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LA LEGGENDARIA BANDIERA ROSSA DEL PONTINO

Un episodio del sovversivismo livornese che, attraverso i racconti orali, è rimasto a lungo nella memoria popolare è quello della funambolica bandiera rossa del Pontino.
La leggendaria beffa è stata narrata in chiave antifascista, a distanza di oltre cinquant’anni, da alcuni militanti comunisti, ma con particolari diversi e, soprattutto, con incerta e contraddittoria collocazione temporale, tanto da indurre in errore chi – compreso il sottoscritto – ne ha riferito.
In realtà, l’avvenimento è tutt’altro che dubbio in quanto, come ho potuto appurare, è attestato e datato dal seguente articolo, pubblicato su la «Gazzetta Livornese» del 29 settembre 1921, in cui è descritto con ricchezza di particolari:

Una bandiera rossa sul Pontino.

La polizia veniva ieri informata che sul Pontino i sovversivi avevano posto in luogo ben visibile una insegna rossa.
Verso le 24 di questa notte alcuni agenti e un plotone di regie guardie si recavano in camion nel luogo indicato.
L’insegna era legata ad un fascio di fili dell’energia elettrica, che passando al di sopra degli stabili del Pontino attraversano il canale – all’altezza di una quindicina di metri e oltrepassano la Fortezza.
Sotto il vento freddo funzionari e agenti lavorarono a lungo a bordo di un navicello per preparare una lunghissima pertica, all’apice della quale era un cencio imbevuto di benzina a cui fu appiccato il fuoco, ma si accorsero che l’insegna era di latta e rimandarono ad oggi l’operazione.

La bandiera in possesso della polizia.

Il Questore, nel pomeriggio d’oggi, ha disposto che alcuni operai specialisti ritentassero la prova onde impossessarsi del vessillo.
Gran folla ha assistito all’… esperimento.
Gli operai mediante una scala Ponte piazzata sulla strada, sono riusciti, operando abilmente, a giungere fino all’altezza dei fili.
La folla ha seguito l’operazione come semplice spettatrice. Alla fine gli operai sono riusciti a staccare la lastra di bandone foggiata a bandiera che però è caduta in acqua.
Una squadra di agenti con funzionari a bordo di una barca, si recavano là dove l’oggetto era caduto e dopo brevi ricerche riuscivano a recuperarlo.
La polizia aveva spiegato un largo apparato di forza.
Non si è verificato alcun incidente.

Appurata dunque la cosiddetta verità storica, può essere interessante considerare le narrazioni più conosciute dell’episodio che, nella loro contraddittorietà, si sovrappongo ad alcuni episodi analoghi, avvenuti negli stessi luoghi, ma in tempi diversi.
Infatti, pochi mesi prima, per festeggiare la vittoria elettorale socialista, «sugli Scali delle Cantine, un marinaio della marina mercantile, salito col mezzo di una fune all’altezza del filo conduttore della luce elettrica, vi stendeva sopra un drappo rosso» («Gazzetta livornese, 18-19 maggio 1921») e il 30 agosto 1930, come riferisce un rapporto di Questura, una bandiera rossa con falce e martello venne appesa sugli Scali del Pontino.
Un primo racconto lo troviamo nell’intervista al comunista Eletto Allegri, classe 1903, raccolta da Iolanda Catanorchi a metà anni Settanta, secondo il quale l’episodio era avvenuto il primo maggio del 1925 o 1926, quindi in pieno regime fascista, e collegata alla figura di Ilio Barontini, segretario della federazione livornese del Partito comunista d’Italia, indicato come il “regista” dell’iniziativa, mentre invece non vi era alcun accenno all’esecutore materiale del gesto, attribuito anzi ad un generico «noi»:

il primo maggio era proibito e allora noi decidemmo di fare qualcosa per il primo maggio. In quell’occasione, ma non mi ricordo bene se era il 25 o il 26, quella data lì di sicuro, ci organizzammo […] si mise una bandiera rossa attraverso dalla fortezza ai fossi del Pontino, dalla fortezza nuova, al centro del fosso, con un cavo. Questa bandiera rossa, lui pensò, sai Barontini ci diceva tutto di fare queste cose, questa bandiera rossa fu messa ma non di stoffa, era un pezzo di lamiera pitturato con il minio e la falce e martello. Barontini disse “vedrete che questa non la spostano”; si mise questa cosa […] E la mattina poi ti puoi immaginare la sorpresa degli operai, delle guardie, a vedere queste cose qui. Noi pensammo al nostro rione, io ero del rione Pontino-San Marco dove abitava Barontini […] mi ricordo appunto l’episodio di questa bandiera; venne i pompieri, la polizia; i pompieri in mezzo con la barca a motore con delle torce cercavano di bruciarla, ma invece si anneriva, diventava rossa e nera e allora dovettero venire con la scala porta, levarla, fare un sacco di storie. Barontini soddisfatto.

Una seconda versione, è quella trasmessa da Mauro Nocchi (1934 – 2020), figlio del militante comunista Alcide e lui stesso dirigente del PCI. Il testo, risalente agli anni Novanta ed in seguito rielaborato, riprende in parte la testimonianza di Allegri, raccolta da Catanorchi, e coincide col racconto di De Santi, con l’aggiunta di qualche colorito dettaglio ripreso dalla narrazione popolare e forse ascoltato dal padre. Anche in questo caso, l’episodio è collocato in pieno Ventennio e si sostiene che la bandiera sarebbe stata portata ed esposta a Roma, alla Mostra della Rivoluzione fascista del 1932:

Negli anni 30, in pieno regime fascista, a Livorno, seppure in modo clandestino, il sentimento antifascista e di ribellione alla dittatura fascista era ancora molto forte nella gente. Nel notte del 1° maggio si compì un atto memorabile sul Pontino. Un atleta mise un cavo tra la Fortezza Nuova e l’ultima casa del Pontino con appesa una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore. Si chiamava Danilo Bugliesi ed era un compagno omosessuale, e solo per questo era discriminato. E l’hanno picchiato tante volte i fascisti perché era omosessuale e perché era comunista. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase li per giorni. E quando i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra dei cimeli della rivoluzione.
Quel mattino molte persone radunate lungo le spallette dei fossi sugli Scali delle Cantine, gioivano per l’accaduto, e mentre la Polizia con l’aiuto dei pompieri si davano un gran da fare per toglierla, qualcuno dietro le finestre socchiuse fischiettava “Bandiera Rossa”. Le persone che assistettero all’insolito spettacolo, spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera oppure scoprire i fringuelli che cantavano dietro le finestre, correndo qua e la andò nel pallone […] E di questi episodi la storia di Livorno ne è piena…

Una terza versione è quella raccontata da Luigi De Santi, classe 1919, dirigente della Società di Cremazione, intervistato da Catia Sonetti nel 2001. Per evidenti motivi anagrafici, neppure De Santi poteva essere stato testimone dei fatti. Per questo, non indica alcuna data, descrive una bandiera “anacronistica” e nell’indicare Danilo Bugliesi come il principale autore dell’azione, lo ritiene imparentato con una famiglia benestante e lui stesso commerciante in preziosi.

