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Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




Strumenti antichi per nuovi fini

Tutti conosciamo Ferdinando Martini, giornalista, scrittore di teatro e soprattutto politico liberale, Ministro dell’Istruzione, delle Colonie e viceré d’Eritrea, le cui carte, acquistate e conservate dalla Biblioteca Nazionale di Firenze e dalla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ci sono giunte fino a noi. Molto meno conosciuta è invece la moglie Giacinta Marescotti, una delle prime suffragiste italiane, il cui coinvolgimento nella battaglia per l’ampliamento del suffragio si coniugò a un altrettanto intenso impegno nella filantropia e nell’assistenza ai bambini con disabilità intellettiva: una figura radicalmente e fieramente autonoma dal marito ma di cui ben poca traccia ci è giunta perché nel 1928, con la morte di Ferdinando Martini, tutte le sue carte andarono distrutte.

Nata a Monsummano nel 1844 da una famiglia di nobiltà antica e consolidata, crebbe insieme ai fratelli minori Alessandro (morto a soli 18 anni) e Teresa. Nel 1866 sposò Ferdinando Martini, che dal padre Vincenzo aveva ereditato tanto il titolo nobiliare quanto le disastrate finanze familiari, vincendo anni di resistenze e preoccupazioni familiari. Nel 1872, al termine di alcuni anni di peregrinazioni (prima a Vercelli, poi a Pisa), la coppia – che aveva ormai due figli: Alessandro e Teresa – si trasferì a Roma, dove già viveva la sorella minore di Giacinta, andata nel frattempo in sposa al principe Ignazio Boncompagni Ludovisi.

Nel suo salotto di Palazzo Simonetti, Giacinta tessé relazioni con ambienti vicini all’Estrema (come allora erano chiamati i gruppi parlamentari ed extra-parlamentari vicini a radicali, repubblicani e socialisti), dando vita a un ambiente ben più radicale di quello di cui si circondò il marito, dal 1878 al 1918 deputato per la Sinistra storica. Nel turbinio dei personaggi convocati e abbandonati dalla vulcanica contessa, i più costanti e assidui furono il meridionalista Giustino Fortunato, il politico socialista Andrea Costa e Sibilla Aleramo.

Si dedicò, insieme alla sorella e all’amica Lavinia Taverna, a patrocinare l’infanzia abbandonata: in questa veste si avvicinò al medico e deputato Clodomiro Bonfigli, prossimo a fondare, nel 1898, la “Lega nazionale per la difesa del fanciullo deficiente”, la prima associazione specificatamente destinata alla tutela e all’educazione dei disabili intellettivi. Membro del consiglio direttivo della Lega, qui conobbe una giovane Maria Montessori, che nel 1899 raccomandò al Ministro Guido Baccelli perché ottenesse la cattedra di Pedagogia generale e speciale nella nuova Scuola magistrale ortofrenica – creata per formare i maestri dei bambini con disabilità intellettiva.

Sociabilità nobiliare e impegno nell’associazionismo benefico, se da un lato potevano configurarsi come un comportamento in linea con un ruolo femminile tradizionale e ampiamente consolidato, dall’altro lato consentirono alla Marescotti di collaudare e strutturare tutta quella rete di relazioni, interessi, contatti che seppe poi riutilizzare nella sua battaglia suffragista. In questo senso, gli strumenti antichi del salotto e della beneficienza trovarono ragione nei nuovi fini dell’emancipazionismo e della costruzione di un “partito femminile”, una formazione politica che riunisse tutte le donne in un’ottica interclassista e interpartitica. Le donne, infatti, tanto per Marescotti quanto per molte altre sue collaboratrici, erano viste come le uniche depositarie di valori – la compassione, l’attenzione verso i più deboli, l’interclassismo – che, con il loro ingresso in politica, avrebbero rinnovato la compagine sociale e nazionale. Questa fiducia quasi palingenetica nel contributo femminile motivò la continua mediazione della contessa monsummanese tra l’anima radical-socialista del femminismo e le correnti moderato-conservatrici, che trovavano il loro riferimento in Maria Pasolini e in Gabriella Spalletti Rasponi, presidente del CNDI (il Comitato Nazionale delle Donne Italiane).

Il coinvolgimento della Marescotti nell’associazionismo femminista, nazionale e internazionale, è documentabile già negli ultimi anni dell’Ottocento, quando aveva ospitato a Palazzo Simonetti Emmeline Pankhurst, leader delle suffragiste inglesi. La discesa in campo fu però compiuta nel 1904, quando il parlamento decise di discutere il disegno di legge per il suffragio femminile presentato dal deputato dell’Estrema Sinistra Roberto Mirabelli. Nell’ottobre 1905 Marescotti fondò a Roma il Comitato pro-suffragio, che in breve tempo, attraverso il collegamento con la sezione lombarda, attecchì in tutte le principali città italiane. Solito riunirsi nei locali di Palazzo Simonetti, il comitato presentò nel febbraio 1907 al Parlamento una Petizione (già depositatavi nel marzo 1906) per richiedere il diritto di voto alle donne che sapessero leggere e scrivere. Frutto di un lungo e complesso lavoro di mediazione tra le anime più radicali e quelle più moderato-conservatrici del movimento, la petizione sembrava concretizzare la possibilità di un “partito femminista”.

L’allestimento, durante il primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane (tenutosi a Roma dal 23 al 28 aprile 1908), di una sessione plenaria sul suffragio femminile, sembrava confermare il rilievo assunto dall’organizzazione e dalla sua presidente, che, nonostante i problemi di salute (i non meglio precisati “mali di petto” che la condussero alla morte il 9 marzo 1912), riuscì a presiedere la seduta. Tuttavia, il tentativo di mediazione della Marescotti e la fiducia nelle istituzioni erano destinati a infrangersi: il primo, sugli scogli delle differenti visioni politiche, sociali e culturali dell’eterogeneo movimento femminista, che, sempre durante i lavori della conferenza romana, si divise durante le discussioni sull’emendamento Malnati per la laicità della scuola elementare; il secondo, nel maggio 1912, poco dopo la morte della contessa, quando la Commissione parlamentare incaricata di studiare l’allargamento alle donne del voto politico diede alla questione un parere negativo.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea, con una tesi sull’istruzione professionale nell’Italia liberale, nel 2015, presso l’Università di Firenze. Ha lavorato alla biblioteca del Consiglio dell’Unione Europea e attualmente insegna a Pescia. Dal 2013 è membro del Consiglio direttivo dell’I.S.R.Pt. Con il Comune di Monsummano e l’ISL Montecatini Monsummano ha curato una mostra documentaria su Italia Donati e Giacinta Marescotti, di cui sta per uscire il catalogo. Tra le ultime pubblicazioni: Da “conquista sociale” a “selezione innaturale”: le illusioni perdute delle classi differenziali in Italia, «Italia contemporanea», 289 (2017); Schools for workers? Industrial and artistic industrial schools in Italy (1861-1914), in P. Gonon, E. Berner (a cura di), History of Vocational Education in Europe, Lang, 2016; Branding of technical Institutes by the State: Italy 1861-1914, in A. Heikkinen, P. Lassnigg (a cura di), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015.

