post-fascista all’interno della Delegazione provinciale di Firenze dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo.

Tuttavia, i disagi e le fatiche patite nel periodo resistenziale e in questi mesi di intensa attività, produssero il riacutizzarsi delle infermità contratte in Africa settentrionale e costrinsero Niccoli a presentare nell’ottobre del 1945 le proprie dimissioni dal Comando Militare Toscano, venendo quindi ricoverato nell’ospedale militare di Villa Natalia.

Rimessosi in salute, nel secondo dopoguerra Niccoli tornò di nuovo ad esercitare la propria professione, non venendo meno però al proprio impegno civico. Dal 1946 e sino alla morte fu consigliere della Cassa di Risparmio di Firenze e vicepresidente dell’Istituto Federale di Credito Agrario per la Toscana, nonché consigliere dell’Istituto Tecnico Agrario Statale di Firenze, socio dell’Accademia Economico-Agraria dei Georgofili, consigliere dell’Ordine degli agronomi fiorentini e loro rappresentante nel Consiglio Nazionale dal 1952 al 1969. Dopo lo scioglimento del Partito d’Azione nel 1946 aderì al Movimento della Democrazia Repubblicana, confluendo poi entro il Partito Repubblicano Italiano. Si dedicò altresì all’organizzazione dell’associazionismo partigiano rivestendo un ruolo esecutivo nella Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane (FIAP). Contribuì inoltre nel 1953 alla fondazione dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, di cui fu Presidente dal 1957 al 1975.

Niccoli morì a Firenze il 29 aprile 1977. La notizia della sua morte, per sua espressa volontà annunciata solo a esequie avvenute, «senza fiori e senza onori», per chi lo aveva conosciuto fu l’ennesima prova «della sua grande modestia e del suo desiderio di lasciare questa vita terrena “in punta di pedi”» (C. Arcangeli, È scomparso Nello Niccoli, «Il dottore in scienze agrarie e forestali», n.8, settembre 1977).




Liturgie laiche e religiose nella Livorno del 1948

Il 7 novembre 1948 a Livorno fu una data molto particolare. Nel medesimo giorno si “fronteggiarono” in città due grandi manifestazioni, l’una cattolica, l’altra comunista. Seguendo un’evidente strategia di contrasto, i vertici ecclesiastici livornesi avevano fatto cadere la solenne chiusura della Peregrinatio Mariae – il pellegrinaggio della Madonna di Montenero che, partito il 20 ottobre, aveva compiuto, come scrisse «Il Tirreno», il suo «viaggio trionfale per tutti i paesi della diocesi» [Un’immensa folla, 4 novembre 1948] – nella data in cui le sinistre celebravano con grande dispiegamento organizzativo l’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. I cattolici livornesi avevano del resto ancora nella memoria l’imponente manifestazione dell’anno precedente, 30° anniversario della rivoluzione, celebrato con un grande concorso di popolo per le vie della città e conclusasi al teatro Politeama, alla presenza del presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini e del deputato socialista Alberto Cianca [Terracini e Cianca, 10 novembre 1947].

