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Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Shangai dal secondo dopoguerra ad oggi

Shangai, nonostante le sue origini, e forse proprio per via di esse, era un quartiere caratterizzato da una forte solidarietà e da un grande senso di appartenenza dei suoi abitanti, fin dai primissimi anni. [1]

In particolare, a partire dagli anni ’70, una marcata coesione sociale ha caratterizzato la sua storia. Le ragioni di questo sono da ricercarsi nelle attività svolte dalla sezione del PCI della zona, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, dal parroco locale, Don Biondi: si tratta di realtà che erano riuscite a promuovere attività culturali e ricreative, anche di stampo politico, incentivando cooperazione, una buona convivenza e un senso di comunità tra gli abitanti del quartiere. [2]

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Una delle esperienze che ha fatto vivere a Shangai uno dei suoi periodi più positivi è stata la creazione del “Punto incontro donna”, voluto dalle donne di quartiere, su proposta della sezione locale del Pci, per avere un luogo dove ritrovarsi. [3] Dalla sua nascita, nel 1985, il quartiere tutto è stato altamente coinvolto in numerosissime iniziative come rassegne teatrali, concerti, corsi di cucito, sfilate di quartiere, feste di carnevale, mercatini, gite di gruppo e molto altro. Nel video prodotto dall’ISTORECO di Livorno[4], in collaborazione con le Scuole Fermi di Shanghai, nel 2020, sono state raccolte le testimonianze di abitanti del luogo che hanno vissuto e gestito in prima persona queste attività. Anche le foto donate da Luana di Dio, anima del “Punto incontro donna”, raccontano una vita di quartiere vivace e culturalmente attiva. Anche nelle due interviste rilasciate, tra il 2020 e il 2022, alla prof.ssa Catia Sonetti, Direttrice dell’ISTORECO di Livorno, Luana di Dio e Manuela Alfaroli hanno rievocato proprio questa storia. A giugno 2022 l’ISTORECO ha organizzato, insieme all’ARCI di Livorno, un’iniziativa molto toccante, in cui sono state esposte diverse fotografie delle varie iniziative portate avanti dal Punto Incontro Donna, e durante cui hanno preso la parola alcune delle donne che sono state, tra il 1985 e il 2017, coinvolte personalmente nella gestione di tali attività. La passione e l’impegno che queste hanno investito per portare avanti idee di cooperazione sociale e solidarietà in un quartiere tra i più poveri di Livorno erano tangibili nei loro ricordi e nelle loro parole. E’ stato molto interessante anche il collegamento online con la scrittrice Claire Hunter, dalla Scozia, che ha illustrato i molti punti in comune tra alcune delle storie raccontate nel suo libro “I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago” (2020, Bollati Boringhieri) in cui riflette sulla straordinaria importanza del cucito e della sua diffusione e trasversalità a livello sociale, in tutto il mondo e in tutte le culture.

Purtroppo la chiusura del centro donna, avvenuta nel 2017, ha provocato una regressione sociale del rione. I molti, ripetuti, tentativi da parte dell’amministrazione comunale di integrare Shangai col resto della città tramite progetti rigenerativi[5], Bandi ministeriali[6], demolizioni di alcuni dei vecchi blocchi e ricostruzioni di nuovi appartamenti e scuole pubbliche (progetto ancora in corso)[7] si sono rivelati poco risolutivi sia a breve che a lungo termine. Oggi infatti, con la mancanza di associazioni ed altre realtà di quartiere come quelle che hanno operato a Shangai tra il 1970 e il 2017, gli investimenti comunali e i tentativi di de-ghettizzare il quartiere e di reintegrazione dello stesso con il resto della città sono riusciti a raggiungere solo scarsi risultati perché il rione ha via via perso quella coesione sociale interna che lo ha sempre caratterizzato, tramutandosi in parte in una zona di spaccio di droga e di marcato degrado sociale. [8]

Conclusioni

La storia di Shangai dalla sua nascita ad oggi, la traiettoria che ha percorso il quartiere, rispecchia molto bene quanto espresso da David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (2015): si tratta di una delle molte storie di periferie ai margini sociali e geografici delle città italiane, nate, osservate e rappresentate attraverso uno sguardo “esterno”, come un luogo in totale antitesi alla raffinatezza, la ricchezza, la bellezza che invece rappresenta il centro cittadino. E’ interessante vedere come, grazie ad attività, progetti, associazionismo proattivo come quello del “Punto incontro donna” per esempio, si possa quantomeno tentare di ribaltare lo sguardo da cui si osserva il quartiere, insieme alle sue sorti. Anche le immagini che raccontano da dentro quella che era la vita di Shangai e degli “shangaini” in quegli anni sembrano narrare una storia diversa da quella classica di quartiere periferico, popolare, povero e ghettizzato. Esse infatti mostrano storie di persone che partecipavano attivamente alla vita del proprio rione, che contribuivano per quello che era loro possibile al senso di comunità e di sostegno reciproco. Il “Punto Incontro Donna”, così come altre realtà del secondo dopoguerra, volute e dirette dagli abitanti stessi del rione, sono riusciti a creare una vera e propria comunità, a dare vita, a livello culturale e sociale, a uno dei quartieri più popolari e poveri della città.

 La prima parte dell’articolo.

nota:

[1] Susini M., Shangai…,cit., p.23.

[2] Susini M., Shangai…,cit., pp.25-79.

[3] https://iltirreno.gelocal.it/livorno/foto-e-video/2015/03/06/fotogalleria/il-punto-incontro-donna-dishangai- compie-30-anni-1.10992853

[4] Video prodotto da ISTORECO, intitolato “Shangai. Storie e memorie di quartiere” all’interno del progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[5] https://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/CdQ%20II%20estratto.pdf

[6] Vedi progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[7] Vedi progetto di riqualificazione anche dei poli scolastici di Shangai https://2017.gonews.it/2015/01/17/quartiere-shangay-inaugurata-la-nuova-scuola-materna-in-via-stenone/

[8] Vedi progetto ISTORECO Livorno “Storie e memorie di Shangai” in

https://www.facebook.com/istitutostorico.livorno/videos/3641411932582974




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Introduzione

L’obiettivo di questo breve articolo è quello di ripercorrere la storia del quartiere di Shangai di Livorno, partendo dalla sua nascita, alla fine degli anni ’20 del ‘900, per arrivare ai giorni nostri.
Il focus sarà quello di determinare le ragioni che hanno portato alla nascita di un quartiere problematico, e riflettere su quelle azioni, quelle scelte che, nel tempo, sono riuscite ad offrire nuove opportunità e possibilità per i suoi abitanti. In particolare emergerà che il periodo più positivo vissuto dagli abitanti del quartiere corrisponde a quello che va dagli anni ’70, con l’inaugurazione della sezione del PCI di Shangai[1] fino al primo decennio degli anni 2000. Durante questi anni, infatti, diverse associazioni e realtà religiose e politiche, portate avanti dagli stessi abitanti di Shangai, hanno risollevato le sorti di un quartiere difficile sotto molti punti vista, promuovendo senso di comunità, cooperazione e coesione sociale. Nel 2017 è stato chiuso il “Punto Incontro Donna” di Shangai, uno degli ultimi e più saldi pilastri sociali del quartiere, e la situazione già precaria del popolare e degradato rione, ha iniziato a peggiorare gradualmente nonostante i molti investimenti e tentativi di miglioramento da parte dell’amministrazione comunale.

Prima delle origini

Nell’area che corrisponde oggi al quartiere, fino all’inizio del ‘900 si trovavano “solo orti, campi, acquitrini, e rovi”[2]. Era una zona conosciuta dai livornesi soprattutto per la strada che portava al cimitero cittadino, la via del Camposanto. Vi abitavano poche persone, e vi erano insediate alcune fabbriche come la Parodi dove si lavorava l’olio, la Gallinari che produceva coloranti e bitume e la famosa fabbrica della Richard Ginori. Era quasi un’area verde di campagna, perfino con un corso d’acqua, il Rio Cigna[3].