 




Le falegnamerie nell’Alta Val d’Elsa del Secondo Dopoguerra

La zona nord del territorio senese uscì duramente provata dal Secondo Conflitto Mondiale: pesanti  bombardamenti raseso quasi a zero la città di Poggibonsi danneggiando gravemente le infrastrutture e buona parte delle attività produttive [1]. Proprio su quelle rovine, tuttavia, nascerà in tempi rapidissimi una vivace economia, per molti aspetti con caratteristiche del tutto nuove a quella prebellica che spesso, almeno nella zona, era in gran parte legata al mondo agricolo circostante.

È ipotizzabile che il vigoroso sviluppo della produzione del mobile in Valdelsa sia avvenuto grazie ad una serie di fattori già presenti che andarono a legarsi alla particolarissima congiuntura storica. Innanzitutto la diffusione di botteghe artigiane dedite alla lavorazione del legno (mobili, infissi e attrezzi prodotti per il comparto agricolo e viti-vinicolo) era piuttosto sviluppata nell’area, ma costituiva una realtà che operava su piccola scala, a causa della modestia delle commesse, e soddisfaceva soltanto la domanda locale. Tale presenza era stata favorita dalla facilità di reperire la materia prima a prezzi modesti (il pregiato legno di castagno proveniente dal Monte Amiata e il legname più scadente ricavato dai boschi delle colline circostanti) e dall’essenzialità degli strumenti di produzione che richiedeva investimenti molto modesti.

Un tale tessuto produttivo dovette, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, misurarsi con il fenomeno dell’abbandono di massa delle campagne che stavolse le strutture sociali ed economiche tradizionali. Per chiarire l’entità dell’esodo si tenga presente il caso della città di Poggibonsi, realtà che,  nel 1951, contava 14.387 abitanti (di cui 2278 lavoravano all’industria contro 3396 del comparto agricoltura e 1185 in altre attività); appena dieci anni dopo vivevano nel borgo valdelsano  18.634 persone di cui 8475 lavoratori (ben 4762 erano nel comparto industriale). Il decennio successivo vide un ulteriore incremento di questa tendenza con il definitivo crollo del settore produttivo agricolo (in cui rimasero soltanto 988 addetti su un totale di 10.137 lavoratori) ed il decollo dell’industria (con 6404 addetti) all’interno della quale il settore del mobile faceva la parte del leone (con circa tremila addetti più quelli dell’indotto): nel 1971 Poggibonsi era ormai divenuta una città di dimensioni rispettabili con 25386 abitanti.

images11L4BY0NL’incremento delle attività produttive e demografico della cittadina valdelsana è unico in tutta il territorio senese: la vicina Colle Val d’Elsa, una volta volano industriale dell’area, pur avendo un rilevante incremento demografico nel Secondo Dopoguerra (dai 12063 abitanti del 1951 si passò ai 14812 del 1971) rimase ben lontana dai numeri di Poggibonsi ed il suo sviluppo industriale rimase legato a filo doppio alle attività preesistenti come quella del vetro, del cristallo e dei relativi indotti[2].

Il successo del settore del legno era legato ad una forte domanda ma anche ai buoni profitti legati a vari fattori come le basse retribuzioni delle maestranze di cui una parte rilevante lavorava per ditte artigiane con meno di undici addetti. Nel 1950 un operaio specializzato guadagnava 63,95 lire all’ora, un operaio qualificato 49,75, un manovale specializzato 43,15 lire e un manovale comune 35,45 lire. La manodopera femminile aveva delle retribuzioni più basse mediamente del 20-25% (la parità salariale uomo-donna verrà raggiunta soltanto nel 1962)[3]; facendo un raffronto con i nostri giorni, tenuto conto della contingenza, è possibile calcore che mediamente un operaio valdelsano del comparto legno guadagnava meno degli attuali 500 euro al mese[4].

La contrattazione con gli imprenditori, a partire dagli anni Cinquanta, fu sempre più agguerrita e ben presto, tra le recriminazioni dei lavoratori fece la sua comparsa la richiesta di operare in ambienti più salubri e con idonei dispositivi di sicurezza. Ancora a metà degli anni Ottanta, quando ormai il settore era in piena ristrutturazione, l’83% delle aziende non aveva locali adatti per separare le parti verniciate sottoposte ad essiccazione dagli ambienti di lavoro; disastroso per lo stesso periodo il dato relativo allo smaltimento degli scarti della verniciatura (ritenuti generalmente tossici e nocivi in base al DPR 915 del 1982) in quanto ben l’86%  avveniva in modo incongruo[5]. Le malattie professionali più comuni tra i lavoratori del comparto erano quelle dell’apparato repiratorio e olfattivo (causate dalle polveri del taglio e dell’incisione del legno e dai vapori delle vernici) nonché uditivo (sordità da rumore), mentre gli infortuni (ben 244 nel 1983![6]) erano nella maggior parte dei casi ferite agli arti superiori causate dalla sega circolare e dal  toupie[7].

Il numero di aziende e di addetti salì in modo costante fino ai primi anni Settanta (rispetto a dieci anni prima si era avuto nella sola Poggibonsi un incremento di addetti alle industrie manifatturiere del 9,7% dato superato soltanto da Monteriggioni – 10,7% –   a cui si avvicinava Colle di Val d’Elsa con l’8,5%)[8], per iniziare poi lentamente a calare in seguito allo shock petrolifero del 1973.

La crisi degli anni Settanta mise a nudo le fragilità del comparto del mobile che subì nel primo trimestre del 1975 un calo della produzione del 10,20%, rispetto al periodo precedente, e del 12,80% rispetto allo stesso periodo del 1974. L’analista Giuseppe Tammaro individuava come ragioni della crisi una serie di fattori esterni come le politiche deflattive del biennio ’66-’67, la fine della domanda internazionale e la contrazione della domanda interna a cui il comparto non aveva saputo rispondere efficacemente per una serie di motivi endogeni; in primo luogo, come unico fattore distintivo del prodotto, era stato conservato il carattere artigianale e questo aveva tenuto alti i prezzi; non erano stati fatti studi di marketing per analizzare i gusti della clientela e per cercare nuovi mercati oltre a quelli tradizionali; inoltre il ricorso sempre più massiccio da parte delle (poche) medie industrie al decentramento per contenere i costi della manodopoera e della produzione aveva causato un abbassamento della qualificazione delle maestranze e nessun rinnovo dei macchinari[9].