A Livorno c’era quella bandiera di quello, che poi nella vita privata era un diverso. Però […] era un atleta e mise un cavo tra la Fortezza e l’ultima casa del Pontino, una bandiera di metallo, che poi fu la bandiera che fu il primo simbolo del Partito comunista dopo la liberazione. Una bandiera rossa con falce e martello e stella e sotto il tricolore […] Lui era un compagno omosessuale e a quel tempo c’era la mentalità che un omosessuale era un uomo di terza qualità. Invece era un uomo intelligente, commerciava in oro, brillanti, apparteneva alla famiglia Galli-Marchini, i padroni della zona Pontino che aveva magazzini nella zona degli stracci. Si chiamava Danilo Bugliesi e l’hanno picchiato tante volte povero figlio, e perché era omosessuale e comunista, per tutte e due. Lui con altri attaccarono questa bandiera che poi rimase lì dei giorni, e quando poi i fascisti poterono averla in mano, la portarono a Roma alla mostra sui cimeli della rivoluzione.

Per la cronaca, esiste pure una quarta versione, la più fantasiosa, quella di Umberto Vivaldi, portuale comunista classe 1940, riportata nel libro Livornesi! Storie popolari, pubblicato nel 1998, in cui il fatto del 1921 è diventato un episodio della Resistenza, tra folklore e maldestra rimasticatura delle precedenti narrazioni:

Bugliesi e Galli del rione San Marco Pontino, fecero cucire dalle loro donne, scampoli di stoffa rossa, così che divenne fuori una gigantesca bandiera. La notte del primo maggio, sugli scali delle Cantine, la legarono con una corda sul cavo d’acciaio che dalla Fortezza Nuova attraversa il fosso fino ai caseggiati. Quel mattino, molte persone radunate lungo le spallette dei fossi, gioivano per l’accaduto. Mentre la polizia con l’aiuto dei pompieri si dava da fare per toglierla, alcuni antifascisti da dietro le finestre socchiuse fischiavano Bella Ciao. Le persone che assistevano all’insolito spettacolo spontaneamente applaudirono. Il gerarca fascista, non sapendo se fosse più importante togliere la bandiera, oppure scoprire i fringuelli che fischiavano Bella Ciao, correndo qua e là andò nel pallone.

Se questa è la leggenda, quel Danilo Bugliesi, generalmente indicato come il principale artefice dell’azione dimostrativa, è stata una persona reale: nato a Livorno il 30 settembre 1903 e deceduto il 19 settembre 1955; figlio di Agostino e Annita Crovatti, nonché appartenente – seconda una nota di Questura del 1933, ad una «famiglia di pregiudicati e sovversivi».
Infatti, il padre Agostino, classe 1864, facchino, risultava schedato nel Casellario politico centrale come anarchico sin dal 1903, mentre il fratello minore Primo (classe 1906) nel 1930 avrebbe subito una condanna per tentato espatrio clandestino e nel 1933 una diffida in quanto «professa idee comuniste» e «per l’opera sovversiva spiegata nel passato».
Anche Danilo era stato “attenzionato” dalla polizia, come si evince da una confusa nota della Questura di Livorno, datata 9 ottobre 1927, che oltre a farci sapere il mestiere (facchino e, successivamente, lavapiatti a Roma) lo indicava in questi termini: «di cattiva condotta morale politica. Egli sebbene non abbia precedenti politici in questa città, prese parte nel passato a manifestazioni simpatizzando coi comunisti […] pure nell’epoca dei moti rivoluzionari rossi, partecipò a tutte e azioni del genere e per molto tempo conservò idee comuniste, e simpatizzante del partito anarchico di cui fa parte il di lui padre».
In aggiunta, per avvalorare lo stigma morale, veniva riferito che «durante il servizio militare, mentre si trovava circa 2 anni orsono in licenza, fu tratto in arresto perché sospetto reato di pederastia passiva poi prosciolto dal reato addebitato».
Riguardo il suo diretto coinvolgimento nella collocazione della bandiera non abbiamo riscontri, ma la residenza di Danilo Bugliesi appare indicativa e avvalora la fondatezza dei “si dice”. Infatti, egli abitava sugli Scali del Pontino n. 3, piano primo, in un edificio demolito nel 1948, oggi corrispondente al caseggiato dove si trova la Farmacia S. Marco. Quindi, corrisponderebbe proprio a «l’ultima casa del Pontino» indicata dal De Santi. Inoltre, non è certo difficile supporre che Danilo potesse contare sulla complicità familiare – piuttosto che su quella di qualche struttura politica – visto che, oltre sul padre e sul fratello, poteva contare sullo zio paterno, Pietro Bugliesi (1862 – 1928), abitante a due passi, ossia sugli Scali delle Cantine al n. 9 (l’attuale civico 78). Anche lui, facchino, era schedato come anarchico nel Casellario politico centrale sin dal 1902 e nel febbraio 1922, sarebbe stato arrestato, a seguito di perquisizione domiciliare, per detenzione di una rivoltella non denunciata («Gazzetta livornese», 16 e 17 febbraio 1922).
Frammenti di un sovversivismo evocato a posteriori a simbolo di un’opposizione collettiva od organica al partito, ma sovente espressione della rivolta informale di sodalizi familiari e individualità per troppo tempo dimenticate.

Fonti archivistiche

Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Agostino;
Archivio Centrale di Stato, CPC, Busta 888, Bugliesi Pietro Paolo Garibaldo Dionisio;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A8, Busta 1384, Fasc. 19, Bugliesi Primo;
Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, A1, Busta 45, 1927, Fasc.128, Bugliesi Danilo.