Origini

La nascita del quartiere risale al 1930, quando l’Istituto Case Popolari di Livorno iniziò la costruzione di blocchi abitativi detti “popolarissimi”[4].
La decisione di costruire questo nuovo quartiere a nord della città, che sembra prendere il nome proprio da quanto lontano, disagiato e sovraffollato fosse, in richiamo anche alla città cinese, mancante di tutto quello che invece era presente nel centro, è da ricollegarsi addirittura alla fine dell’800. Fu allora infatti che la questione dei fabbisogni abitativi iniziò ad assumere sempre maggiore importanza. La Livorno postunitaria infatti era in espansione, con un numero crescente di iniziative imprenditoriali. Il commercio portuale fioriva, ma soprattutto la città necessitava un “riassetto organico edilizio del degradato centro cittadino”[5]. Le epidemie di colera nei blocchi del centro (intorno alla centralissima attuale via Grande) erano estremamente comuni, a cavallo tra ‘800 e ‘900, proprio in questi “fatiscenti e insalubri edifici del centro… occupati da miserabili che non possono certamente permettersi di procurarsi una casa in buone condizioni”[6].
In realtà questa necessità di alleggerire il centro abitato da “miserabili” aveva anche delle motivazioni di tipo politico. Nel 1922 i fascisti conquistarono violentemente il Municipio, costringendo il sindaco Mondolfi e l’intera giunta a dimettersi[7]. Solo tre anni prima, nel 1919, vi erano state proteste e saccheggi nel centro cittadino per il caroviveri. Quindi per evitare il ripetersi di tali eventi, il nuovo governo cittadino nel ’26 decise di cedere a titolo gratuito terreni per case popolari da costruire in vista dello sventramento dei blocchi “insalubri”, abitati da persone difficili da tenere sotto controllo, del centro. Questi appezzamenti di terreno comunale erano stati prima (nel 1923 circa) cedute ad associazioni di combattenti, di madri o vedove di guerra che tuttavia non riuscirono ad utilizzarli e dovettero restituirli al Comune, che a sua volta li cedette all’Istituto Case Popolari[8]. Inoltre le case “popolarissime” di Shangai nacquero all’interno della politica di disurbanizzazione, ovvero quella che l’architetto Calza-Bini, presidente dell’I.C.P. di Roma aveva esposto in un’intervista al “Giornale d’Italia” nel 1928 in cui affermò che tutti coloro che non avevano necessità di stare in città dovevano essere trasferiti in periferia tramite la costruzione, da parte dei vari istituti di case popolari, di nuove case in parti periferiche, agricole e/o industriali, delle città. In particolare Calza-Bini nominò in quegli anni una commissione che pubblicò nel 1926 un testo intitolato “Per la costruzione di case popolari rapide ed economiche”, che descriveva i casamenti a cortile chiuso di Shangai[9].
Costanzo Ciano, mano destra di Mussolini, e livornese, spese molte energie per dare l’avvio ad un’edilizia popolare per quei ceti costretti a lasciare il centro e andare nelle nuove abitazioni[10], soprattutto per soddisfare i suoi interessi economici personali[11].
Dallo sventramento dei palazzi insalubri del centro, le famiglie furono traferite nelle abitazioni che iniziarono ad essere costruite a Shangai, caratterizzate dalle “stimmate del degrado e della bassissima qualità abitativa”[12]. È un fenomeno molto comune nelle vicende abitative dei poveri: i bassifondi scompaiono in un posto e riappaiono in un altro[13]. Si trattava di caserme, costruite con materiali scadenti, dove andarono ad abitare famiglie molto povere e numerose. Non solo i materiali delle costruzioni erano di pessima qualità, anche l’impianto delle stesse era di basso livello (quasi sempre l’unico servizio igienico si trovava direttamente in cucina, le abitazioni erano mono affaccio).
I blocchi continuarono ad essere costruiti negli anni successivi, senza però un piano di sviluppo di servizi, infrastrutture e stradario adeguato al popoloso nuovo quartiere che rimase quindi isolato dal resto della città[14]. I bambini inoltre non avevano nemmeno un oratorio dove andare a giocare, anche se almeno la prima scuola del quartiere, le “Campana”, fu costruita pochi anni dopo il primo blocco abitativo, sempre negli anni ’30. Dopo la seconda guerra mondiale, infine, venne terminato il cosiddetto blocco delle “signorine” perché’ subito occupato da prostitute, attirate dalla presenza di una grande base di soldati americani nelle vicinanze[15].

[prosegue]

NOTE: 1. Susini Marco, Shangai:
un quartiere e la sua gente, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2004. p.31.
2. Ibidem, p.17.
3. Ibidem, p.18.
4. Ibidem, p.19.
5. Ulivieri Denise, “Primato livornese: edilizia popolare d’autore”, in Nuovi Studi Livornesi, Vol. XIX- 2012, Debatte editore, Livorno. pp.99-101.
6. Ibidem, pp.97-120.
7. Mazzoni Matteo, Costanzo Ciano, il fascismo a Livorno, in Quaderni di Fare storia, Anno XIII – N.2-3 maggio –
dicembre 2011, I.S.R.Pt Editore, Pistoia. p.22.
8. Bartolotti Lando, Livorno dal 1748 al 1958. Profilo storico urbanistico, Di Lando Bortolotti, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1977, p.327.
9. Ibidem, p.349.
10) Ulivieri D., Primato…,cit., p.102.
11. Mazzoni M., Costanzo Ciano…,cit., pp.21,22.
12) Susini M., Shangai…,cit., p.19.
13. Forgacs David, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2015. p.41.
14. Pia Margherita, La riqualificazione dei quartieri nord in I programmi per i quartieri nord di Livorno. Il contratto di quartiere “Corea”, in Qualità e Città/1, a cura di Landini Franco, ALINEA editrice, Firenze, 1999, p.11.
15) Susini M., Shangai…,cit., pp.19-22.




Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




I fascisti senesi alla marcia su Roma

Quando scattò la fase operativa del disegno eversivo della marcia su Roma, il fascismo senese aveva assunto da vari mesi il controllo quasi completo della provincia di Siena. Basta dire che delle  amministrazioni comunali a guida socialista, elette nel 1920, ne sopravvivevano solo tre. Le altre ventisei erano cadute, una dopo l’altra, sotto le bastonature e le minacce dello squadrismo. I sindaci e le giunte erano state sostituite da commissari prefettizi. Tutte le Case del Popolo avevano subito assalti, danneggiamenti, incendi.  Ampio era il consenso di cui i fascisti godevano nelle istituzioni e nei corpi separati dello Stato.

Nel racconto costruito in seguito alla conquista del potere, il fascismo senese si fregiò di un articolo de “Il Popolo d’Italia” che lo indicava come il primo ad insorgere in Italia. In realtà in più di un capoluogo di provincia – da Cremona a Pisa, per limitarsi a due soli esempi – si verificò una sorta di corsa ad anticipare l’inizio del moto eversivo previsto per il 28 ottobre.

Prime o no che siamo state, le centinaia di camicie nere concentratesi a Siena di fronte alla sede provinciale del PNF in piazza del Carmine, si mossero nel tardo pomeriggio del 27 ottobre dirigendosi alla Fortezza di S. Barbara e poi al Distretto militare di S. Chiara dove si impadronirono di trecento fucili, di quattro mitragliatrici e di munizionamento.

La complicità neppure mascherata del tenente colonnello Enrico Nadalini, comandante dei fanti dell’87°, la conseguente “neutralità” arrendevole di quasi un migliaio di soldati e di una settantina di ufficiali presenti nelle caserme, l’inerzia benevola dei 250 carabinieri del maggiore Vittorio Calcaterra dislocati sul territorio provinciale, la resa del prefetto Mauro Michele Bertone, motivata con la “scarsità” (?) di forze a sua disposizione e con l’intento di non creare “gravi incidenti”, furono determinanti per la riuscita di un’insurrezione che in tutta evidenza non fu tale, bensì un colpo di mano agevolato da chi avrebbe dovuto contrastarlo.

Nella notte la stazione ferroviaria si riempì di squadristi che salirono su un treno – molti altri montarono alle stazioni lungo il percorso per Chiusi, a completare quella che fu chiamata la legione senese – e partirono alla volta di Monterotondo, nei pressi di Mentana, punto di aggregazione della colonna affidata al comando di Ulisse Igliori. Superato lo  sbarramento di Orte viaggiando sul binario dispari – l’altro era stato divelto dai soldati dell’esercito in allerta per lo stato di assedio dichiarato dal governo Facta e poi non firmato dal re –, il 28 arrivarono a destinazione precedendo i fiorenti e gli aretini a cui era stata assegnata la medesima destinazione.

Carenza di viveri, freddo e pioggia furono gli unici veri nemici. L’attesa di dirigersi a Roma durò fino al 30 e si sbloccò solo quando, con Mussolini incaricato di formare un nuovo governo, venne rimosso ogni sbarramento militare a difesa della capitale. In testa alla colonna Igliori, i fascisti senesi entrarono in città e parteciparono alla sfilata di fronte al Quirinale. Il 31 tornarono a Siena, sempre in treno.

I partecipanti all’impresa furono 1.032. Altre 899 camicie nere rimasero invece a presidiare i centri maggiori della provincia. Nell’insieme, numeri elevati rispetto ai 2.600 iscritti al PNF nella primavera del 1922.

In testa alla classifica della partecipazione, il capoluogo (167 partecipanti),  Montalcino (89), Montepulciano (85), Sovicille (79), Sinalunga (67), Poggibonsi (61), S. Gimignano (42), Abbadia San Salvatore (32), Rapolano (30), Trequanda (30). I fasci di frazione garantirono un afflusso importante in ogni comune.