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Ingrao e Togliatti nel 1946

La mattina dl 7 novembre dunque i comunisti sfilarono lungo i quartieri nord della città, quelli popolari e ad alta densità di operai, concludendo il loro corteo nella piazza S. Marco, massimo simbolo risorgimentale di Livorno, teatro della gloriosa resistenza dei livornesi contro la cattolica Austria dell’11 maggio 1849. Quello stesso pomeriggio la processione dei cattolici si snodò sul lungomare e tra i quartieri sud, quelli dei livornesi più benestanti, fino al colle del Santuario di Montenero. Due itinerari separati, come se fosse esistita una ideale cortina di ferro che divideva la città, ma che ebbero come tappa centrale obbligata la sosta al Cantiere navale, simbolo del mondo operaio. Il Cantiere infatti in quel 7 novembre viene “benedetto” due volte: la mattina dal comizio del direttore dell’«Unità» Pietro Ingrao; il pomeriggio dal vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, alla presenza del presidente della Camera Giovanni Gronchi, nell’ambito della cerimonia di chiusura della Peregrinatio. Davanti agli operai Ingrao, come riportò la stampa, aveva parlato degli enormi progressi compiuti «in ogni campo dalla Russia sotto il regime sovietico, ponendoli in contrasto con le terribili crisi che affliggono gli Stati occidentali», definiti potenze «guerrafondaie capitaliste e affamatrici del popolo» (Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 887) . Il pomeriggio l’immagine della Madonna di Montenero era stata invece benedetta davanti al Cantiere dal vescovo e dal nunzio apostolico dell’Honduras, il livornese Federico Lunardi, dopo che la processione aveva attraversato Borgo Cappuccini, la via nella quale abitava la gran parte degli operai del Cantiere, in cui, annotava «La Gazzetta», quotidiano comunista, era stato «offerto uno spettacolo folgorante di luci e di addobbi considerati i più belli delle varie parrocchie» [Ristori, 1948]. Pochi giorni dopo Gronchi, in una sua nuova visita a Livorno, parlando alle donne livornesi di Azione Cattolica, aveva affermato significativamente che il pellegrinaggio mariano aveva dimostrato come a Livorno il sentimento religioso del popolo fosse «soltanto sopito». «Si è visto – affermava – nella recente “Peregrinatio Mariae” nei quartieri in cui nessuno avrebbe creduto esistesse tanta fede, il popolo degli umili e dei lavoratori rende devoto omaggio alla Madonna. Ora dovete voi entrare nella vita di quella gente, dovete cercare di riportarla sulla via che Cristo ha tracciato per il trionfo del bene e per la salvezza dell’umanità» [Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 880].

I fatti appena descritti, nei suoi macroscopici simbolismi, ben raccontano come il 1948, anno in cui si addensarono in Italia le più tumultuose contrapposizioni scatenate dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, significò anche una vera e propria lotta per la supremazia dei rituali identitari. Una contesa che aveva trovato il suo acme per le elezioni politiche del 18 aprile e che assunse le forme di una competizione tra i rispettivi repertori liturgici e iconografici, indirizzata anche verso l’occupazione dei luoghi in cui più forte si avvertiva il simbolismo delle identità concorrenti [Guis0, 2006; Cavazza, 2002; Avagliano, Palmieri, 2018]. Come hanno fatto emergere molti studi negli ultimi anni, questa contrapposizione tra diverse “liturgie” assecondava anche rivalità identitarie meno immediatamente percepibili relative alla memoria della guerra e della Resistenza e ai miti fondativi della Repubblica [Gabusi, Rocchi, 2006; Schwarz, 2010]: le sinistre occupate nel tentativo di fondare una religione civile basata sull’antifascismo, viceversa la Democrazia cristiana, e in qualche misura anche le istituzioni ecclesiastiche, impegnate in un’azione di pacificazione nazionale. Riguardo al caso livornese non sfugge, ad esempio che all’interno delle due settimane di Peregrinatio Mariae si toccasse una data carica di simbolismi come il 4 novembre. Siamo all’interno di quel progetto di «riconquista cattolica dell’italianità» [Gentile, 1997, p. 224] che vide in questi anni impegnate le istituzioni ecclesiastiche e che si connetteva direttamente all’impegno della Dc nell’ottica della pacificazione nazionale. L’intento dichiarato dei governi Dc era di stimolare una rinnovata concordia, che superasse le divisioni di una guerra fratricida. Ecco perché, è stato detto, che in questi anni calò una sorta di «silenzio istituzionale» sul 25 aprile, mentre appunto gli sforzi si concentrarono sulle manifestazioni del 4 novembre in cui si celebrava la fine della prima guerra mondiale. A questo proposito va notato che la festa del 4 novembre fino al 1944 veniva definita «festa della vittoria», mentre dal 1944 al 1949 divenne la «festa dell’unità nazionale» nella quale dunque si puntava a celebrare un patriottismo astorico che trascendesse la dimensione politica, nel tentativo di un recupero dell’armonia nazionale. La Peregrinatio Mariae livornese rientrò pienamente in questa prospettiva e difatti il 4 novembre, nel quadro delle celebrazioni, fu officiata una «Santa Messa in suffragio dei Caduti per la patria» a cui intervennero le rappresentanze delle Forze Armate e le associazioni combattentistiche e a cui partecipò  monsignor Trossi, vicario generale dell’Ordinario Militare [Programma dei festeggiamenti, 31 ottobre 1948]. È da evidenziare come, per l’occasione, il settimanale diocesano trasformasse la Madonna di Montenero nella «Madre della pace». Scrisse il giornale: «La Madonna è la grande Pacificatrice. […] Regina della pace perché la devozione a Lei, che agisce sul profondo dei popoli, rimane forse l’unico punto di contatto tra i due mondi che oggi si contendono il dominio della terra: ed è possibile che la Provvidenza – che guida la storia – si serva della Madre comune per rappacificare i suoi figli» [Angeli, 1948].