Uno scritto giovanile di Ferdinando di Targetti

Proponiamo, con lievi modifiche, ai lettori di ToscanaNovecento il testo di un intervento tenuto il 7 dicembre 2023 presso la Biblioteca Roncioniana di Prato per illustrare il contenuto di uno scritto giovanile di Ferdinando Targetti.

Ferdinando Targetti è un nome ben noto a chi si occupa di storia del movimento operaio e socialista. Nato a Firenze nel 1881, Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, sindaco della città all’epoca del regicidio, fu anche presidente della Confindustria), maturò assai presto la scelta di campo socialista, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato (1912-1914) e venne poi eletto deputato alle politiche del 1919. Antifascista fermo e coerente, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata «notte di San Bartolomeo» fiorentina (3 ottobre 1925) e dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di battersi contro il regime. Nel secondo dopoguerra fu vicepresidente della Costituente e successivamente della Camera dei deputati (carica dalla quale si dimise nel 1953 in segno di protesta contro la cosiddetta «legge truffa»). Negli anni del conflitto egli aveva maturato il convincimento che l’unità proletaria, intesa come costituzione di un partito unico dei lavoratori comprendente socialisti e comunisti, fosse la condizione imprescindibile per la difesa della pace, la conquista del potere e la realizzazione del socialismo. Socialismo che per lui significava superamento del capitalismo, il che spiega il suo rifiuto del cosiddetto centrosinistra organico e l’adesione al Partito socialista italiano di unità proletaria nel 1964. Morì a Milano quattro anni dopo.

L’opuscolo che costituisce il tema di questo intervento fu pubblicato da Targetti nel 1902, all’età di ventun anni: a quanto ci risulta, la Biblioteca Roncioniana è l’unica in tutta Italia a possederne una copia. Si tratta di uno scritto d’occasione – composto per le nozze della cugina Emma Indri col professor Mariano Desideri – che si intitola La nuova tendenza della nostra letteratura. Appunti critici: in esso Targetti delinea gli stadi di sviluppo della letteratura italiana dal Risorgimento in poi.

Targetti comincia con l’osservare che, nel periodo risorgimentale, la letteratura italiana aveva avuto un «carattere eminentemente politico», dato che il problema della cacciata dello straniero e della realizzazione dell’unità nazionale era allora di gran lunga il più importante ed occupava anche la mente e l’animo degli artisti.
Conclusosi il Risorgimento – osserva l’Autore – e venuta meno la tensione ideale che lo aveva animato, la nostra letteratura attraversò un periodo di crisi, caratterizzato da un’evidente carenza sul piano dei contenuti e dal prevalere di motivi intimistici e di atmosfere languidamente sentimentali: Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Giacomo Zanella (cui si deve l’ode Sopra una conchiglia fossile) ed i tanti epigoni di Alessandro Manzoni sono i rappresentanti di questa fase di decadenza che indusse il pubblico italiano a rivolgersi ad opere di autori stranieri, in primo luogo francesi (ed infatti, in quel torno di tempo, non era infrequente trovare nella biblioteca di tante famiglie, anche di livello culturale non elevato, opere di autori transalpini, magari in un’edizione a dispense, a cominciare dai Miserabili di Victor Hugo). Dalla letteratura francese – prosegue Targetti – presero spunto anche i poeti ed i romanzieri italiani, che cominciarono a svolgere nuovi temi traendo ispirazione dai fatti concreti ed umani ed inaugurando così una tendenza al reale che diede nerbo alle loro opere. Fra gli esempi del nuovo indirizzo letterario spiccava il nome di Giovanni Pascoli, che sentì il bisogno di ispirarsi ad avvenimenti correnti (come, ad esempio, la morte di William Ewart Gladstone – nella poesia La quercia d’Hawarden – o l’assassinio di Elisabetta d’Austria, avvenuto nel 1898 per mano dell’anarchico Luigi Lucheni – nella poesia Nel carcere di Ginevra, contenuta in Odi e inni) ma anche il romanzo (con Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro, Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana ed Il vecchio della montagna di Grazia Deledda) palesò la stessa tendenza realistica. Da questo filone letterario di matrice francese, ispirato ai principi del realismo, scaturì poi un filone più propriamente sociale: lo spettacolo fornito dallo sfruttamento degli operai e dei contadini fece nascere in alcuni scrittori un vero e proprio odio per la società, che si tradusse in un aperto invito alla rivolta, mentre in altri generò un profondo desiderio di pace, di apertura verso le esigenze del popolo ispirata all’idea di fratellanza. Del primo gruppo facevano parte Giovanni Cena (Gli ammonitori), Lorenzo Stecchetti (Postuma) e Mario Rapisardi (Lucifero), del secondo Ada Negri, Annie Vivanti ed alcuni minori. Tutto questo – concludeva l’Autore – induceva a ritenere che in futuro la letteratura italiana avrebbe avuto «un contenuto in prevalenza sociale» e che «il valore delle manifestazioni artistiche [sarebbe stato] … determinato dall’utilità sociale».

Lo scritto di cui parliamo non è particolarmente originale e contiene delle affermazioni opinabili (ovviamente il fatto che un artista parteggi per i più deboli e che le sue opere abbiano un contenuto sociale non è di per sé sufficiente a garantire la qualità della sua produzione: Targetti trascura a questo proposito l’insegnamento di Francesco De Sanctis – che certamente non ignorava – a proposito dell’arte come contenuto formalizzato, come perfetta sintesi di contenuto e forma), ma, cionondimeno, esso è di grande interesse per lo storico. In parte perché esso costituisce una prova della vastità della cultura e degli interessi di Targetti (che qui non si occupa né di politica né di diritto, come in altri suoi lavori), ma soprattutto perché consente di far luce su un punto finora rimasto oscuro nella biografia politica del Nostro, cioè il momento della sua adesione al socialismo: nell’opuscolo, infatti, non solo Targetti mostra di apprezzare l’indirizzo realistico di parte della nostra letteratura, in accordo con i principi del marxismo (che dà una valutazione positiva dell’arte realistica in quanto essa, col suo contenuto di verità, rappresenta la realtà com’è effettivamente e non come la dipinge la classe dominante), ma afferma anche con chiarezza che la letteratura stessa sarebbe stata in futuro strettamente legata alle trasformazioni socioeconomiche del Paese, rifacendosi con ogni evidenza a quanto sostenuto da Marx e da Engels a proposito del rapporto fra struttura e sovrastruttura. In altre parole, l’opuscolo in questione è un lavoro scritto da un marxista: si può pertanto affermare con ragionevole certezza che nel 1902 Targetti, poco più che ventenne, avesse già maturato la sua adesione al marxismo e, verosimilmente, al Partito socialista. Il documento posseduto dalla Biblioteca Roncioniana consente quindi di aggiungere un altro importante tassello alla storia del movimento socialista in città.