La presenza di leader fascisti autorevoli per influenza sociale – ad esempio esponenti della nobiltà capaci di portarsi dietro gregari armati in un rapporto che evoca suggestioni di tipo feudale – può essere assunta come causa di una maggiore o minore partecipazione dalle varie località. Più in generale si può richiamare la “mobilitazione secondaria” ovvero l’effetto di reazione: laddove il socialismo era stato più forte e agguerrito, da lì venne un numero maggiore di marcianti.  Anche se, va subito aggiunto, non mancano le eccezioni, come Colle Val d’Elsa, Monticiano e Chiusdino.

Per offrire una qualche cognizione su età e condizione sociale dei 1.032, si anticipa qui di seguito la  sintesi dei risultati di uno studio che sarà pubblicato sul numero CXXIX del “Bullettino senese di storia patria”. L’indagine, condotta su otto comuni, rappresentativi di varie zone della provincia, dal capoluogo, alla Val d’Elsa, alla Val di Chiana, si è fondata sui registri dell’anagrafe, intrecciati con altre fonti quali la memorialistica, la stampa, i registri di leva. 310 sono i marciati sui quali è stato possibile raccogliere le informazioni necessarie.

L’età media fu di 24 anni e mezzo: i  più numerosi, gli appartenenti alle classi richiamate sui fronti di guerra, ma molti (39%) anche i nati dal 1900 in poi.

Guardando alla condizione sociale, i ceti medi (impiegati, insegnanti, commercianti, coltivatori diretti, ma soprattutto artigiani) costituirono un’ampia maggioranza (48,8%), a conferma, anche per il  Senese, della politicizzazione, e del conseguente protagonismo in senso estremista, del mondo di mezzo avvenuta in seguito alla guerra.

Mentre i ceti inferiori (salariati, braccianti, mezzadri) totalizzarono il 27,4% di presenze, a colpire è il 23,8% dei ceti superiori (vi sono conteggiati professionisti, fattori e studenti universitari perché, nel contesto dei singoli comuni, appartenevano, a vari gradi, all’élite, e come tali venivano percepiti), fra i quali spicca il 12,2% di possidenti – prevalentemente di famiglia nobile –, di industriali e di impresari edili (per dare un termine di raffronto generale, secondo il censimento del 1921 i possidenti costituivano l’1,3% della popolazione attiva della provincia).

Se a queste percentuali, relative all’insieme dei marcianti, si affiancano quelle dei 30 quadri di comando della legione – comandante in capo, console, seniori, decurioni, centurioni – dalle quali risulta una presenza ampiamente maggioritaria di ceti superiori (20 persone) rispetto ai ceti medi (9) e inferiori (1), non è infondato pensare che, almeno in provincia di Siena, il movimento fascista, pur tra contraddizioni e lotte interne che non mancarono, fu nelle mani, e dunque sotto l’egemonia, delle tradizionali classi dominanti fin dalla partecipazione alla marcia che la storia ha segnato come l’evento fondativo del regime.

Bibliografia

Sullo svolgimento della marcia.

Giorgio Alberto Chiurco, Fascismo senese. Martirologio toscano dalla nascita alla gloria di Roma, Tipografia Combattenti, Siena 1923.

Alberto Tailetti, La Marcia su Roma vissuta nei ranghi, in “La Rivoluzione fascista”, 31 ottobre 1932.

Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922, Il Leccio, Siena 2015.

Paolo Leoncini, Ottobre 1922: la “resistibile” marcia dei fascisti senesi, in “Maitardi”, periodico dell’Isrsec “Vittorio Meoni”, 2022, n. 2.

Sul ruolo dei ceti dominanti alle origini del fascismo senese.

Daniele Pasquinucci, Società e politica a Siena verso il fascismo (1918-1926), Quaderni dell’Asmos, n. 2, Nuova Immagine, Siena 1995.

Saverio Battente, Dalla periferia al centro: la classe dirigente a Siena fra nazionalismo e fascismo, in Paul Corner e Valeria Galimi (cura), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Viella, Roma 2014.




Il “caso Raffo” e la sua cacciata violenta dalla Cooperativa di Consumo di Pietrasanta.