Ormai il distretto aveva fatto il suo tempo: nel primo semestre del 1986 le industrie del mobile a Poggibonsi erano 36 e davano lavoro a 800 addetti, gli artigiani 280 con mille addetti; rispetto ai tempi d’oro della metà degli anni Sessanta si erano persi più di mille posti di lavoro senza contare l’indotto. La produzione si contrasse progressivamente a laboratori artigiani che producevano mobili e infissi su misura o piccole manifatture che realizzavano componentistica. Una boccata d’ossigeno al settore, ma solo alle industrie, arrivò a fine anni Ottanta con l’esplosione della camperistica, comparto per il quale un pool di aziende, dopo una serie di studi di mercato, iniziò a produrre mobili componibili per poi mettersi in proprio e creare il distretto del camper della Valdelsa[10].

Riccardo Bardotti è insegnante distaccato presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

[1]ANTICHI COSTANTINO, Poggibonsi, Poggibonsi, Tipografia Artigiana, 1965, p.139.
[2]ISTAT,  Consistenza della popolazione residente e popolazione attiva distinta per settore di attività economica nei comuni della Provincia di Siena, in Toscana e in Italia al 1951, 1961 e 1971.
[3]AMOC, FILLEA a1, paghe in vigore nelle PAS del 01-11-1950.
[4]www.infodata.ilsole24ore.com/2015/04/14/se-potessi-avere-calcola-il-potere-dacquisto-in-lire-ed-euro-con-la-macchina-del-tempo/
[5]CUCINI EMANUELA, Indagine sulle condizioni di lavoro e di salute nelle aziende del legno della Val d’Elsa senese, Tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Siena, Facoltà di medicina e Choirurgia, a.a. 1987-88, pp.13-14.
[6]AMOC, Zona Valdelsa, VII b1, Unità Sanitaria Locale Alta Val d’Elsa.
[7]CUCINI E., Idem, p.31.
[8]Elaborazione Ufficio Studi dell’Amministrazione Provinciale di Siena su dati ISTAT realizzata nel 1976.
[9]TAMMARO GIUSEPPE, Alcune considerazioni su settore del mobile in Val d’Elsa, lineamenti per un programma di intervento di formazione professionale, Convegno del 28 maggio 1976 organizzato da CGIL CISL UIL.
[10]AISRSEC, Banca delle Memorie, 2017.




La protesta delle donne contro la guerra

Durante l’intero periodo bellico, in tutta l’Europa continentale si registrarono fenomeni di opposizione al conflitto; tuttavia, per intensità e frequenza le proteste in Italia evocano gli scenari della Russia che tanto scossero la classe politica nazionale del tempo. Nell’estate 1917, infatti, la vicenda russa costituì un vero e proprio spettro per le autorità italiane. Le ‘terribili’ proteste furono spesso avvertite dai prefetti del Regno come il prologo di una rivoluzione o di gravi sconquassi che di lì a poco avrebbero condotto a uno sconvolgimento del paese. Il prefetto di Pisa non fece eccezione rispetto a queste sentire diffuso. Il giorno prima dell’inizio della famosa rivolta di Torino (22 agosto 1917), aveva scritto al ministero dell’interno una relazione in cui denunciava che da mesi in provincia si verificavano praticamente ogni giorno dimostrazioni di donne contro la guerra. Pur non avendo un quadro nitido delle dinamiche nazionali, riteneva che le dimostrazioni fossero «coordinate ad un unico scopo […] d’impressionare e premere sul Governo centrale pel pronto raggiungimento di una pace qualsiasi». Tuttavia, continuava, non era da escludersi che servissero «di allenamento alle masse per la loro partecipazione ad un eventuale movimento generale rivoluzionario». In questo senso, ammoniva il ministero dell’esistenza di un piano regionale per «la proclamazione di uno sciopero generale con finalità rivoluzionarie». In realtà non solo lo sciopero generale non si verificò, ma di lì a poco la lunga stagione delle proteste del 1917 si sarebbe esaurita anche nella provincia pisana.

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Documeno che attesta la mobilitazione di 1360 operaie degli stabilimenti Pontecorvo (27 luglio 1917, Archivio Centrale dello Stato)

Il prefetto Gaspare Focaccetti non esagerava quando lamentava la reiterazione pressoché quotidiana di forme protestatarie anche se la parabola fu contrassegnata da due cicli di particolare intensità che si verificarono l’uno tra il dicembre 1916 e il marzo 1917 e l’altro in estate. In sintonia con il resto del paese, con le offerte di pace avanzate dal cancelliere tedesco al pontefice (12 dicembre 1916), nel territorio pisano si aprì una stagione densa di lotte intraprese da donne appartenenti alle classi popolari. L’epicentro delle proteste fu la bassa valle dell’Arno (Pisa, San Giuliano, Cascina e Pontedera), dove si concentrava la produzione tessile che rappresentava il più importante comparto industriale di una provincia dotata di un forte settore secondario anche per la presenza di Piombino, nei suoi confini fino al 1925. Il ciclo fu inaugurato dalle operaie tessili degli stabilimenti cotonieri Pontecorvo che, dislocati tra il capoluogo e San Giuliano, contavano 2.420 unità costituite quasi per intero da manodopera femminile. Nella stagione giolittiana, le tessitrici della Pontecorvo avevano rappresentato un soggetto chiave della mobilitazione popolare economica e politica con profondi addentellati con l’anarchismo locale; mentre nei mesi della neutralità, si erano affacciate prepotentemente sulla scena nel corso dei principali appuntamenti contro la guerra. A conferma del dato nazionale sull’elevatissima combattività del settore,  tra il 14 e il 17 dicembre 1916,  le operaie della Pontecorvo, ma non solo, paralizzarono il capoluogo. La pubblicazione sui giornali della profferta tedesca indusse le operaie appena uscite dagli stabilimenti a organizzare una dimostrazione «al grido di abbasso la guerra-vogliamo la pace» in piazza Vittorio Emanuele II, dove il 21 febbraio 1915 si era svolto l’evento cruciale del ciclo di manifestazioni neutraliste. L’intervento della forza pubblica provocò l’arresto di 4 persone, tra cui un’operaia. Il giorno dopo la situazione degenerò: «le operaie di quasi tutti gli stabilimenti più importanti […], in numero di oltre tremila, accentuarono la loro agitazione contro la guerra, e la maggioranza di esse non solo abbandonava il lavoro ma cercava di provocare uno sciopero generale». Ne seguì la militarizzazione della città con violenti scontri, la repressione di forme di radicalizzazione della solidarietà operaia verso l’arrestata,  la conseguente carcerazione per altre donne e lo sgombero di forza dei dimostranti per la pace giunti al Lungarno Mediceo. Tuttavia, al cambio di turno, lo sciopero si riaccese in quasi tutti gli stabilimenti, mentre il 17 a sostegno delle arrestate «le operaie si astennero quasi tutte dal riprendere il lavoro». Trascorsa tranquilla la domenica, il 18 restava in piedi la protesta di una fabbrica Pontecorvo dislocata nel comune di San Giuliano. Il protagonismo di queste lavoratrici risulta tanto più significativo se si tiene conto che donne e uomini della famiglia Pontecorvo erano campioni della prima ora nell’attivismo patriottico e guidavano i comitati di mobilitazione civile del capoluogo; inoltre le fabbriche Pontecorvo, nel quadro della mobilitazione industriale, rientravano nel novero delle ausiliarie dal dicembre 1915. Né la militarizzazione di questi stabilimenti, né il recentissimo decreto di ampliamento del ventaglio repressivo avevano agito da deterrente.