Bandiere sovietiche, ritratti di Lenin e altri cimeli

Nell’ottobre 2023 si è avviato alla sua conclusione il progetto di ricerca promosso dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia “L’identità comunista: il PCI in Toscana e il mito dell’URSS”. Il progetto, realizzato grazie al contributo della “Presidenza del Consiglio dei Ministri. Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni”, ha inteso analizzare e documentare il radicamento del mito sovietico entro il Partito Comunista Italiano in Toscana, dalla data della sua fondazione fino al suo scioglimento. Il libro fotografico Il mito sovietico nel PCI in Toscana, edito
da ISRPT Editore, è il frutto tangibile del suddetto lavoro di ricerca: a cura di Andrea Borelli, il volume riunisce documenti, articoli e foto che richiamano, per l’appunto, quel mito sovietico di cui il PCI e i suoi militanti toscani erano imbevuti, a testimonianza della loro forte connessione politico-sentimentale con l’URSS.
Avendo avuto il piacere di collaborare a quest’opera, in questa sede andrò ad approfondire il “pezzo” di ricerca da me curato, ovvero la raccolta delle fonti iconografiche: fonti che, nel volume, sono confluite in maniera particolare nella sezione Cimeli e souvenir, in quanto il mio obiettivo è stato quello di “catturare”, fotograficamente parlando, oggettistica a tema sovietico dei generi più disparati. Ho quindi deciso di indagare, in primis, sulla presenza di eventuali cimeli sovietici nelle Case del popolo e nei Circoli Arci della Provincia di Pistoia, limitatamente alla zona della piana. Case del popolo e Circoli, spesso, hanno infatti ospitato le sezioni e le cellule del PCI: quali luoghi migliori, dunque, per andare a caccia di memorabilia che richiamassero il collegamento fra PCI e URSS? E, in effetti, nonostante siano ormai passati più di tre decenni dalla Bolognina, posso anticipare che qualche traccia di questo legame è rimasta proprio in quelle costruzioni che dell’attività politica del PCI frequentemente furono teatro.
La mia esplorazione è dunque iniziata coinvolgendo, in totale, una quarantina di Case del popolo e Circoli: c’è purtroppo da dire che, nella grande maggioranza dei casi, i cimeli “del tempo che fu” sono andati perduti nel corso degli anni (vuoi per traslochi, vuoi per rimaneggiamenti dei locali, vuoi per la delusione portata, fra gli attivisti, dalla fine del PCI dopo la cesura della Bolognina). Ho infatti rinvenuto oggetti a tema con la mia ricerca solo in sette Case del popolo e Circoli Arci. Si tratta delle Case del popolo di Tobbiana e Fognano (Comune di Montale), del Circolo Rinascita di Agliana, della Casa del popolo di Bottegone, del Circolo Garibaldi, del Circolo Niccolò Puccini di Capostrada e del Circolo di Iano (tutti siti nel Comune di Pistoia). Purtroppo, per motivi di spazio, non tutti questi Circoli e Case del popolo hanno trovato spazio tra le pagine de Il mito sovietico nel PCI in Toscana; ma, nonostante ciò, tutta l’oggettistica a tema sovietico da essi posseduta è stata fotografata e poi catalogata nel fondo archivistico appositamente creato dall’ISRPT in occasione di questo progetto di ricerca.
È dunque iniziata una sorta di “caccia al tesoro”, al termine della quale sono stati riportati alla luce oggetti di vario tipo a tema URSS: gagliardetti, bandiere, libri, busti, quadri, cartoline e manifesti; l’elemento iconografico ivi raffigurato più di frequente è l’immagine di Lenin, assurto a una sorta di icona pop del comunismo (di profilo, di fronte, realistico, stilizzato e così via). Nella maggior parte dei casi, questi “antichi tesori” sono stati conservati nelle stanze delle Case del popolo e dei Circoli pur essendosi perso, nel tempo, il ricordo della loro provenienza, andata dispersa nel lungo periodo trascorso dal secondo dopoguerra a oggi. Ciò che è sicuro è che ho riscontrato ovunque, di fronte alla mia richiesta di “riesumare le vestigia del passato”, una grande voglia di partecipazione e una certa gioia nell’avere l’occasione di ridonare valore a un patrimonio, ormai storicizzato, testimoniante la passione politica e il legame dei comunisti toscani nei confronti dell’Unione Sovietica. Le bandiere, i quadri, i gagliardetti e tutti gli altri oggetti a tema sovietico non sono infatti solamente delle “cose”, ma sono invece vere e proprie rappresentazioni simboliche di un omaggio a un Paese – l’Unione Sovietica – che, per molti militanti del PCI, rappresentava niente di meno che la concreta realizzazione dell’utopia social-comunista. Spero dunque che questo progetto possa fungere da apripista per un ulteriore lavoro di ricerca sul tema che riesca a coprire l’intera Provincia di Pistoia, in quanto sono pronta a scommettere che altre “reliquie sovietiche” siano in attesa di essere scoperte, proprio nelle tante Case del popolo e nei Circoli Arci disseminati nel nostro territorio. Un patrimonio disperso che, senza dubbio, andrebbe valorizzato come merita, in quanto testimonianza tangibile di quel filo rosso che, per lungo tempo, ha legato la nostra Regione con il Paese dove si pensava – col senno di poi, forse ingenuamente –che la “futura umanità” si fosse incarnata, faro di civiltà a cui tendere e ambire, per un domani e un avvenire migliore.

Daniela Faralli collabora con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, di cui è membro del consiglio direttivo. Fa parte del comitato redazionale della rivista “Farestoria” ed ha lavorato nell’ambito del progetto di ricerca “Il Mito sovietico dell’URSS in Toscana”, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 




La crisi del tessile a Prato

Nel secondo dopoguerra l’industria tessile pratese, dopo la fase della ricostruzione, dovette affrontare, tra il 1949 ed il 1952 circa, una crisi drammatica che si risolse con una profonda modificazione della struttura produttiva, lo smantellamento dei grandi lanifici a ciclo completo e la nascita del distretto industriale. Al superamento della crisi fece seguito un lungo periodo di sviluppo. Tra il 1961 ed il 1981 i principali indicatori economici si mantennero costantemente in crescita: le unità locali, per esempio, che erano 10.700 nel 1971, salirono a 14.700 nel 1981, mentre gli addetti passarono, nello stesso arco di tempo, da 50.000 a 61.000.