Giovan Battista Raffo primo direttore Cooperativa Consumo Pietrasanta

Il 7 aprile 1924 una spedizione punitiva, guidata dal sindaco e segretario politico del fascio di Pietrasanta, invase gli uffici della Cooperativa di Consumo cercando di raggiungere il suo direttore commerciale che, a stento e con uno stratagemma, riuscì a sottrarsi alla furia degli invasori. Una violenza certamente grave che, senza nulla aggiungere di significativo, potremmo ben ricomprendere nel novero dei tanti, analoghi episodi già accaduti in questa città. Aggressioni e devastazioni, compiute dai fascisti fin dalla loro costituzione in partito, qui avvenuta piuttosto tardivamente il 5 marzo 1921. Così, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, era toccato alla camera del lavoro a essere invasa e devastata mentre nel successivo mese di giugno sarà il presidente della stessa Cooperativa a venire malmenato. In seguito, subirono violenze anche due sindaci: quello di Pietrasanta e quello della vicina Massa casualmente di passaggio in città.
In realtà quanto avvenuto nei locali della Cooperativa nel pomeriggio del 7 aprile andava ben oltre una canagliesca azione fascista. Il tentativo, fallito, di far fuori fisicamente il direttore Giovan Battista Raffo si inquadrava in una più complessa vicenda che ebbe per protagonisti due acerrimi rivali: Renato Ricci, capo del fascismo apuano, e Carlo Scorza, suo omologo lucchese. Al centro dello scontro tra i due gerarchi e le rispettive fazioni era il controllo della Versilia, un territorio già a quel tempo appetibile e considerato strategico per gli assetti politici e di potere del nascente fascismo. Uno confronto durissimo che finì per coinvolgere lo stesso Mussolini, pronunciatosi in un primo momento a favore della tesi di Ricci per l’annessione della Versilia all’area apuana, quali zone contigue e omogenee, entrambe economicamente a prevalente vocazione marmifera. Un pronunciamento, quello del Duce, segnato dal rapporto di amicizia intrattenuto con Ricci. In seguito, su pressioni interne ed esterne al partito, a Mussolini non rimase che fare marcia indietro, dichiararsi contrario all’operazione e di fatto fermando-la. Scorza da una eventuale annessione dell’area versiliese a Carrara avrebbe avuto tutto da perdere, dato che la Versilia, come sappiamo, era parte integrante della provincia di Lucca.
In quel tempo a Pietrasanta, da una quindicina di anni, operava una delle più grandi e consolidate società cooperative d’Italia nel ramo del consumo. Una prestigiosa realtà commerciale e associativa con alle spalle un considerevole sviluppo produttivo, distributivo e organizzativo maturato durante e dopo il conflitto mondiale. Basti pensare ai risultati di un anno come il 1920 quando la giovane Cooperativa di Pietrasanta contava già 53 dipendenti, ai quali si dovevano aggiungere i fornai e i calzolai, una ventina di spacci e una base sociale che supera-va i 2.300 aderenti.
Una componente fondamentale, dunque, dell’economia locale, fortemente radicata nel tessuto sociale, fonte di consenso e di potere per chiunque ne controllasse le sorti. All’interno dell’antagonismo tra i due ras Scorza e Ricci si verranno definendo anche i destini della Cooperativa di Pietrasanta fino alla sua piena fascistizzazione.
Volantino 1912 Cooperativa MacelloMa per una completa comprensione del quadro ora descritto è necessario, almeno per cenni, andare alle origini della Cooperativa e ai suoi tratti distintivi che risulteranno decisivi a preservarla dall’assalto che il fascismo porterà alla cooperazione italiana.
La “Società Anonima per azioni Cooperativa” con sede in Pietrasanta nacque dopo lunga gestazione alla fine del 1907 dalla locale Società di mutuo soccorso “Giuseppe Garibaldi” e dalla sua base sociale marcatamente operaia. Oltre al perseguimento delle finalità statutarie (lotta al carovita, case operaie e così via) la Cooperativa avrebbe dovuto essere un prezioso ponte per mantenere saldo e sviluppare il legame con l’ambiente sociale e culturale della “mutuo soccorso”. L’ente cooperativo, al contrario, riverberò da subito tutt’altra luce mostrando natura e fini assai diversi da quelli di classe pur non potendosi neanche definire figlia o figliastra di quel cooperativismo “bianco”, di stampo clericale che, al di là dei confini versiliesi, aveva già attecchito a Lucca e nel resto della provincia.
La “Pietrasanta” nacque dalla secca quanto inattesa sconfitta della componente socialista in seno alla “Garibaldi”. Una sconfitta determinata in massima parte dalle abili e spregiudicate manovre del notaio Adriano Ricci, allora sindaco di Pietrasanta a capo di una giunta liberale, considerato dai socialisti la lunga mano della borghesia sulle organizzazioni operaie e del proletariato.
Della Cooperativa, nonostante la discutibile conduzione, Ricci ne sarà per sette anni il presidente. Un tempo sufficiente per imprimere all’Azienda caratteristiche sì di progresso ma con tratti moderati e borghesi, lasciandola scevra da quelle connotazioni classiste e, in certi casi, fortemente classiste che contraddistinsero tanta parte del movimento cooperativo in Toscana e nel resto dell’Italia. Questi connotati la Cooperativa di Consumo di Pietrasanta non li cambierà nel corso dei suoi sessant’anni di vita.
M - La costruzione dei magazzini generali (1927)A imprimere un indirizzo prevalentemente aziendalista alla neonata Cooperativa contribuì in misura decisiva il decisionismo di Giovan Battista Raffo, un giovane scultore di origini genovesi, che in città aveva aperto un laboratorio di scultura, di vaghe idee socialiste e noto per la sua intraprendenza e pragmaticità. Le indubbie capacità di Raffo, avvicinatosi alla Società cooperativa fin dalla sua costituzione, si manifestarono soprattutto all’indomani della disastrosa gestione del suo primo presidente. Saranno gli anni della guerra e quelli immediatamente successivi ad esaltare le doti e le capacità di Raffo. Egli, infatti, non solo contribuirà a risanare i conti e a consentire di chiudere i bilanci in attivo, con risultati davvero sorprendenti, ma sotto la sua direzione l’Azienda in poco tempo fece registrare una ulteriore espansione dei suoi commerci e dei suoi punti vendita.
Quando il fascismo, non ancora regime, iniziò un’implacabile opera di penetrazione delle istituzioni e delle più diverse realtà cittadine – da quelle associa-tive a quelle sindacali, imprenditoriali e così via – Raffo per i fascisti si presentò come l’unico vero ostacolo alla possibilità di mettere fino in fondo le mani sulla Cooperativa. Per qualche tempo essi mal sopportarono l’autonomo operare del direttore e, dopo non poche frizioni e qualche avvertimento, giunsero alla determinazione che non ci fosse altra soluzione che sbarazzarsi della sua persona.
L’appiglio fu banale. Lo ricorderà lo stesso Raffo in una “memoria” scritta molti anni dopo. “Col pretesto che il 6 aprile 1924 non avevo voluto votare nelle elezioni politiche” scrive Raffo “il giorno seguente un gruppo di facinorosi fascisti capeggiati dal segretario politico e sindaco di Pietrasanta, Andrea Ballerini invase la Cooperativa ed alcuni, anche con le armi in pugno, mi cercarono per punirmi. Riuscii ad evitare la furia degli invasori nascondendomi. Mi costrinsero però, fa-cendo sempre uso della violenza, ad abbandonare la Cooperativa con la sempre espressa minaccia che mi sarebbero derivate più serie conseguenze ove avessi osato ripresentarmi in Ufficio”.
La cacciata violenta dalla Cooperativa del suo direttore originò una lunga scia di atti persecutori nei confronti dello stesso Raffo, atti che lo costrinsero a lasciare la città per riparare a Pisa dove avviò una attività commerciale che in poco tempo fu costretto a chiudere sempre sotto la minaccia dei fascisti.
Cooperativa Magazzini. Anni TrentaIn un contesto così difficile la determinazione di Raffo fu tale da sfidare il regime ricorrendo alla magistratura e a Mussolini in persona per farsi vedere ri-conosciuto il diritto alla liquidazione, negatogli dai fascisti locali. Quella che passò come “la vertenza” trovò formale e giusta conclusione nel corso degli anni Trenta con una sentenza che riconobbe all’ex direttore i diritti economici acquisiti e ne dispose la liquidazione. Un riscatto tardivo per Raffo che non si piegò mai ai fascisti ma che non valse a evitargli un’ultima amara sorpresa. Convocato nella sede del fascio di Pietrasanta per ritirare la somma dovutagli, si sentì dire che per dimostrare fino in fondo il suo amore per la Cooperativa, tante volte da lui stesso rivendicato, ora per coerenza avrebbe dovuto elargire l’intero ammontare della liquidazione a favore della Cooperativa stessa. La lettera era già stata preparata e rimaneva solo da firmarla. Raffo la lesse e senza batter ciglio la firmò.
La storia di Raffo con la Cooperativa non finì lì. Quando la bandiera della libertà era da poco tornata a sventolare su Pietrasanta, il vecchio direttore della Cooperativa, tra la fine di settembre e l’ottobre del 1944, chiamato dal Governatore militare alleato, riprese le redini dell’Azienda in qualità di commissario straordinario. Negli stessi giorni, su designazione del Comitato di liberazione nazionale, il Governatore militare nominò a capo del Comune l’avvocato Giovan Battista Cancogni, dopo la rinuncia dell’avvocato Luigi Salvatori, e Raffo entrò a far parte dell’esecutivo come “esperto in alimentazione”.
Quei delicati e importanti incarichi rappresentarono per Giovan Battista Raffo il vero riscatto tanto a lungo atteso, salvo doversi dimettere dopo pochi mesi da entrambi gli impegni, già debilitato dalla malattia che nel marzo 1945 lo condurrà alla morte.




La Città Bianca in camicia nera: il decennio di Scorza

La repressione degli antifascisti sul territorio provinciale

La segreteria Scorza si distingue fin da subito per la violenta offensiva contro le amministrazioni locali guidate dalle sinistre e dai popolari: nel 1925 “cade” Borgo a Mozzano, ultimo comune antifascista [1], il cui commissariamento viene salutato sulle colonne de L’intrepido – il foglio del fascismo lucchese – come una “vittoria morale e reale dei Fasci” [2]. Ma la sola conquista del potere politico non è sufficiente: sono gli individui che debbono essere colpiti, perseguitati, schedati. Gli archivi del Casellario politico centrale – istituito per la prima volta nel 1894 sotto Francesco Crispi e adesso ufficio autonomo alle dipendenze della PS – si gonfiano letteralmente durante il fascismo; nel mirino non soltanto l’adesione a fedi politiche avverse al regime, ma anche la moralità stessa delle persone, soprattutto se donne: così l’anarchica Pia Bertini, residente in provincia di Pisa ma nata ad Altopascio, è sia una sovversiva che una “di facili costumi”[3]. Prostitute dunque, oppure pazze: come Clementina Masini di Monte San Quirico, arrestata nel 1929, le cui parole contro il duce sarebbero da attribuirsi ad un “momento di esaltazione mentale per disturbi psichici”[4].

Gli squadristi imperversano in tutta la provincia, non basta allontanarsi dalla città per essere al sicuro: il montecatinese Agenore Dolfi, già socialista e poi membro del PcdI, viene aggredito più volte tra il 1922 e il 1923 (in un’occasione la spedizione punitiva avviene addirittura all’esterno del tribunale di Lucca, dove assieme a Dolfi viene ferito anche il suo avvocato e compagno di militanza politica, Luigi Salvatori); trasferitosi infine a Viareggio, viene addirittura rapito dagli squadristi e riportato a Lucca, dove subisce l’ennesimo pestaggio. Dolfi sarà infine costretto a rifugiarsi in Argentina, dove continua a spendersi in favore del movimento antifascista: muore nel 1944 in Italia, dove era tornato per prendere parte alla Resistenza, in circostanze mai del tutto chiarite [5]. Come Dolfi, anche il socialista massarosese Giuseppe “Beppino” Cosci, nativo della frazione di Stiava, è costretto all’emigrazione in Francia per sfuggire alle persecuzioni. Verso Cosci, che in paese gode di stima e rispetto, i fascisti lasciano da parte il manganello per ricorrere a più subdole strategie, offrendogli dapprima un posto presso il locale oleificio in cambio dell’adesione al fascio, per poi impedirgli di trovare e mantenere un lavoro che gli consenta di sfamare la numerosa famiglia (arrivando a incendiare i locali della falegnameria aperta da Beppino a Viareggio)[6].

La ferita più grave all’antifascismo però Scorza l’ha già inflitta nell’estate 1925, quando i suoi uomini aggrediscono uno dei più importanti leader dello schieramento liberaldemocratico: il deputato Giovanni Amendola.

20 luglio 1925: il “Delitto Amendola”

Ostile sin dal principio al fascismo e ai suoi metodi illegali, pur partecipando nel 1922 in vesti ministeriali ai due Governi Facta (che includevano anche i fascisti), Amendola nel 1925 è ormai uno dei capi riconosciuti dell’opposizione costituzionale a Mussolini. Già a un anno dalla marcia su Roma il deputato è stato sottoposto a fermo presso la sua abitazione salernitana, per poi subire una prima aggressione nella capitale poche settimane dopo. L’azione contro Amendola viene pianificata dal segretario del PNF Farinacci d’intesa con Scorza, reputato l’uomo giusto per portare a segno il colpo senza lasciarsi dietro “pasticci” (U. Sereni) analoghi a quelli del Delitto Matteotti.