La vicenda cittadina rimase un unicum nel panorama industriale locale. Piombino e i suoi stabilimenti siderurgici non offrirono esempi simili anche se va detto che le sue vicende  meritano una trattazione a parte, considerato che proprio in dicembre il comune «fuori legge» amministrato dai socialisti era dato per spacciato dal sottoprefetto. L’unica altra astensione dal lavoro di opifici di importanti proporzioni si verificò a Pontedera nel febbraio 1917, ma ebbe breve durata anche per il durissimo intervento delle autorità. Il 2 febbraio una dozzina di donne della frazione La Rotta, insieme ad alcuni sovversivi, convinsero le lavoranti delle 2 maggiori fabbriche tessili e dell’impresa alimentare Crastan a lasciare il lavoro e a recarsi al municipio. Il tentativo di invaderlo al grido di «abbasso la guerra, vogliamo i nostri mariti a casa» fu all’origine di colluttazioni con carabinieri e militari. Di fronte al dilagare della violenza si ricorse alla militarizzazione e alla denuncia di 75 persone. La durezza della reazione paralizzò la città e non si verificarono altri scioperi industriali. Di questi ultimi non si ha traccia in altri comuni; in altre aree calde come il volterrano e la costa tirrenica le dimostrazioni assunsero fisionomie diverse. In gennaio, nella zona estrattiva di Volterra e nel distante borgo di Sassetta il rifiuto di riscuotere i sussidi, che rappresentava una modalità di protesta diffusa nel centro-nord, approdò in rivolte ad altissima partecipazione destinate a sfregiare i luoghi e le persone della dirigenza municipale interventista e della mobilitazione civile, che spesso in Toscana coincidevano. “Contagiate” da Volterra, il 18 gennaio circa duecento donne di Montecatini Val di Cecina riuscirono ad accreditare presso il sindaco una loro rappresentanza femminile che avanzò richieste per il ritorno degli uomini e per l’adozione di provvedimenti economici, riuscendo ad ottenere qualche miglioramento sotto il profilo distributivo. Un mese dopo, nell’area della costa retrostante Livorno, le modalità di pressione sui poteri locali assunsero tratti differenti, ma non meno significativi. Di fronte alle dimostrazioni per la pace, a Fauglia il sindaco formulò la falsa promessa di inviare un telegramma al ministero a nome delle donne per fermare il conflitto. Una parte di esse si convinse a riproporre questo esempio persuasivo a Collesalvetti. Se si eccettua  Montecatini, in tutti questi casi la repressione fu ancora una volta durissima.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La relativa calma che seguì al mese di marzo fu interrotta in luglio. Anche il ciclo di luglio è caratterizzato da una concentrazione di eventi nella bassa Valle dell’Arno lungo l’asse Pisa-Pontedera, spesso attivati dal malcontento per l’aumento del prezzo del pane. A differenza della fase antecedente, si registra una parabola temporale inversa rispetto a Pisa, che chiude il mese caldo aperto da Cascina. In quest’ultimo comune, dove forte era la presenza di fabbriche alimentari e dell’industria rurale tessile a domicilio, il 17 e il 21 luglio si registrarono le agitazioni di centinaia di donne per il pane e la pace, che seguirono la direttrice dell’attacco alla fabbrica di proiettili Cecchetti, da poco fornitrice del Ministero delle armi e delle munizioni. Almeno una parte delle stesse donne, il 20 e il 21 si concentrò su un altro opificio di proiettili nella vicina Calcinaia. Nei giorni seguenti, inoltre, la cintura di Cascina fu attraversata da un’ondata di protesta variegata con epicentro a Vicopisano. Al contempo, lungo la traiettoria tirrenica e in prossimità di Pisa si consumavano episodi simili e altrettanto partecipati. Piombino, Castellina Marittima, Castagneto Carducci furono teatro di rivolte che si andarono a sommare alla vertenza dei coloni campigliesi in atto da tempo. L’apogeo delle agitazioni si toccò però a Pisa. Il 26 e 27 luglio le tessitrici di tutti e tre gli stabilimenti Pontecorvo e quelle della Pitigliani e Cameo, la seconda fabbrica tessile cittadina per occupati, iniziarono uno sciopero per il salario sfociato in rivendicazioni di pace. L’alto numero delle partecipanti e alcune informative lasciarono temere che si trattasse di un appuntamento in vista di uno sciopero generale. In realtà la città tacque, anche in virtù delle misure preventive, mentre in agosto fu l’area delle colline pisane a infiammarsi con le agitazioni di centinaia di donne di campagna a Terricciola, Chianni, Peccioli e Buti. In quest’ultimo borgo, in due giorni consecutivi (15-16 agosto), si ripeterono dimostrazioni pro-pace con numeri incredibili rispetto al totale della popolazione.

Con la discesa in piazza delle campagne nessuna area provinciale si prospettava immune da movimenti contestativi. I tempi, la geografia, la diffusione degli avvenimenti e la ripresa delle forze politiche regionali allarmarono a tal punto le autorità locali da convincerle, come accennato, dell’esistenza di un piano rivoluzionario. Le agitazioni invece quasi si arrestarono dopo le proteste di Buti. La campagna chiuse la calda stagione del 1917 ben prima di Caporetto. All’epilogo contribuirono probabilmente il giro di vite repressivo locale e nazionale, la crescita dei poteri dei comitati regionali della mobilitazione industriale e la legislazione speciale di pubblica sicurezza. Peraltro, un certo miglioramento economico nelle industrie e lo svuotamento delle speranze in una prossima fine dovettero allo stesso tempo deprimere lo spirito generale. Il riaccendersi dell’insofferenza si sarebbe verificato in inverno, ma con modalità diverse anche in virtù delle nuove norme repressive e del clima post Caporetto.

 *Emanuela Minuto è ricercatrice di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa.




“Volevamo chiamarti Angelita”

“Volevamo chiamarti Angelita” è una vecchia canzone dimenticata degli anni Sessanta. Parla di una bambina dai capelli biondi adottata dai soldati brasiliani sbarcati ad Anzio. Li accompagna nell’esplorazione della città  laziale tenendo in mano delle conchiglie piene di sabbia per poi morire cadendo vittima della reazione tedesca. Ad Anzio la storia di Angelita, che tutti ritengono vera, è ricordata da un monumento rappresentante una bambina che alza le mani in un volo di gabbiani.

Monumento ad Angelita ad Anzio

Monumento ad Angelita ad Anzio

Anche la montagna pistoiese ha un monumento che ricorda una ragazza, Graziella, uccisa dai tedeschi in ritirata davanti agli Alleati, quando ormai erano già  passate alcune settimane dalla liberazione di Pistoia, avvenuta l’8 settembre 1944.