Le prime avvisaglie di una nuova crisi, che investì soprattutto il settore del cardato, si manifestarono verso la metà degli anni Ottanta. I suoi effetti furono contenuti grazie allo sviluppo della fase di nobilitazione dei tessuti ed alla possibilità di ricollocare nel terziario parte dei lavoratori rimnasti disoccupati, ma l’inversione del trend positivo era un dato di fatto innegabile: fra il 1981 ed il 1991 i fusi di cardato scesero da 770.000 a 400.000, le unità locali tessili da 14.700 a 10.500 e gli addetti al tessile da 61.100 a 46.200.

La situazione si aggravò negli anni successivi in seguito ad un complesso di cause eterogenee, che per gli industriali erano rappresentate in primo luogo dal costo del lavoro – a loro avviso troppo elevato –, dagli alti oneri sociali, dalla mancanza di infrastrutture adeguate e così via, mentre il sindacato ed il Partito comunista insistevano soprattutto sull’eccessiva frammentazione della struttura produttiva. Valgano al riguardo alcuni dati: a Prato la media dei dipendenti per azienda era pari a 3,7 (e le aziende con più di quindici dipendenti costituivano dunque una minoranza); nel 1999, a parità di fatturato, i lanifici attivi a Biella, il più importante centro laniero italiano, erano cinquanta, nella città toscana cinquecento, molti dei quali strutturati in maniera inadeguata rispetto alle esigenze del mercato. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo l’industria tessile locale, già in seria difficoltà, precipitò in una crisi dalla quale non si sarebbe più ripresa: a determinarla furono l’entrata in vigore dell’euro (1999-2002) – che rese impossibile fare assegnamento sulla svalutazione della lira per ridurre i prezzi in moneta estera dei beni esportati e sostenere così le esportazioni – e l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (11 dicembre 2001), dopo un negoziato durato una quindicina di anni. L’entrata in tale organizzazione consentì al gigante asiatico di usufruire di tariffe più vantaggiose per l’export in cambio di dazi minori sull’import (e del rispetto di una serie di impegni poi in larga parte disattesi). I mercati occidentali furono così invasi da una massa di prodotti cinesi a basso costo, e ciò produsse conseguenze pesantissime per il tessile manifatturiero in Italia e quindi anche per il distretto locale.

Alla fine degli anni Novanta i segnali di sofferenza del settore si moltiplicarono: ai primi di marzo del 1999 gli operai pratesi in attesa di riscuotere la cassa integrazione ordinaria erano cinquemila e lo stillicidio delle chiusure e dei licenziamenti appariva inarrestabile. Ai primi di aprile risultavano in attività duecentosettanta filature per conto terzi (nel 1995 le filature erano trecentottanta e nel 1985 quattrocentocinquanta). Negli ultimi quattro anni avevano chiuso i battenti ben sessanta aziende di cardato. La struttura economica di Prato stava insomma subendo una trasformazione irreversibile, caratterizzata da una progressiva riduzione del peso del comparto tessile.
Ma questo non significava che fosse in crisi l’economia cittadina: nel dicembre del 2002, in occasione del tradizionale incontro di fine anno con i giornalisti, il presidente della Provincia, Daniele Mannocci, e l’assessore al lavoro, Fabio Giovagnoli, rilevarono che, pur essendo indiscutibile la gravità della crisi in cui il tessile si dibatteva, nel periodo gennaio-novembre l’occupazione era aumentata di 3.882 unità e che tale aumento si doveva principalmente allo sviluppo di settori diversi da quelli tradizionali. Prato si stava insomma muovendo verso un nuovo assetto produttivo, verso lo stadio postindustriale, contraddistinto dall’incremento delle attività terziarie e dalla diminuzione degli addetti alle attività industriali. In questo quadro, il tessile non poteva certo riconquistare le posizioni perdute. Ne fanno fede alcuni dati resi noti ai primi di giugno del 2023, secondo i quali dal 2001 al 2021 le aziende tessili sono passate a Prato da 4.301 a 1.816 (-57%), mentre il numero degli addetti del comparto è sceso da cinquantamila a trentacinquemila.