L’aggressione al rappresentante liberale avviene sulla strada tra Montecatini Terme e Pistoia la notte del 20 luglio: come ricorda il figlio Giorgio (poi deputato del PCI), che da Salerno si affretta a raggiungere il padre convalescente a Roma dove è stato trasportato, Amendola “era tutto piagato. Facevano impressione soprattutto le ferite alla testa, all’occhio e all’orecchio. Il corpo era pesto, ma allora non si sapeva che il colpo mortale era stato inflitto proprio ai polmoni” [7]. Amendola sarebbe morto nove mesi dopo in Francia a Cannes, il 7 aprile 1926, e le indagini, svogliatamente compiute dalla magistratura [8], portano a un nulla di fatto: l’aggressione viene fatta passare dal regime come genuina reazione popolare contro l’odiato antifascismo. I bastonatori di Scorza resteranno impuniti, così come il loro capo, che nel dopoguerra fugge in Argentina proprio per non affrontare la giustizia italiana e rispondere dei propri capi d’imputazione (il principale dei quali riguarda proprio i fatti di Montecatini). In suo favore intercedono le gerarchie ecclesiastiche pistoiesi, e fra tentativi di depistaggio e interventi della Cassazione, il processo si concluderà nel 1949 con la concessione dell’amnistia da parte della Corte d’assise di Perugia, scampando al gerarca la precedente condanna a trent’anni di reclusione [9].

Guerra a tutto campo dentro il Partito

Se è vero che i colpi più duri Scorza li riserva agli antifascisti, non più tenero il ras di Lucca si dimostra nei confronti delle opposizioni interne allo stesso PNF: i primi a farne le spese sono addirittura due dei principali rappresentanti del partito in città, Nino Malavasi e Anatolio Della Maggiora. Malavasi, romagnolo di formazione repubblicana e anticlericale [10], nonché tra i fondatori del fascio lucchese, viene allontanato nel marzo 1921 al termine di una campagna diffamatoria per il suo mancato allineamento alle direttive della dirigenza milanese; Della Maggiora, che ricopre il ruolo di segretario ed è inviso a Scorza per la sua alleanza con Augusto Mancini e altri esponenti democratico-borghesi e del combattentismo alla vigilia delle elezioni della primavera 1921, viene a sua volta epurato per la mancata candidatura di rappresentanti fascisti nelle liste del Blocco Nazionale, e la segreteria passa nelle mani dello stesso Scorza.

Per consolidare il proprio potere, il ras cosentano non esita a far scorrere del sangue: il 22 maggio 1921 il sangue è quello di due squadristi, Nello Degl’Innocenti e Gino Giannini, entrambi a bordo del camion partito da Borgo a Mozzano in direzione Valdottavo, colpito nel Morianese da alcuni massi caduti dal soprastante monte Elto. Immediatamente si parla di un attentato antifascista, il casellante di Saltocchio Esmeraldo Porciani – presunto testimone oculare dei preparativi dell’attentato – viene bastonato e preso a rivoltellate da un gruppo di fascisti in piena notte davanti alla propria abitazione, e muore poche ore dopo all’ospedale di Lucca. Scorza nega qualsiasi coinvolgimento fascista, e il processo-farsa contro i responsabili si conclude con l’assoluzione per tutti salvo Alfredo Menesini, datosi latitante (che rientra comunque in seguito ad amnistia e apre una ditta di costruzioni, ricevendo importanti commesse pubbliche). Ben più dura sarà la giustizia nei confronti dei tre “attentatori antifascisti” di Valdottavo (Giannarini, Della Nina e Ramacciotti), condannati su pressione di parte fascista a pene severissime che spaziano dall’ergastolo all’interdizione perpetua dai pubblici uffici [11].

Nel 1927 la fronda antiscorziana dentro il PNF prova a riorganizzarsi attorno al podestà di Lucca Mario Guidi e ai suoi alleati Oscar Galleni e Fedele Pennacchi, membri del direttorio provinciale che intendono screditare Scorza in sede congressuale portando alla luce alcune torbide faccende legate alla Banca di Lucca (disastrosamente gestita dal fratello del gerarca, Giuseppe) nelle quali era implicato anche l’ex deputato di Pescia Tullio De Benedetti [12]: il vicesegretario nazionale Renato Ricci però all’ultimo momento ritira il proprio sostegno ai tre dissidenti, che vengono costretti a dimettersi dalle rispettive cariche ed espulsi dal Partito.

1930 – 1932: Scorza dal trionfo alla caduta

Il regime scorziano a Lucca riceve la sua “consacrazione” ufficiale il 12 maggio 1930, in occasione della visita di Mussolini in città, in ricordo della quale viene aperto nel 1931 un nuovo varco nelle Mura alla presenza del segretario nazionale del PNF Giuriati, Porta della Vittoria (l’odierna Porta San Jacopo, familiarmente detta “il buco nuovo”)[13]. Pochi mesi prima lo stesso Giuriati ha chiamato al proprio fianco Scorza, nominandolo responsabile dei fasci giovanili.

Resta un solo, mal tollerato ostacolo, e proprio nel cuore del regno di Scorza: la potente famiglia Bertolli, ricca dinastia dai ramificati interessi economici, nei cui confronti il ras porta avanti una cauta “guerra fredda” (Umberto Sereni) e che intrattiene buoni rapporti con il neosegretario nazionale Starace, subentrato a Giuriati e ostile a sua volta a Scorza. Nel giro di poco tempo il gerarca di origini cosentane viene costretto a restituire i propri incarichi, e le missive inviate a Mussolini, che certo non ha digerito l’opposizione di Scorza alla sua linea di accordo con il Vaticano, restano lettera morta. La faccenda di Valdottavo viene rispolverata per l’occasione, i fedelissimi dell’autoproclamatosi “condottiero” ed erede di Castruccio Castracani vengono colpiti uno dopo l’altro [14], e il 10 dicembre 1932 viene sancita ufficialmente la decadenza di Scorza dalle pagine del Popolo Toscano [15]. Soltanto un decennio più tardi – in frangenti ben più drammatici per il regime e il paese – il fascismo avrebbe riabilitato Scorza.

Mussolini_manifattura_Lucca 1930

Mussolini in visita alla Manifattura Tabacchi durante il suo soggiorno a Lucca nel 1930 (foto di Ettore Cortopassi, 1930; Archivio Fotografico Lucchese, ECN 2329)

[1] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del saggio di Nicola Laganà Borgo a Mozzano: l’ultima amministrazione comunale antifascista della Lucchesia (1924-1925), secondo i documenti d’archivio e le cronache dei periodici locali, in “Documenti e Studi – Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in provincia di Lucca” n. 27/28, dicembre 2006, pp. 17-143

[2] Ibidem, p. 19

[3] Teresa Catinella, Bertini, Pia, in Gianluca FULVETTI, Andrea VENTURA (a cura di), Antifascisti lucchesi nelle carte del Casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 54-55

[4] Marta Giusti, Masini, Clementina Maria Luisa, in Ibidem, pp. 138-139

[5] Andrea Ventura, Dolfi, Agenore, in Ibidem, pp. 91-93

[6] Andrea Ventura, Cosci, Giuseppe, in Ibidem, pp. 80-81; vedi anche Vanda Puccetti, Memorie su Beppino Cosci (a cura di Fabio Flego), Pezzini, Viareggio 2010

[7] Giorgio Amendola, Una scelta di vita, BUR, Milano 1979, pp. 126-127

[8] Umberto Sereni, Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217

[9] Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 166-167

[10] La convergenza tra settori del repubblicanesimo di matrice mazziniana e fascismo a Lucca porta anche alla nascita di un periodico di respiro nazionale, Retaggio”, pubblicato dall’agosto al dicembre del 1924. La sua breve ma significativa storia è stata ricostruita nel dettaglio da Nicola Del Chiaro nel saggio L’Edera con il littorio. “Retaggio”: un ambizioso periodico mazziniano fascista (Lucca, agosto-dicembre 1924), in “Documenti e Studi” 42/2017, pp. 41-63

[11] La vicenda è stata ricostruita approfonditamente da Nicola Laganà nel saggio L’eccidio di Valdottavo: domenica 22 maggio 1921. Un falso attentato antifascista, ordito dal fascista Carlo Scorza e realizzato dai suoi squadristi, in “Documenti e Studi” 32/2010, pp. 11-76

[12] Per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura del già citato saggio di Umberto Sereni Carlo Scorza e il fascismo stile camorra, in particolare pp. 201-206