Graziella Fanti oggi è una lapide nel piccolo giardino pubblico delle Piastre, una località  celebre per il campionato della Bugia, posta sulla strada granducale che conduce alle piste dell’Abetone e nei pressi della quale nel 1944 scorreva la linea Gotica, zona di combattimenti che, come afferma il Sac. Vasco Lorenzini causarono la morte di quattro persone della parrocchia e di tre sfollate.

Graziella Fanti era nata il 21 dicembre del 1927 e quindi il 21 settembre 1944 era una ragazza di 17 anni dalle trecce bionde e dallo sguardo un po’ malinconico. Era una “bastarda”, una figlia della colpa, perché Bruna, sua madre, donna di servizio presso alcuni nobili che villeggiavano alle Piastre, era rimasta incinta ventenne e senza essere sposata. Qualcuno diceva che il padre di Graziella fosse il padrone di casa, altri che fosse un uomo di Roma, altri ancora, come la testimone Miranda Pisaneschi, sostengono che questi fosse emigrato in Francia e che tornò in Italia solo a guerra finita.

La madre e la figlia vivevano presso le Piastre in località  detta il “Brocco” con un uomo, separato dalla moglie, che si prendeva cura di loro. Bruna e il patrigno erano comunisti e non frequentavano la parrocchia. Per la mentalità  dell’epoca essere comunisti e conviventi portava ad essere malvisti ed esclusi dalla piccola e tradizionale comunità locale. Pare che fosse negata loro anche la benedizione pasquale.

Erano sfollati lontano dalle Piastre presso il paesino di Le Forri e abitavano in una capanna di fango e paglia vicino al ruscello. La ragazza aveva alcune amiche in località  “Il Casone di sotto”, sempre nei pressi delle Piastre.

Il 21 settembre 1944 Graziella si recò al ruscello nel folto del bosco, come faceva ogni giorno probabilmente, al fosso dei Gambioni nei pressi delle Forri, a lavare i panni. Si credeva al sicuro, lontana dalla soldataglia tedesca che aveva il suo quartier generale a Cassarese, sulla strada che dalle Piastre conduce a Casamarconi.

Non portava conchiglie in mano come Angelita, ma del sapone e un cesto di vimini. Cantava, Graziella, per dimenticare la cattiveria della gente e la guerra. La sua voce, probabilmente, fu udita da alcuni soldati tedeschi, pare tre, innervositi dalle cattive notizie sull’andamento della guerra. Si era chinata sul ruscello, i panni stesi intorno. Forse aveva accanto a se gli abiti del patrigno. Probabilmente più che la bellezza della ragazza furono questi ad attirare i sospetti dei nazisti. Forse questi ipotizzarono che la ragazza collaborasse con i partigiani lavando loro i panni.

Graziella fece in tempo a vedere i soldati avvicinarsi e impaurita tentò di fuggire, ma i colpi sparati vigliaccamente da questi la raggiungero alle spalle mentre chiamava la madre. Si dice che i tedeschi allontanandosi imitassero stupidamente le sue parole “Mama, mama”. Sulla fine di Graziella esistono diverse versioni: alcuni testimoni affermano che morì sul colpo, altri che mani pietose la portarono morente in un fienile nei pressi delle Forri dove spirò.

Graziella, sola in vita, rimase, purtroppo, sola anche da morta. Nessuno nel paese reclamò il corpo, nè la chiesa, nè i partigiani. Solo dieci giorni dopo un uomo di nome Lido prese il corpo coperto di sangue per darle una sepoltura.

foto 3Finita la guerra la madre fece porre sulla tomba nel cimitero delle Piastre una lapide bianca con su scritto “uccisa dalla barbarie nazista”. Sulla lapide la foto della ragazza, le trecce bionde, lo sguardo malinconico.

Passarono gli anni e il mondo si dimenticò di Graziella.

Nel 1974 a Treviso è in corso uno dei primi convegni di agricoltura biodinamica. Un uomo, un archelogo, si presenta a Ivo Beni presidente allora dell’Associazione Biodinamica Italiana con un sacchetto di chicchi di grani trovati in una tomba egizia. Gli consegna i chicchi con la promessa che se questi avessero prodotto del grano si sarebbe dovuto chiamare con il nome della figlia morta in guerra tanti anni prima: Graziella. Consegnati i chicchi l’uomo se ne va senza rivelare il proprio nome.

I chicchi vengono seminati e in capo a qualche anno il miracolo si compie. Da quei pochi chicchi oggi si produce un grano che porta il nome di una ragazza uccisa dalla barbarie nazista settanta anni fa. Non sapendo qual era il cognome del padre della ragazza si è provveduto ad attribuire una ulteriore denominazione facendo riferimento al nome del Sole, Ra, nella religione egizia.

Quel grano, frutto di un pugno di antichi chicchi e un piccolo monumento nel parco di un paesino di montagna, ricordano oggi una ragazza per troppo tempo dimenticata perché come dice Chita Banerjee Divakaruni “Finché esisterà  del pane fresco, le cose non potranno guastarsi in maniera irreparabile”.




Abbasso la guerra, viva la rivoluzione!

Questa breve nota storica comincia da venticinque anni dopo i fatti che ne sono l’oggetto. Frugando fra i documenti del Casellario Politico Centrale del periodo fascista mi capitò di incontrare, ormai diverso tempo fa, il nome di Natalina Barbieri, arrestata a Siena nel 1942 perché in una salumeria, mentre “la proprietaria del negozio affettava il salame, si permise di fare delle odiose e sboccate allusioni dicendo: vorrei affettare la fava di Mussolini”. Frase che – forse la spia fu la salumiera, forse un’altra cliente – le costò la condanna al confino. Nella sua scheda, oltre alle consuete, nelle relazioni del Casellario, notizie denigratorie – vedova di guerra unita more uxorio con un sovversivo, dedita al vino, sboccata – lessi anche che nel 1917, poco prima di venire a trovarsi in stato di vedovanza – il marito sarebbe morto in Albania nel 1918 –, aveva partecipato, a Sinalunga dove era nata nel 1889 e dove allora risiedeva, ad una manifestazione piuttosto burrascosa. Era un indizio che confermava che alcune proteste contro la guerra, di cui si aveva, fino ad allora, soltanto vaga e frammentaria memoria, si arano verificate anche nel territorio senese. Magari in forma meno estesa ed eclatante che in altre zone della Toscana, ma pur sempre significativa.

In seguito, grazie agli studi preparatori della mostra “Fotografi in trincea. La Grande Guerra negli occhi dei soldati senesi” (2016), curata da Gabriele Maccianti, venne individuato, all’Archivio Centrale dello Stato, un fascicolo che ha consentito una ricostruzione finalmente più puntuale e ha innescato la possibilità di altre ricerche negli archivi comunali e giudiziari.