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La “Peregrinatio” nella Chiesa di S. Maria del Soccorso a Livorno nel 1948

Anche sul fronte contrapposto è facile riscontrare quanto le cerimonie della liturgia laica si ponessero al servizio di precisi obiettivi politico-identitari. Diversi mesi prima della manifestazione del 7 novembre, nell’estate del 1947, una grande cerimonia funebre, seguita di poco alla rottura di Alcide De Gasperi con le sinistre, si caricò di potenti simbolismi che esularono dal mero episodio di cronaca. Nel luglio 1947 dentro il Cantiere navale di Livorno, un operaio, Alvaro Folena, venne ucciso da una guardia giurata durante un alterco. Il funerale si trasformò così in un’imponente liturgia civile contro il governo con un corteo che attraversò le vie della città e a cui parteciparono, secondo le cronache comuniste, circa 60mila livornesi (in una città che in quel momento contava circa120mila abitanti). «La Gazzetta» chiariva qual era il vero significato da attribuirsi alla celebrazione: l’atto di quel «fascista» – così veniva definita la guardia giurata – altro non era che «una fra le più dolorose conseguenze della scelta dell’on. De Gasperi»: la scelta di aver rotto l’unità antifascista, con l’uscita del Pci dal governo. «Promuovendo la formazione di un governo destinato all’impopolarità – continuava il giornale del Pci – ha suscitato in ogni parte d’Italia un’atmosfera di lotta e di guerra civile dalla quale traggono alimento le forze cripto fasciste o apertamente fasciste per rivelare la loro sostanziale natura antidemocratica» [Comi, 1947]. Appaiono evidenti i caratteri di quella retorica antifascista dell’eroismo partigiano che era funzionale allo sforzo di accreditare la Resistenza come mito fondativo della Repubblica. Così come sono chiari i segni della volontà dei comunisti di stimolare una militanza e una disponibilità continua alla lotta contro i germi perduranti del fascismo. L’articolista della «Gazzetta» aggiungeva infatti che «la proibizione verificatasi in molte città di affiggere manifesti antigovernativi, il divieto della propaganda a mezzo di impianti sonori, e tanti altri piccoli fatti più o meno caratteristici hanno creato in Italia l’impressione, tutt’altro che ingiustificata, di una polizia al servizio di un partito (quello governativo) e di certe classi (quelle rappresentate al governo) anziché del paese». E concludeva: «Si aggiunga che a Livorno di notte si canta impunemente “giovinezza” per le strade e che il titolare della Questura si chiama comm. Pennetta, già distintosi in altra epoca nella stessa città, per aver con fazioso accanimento applicato le leggi razziali, e si avrà un’idea dell’ambiente in cui si è maturato il tristo fatto di sangue avvenuto ieri» [Comi, 1947].