[13] Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, p. 129

[14] In particolare si vedano a titolo di esempio i casi di Luigi Stefanini (segretario del fascio di Altopascio) e Artidoro Nieri (subentrato a Scorza come segretario federale provinciale dopo che questi era stato eletto alla Camera dei deputati), entrambi approfonditi nel saggui di Moreno Bertolozzi Uomini e vicende del fascismo di Altopascio (1922-1932… e oltre, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 17-37

[15] Umberto Sereni, Op. cit., in particolare pp. 206-217




INFAUSTA COINCIDENZA

E pensare che un anno prima, nello stesso giorno, Maria Bergamas era stata chiamata a scegliere tra undici bare quella del Milite Ignoto. Una scelta, passata alla storia come “Rito di Aquileia”, che dette inizio al viaggio verso Roma – cinque giorni e 800 chilometri in treno percorsi in più tappe – per la sua traslazione al Vittoriano, dove venerdì 4 novembre 1921 fu solennemente tumulata nell’Altare della Patria.
L’anonimato di quella salma riuscì a trasformare la disperazione del singolo in lutto collettivo e da subito il Milite Ignoto assurse a simbolo dell’identità nazionale, a luogo della Memoria di un popolo, fatto di gente comune, unito nel desiderio di dimenticare la Grande Guerra e le sue tra-gedie.
Una memoria tuttavia assai labile, che vide la sospirata identità nazionale ispiratrice di un nuovo “viaggio”. Quella Marcia su Roma cui dette un fondamentale contributo lo squadrismo toscano. Una regione, la nostra, ormai “fascistissima” dove in men che non si dica, superato il “Biennio rosso”, quel “colore più cupo” era “virato al nero”. I fascisti toscani mobilitatisi per Roma furono circa 14.000, equivalenti a oltre l’85% del totale (16.500 unità): 2.200 proveniva-no dalla provincia di Firenze, 1.100 da Arezzo, 1.500 dalla Lucchesia, 1.600 dal Grossetano, 3.000 dalla sola città di Livorno, 2.450 dal Pisano, 1.500 dal Senese e 700 dall’attuale territorio di Massa-Carrara. (da Andrea GIACONI, La fascistissima. Il fascismo in Toscana dalla Marcia su Roma alla notte di San Bartolomeo, Foligno, Il Formichiere, 2019)
Anche la Val di Cecina, dove l’influente Piero Ginori Conti, a tutela dei suoi interessi, fin dall’ottobre 1920 aveva costituito il “Fascio X” (poi Fascio di Larderello), avvalendosi delle “prestazioni” di squadristi fiorentini capeggiati da Giuseppe Fanciulli, uomo di fiducia di Dino Perrone Compagni, plenipotenziario del fascio toscano, non mancò di offrire il proprio contributo.
Montecatini, paese dalle tradizioni rosse ma ormai fascistizzato grazie anche alle scorribande squadristiche, nonostante fosse retto ancora da una Amministrazione socialcomunista, sembra-va intuire l’avvicinarsi dell’ora della “rivoluzione” e si preparava così.

FESTA FASCISTA, 17 ottobre (ritardata)
Domenica (15 ottobre) furono inaugurati il Gagliardetto di questa Sezione Fascista e la Fiamma della squadra «Guido Mori». Il paese era tutto imbandierato di tricolore e adorno di festoni (con) scritte patriottiche ed inneg-gianti al fascismo.
Alle ore 9 incominciarono a giungere i primi camion di camicie nere e azzurre dai paesi vicini, ricevute dalla locale squadra fascista e dal Corpo musicale paesano.
Alle ore 10,30 agli squilli di tromba tutte le squadre, musiche ed associazioni si raccolsero in Piazza Vittorio Emanuele per avviarsi in corteo al luogo dell’inaugurazione,
Il Segretario Politico del Fascio locale sig. Mazzolli-Manzi David presentò l’oratore Tenente De Franceschini il quale pronunciò un vibrante discorso ripetutamente applaudito; lo seguì la madrina del Gagliardetto, la leggiadra signorina Mori Lorenza, che tra vivi applausi fece la consegna all’alfiere Martini Ernesto il bellissimo e ricco ga-gliardetto.
Indi parlò la signorina Borghi Fernanda madrina della Fiamma di squadra, «La Guido Mori», la quale ha pronun-ciato il suo discorso con disinvoltura, anche essa applauditissima; appena ebbe consegnata all’alfiere Ivo Lenci la «Fiamma» prende la parola il capitano Bruno Santini della Federazione Fascista provinciale e il poderoso avvin-cente discorso (fu) interrotto spesso da approvazioni e da nutriti applausi.
Terminata la cerimonia, il lunghissimo corteo fece il giro di tutto il paese al canto di «Giovinezza».
Abbiamo notato nel corteo il Fascio locale, Avanguardia e Fascio di Volterra, Fascio Femminile di Volterra e Avanguardia, Fascio e Musica di Laiatico, Nazionalisti di Saline, Fascio e Musica di Orciatico, Fascio di Saline, Fa-scio di Villamagna, Nazionalisti di Sassa, Sezione Combattenti, Società Filarmonica e Corpo Musicale locali, So-cietà Artigiana e Sindacato politico locali.
Alle ore 12 ebbe luogo un banchetto a tutte le rappresentane convenute.
Nessun incidente, il più schietto entusiasmo (da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 44, 29 ottobre 1922).

Inquadrati nella III Legione Maremmana, I Coorte, I Centuri, I Manipolo, III e IV Squadra comandate da Gherardo Maffei e Guido Dell’Aiuto, i marciatori volterrani furono 70. Nel II Manipolo, I Squadra comandata da Sisto Giannelli, erano iscritti 19 marciatori di Villamagna; nella II Squadra comandata da Cesare Becorpi, 29 salinesi, e nella III Squadra comandata da Rodolfo Bianchi, 20 montecatinesi.
– La squadra dei “marciatori” montecatinesi, appartenenti alla III Squadra del II Manipolo (de-curione, Baroncini Livio) della I Centuria (centurione, Ambrosino Magdalo) della I Coorte (se-niore, Paolo Pedani) della III Legione Maremmana (console, Piero Pelamatti), era composta da Bianchi Rodolfo, Bartolini Rodolfo, Bartolini Verdi, Berti Giuseppe, Cavicchioli Francesco, Ceppatelli Giuseppe Pietro, Colò Mario, Demi Alfredo, Francalacci Guido, Giaganini Raffaello, Giuntini Primo, Lenci Francesco, Lenci Ivo, Magozzi Secondo, Marsili Furio, Martini Ernesto, Mori Francesco, Rossi Narciso, Sarperi Ferdinando, Staccioli Tranquillo.
– Sempre nel II Manipolo, la I Squadra comprendeva 19 uomini di Villamagna: Giannelli Sisto, Baldini Igino, Bernardeschi Dario, Busdraghi Alberto, Busdraghi Paolino, Gori Ugo, Gronchi Dante, Gronchi Nello, Mannucci Gualtiero, Mazzei Maurizio, Pasquinucci Giuseppino, Pedani Giuseppe, Pedani Mario, Pitti Guglielmo, Simoncini Ernesto, Simoncini Italo, Simoncini Pietro.
– La II Squadra, vedeva arruolati 29 salinesi: Becorpi Cesare, Bardi Dante, Barlettani Ezio, Bar-lettani Raffaello, Bartolini Guido, Bigazzi Angiolino, Boni Carlo, Cappellini Leo, Cardellini Re-nato, De Vespri Arturo, Donati Pilade, Gazzarri Garibaldi, Gazzarri Valfrido, Gori Vittorio, Gotti Carlo, Guerrieri Gino, Manzi Gino, Manzi Giovanni, Meucci Pietro, Morelli Mario, Pa-squaletti Alvaro, Pasqualetti Wladimiro, Pratelli Bruno, Ricca Francesco, Simi Liberato, Tani Giulio, Trovato Orazio, Vannini Natale, Volterrani Guido.
– I volterrani facevano parte invece della III e IV Squadra del I Manipolo (decurione, Cini Gio-vanni). Erano 70: Maffei Gherardo, Dell’Aiuto Guido, Alboni Bruno, Baccerini Libero, Benas-sai Pilade, Berti Argante, Bessi Donatello, Bimbi Bruno, Brogi Esamillo, Cancelli Mario, Canti-ni Guido, Caporioni Dino, Cheli Luigi, Conte Leo, Corrieri Ubaldo, Del Rosso Giuseppe, Del Secco Egidio, Del Testa Secondo, Dello Sbarba Emilio, Duccini Faustino, Fiumi Pietro, Galga-ni Settimo, Gazzanelli Dino, Ghilli Olinto, Ghilli Silla, Ghionzoli Valente, Grossi Dino, Grossi Claudio, Guelfi Guelfo, Guerrieri Gino, Guerrieri Guido, Guidi Guido, Guidi Marcovaldo, Im-morali Giuseppe, Incontri Mario, Inghirami Ennio, Inglesi Umberto, Isolani Emilio, Landucci Lando, Leduc Alberto, Lupetti Antonio, Lupetti Giulio, Lupetti Roberto, Maffei Ascanio, Maf-fei Mario, Maffei Niccolò, Maffei Salinuccio, Maggiorelli Umberto, Mancini Doddo, Mannucci Manfredo, Mannucci Umberto, Mariani Mario, Mechini Federigo, Nerei Guido, Ormanni Or-manno, Pagnini Gino, Pagnini Iacopo, Paolini Renato, Papalini Pietro, Parenti Mentore, Pesa-galli Tersilio, Pini Giuseppe, Piras Giovanni, Raffaelli Guido, Santi Libero, Taddeini Carlo, Tamburini Primo, Tommasini Giulio, Trafeli Giulio.
A questi dobbiamo aggiungere i 20 marciatori di Lustignano (capo squadra, Musi Vincenzo) e 7 di Larderello (capo squadra, Gallori Aldo), appartenenti alla I e II Squadra del III Manipolo (decurione, Bulichelli Enrico).
– Il Fascio di Lustignano era composto da Musi Vincenzo, Baldassarri Fabrizio, Bianchi Ermin-do, Bianchi Ghino, Bianchi Severino, Bocci Boccino, Bulichelli Pietro, Gherardi Dionisio, Ghe-rardi Gherardo, Musi Guglielmo, Musi Licurgo, Musi Spinello, Nasti Gennaro, Nati Raffaello, Pineschi Ugo, Rossi Iroldo, Socci Dante, Spinetti Augusto, Spinetti Guido, Tassi Emilio.
– Mentre il Fascio di Larderello annoverava Gallori Aldo, Alocci Ettore, Chiti Amerigo, Gui-ducci Ugo, Maccanti Pietro, Matteucci Ugo, Rosselli Rodolfo.
Infine la I, II, e III Squadra del IV Manipolo (decurione, De Franceschi Umberto) comprende-vano 23 volontari di Pomarance (capo squadra, Pollina Bartolomeo), 7 di Castelnuovo V.C. (capo squadra, Antonelli Gino) e 10 di Sasso Pisano (capo squadra, Trenti Edoardo).
– Nel Fascio di Pomarance erano schierati Pollina Bartolomeo, Bacci Angiolo, Baldini Giovan-ni, Cappellini Gino, Cavatorta Pietro, Dal Canto Giuseppe, Falcini Cesare, Fignani Giuseppe, Fontanelli Fontanello, Galgani Albano, Galletti Celso, Gazzarri Cesare, Ghilli Leone, Giudici Giordano, Landi Elio, Nichesola Galesio, Pasquinucci Luigi, Pini Enrico, Ristori Pompilio, Ta-ni Ascanio, Taviani Enrico, Zani Antonio, Zoccolini Giulio.
– Il Fascio di Castelnuovo Val di Cecina poteva contare su Antonelli Gino, Menichelli Alfìero, Nardi Ofaleno, Ovidi Piramo, Pierattini Francesco, Talanti Giuseppe, Togoli Domenico.
– Mentre Trenti Edoardo, Aldrovandi Etimio, Battieri Pietro, Baroncini Giulio, Bertini Mode-sto, Casalini Antonio, Chiti Pietro, Fillini Osvaldo, Fillini Remo, Pineschi Tertulliano, Trenti Iacopo costituivano il Fascio del Sasso Pisano. (Da Renzo CASTELLI, Fascisti a Pisa, Pisa, Edi-zioni Ets, 2006)
Alla III Legione Maremmana, erano affiancate la I Legione Pisana e la II Legione “Zoccoli Ser-lupi”: tutte appartenenti alla Colonna Lamarmora.