Oggi è dunque possibile raccontare, anche con una certa dovizia di particolari, le manifestazioni che si verificarono in due distinte zone della provincia di Siena, il Chianti (Radda 7 maggio; Gaiole 8 maggio) e la Val di Chiana (Sinalunga 6 gennaio; Montepulciano e Chiusi 6 agosto), nel contesto più ampio di gesti individuali e di parole contro la guerra il cui moltiplicarsi, proprio nel corso del 1917, è attestato dal notevole aumento delle denunce e dei processi contro chi si comportava in modo tale da “deprimere lo spirito pubblico e altrimenti diminuire la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione interna internazionale dello Stato”.

A Sinalunga furono circa trecento le donne e i ragazzi che, dalle campagna circostanti, si diressero in paese aggregando man mano una folla di un migliaio di persone. I carabinieri chiesero rinforzi, ma sorpresi dall’evento di cui non avevano avuto sentore, furono nell’impossibilità di disperdere la manifestazione, durante la quale vennero lanciati sassi che infransero i vetri di alcuni uffici pubblici e delle case del sindaco e di altri amministratori comunali. Meno violenta, ma comunque intensa risultò la protesta di fronte al municipio di Chiusi durante la quale fu deciso di rifiutare il sussidio statale spettante ai parenti dei richiamati, come atto di insubordinazione verso uno strumento che sembrava voler favorire la prosecuzione del conflitto. Alla periferia del centro abitato di Montepulciano furono invece fermate, ma non senza tafferugli, le donne provenienti da Acquaviva e da Abbadia, quest’ultima località già teatro, nell’agosto del 1916, di un assembramento di fronte alla villa di un possidente per chiedere che il prezzo del grano non venisse aumentato, assembramento conclusosi in una sassaiola per l’intervento troppo rude di un fattore verso le manifestanti. Sempre nella zona fra Acquaviva e Abbadia di Montepulciano, nel medesimo periodo venne lanciato un appello clandestino alle famiglie mezzadrili affinché si rifiutassero di seminare il tabacco perché sottraeva terreno e forza lavoro alle colture alimentari tanto più indispensabili nella penuria del tempo di guerra, iniziativa che, accompagnata da due incendi dolosi, preoccupò molto i grandi proprietari terrieri e le autorità.

Chiara è la matrice sociale e di genere di questi sommovimenti, così come confermato anche dagli elenchi degli arrestati, composti per la stragrande maggioranza da nomi di donne, quasi tutte salariate agricole, qualcuna mezzadra, qualche altra “dedita alla casa”. Più difficile dirimere il rapporto fra spontaneità e organizzazione. Indubbiamente i disagi e i lutti causati da un conflitto di cui, nonostante le offerte dei pace degli Imperi Centrali di fine 1916, non si intravedeva il termine, la certezza che ogni giorno in più di combattimenti avrebbe causato chi sa quanti ulteriori morti e feriti, i vuoti affettivi delle assenze, i racconti delle sofferenze, dei rischi, delle insensatezze di tante azioni militari al fronte fatti da quanti tornavano in licenza, ne costituirono la base materiale e psicologica. La sola richiesta di riavere vivi ed integri i mariti, figli, fratelli era di per sé un possente elemento di comunità di intento avverso al conflitto e al suo perdurare, senza il bisogno di troppi indirizzi e indottrinamenti politici. Ma almeno in Val di Chiana – più incerta è la valutazione nel Chianti, dove forse andrebbe studiata con molta attenzione la presenza di un clero orientato dal vescovo di Arezzo che fu, in Toscana, fra i più ostili al conflitto – traspare una regia di matrice socialista.

Traspare nelle convocazioni effettuate non solo con il passaparola, ma anche con i manifesti, traspare nel fatto che l’epicentro del movimento furono le località in cui il socialismo, con le sue strutture organizzate e le sue sedi, era più radicato, traspare in obiettivi quali il rifiuto del sussidio o in parole d’ordine esplicite come quella annotata nella sentenza che condannò le donne di Abbadia di Montepulciano per i fatti del 1916, e cioè “abbasso la guerra, vogliamo la pace, viva la rivoluzione”.




Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane

La ricerca in archivi pubblici e privati ha confermato un dato già acquisito da ricercatori e ricercatrici, che si sono cimentati con la storia delle donne: l’agire femminile, pur registrato in questi luoghi, non ha lasciato solchi profondi, ma lievi tracce; prezioso risulta l’Archivio fotografico F.lli Gori, dal quale emergono le immagini dell’impegno femminile nei primi venti anni dell’età Repubblicana. La parte più debole della documentazione di questa mostra virtuale è quella relativa all’attività delle donne cattoliche in ragione di una produzione minore, ma anche per una forte dispersione. In parte il vuoto è stato coperto dalla stampa cattolica conservata presso la redazione grossetana di “Toscana Oggi”, i settimanali “Vita Nuova” e “Rinnovamento”, che copre quasi tutti gli anni Settanta. Nuovi possibili ritrovamenti potranno venire dal futuro riordino dell’Archivio Provinciale della Democrazia Cristiana.

I materiali sono stati organizzati seguendo due criteri fondamentali intrecciati tra loro: quello cronologico e quello tematico. Alla prima selezione “oggettiva”, avvenuta in sede di conservazione delle fonti, si è aggiunta la scelta di chi ha curato la mostra, orientata dall’esigenza di offrire l’opportunità di una lettura diretta dei documenti. Le introduzioni che precedono le sezioni, infatti, vogliono essere una semplice e breve guida alla lettura dei documenti, senza gli appesantimenti di commenti analitici o chiavi di lettura, con il preciso obiettivo di lasciare aperta la possibilità di costruire percorsi e relazioni, sia per chi ha interessi di ricerca, sia per chi si avvicina ai documenti per semplice interesse conoscitivo, sia per chi vi ritrova tracce della realtà sociale di cui è stato/a testimone e/o protagonista.

Le sezioni in cui è suddivisa la mostra rispondono tematicamente e cronologicamente ad una periodizzazione generalmente accolta, che ha suggerito di accorpare quello che rientra nell’ambito del periodo della guerra e del lungo dopoguerra, cui seguono le fasi storiche usualmente definite come dell’“emancipazione” e dei “movimenti”. La prospettiva di accessibilità di nuovi archivi pubblici e l’ipotesi di sollecitare qualche curiosità, e dunque il reperimento di nuovi documenti e memorie, conforta l’attesa di ulteriori sviluppi nella ricerca.

 

ANNI QUARANTA E LUNGO DOPOGUERRA

I fili conduttori che legano l’attività dei movimenti femminili grossetani in un periodo critico come quello che va dal passaggio del fronte – che nel territorio grossetano avvenne nel giugno del 1944 – agli inizi degli anni Cinquanta, sono la ricerca di nuove modalità di partecipazione alla sfera pubblica e l’urgenza di far fronte alle necessità scaturite dal periodo bellico, le cui problematiche si protrassero in quello che abbiamo definito “lungo dopoguerra”.