Nella primavera del 2000 la crisi che attanagliava il tessile a Prato raggiunse anche il Lanificio Pecci, l’unico che, a quell’epoca, aveva ancora mantenuto il ciclo completo di lavorazione: la vicenda del Pecci può essere considerata come l’emblema di quanto stava allora accadendo in città.
La ditta era all’epoca una società in accomandita semplice con un fatturato di circa ottanta miliardi. A dirigerla era Pierluigi Marrani, affiancato da Enrico Biguzzi, Fabio Faggi, Piergiuseppe Gremmo ed Andrea Bini (che si occupava delle trattative con il governo per le commesse militari). La proprietà reagì alle difficoltà puntando sull’abbattimento dei costi attraverso i licenziamenti: al Pecci erano in forza circa trecento lavoratori ed i licenziamenti, annunciati il 27 aprile all’assemblea degli operai, erano trentacinque, concentrati nei seguenti reparti: filatura a pettine, tessitura, tintoria e rifinizione. Non erano previsti tagli fra gli impiegati. Le motivazioni addotte dall’azienda per giustificare il ridimensionamento erano il progressivo calo degli ordini (in particolare delle commesse militari) e l’onerosità dei costi fissi. L’obiettivo dichiarato era quello di ritrovare quanto prima l’equilibrio di bilancio, ma la mancanza di un preciso piano di rilancio preoccupava molto i lavoratori (il fatto di avere almeno in parte intercettato il malcontento degli operai per i licenziamenti che si profilavano all’orizzonte permise all’Unione libertaria pratese – un sindacato di ispirazione anarchica che aspirava a diffondere fra i lavortatori il concetto di autorganizzazione – di ottenere il 15% dei voti in occasione delle elezioni per il rinnovo della Rsu aziendale svoltesi il 7 febbraio 2000).
Il 24 maggio i lavoratori del Lanificio scioperarono dalle dieci alle undici per riunirsi in assemblea. Al termine della discussione fu approvato un documento in cui si chiedeva di proseguire il dialogo con la direzione che, fino ad allora, era stato infruttuoso (da un incontro svoltosi alcuni giorni prima non erano infatti emerse novità significative, tranne una generica proposta da parte dell’azienda di ridurre i tagli nella filatura a pettine). Non vennero proclamate altre ore di sciopero. Il 18 luglio le parti raggiunsero una soluzione di compromesso per la chiusura della vertenza. L’ipotesi di accordo fu approvata all’unanimità da un’assemblea svoltasi il 21: i lavoratori da porre in mobilità – che da trentacinque si erano ridotti a ventiquattro nel corso delle trattative – sarebbero stati tredici (la maggior parte dei quali “volontari”: nove lavoratori, fra cui alcune donne vicine all’età pensionabile, si erano infatti detti disponibili a lasciare il posto). I tagli si sarebbero concentrati nella tintoria matasse. L’accordo finale, sottoscritto il 27 luglio nella sede dell’Unione industriale pratese (Uip), recepiva in sostanza i termini della bozza di accordo. Esso prevedeva tredici licenziamenti (di cui dieci “volontari”, cioè accettati in cambio di incentivazioni all’esodo). I tagli erano concentrati nei reparti della filatura a pettine e della tintoria matasse, che venne esternalizzata. La proprietà si impegnava infine ad effettuare investimenti nel reparto rifinizione.
Ma il raggiungimento di questo accordo significò per i lavoratori del Pecci soltanto una tregua. Nell’estate del 2001 cominciarono difatti a circolare voci sempre più insistenti di ulteriori tagli al personale: il 25 luglio i sindacati furono informati delle intenzioni dell’azienda nel corso di un incontro svoltosi all’Uip. Verso la metà di settembre, la ditta, che contava allora duecentocinquanta dipendenti e sviluppava un fatturato di cento miliardi, aprì la procedura di mobilità per ben settantatré lavoratori. I tagli riguardavano tutti i reparti, ad eccezione dell’orditura, ed erano così distribuiti: cinquantadue in filatura a pettine (della quale era previsto lo smantellamento, a meno che non si fosse trovato un nuovo socio di minoranza cui affidarne la gestione), cinque in tessitura, due in tintoria, sette in rifinizione ed altrettanti nei servizi generali. La proprietà presentò contestualmente un piano di ristrutturazione che contemplava dieci miliardi di investimenti in due anni e la divisione dell’azienda in due società: una di filati per maglieria diretta da Marrani, ed un’altra, a capo della quale sarebbe andato Filippo Busi, nipote di Alberto Pecci, che, pur non abbandonando il settore tradizionale della drapperia, avrebbe puntato su una linea di tessuti donna di qualità medio-alta.
Le organizzazioni sindacali proclamarono per il 19 settembre un’ora e mezzo di sciopero con assemblee alla fine di ogni turno, dichiarandosi assolutamente contrarie alla chiusura della filatura a pettine. La nuova vertenza era molto più complicata, rispetto a quella conclusasi con l’accordo del 27 luglio 2000, perché, stavolta, pochi fra gli operai in esubero erano in procinto di accedere alla pensione e nella filatura a pettine (che la ditta voleva assolutamente chiudere, giudicandola non più competitiva) erano in forza molte donne, la cui ricollocazione sul mercato del lavoro non sarebbe certo stata semplice. Secondo l’azienda, i tagli erano funzionali alla riconversione su un prodotto per donna di qualità medio alta ed alla necessità di riprendere la produzione di divise militari in Romania, dove era stato aperto da poco un ufficio (le commesse militari, perdute a causa della concorrenza di altri paesi, erano state pari al 15% del fatturato dell’azienda nel biennio precedente). Il sindacato chiedeva che la filatura non cessasse l’attività, una verifica del numero degli esuberi ed infine la riqualificazione ed il riassorbimento in altre ditte dei licenziati.
Il primo incontro fra le parti, svoltosi il 21 settembre, ebbe un esito interlocutorio: la ditta si disse disponibile a cercare di ricollocare le persone che avrebbero perso il posto di lavoro, ma ribadì la volontà di chiudere la filatura. Il mondo della politica si interessò della grave controversia, ma senza ottenere risultati concreti. Il 25 settembre i lavoratori del Pecci scioperarono per un’ora e mezzo e tennero un’assemblea davanti ai cancelli dello stabilimento, confermando la loro recisa opposizione alla chiusura della filatura a pettine. Il 5 ottobre ebbe luogo un nuovo incontro fra l’azienda ed i sindacati, che però non fece registrare alcun passo avanti nella trattativa. In seguito al fallimento di questo incontro, tre giorni dopo gli operai del Pecci si astennero per un’ora e mezzo dal lavoro, tenendo un’altra assemblea fuori dai cancelli della fabbrica.
Le parti tornarono ad incontrarsi il 17 ottobre e la difficile vertenza giunse finalmente ad un punto di svolta. Il giorno successivo il sindacato informò i lavoratori dei termini dell’ipotesi di accordo siglata con la controparte: gli esuberi scendevano da settantatré a trenta ed erano così ripartiti: diciotto in filatura, sei in rifinizione, uno in tintoria e cinque tra gli impiegati. I lavoratori da collocare in mobilità sarebbero stati scelti – in accordo con quanto previsto dalla legge 23 luglio 1991, n. 23 (art. 5) – tenendo conto di tre parametri: il carico familiare, il maggiore o minore grado di anzianità e le esigenze tecnico-produttive ed organizzative. La filatura a pettine non sarebbe rimasta all’interno della fabbrica, ma, conformemente al piano di ristrutturazione aziendale, sarebbe passata, dal 1° gennaio 2002, alla Pecci filati (una nuova azienda, diretta da Marrani, che sarebbe nata dallo scorporo delle attività filati dal Lanificio Pecci). La Pecci filati, più piccola della filatura che faceva parte del vecchio lanificio a ciclo completo, avrebbe lavorato non solo per l’altra azienda prevista dal piano di ristrutturazione (quella specializzata nella produzione di tessuti, di cui avrebbe preso le redini Filippo Busi) ma anche in conto terzi. L’Uip si impegnava formalmente a favorire la ricollocazione degli operai licenziati (quest’ultimo era un forte elemento di novità in quanto a Prato la parte datoriale non aveva mai assunto in precedenza un impegno del genere). Dopo l’approvazione della bozza di accordo da parte dell’assemblea dei lavoratori, l’intesa definitiva fu siglata il 29 ottobre da Marrani per la ditta, da Manuele Marigolli per la Cgil, da Calogero Aronica per la Cisl e da Angelo Colombo per la Uil. Così, in poco più di un anno, tra uscite volontarie e licenziamenti, la proprietà era riuscita a ridurre in modo consistente il numero dei dipendenti, ed anche l’intesa sottoscritta il 29 ottobre poteva dirsi, dal suo punto di vista, soddisfacente dato che, stando a quanto fonti aziendali avevano lasciato trapelare, pur avendo parlato di settantatré esuberi, il vero obiettivo della ditta era quello di ottenerne fra i trantacinque ed i cinquanta.
Ma la serie dei tagli non era finita. Come si è accennato, dal piano di ristrutturazione aziendale del 2001 erano scaturite due ditte, e precisamente la Pecci filati (diretta da Marrani) e la Pecci tessuti (diretta da Busi). Ai primi di dicembre del 2002 quest’ultima informò le organizzazioni sindacali della necessità di ridurre il personale a causa della diminuzione del fatturato. Stavolta gli esuberi erano una ventina e sarebbero stati distribuiti in tutti i reparti, ma, stando alle voci che circolavano, essi si sarebbero concentrati soprattutto in tessitura ed in tintoria. Quanto alla tessitura (anche se negli ultimi anni erano stati acquistati nuovi telai, assunti nuovi tecnici e si era cominciato distinguere la tessitura vera e propria da quella a campioni), sarebbe stato eliminato il turno di notte. La tintoria in rocche era invece destinata alla chiusura: il lavoro scarseggiava e nell’arco di una giornata lavorativa veniva tinto solo qualche chilo di filato, a fronte di una potenzialità di quattromila chili al giorno. I tagli avrebbero forse interessato anche la tintoria in pezze, la rifinizione e gli uffici. Era questa un’altra tappa del processo di disimpegno della proprietà dal settore tessile, in linea con la strategia di diversificazione già avviata negli anni Sessanta con l’acquisto di una quota rilevante della Segnalamento marittimo ed aereo, una ditta che produceva radar per uso militare.
Il processo di ridimensionamento dell’azienda si concluse nel giro di qualche anno col suo smantellamento, reparto dopo reparto. Oggi – anche se la Pecci filati è ancora aperta a Capalle e, con un numero di dipendenti stimabile fra venti e quarantanove, rientra nella classe di fatturato che va dai tredici ai venticinque milioni di euro – la famiglia Pecci ha interessi in vari settori ed il tessile non è più il suo core business. Di particolare rilievo è il ruolo di Alberto Pecci all’interno della El.En., una società per azioni con sede a Calenzano che si occupa della produzione di sistemi laser: Pecci possiede infatti il 10,40% delle azioni e siede in consiglio d’amministrazione. Per avere un’idea dell’importanza di questa azienda, basti pensare che, fondata a Firenze nel 1981, la El.En. è oggi capofila di un gruppo formato da più di trenta imprese sparse in tutto il mondo: al 31 dicembre 2020 il gruppo vantava un fatturato consolidato di circa quattrocentodieci milioni di euro, un utile netto consolidato di venti milioni ed impiegava circa milleseicento dipendenti, di cui settecento in organico alla capogruppo.