E qui una piccola postilla per rilevare che la marcia della Legione Maremmana ebbe anche un risvolto un po’ grottesco.
Bloccati per contrattempi diversi a Civitavecchia prima e poi a Santa Marinella, i nostri, così come avvenne per le altre legioni della Colonna Lamarmora, furono in effetti gli ultimi a giungere a Roma il 31 ottobre, quando Mussolini – ricevuto il giorno prima dal re l’incarico di formare un nuovo governo – si era già insediato al potere e la città era ormai invasa dalle altre squadre fasciste.
Non solo, furono anche tra i primi a ripartire, la notte stessa del loro arrivo nella capitale, su ordine perentorio di smobilitare da parte del Duce stesso.
Fra la delusione e l’irritazione per il mancato protagonismo, la Marcia si ridusse quindi a poco più di una scampagnata, che al ritorno in alcune località – e mi si dice anche a Montecatini – fu oggetto di scherno, prontamente rintuzzato dalla retorica fascista.
Mal di poco, i nostri marciatori di quell’impresa poterono parlare con orgoglio per tutto il Ven-tennio (dopo, un po’ meno). Così come fece la Redazione de “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 45. Del 5 novembre 1921:

VITTORIA FASCISTA
Il nostro giornale che ha seguito con simpatia, con fiducia, con ammirazione fervida e sincera, il fascismo, fino dal suo sorgere, ne celebra oggi la piena e assoluta vittoria con la più grande letizia e con la ferma sicurezza che esso saprà ottimamente ricostruire come efficacemente ha saputo compiere l’opera di santa demolizione.
Alle Camicie nere, al genio di Benito Mussolini – duce romanamente grande – l’Italia deve la sua salvezza e dovrà la sua rinascita e il definitivo trionfo.
I primi atti del nuovo Governo infondono un ritmo nuovo alla vita nazionale: il ritmo dei forti.
Finalmente – dopo l’avvicendarsi di governi abulici, inerti, tentennanti, deboli – L’Italia – per merito di Vittorio Emanuele III – ha oggi alla sua testa un Uomo dal pugno di ferro e dalla mente superiore, un Uomo che è espres-sione pura e genuina della nostra razza imperiale!
Salutiamo in Benito Mussolini il continuatore dell’Italia di Vittorio Veneto; diamo a Benito Mussolini adesione piena, completa, entusiastica, incondizionata; stringiamoci concordi intorno al Fascismo trionfante: questo è il dovere di quanti hanno amore e rispetto per la Patria, affetto e devozione per il Sovrano: chi non sente questo dovere è un traditore.
Il Corazziere

Della grande festa riservata a Volterra ai reduci della Marcia e degli entusiastici interventi del commissario prefettizio Filippo Cardelli, del segretario del fascio Gherardo Maffei, del commissario di zona Paolo Pedani e di altri “notabili” ne dà ampia cronaca ancora “IL CORAZZIERE” nelle pagine interne dello stesso numero.
Più modestamente Montecatini, nel suo piccolo – allora non proprio piccolo come adesso – non mancò di acclamare i suoi venti eroici marciatori e la vittoria fascista

Da Montecatini, 7 novembre 1922
FESTE PATRIOTTICHE
Questa popolazione dopo avere con entusiasmo patriottico, con esposizione del tricolore a tutte le abitazioni e cortei salutato la vittoria del Duce Mussolini, accolse e portò in trionfo ricoprendoli di fiori la squadra dei baldi fascisti al suo ritorno da Roma.
Il 4 poi ricorrenza della vittoria fu questa solennemente festeggiata […]. [da “IL CORAZZIERE”, a. XLI, n. 47 del 17 novembre 1922)

Il giorno della Marcia su Roma segnava l’avvio del Ventennio.
Sarebbero trascorsi solo pochi giorni prima che anche a Montecatini gli Amministratori socialisti si mettessero da parte.
In effetti, dopo il “Biennio rosso”, che aveva provocato reprimende e manifestazioni anche violente contro lo spettro del bolscevismo, nonché il discredito del sindaco “bolscevico” Luigi Lazzerini (con il Congresso di Livorno del 15-21 gennaio 1921 aveva aderito all’opzione comunista) e le sue conseguenti forzate dimissioni nell’aprile 1921, suggestionata dal perdurare delle accuse di antinazionalismo rivolte ai socialisti da coloro che avevano saputo farsi interpreti del-la memoria dei Caduti e del cordoglio dei familiari, la gente non trovava più punti di riferimento nella Giunta guidata da Giuseppe Rotondo. Sindaco facente funzione, che proprio nel novembre 1922 vide venir meno le condizioni per rimanere alla guida del Comune. A seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio socialista, il Comune fu guidato per circa due mesi da Giulio Malmusi, commissario prefettizio, e nelle elezioni del gennaio successivo, a compimento della fascistizzazione del potere locale, la lista fascista e nazionalista avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta. In pratica con la Marcia su Roma vide la fine quel dominio socialista che dal 1895 aveva caratterizzato quasi ininterrottamente la guida del Comune.
Infine una curiosità.
Su “IL CORAZZIERE”, sempre nel numero del 17 novembre 1922, nella medesima pagina dell’articolo montecatinese “Feste Patriottiche”, non può non venire all’occhio una “dichiara-zione spontanea” di certo Baroni Bramato.