Inizia “l’apprendistato politico” delle donne, sia con la partecipazione alle organizzazioni dei rinati partiti, sia con la partecipazione ai primi Consigli e alle prime Giunte comunali. Ben pochi, però, sono i documenti che testimoniano i primi passi dell’agire politico: qualche relazione di organizzazione dei partiti della sinistra, qualche foto di manifestazioni della Federterra, a testimonianza che la condizione delle donne contadine inizia a farsi sentire in tutta la sua gravità. La maggior parte della documentazione e delle fotografie qui raccolte testimoniano, da un lato, il ruolo giocato dalle organizzazioni femminili – cattoliche e di sinistra – nell’individuazione dei bisogni della popolazione (povertà, emergenza profughi, educazione dei fanciulli, assistenza agli anziani…); dall’altro, le risposte delle Istituzioni per far fronte a tali necessità.

Quello che emerge in tutta evidenza è il tentativo da parte di soggetti femminili di trovare un ruolo, una collocazione politica e sociale in una società dapprima violentata da venti anni di dittatura e dalla guerra, successivamente entrata in una fase di rapida e convulsa trasformazione, cui si doveva far fronte con spirito di adattamento e prontezza nel trovare soluzioni ai problemi della quotidianità. Siamo ancora molto lontani dai temi della specificità femminile, che esploderanno negli anni Settanta. L’agire insieme e l’apparire in pubblico si concretizzeranno ancora per molti anni soprattutto in termini di supporto alla “politica maschile” o di assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli.

Molteplici sono le formazioni cui partecipano le donne. L’Unione donne italiane (UDI) nasce a Roma il 12 settembre 1944 col proposito di rappresentare tutte le donne che si riconoscevano nel valore dell’antifascismo. In breve, tuttavia, si separarono le donne cattoliche, con la fondazione di una nuova associazione nell’ottobre 1944: il Centro Femminile Italiano (CIF). Sebbene distanti in quanto a riferimenti politici – partiti della sinistra, da una parte, e Democrazia Cristiana, dall’altra – sul piano concreto le due associazioni seppero ben presto trovare forme di collaborazione e, qui come altrove, allentare il vincolo – si badi bene, non scioglierlo – che le legava ai partiti per sperimentare nuove forme di partecipazione alla sfera pubblica.

Accanto alle due organizzazioni di massa delle donne, un insieme di formazioni, dall’Azione cattolica alle Dame della Carità, dalla Croce Rossa alle Commissioni femminili di partiti.

 

ANNI CINQUANTA-SESSANTA

Nella Grosseto degli anni Cinquanta-Sessanta, il settore dell’assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli rimane terreno femminile (le motivazioni, legate ai ruoli tradizionali, sono facilmente comprensibili), ma in qualche misura questa primazia è lentamente scalzata dall’organizzazione statale degli aiuti, che a Grosseto è particolarmente efficace.

Gli spazi occupati dalle donne si allargano con l’espansione del lavoro extradomestico ma parallelamente si ridefiniscono – restringendosi – sul terreno del “pubblico”. Questo arretramento è evidente se si guarda a due fenomeni: la riduzione delle presenze femminili nelle Giunte e nei Consigli comunali, quando sarebbe stato lecito aspettarsi che al primo apprendistato politico seguisse un consolidamento dell’esperienza e dunque una sua espansione; la simultanea presenza di donne in più di una formazione, tant’è che nei partiti, nelle Istituzioni, nelle associazioni e nei sindacati si trovano sempre i nomi delle stesse poche, pochissime donne.

Se tra la seconda metà degli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta la trasformazione della realtà sociale aveva spinto le donne a ricercare un ruolo pubblico – che fosse in politica o nella società civile -, adesso i problemi delle migrazioni, dell’urbanizzazione, della ridefinizione dei rapporti economici e sociali nelle campagne, dell’apogeo e della crisi dell’industria mineraria, sembrano restringere le possibilità di una partecipazione effettiva nell’indirizzare i cambiamenti. Da qui un’uscita graduale di molte donne dagli spazi faticosamente conquistati.

Il caso dell’UDI è forse quello più emblematico: dai 38 circoli intorno alla metà degli anni Cinquanta (di cui 18 di “Amiche della miniera”) scivola lentamente ma progressivamente alla fine degli anni Sessanta in una profonda crisi di partecipazione, tant’è che si dovranno aspettare i primi anni Settanta per un ripresa effettiva delle attività con una vera e propria rifondazione dell’associazione.

Il tema del lavoro si afferma come terreno di lotta e rivendicazione femminile. Se la frequentazione di indirizzi scolastici tradizionalmente ritenuti alieni alle donne aprirà via via nuove possibilità di impiego e quindi di rivendicazione in termini di riconoscimento sociale e retributivo, gli anni Cinquanta si caratterizzano ancora per lotte sindacali a fianco degli uomini.

Simbolico e periodizzante sembra essere il 1954. A maggio lo scoppio della miniera di Ribolla travolge le vite di 43 minatori e crea una frattura insanabile nel movimento femminile che, organizzato nell’associazione “Le Amiche della miniera”, ha lottato a fianco dei mariti, fratelli, figli minatori contro la Montecatini. Il movimento si spezza sulla questione delle vedove dei minatori che accettano il risarcimento della Montecatini, cessando di essere parte civile nel processo. La scelta delle vedove fu valutata all’epoca come un tradimento, il fallimento di un intero paese, che dopo anni di lotte aveva perso l’opportunità di inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità.

Sempre nel 1954, ma ad ottobre, si organizza la conferenza delle donne assegnatarie della Maremma, volta alla preparazione del congresso nazionale a Foggia, che ha all’ordine del giorno la stesura della “Carta della donna assegnataria”. Per comprenderne le reali esigenze il sindacato coinvolge in questionari e inchieste le assegnatarie, che prendono mano a mano coscienza della necessità di muoversi unite per la rivendicazione dei loro diritti. Ne seguirà uno scontro con la dirigenza dell’Ente Maremma.

Iniziano a farsi strada negli anni Sessanta lotte che investono direttamente il lavoro femminile, con un forte coinvolgimento dell’UDI nelle battaglie per la regolamentazione del lavoro a domicilio, determinante perché integrativo del reddito familiare, ma anche suscettibile di forte sfruttamento.

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ANNI SETTANTA

 Gli anni Settanta soffrono della difficoltà di poter raffigurare in un quadro completo e coerente le mille sfaccettature della “stagione dei movimenti”. Una costellazione di organizzazioni attive nel territorio, da quelle ormai strutturate – come CIF e UDI, organizzazioni cattoliche, sindacali e partitiche – a quelle di nuova costituzione – Collettivo femminista, Collettivo di studentesse, Comitato permanente delle donne per il consultorio, gruppi dei movimenti extraparlamentari –, mette a dura prova il compito dello storico nel dipanare i fili delle iniziative e dell’impegno civile, sociale e politico femminile. Con rammarico abbiamo dovuto selezionare solo alcuni dei temi, tralasciandone altri, seppur importanti.