 




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

Sitografia:

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Archivi:
BFS ISSORECO, Archivio della Federazione provinciale pisana di Democrazia Proletaria,
BFS ISSORECO, Carte «Consiglio di Fabbrica Guidotti»




Razzia e repressione

Nonostante inizi, il giorno 2, con la dichiarazione con cui il Comitato toscano di liberazione nazionale aderisce agli obiettivi politici sanciti dal Comitato nazionale di liberazione nazionale, affermando un’idea di guerra di liberazione quale lotta politica, e non solo fatto militare, per l’affermazione di una nuova Italia, il mese di novembre svela ai fiorentini tutto il peso, la gravità e la crudeltà dell’occupazione nazista e del collaborazionismo fascista.

La città, dopo aver conosciuto il dramma della guerra totale fra le proprie case con il bombardamento alleato del 25 settembre, inizia a conoscere gli effetti violenti del nuovo governo di Salò. I fascisti iniziano la caccia ai nemici, a coloro che qualificano come traditori della nazione, identificata con il fascio littorio, da colpire per vendicare l’onore macchiato dall’armistizio, ma anche per dimostrare alla popolazione e all’alleato tedesco la propria capacità di gestire l’ordine e quindi amministrare il territorio. E non solo le pagine dei propri organi di stampa. Anche perché a capo delle istituzioni vanno esponenti del primo squadrismo, dell’estremismo più radicale, spesso messo ai margini negli anni del ventennio, come il capo della provincia Raffaele Manganiello (prefetto dal 1° e capo della federazione fascista dal 5 ottobre) e Gino Meschiari capo del PNF fiorentino. Questi si appoggiano a gruppi armati come la “banda Carità”, mentre sono riorganizzati con specifici arruolamenti il battaglione “Muti” e la “Decima MAS”; mentre fin da settembre non erano mancati arruolamenti diretti nelle SS italiane a servizio dei nazisti.
Proprio agli uomini di Carità vengono affidati i compiti più spietati della repressione. Questi, peraltro, dopo le prime sconfitte subite nelle settimane precedenti in ottobre, lungo le pendici di Monte Morello, negli scontri con i primi gruppi partigiani, hanno spostato nel contesto urbano il centro della propria azione, privilegiando avversari meno preparati rispetto agli uomini alla macchia, pur nei loro disorganizzati esordi.