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Furio Diaz con gli ufficiali alleati (Fondo Diaz, Biblioteca Labronica Livorno)

Sotto altri aspetti questa cerimonia funebre mise in chiara evidenza il tentativo da parte comunista di elaborare una liturgia alternativa attingendo ai riti, alle simbologie e agli apparati della tradizione cristiana, rielaborati in chiave laica. È evidente lo sforzo di conferire grande solennità e un carattere simbolico all’evento: la bara di Alvaro Folena venne così avvolta in una enorme bandiera rossa, dietro il feretro sfilarono più di cento bandiere e corone di fiori di partiti e associazioni. Il quotidiano comunista parlava di una «dimostrazione dignitosa, severa, degna di un popolo civile ed elevato»; il cronista aggiungeva enfaticamente di non ricordare «di aver veduta cosa di simile nei lunghi anni di carriera professionale» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947]. Nella retorica comunista si intuisce la chiara volontà di restituire l’evento con una carica simbolica che superasse per fasto e livello di partecipazione l’ultimo grande evento funebre di massa celebrato a Livorno: quello del suocero di Mussolini, il conte Costanzo Ciano, officiato alla presenza del duce e di tutte le più alte gerarchie fasciste e cattoliche alla vigilia della guerra. La grande fastosità ricreata per un funerale di un semplice operaio, figlio del popolo, accendeva ancor più il contrasto col rito funebre del nobile gerarca, evidenziando l’urgenza di dare la massima espressione pubblica alla riconquistata sovranità popolare fondata sul mito della Resistenza. Nella descrizione dell’evento si attingeva al vocabolario usato dalla tradizione cattolica: si diceva così che nella camera ardente allestita all’Arena Astra, davanti al Cantiere Orlando, attorno al feretro erano «fiori e paludamenti rossi» e che «una guardia d’onore di lavoratori vegliava la salma», accanto alla quale «fu un continuo, ininterrotto pellegrinaggio». Il funerale civile si trasformò in un evento cui attribuire la più alta solennità possibile: un momento in cui partiti e associazioni del mondo laico e massonico profusero il massimo sforzo nella costruzione di una liturgia laica capace di competere con quella cattolica. È sufficiente osservare come la «Gazzetta» descrisse il corteo funebre.

Precede la bara, avvolta da un drappo rosso e portata a spalla, il gagliardetto del plotone ciclisti della Soc. Volontaria di Soccorso con la scorta. La bara è fiancheggiata da militi della Soc. Volontaria di Soccorso e dal plotone ciclisti e da una squadra d’onore del P.C.I. e della Camera del Lavoro. Ai lati un duplice cordone di ciclisti disciplina il movimento del corteo. Lungo le strade percorse dal silenzioso, grandioso corteo, la folla si assiepa a centinaia, a migliaia. Specialmente agli incroci, ai quadrivi la ressa è imponente.

Dietro la bara che raccogliere il corpo martoriato di Alvaro Folena, i congiunti della vittima, gli amici intimi, i dirigenti e componenti la commissione interna dell’Oto. Vediamo il Prefetto, il Sindaco, il Presidente della Deputazione provinciale, il direttore, de «La Gazzetta», il Questore, il Vice Questore, il Comandante del Porto, il rappresentante del Comando Marina, i rappresentanti della Magistratura, professionisti, industriali, commercianti, i rappresentanti dei vari enti cittadini, le rappresentanze dell’Udi, quelle degli stabilimenti industriali della provincia [Ibid.].

Il giornale non mancava di sottolineare l’assenza al corteo di una rappresentanza della Democrazia cristiana: il fatto, annotava «La Gazzetta» era «stato notato non soltanto dai dirigenti della manifestazione, ma dalla stragrande maggioranza dei cittadini che hanno assistito alla imponente manifestazione di cordoglio e di lutto» [=Un’assenza notata, 5 luglio 1947]. Significativa poi appare la scelta di compiere alcuni gesti simbolici nei luoghi della tradizione massonico-risorgimentale: così nella via intitolata a Garibaldi, le popolane comuniste accolsero il corteo con mazzi di garofani rossi. Il grande fascio di fiori venne posto sul feretro e le donne che lo avevano donato seguirono la bara fino a S. Marco: qui nella piazza XI Maggio che evoca la resistenza risorgimentale il corteo si scioglieva, non prima di aver ascoltato le parole del sindaco comunista Furio Diaz il quale mise in guardia i cittadini rispetto ai «pericoli della mostruosa attività di elementi reazionari, avvisando la necessità di proteggere con ogni sforzo la libertà, la repubblica e la democrazia» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947].