Gli anni Settanta sono il decennio dell’espansione del dibattito sulle forme di gestione sociale: dall’istituzione dei nidi alla necessità di qualificazione del personale, dall’avvio sperimentale del decentramento attraverso i Consigli di quartiere all’istituzione del Consultorio comunale. L’introduzione degli organi collegiali nella scuola, inoltre, contribuisce a far concentrare l’attenzione sui temi dell’educazione. Perdono di vigore le battaglie per il lavoro; i temi caldi – che vedranno l’agire femminile in parte su fronti opposti, in parte in battaglie comuni – diventano sessualità, contraccezione, maternità consapevole, gestione degli asili nido, preparazione psicopedagogica al parto, consultorio, nuovo diritto di famiglia.

La ripresa delle attività del CIF, che dal finire degli anni Sessanta vive una breve stagione di “riflusso”, si ha con il congresso provinciale del 1974; è un sacerdote, Don Franco Cencioni, a guidare il “rilancio” dell’associazione, che si confronterà sempre più spesso con temi delicati: il nuovo diritto di famiglia, le implicazioni rispetto ai ruoli tradizionali di uomini e donne; la necessità di ridefinire quei ruoli secondo la visione cristiana; i consultori e la loro gestione; la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, prima, e il referendum per l’abolizione della 194, poi.

L’UDI, invece, si ricostituisce nel 1971 dopo alcuni anni di inattività. La modernità di pensiero di Miranda Salvadori – che sarà il vero trait d’union tra la “vecchia UDI” e i gruppi femministi che nasceranno nella seconda metà degli anni Settanta – e l’arrivo a Grosseto di Maria Giovanna Zanini – forte di esperienze progressiste in altre parti d’Italia–, nonché l’ingresso di un corposo gruppo di giovani nell’UDI fanno riprendere vigore all’associazione. È dell’ottobre del 1971 un’assemblea dell’UDI su un tema qui inedito: la regolamentazione delle nascite, frutto degli incontri di un gruppo di donne, che dalla condivisione di esperienze di vita passò rapidamente alla rivendicazione politica. E Grosseto si caratterizza rispetto al panorama nazionale per una stagione di grande ascolto da parte delle Amministrazioni, che raccolgono le sollecitazioni delle donne di sinistra e di quelle cattoliche, soprattutto in tema di consultori e asili nido, tanto da arrivare all’istituzione di un Centro pre-matrimoniale e matrimoniale presso gli ambulatori comunali già nell’aprile 1973, due anni prima della legge dello Stato, e quattro rispetto alla legge regionale di istituzione dei Consultori.

Nel febbraio 1976, in dissenso con la linea nazionale dell’associazione, le giovani escono dall’UDI per creare il Collettivo femminista, che di fatto, però, non taglierà mai il cordone ombelicale che lo lega alla madre, in virtù sia della partecipazione ad entrambi i gruppi di Maria Giovanna Zanini e Miranda Salvadori, sia di un terreno di rivendicazioni comuni. Quando, nel gennaio 1977, si costituisce il Comitato permanente delle donne per il Consultorio (il centro prematrimoniale è infatti stato chiuso in breve tempo), entrano a farne parte UDI e Collettivo. La battaglia per la riapertura del consultorio è portata avanti con grande impegno anche dalle donne cattoliche.

La produzione di volantini e documenti, firmati ora UDI, ora Collettivo femminista, ora Collettivo studentesse, ora Comitato permanente delle donne per il Consultorio, oppure a doppia o triplice firma è abbondantissima. Cambiano i nomi dei gruppi ma molto spesso sono composti dalle stesse persone. Non mancano documenti che portano la firma congiunta di UDI e CIF. La rivendicazione unitaria ha un suo primo esito con l’apertura del nuovo Consultorio nel novembre 1978.

Nei collettivi, soprattutto in quello femminista grossetano, si sperimentano il separatismo, la pratica dell’autocoscienza, il selfhelp; si inizia a riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale del paradigma dell’uguaglianza in favore della valorizzazione della differenza; “il personale è politico” diventa parola d’ordine.

Nella seconda metà degli anni Settanta, la battaglia per la riapertura del Consultorio cede il passo alla mobilitazione per l’applicazione della legge sull’interruzione di gravidanza, prima, e al movimento in difesa della 194, poi. Sono su fronti opposti donne di sinistra e cattoliche. La documentazione riguardante l’attività delle prime è più corposa e comprende numerosi documenti conservati nell’archivio personale di Maria Palombo, protagonista di una delle vicende di cronaca più dibattute in tema di aborto, episodio che ebbe una grossa eco anche a livello nazionale e portò alla manifestazione del 17 dicembre 1977, la più grande di sole donne mai vista a Grosseto.

Le cattoliche, fatta eccezione per le frange dei cattolici del dissenso, si compattano, come è naturale aspettarsi, contro la liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza.

Sul finire degli anni Settanta un nuovo fronte di rivendicazione: la ricerca di uno spazio per le donne. Nasce da questa esigenza l’occupazione nel novembre 1978 da parte del Collettivo Femminista grossetano dell’ex orfanotrofio maschile “G. Garibaldi”, luogo scelto per diventare sede di un centro di aggregazione di tutte le donne, a prescindere dall’orientamento o dall’appartenenza politica, dopo il suo passaggio al Comune di Grosseto. L’idea si concretizzerà nel 1986, non senza aspri confronti e matasse burocratiche da sbrogliare, con l’affidamento da parte del Comune di Grosseto dei locali dell’ex Garibaldi al Centro Donna, associazione costituitasi formalmente l’8 marzo 1986, che vanta quindi una trentennale esperienza.

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La realizzazione della mostra non sarebbe stata possibile senza le opportunità di ricerca e studio che nel corso degli anni sono state portate avanti, e che hanno permesso un profondo scavo negli archivi del territorio provinciale grossetano:

  • la ricerca sulla storia delle donne grossetane tra anni Quaranta e Ottanta portata avanti da Luciana Rocchi dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (ISGREC) – avviata nel 1999 su impulso della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto, presieduta da Gloria Faragli – che ha portato a due pubblicazioni: L. Rocchi, S. Ulivieri (a cura di), Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci 2004; L. Rocchi, C. Pieraccini, B. Solari, S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Fonti per una storia delle donne grossetane tra gli anni quaranta e ottanta, Efffigi 2004.
  • il riordino dell’Archivio di proprietà del Centro Donna, finanziato dal Centro Donna e curato da A. Apreda, F. Putrino, B. Solari nel 2005-2006.
  • la ricerca dell’Isgrec sull’Associazione “Le Amiche della Miniera” di Ribolla, finanziata dal Comune di Roccastrada, che ha portato alla pubblicazione di B. Solari, Presenze femminili. Le amiche della miniera da Ribolla, Effigi 2007.
  • il lavoro di ricerca condotto dall’Isgrec sul fondo fotografico dei F.lli Gori, che ha portato alla pubblicazione del volume di M. Baragli, Professione fotografi. L’archivio dei fratelli Gori, Isgrec, Grosseto, 2008.
  • il riordino dell’archivio della Federazione provinciale del PCI/PDS/DS, finanziato dall’associazione La Quercia, portato avanti da F. Putrino e V. Entani.



Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.