Ad inizio novembre, mentre il CTLN è riunito per varare la dichiarazione sulla guerra antifascista, arriva la notizia della cattura del primo Comando militare del Comitato toscano di liberazione nazionale da parte degli uomini di Carità; era composto dal generale Salvino Gritti presidente, col. avv. Leonardo Mastropierro, Aldobrando medici Tornaquinci, ten. col. Guido Frassineti, Paolo Barile, cap. Vasco Baratti, Alessandro Sinigaglia, avv. Adone Zoli; soltanto Tornaquinci e Sinigaglia sfuggono fortunosamente alla cattura.
È una grave sconfitta della Resistenza frutto dell’inesperienza delle pratiche di guerriglia urbana e accredita rapidamente la fama nefasta di carità fra le vie della città. Le conseguenze non sono banali. Solo nella tarda primavera del ’44 si ricostituirà di nuovo un comando militare unitario, mancando quindi per mesi un centro di coordinamento effettivo per le azioni in città (che certo sarebbe stato utile anche a gestire tensioni che pure si erano manifestate anche in ottobre quando i comunisti avevano sottratto agli azionisti numerose armi sottratte precedentemente nei depositi). Pur non venendo mai meno il confronto e la coesione politica nel CTLN, rispetto alla lotta armata in città i partiti portano avanti strategie molto diverse, in primo luogo fra chi agisce e chi no, limitandosi in questa fase ad un’azione politico-propagandistica, pur fondamentale. Fra i primi, gli aderenti al partito d’azione puntano, oltre che sull’assistenza agli ex prigionieri alleati, sulla costruzione di radio clandestine e su un’attività di supporto informativo agli Alleati, alla quale contribuiscono diverse donne che svolgono ruoli essenziali come “staffette”, come Maria Luigia Guaita, Orsola De Cristofaro, Anna Maria Enriques, Ada Tenca, effettuando collegamenti fra le varie cellule del partito e distribuendo le informazioni indispensabili per le attività. Invece, i comunisti organizzano i gruppi di azione patriottica: piccolissimi gruppi armati, composti da uomini di provata fede, pronti a morire per compiere azioni eclatanti di notevole valore simbolico tese a svelare il mancato controllo del territorio da parte di nazisti e fascisti. Loro caratteristica essenziale deve essere la segretezza, necessaria, in caso di cattura, a proteggere l’insieme dell’organizzazione.

Mentre le forze antifasciste devono riorganizzarsi dopo il duro colpo subito, gli uomini di Carità si scatenano contro la comunità ebraica fiorentina. All’alba del 6 novembre l’assalto alla Sinagoga da parte di elementi nazisti e fascisti di via Farini segna l’inizio della “caccia all’ebreo”, agevolata da registri e elenchi prodotti dall’amministrazione fascista a seguito delle leggi razziste del 1938. Ai primi arresti si accompagnano le distruzioni degli arredi del Tempio. Le razzie portano alla cattura di circa 300 ebrei nel corso di tutto il mese, in uno stillicidio di arresti individuali o di piccoli gruppi spesso dovuti a delazioni.
Prima quindi della Carta di Verona, con cui il fascismo repubblicano qualifica come razza nemica gli ebrei, e delle ordinanze effettive con le quali il governo di Salò ne sanciste la repressione, a Firenze si scatena la caccia all’ebreo sulla scia degli stereotipi della propaganda antisemita del Regime e degli atti della sua legislazione razzista. Accanirsi contro gli ebrei significa certamente riqualificarsi di fronte all’alleato nazista, mostrando, in proprio, anche un surplus di violenza e crudeltà, colpendo peraltro soggetti per lo più imbelli e impreparati, quindi senza dover correre rischi. Aspetto non secondario per comprendere come diventino in quelle settimane bersagli prioritari delle azioni degli uomini di Carità e in generale del fascismo.
Ma la spietata caccia agli ebrei che scuote Firenze non si può spiegare senza tener conto di un ulteriore aspetto: la loro cattura si intreccia con il saccheggio dei loro beni, delle abitazioni. In un contesto di povertà e precarietà estreme determinate dalla guerra, ciò alimenta non solo le azioni di gruppi organizzati, mossi da istanze politiche quanto da interessi criminali, come la banda Carità e successivamente l’Ufficio per gli Affari ebraici di Martelloni, sodale del capo della provincia Manganiello, ma anche di singoli individui uomini e donne, vicini di casa, colleghi o dipendenti, che, anche a prescindere da motivazioni ideologiche, non esitano a compiere delazioni e sancire tradimenti spietati che, in cambio di taglie e beni materiali, spingono tanti ebrei fiorentini e nascosti in città sui treni destinati ad Auschwitz.

Proprio la ferocia della caccia antisemita segna la conclusione di quel mese di novembre con l’assalto al Convento del Carmine compiuto da fascisti e nazisti. Come è noto la chiesa fiorentina guidata dal cardinale Elia Dalla Costa, in collaborazione con la stessa Comunità ebraica aveva attivato una fitta rete di protezione. A fronte di chi vendeva vite per pochi denari, vi era chi metteva in gioco la propria per salvarne altre. Una dinamica complessa che univa anche motivazioni diverse (anche economiche), ma che segnava una netta distinzione di campo. Chiese e conventi erano stati da subito al centro di quella strategia di protezione, diventando rifugi preziosi. Una strategia contro cui si scatena la dura repressione fascista. Non a caso la sede dell’Azione cattolica, in via dei Pucci, a due passi dal Duomo, è l’epicentro da cui scatta la seconda razzia, tesa a colpire in primo luogo proprio il comitato ebraico-cristiano attivo in quelle giornate in città, i cui componenti sono arrestati nel pomeriggio del 26 novembre (fra i suoi componenti si ricordano don Leto Casini e il rabbino Nathan Cassuto).

L’assalto e la violazione della clausura del Convento del Carmine nella notte fra il 26 e il 27 novembre pare segnare il culmine di quelle giornate di violenza e brutalità. Neppure il rispetto della sacralità della clausura delle suore salva le donne e i bambini ebrei che lì erano stati nascosti. I reparti nazisti con il sostegno degli uomini di Carità irrompono nelle sacre mura e ne arrestano circa 47/48. Sottoposte al furto di ogni bene, nel terrore più assoluto, saranno detenute in quello stesso luogo fino al 30 novembre, giorno della nota ordinanza del Ministro degli Interni della Rsi Buffarini Guidi contro gli ebrei, sottoposte ad ogni tipo di oltraggio e violenza, anche sessuali. Eroico è il tentativo delle suore di sottrarre alcune delle arrestate a nazisti e fascisti, nonostante le aperte minacce. Poi le donne e i bambini saranno messi sui camion diretti a Verona e da lì, in treno, ad Auschwitz. Tragica analoga sorte, in un contesto di caccia agli ebrei nei conventi individuati come luoghi di rifugio dai nazisti, tocca alle donne e ai bambini nascosti all’Istituto delle suore di San Giuseppe dell’Apparizione in via Gioberti, catturate sempre da tedeschi e uomini di Carità.

La città pareva giacere sotto il giogo della violenza e della repressione. La Repubblica sociale bandiva la chiamata alla leva nel proprio esercito dei giovani fiorentini. Su Monte Morello e sulle alture vicine i gruppi più o meno organizzati iniziavano a riflettere o poi successivamente a organizzare spostamenti verso montagne più lontane, essendo sempre meno sicuro sostare vicino alla città saldamente occupata. L’inverno doveva iniziare. Ma si annunciava già cupo e lungo.