[…] Trascinato dalla corrente impetuosa, per qualche mese fui semplicemente ascritto nei socialisti unitari; riconosciuto pienamente il mio errore, dichiaro pubblicamente che fin da gennaio 1921 non appartengo più ad alcun partito politico sovversivo, ma che con piacere e volontariamente tengo a far sapere ai lettori del «Corazziere» che mi sento di voler bene alla Patria e pronto a sacrificare me stesso per la salvezza e la gloria d’Italia.

Uno dei tanti ravvedimenti pubblici (ne troveremo altri sia su “Il Corazziere” sia su altri giornali dell’epoca) che caratterizzarono quel non breve periodo di transizione e che avrebbero ripreso campo in occasione del percorso inverso, ossia nel trapasso dalla dittatura fascista alla democrazia, allorché per molti fu ancor più grande la necessità di redimersi.
Ricordar quindi non nuoce. Perché non sempre, anzi raramente, le persone sono come suol dirsi tutte d’un pezzo. Interessi particolari – materiali e talvolta anche affettivi – accentuano la debolezza di noi umani, inducendo spesso all’ambiguità, all’ipocrisia, alla perdita di dignità.

Articolo edito su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 20 novembre 2021.




L’AVVIO DEL VENTENNIO A MONTECATINI

Dopo il Biennio rosso che si era caratterizzato per scioperi, occupazioni delle fabbriche ed anche aggressioni, i due anni successivi, 1921-1922, furono contrassegnati dallo spadroneggiare dello squadrismo fascista. Squadre pisane guidate da Bruno Santini e squadre fiorentine chiamate in soccorso del Fascio X di Larderello con a capo Giuseppe Fanciulli, imperversarono nella nostra provincia causando gravi fatti di sangue oltre a devastazioni di circoli politici, camere del lavoro e cooperative sociali. Ciò poté accadere nonostante l’opera del prefetto Alfredo De Martino tesa a fermare quella violenza, anche con l’arresto di alcuni fascisti.
Ormai il fascismo, che poteva godere della connivenza sempre più diffusa nei vari ambiti politici e militari ed in certi presidii dello Stato, aveva pressoché campo libero. Di ciò dà atto anche Renzo CASTELLI nel suo Fascisti a Pisa (Pisa, Edizioni Ets, 2006):

Il 2 giugno 1921 il prefetto ricevette il segretario politico regionale del Fascio, Dino Perrone Compagni, il quale lo minacciò di trasferimento se avesse continuato con la sua azione di contrasto all’azione fascista. Per tutta risposta, De Martino fece trasferire il sottoprefetto di Volterra considerandolo troppo condiscendente nei confronti dei fascisti. Due mesi dopo il prefetto di Pisa veniva però a sua volta trasferito, sostituito con il filofascista Renato Malinverno.

In realtà a sostituire De Martino (prefetto di Pisa dal 16 aprile 1920 al 20 giugno 1921) fu Pietro Frigerio (21 giugno 1921 – 31 agosto 1921) al cui posto fu subito nominato Malinverno (1° settembre 1921-14 aprile 1924). Quel Malinverno che poi, nel novembre 1922, a seguito delle dimissioni dell’intero Consiglio comunale, inviò a Montecatini Giulio Malmusi in qualità di commissario prefettizio.
Uomo salito alle cronache pisane fin dal 1919, accostato e associato alle gesta di ras famosi quali Bruno Santini, Bruno Leoni, Tito Menichetti, Sandro Carosi, Guido Buffarini, Paolo Pedani, Gherardo Maffei, tornerà alla ribalta della cronaca anche nella Rsi. (Si veda Giorgio Alberto CHIURGO, Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1929; Mauro CANALI, Dissentismo fascista a Pisa e il caso Santini, Roma, Bonacci, 1983; Andrea ROSSI, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò, Pisa, Bfs, 2006; Marco PALLA (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, Roma, Carocci, 2009. Un ritratto di Malmusi lo troviamo in Renzo CASTELLI – Fig. 27 dell’inserto fotografico – insieme a quelli dei capi fascisti pisani più esagitati).

Un paio di settimane dopo la Marcia su Roma, la Giunta social-comunista con l’intero Consiglio, già decimato dagli abbandoni forzati, dette le dimissioni. Eletti il 19 settembre 1920, facevano parte di quell’Assemblea Lazzerini Luigi (Sindaco, dimissionario dalla metà del 1921), Rotondo Giuseppe (Vicesindaco, reggerà il Comune fino al novembre 1922), Bruci Costantino, Bartalucci Biagio, Ricotti Cesare (Assessori), Calvani Cherubino, Guiggi Primo, Cecchi Ugo, Bellucci Faustino, Nannini Lodovico, Co-stagli Artibano, Fornaciari Giulio, Fulceri Quintilio, Tinacci Casimirro, Mannucci Giu-seppe ed i 5 consiglieri delle frazioni, Agostini Ezio, Neri Michele, Nannini Egidio, Regoli Dario, Grassi Valentino.
Fu proprio Malmusi ad accompagnare Montecatini alle elezioni del 7 gennaio 1923.

Da Montecatini. 8 Gennaio
Preparazione elettorale – La preparazione per le elezioni amministrative e provinciali avvenute il 7 corrente in questo Comune e la vittoria ottenutane si deve in tutto alla instancabile operosità di questo Commissario Prefettizio sig. Giulio Malmusi del Fascio di Pisa e dei fascisti locali sig. Ceppatelli Giuseppe Pietro e Mar-tini Ernesto che non badando ai disagi visitarono tutte le località del Comune e le lontanissime frazioni di Castello di Querceto e Sassa portandovi quel seme nuovo di redenzione, di vittoria e di pace.
Furono pubblicati numerosi manifesti (Da “IL CORAZZIERE”, a. XLII, n. 2, 14 gennaio 1923).

Sempre nel solito numero, “IL CORAZZIERE” riporta anche i risultati di quelle elezioni, che sancirono la vittoria dei «candidati nazionali», ed i nomi degli eletti nei Consigli comunale e provinciale.

Esito delle elezioni – La lista portata dalla Sezione Fascista ebbe unanime approvazione conquistando mag-gioranza e minoranza.
Al Capoluogo – inscritti n. 1.021 – votanti n. 679. Contando gli assenti e i morti si può presumere una votazione del 90 per cento.
Gli eletti a consiglieri comunali sono: Mori cav. avv. Torquato, professionista; Tonelli cav. magg. Ansel-mo, industriale; Barzi Dario, possidente; Mori Francesco, possidente; Tassi Emilio, agente agrario; Cep-patelli Giuseppe Pietro, rappresentante; Bartolini Raffaello, boscaiolo; Bartolini Rodolfo, boscaiolo; Or-zalesi Adon Noè, meccanico; Lenci Ivo, operaio; Bigazzi Terzilio, contadino (mutilato); Staccioli Tran-quillo, contadino; Burgassi Duilio, operaio; Sarperi Alberto, impiegato; Orazzini Giusto, contadino.
Alla frazione Sassa – inscritti n. 332 – votanti n. 251. I candidati Fantacci Fantaccio, Grassi Valentino, Nannini Egidio ebbero voti eguali ai votanti.
Alla frazione di Castello di Querceto – inscritti n. 211 – votanti n. 173. Salvini Vezio, fascista, voti 172; Giannelli Angiolo, nazionalista, voti 171.
Nel Capoluogo come nelle frazioni i candidati a consiglieri provinciali Mori cav. avv. Torquato, Pagani-Nefetti cav. avv. Vincenzo, e Bresciani cav. ing. Lorenzo ebbero la unanimità dei voti.
Le presenti elezioni hanno dato una rilevante percentuale di votanti su tutte le precedenti elezioni e si so-no svolte col massimo entusiasmo ed ordine. Nessun incidente.

Come risulta dai documenti d’archivio (Archivio Storico Comune Montecatini V.C., Deliberazioni Consiglio Comunale anno 1923), nell’adunanza del 21 gennaio presieduta dal consigliere anziano Orzalesi Adon Noè, i 15 consiglieri eletti a Montecatini (i 5 di Sassa e Querceto erano assenti) procedettero all’elezione del Sindaco nella persona di Anselmo Tonelli che, su 15 schede, ottenne 12 voti contro i 3 di Alberto Sarperi.
Quindi si passò alla nomina della Giunta (ogni consigliere poteva esprimere 4 preferenze): Bartolini Rodolfo ottenne 14 voti; Sarperi Alberto, 13; Burgassi Duilio, 11; Mori France-sco, 10; Bartolini Raffaello, 3; Barzi Dario, 2; Orzalesi Adon Noè, 2; Staccioli Tranquillo, 2; Mori Torquato, 1; Tassi Emilio, 1; Ceppatelli Giuseppe Pietro, 1. Risultarono eletti come assessori effettivi Rodolfo Bartolini, Alberto Sarperi, Duilio Burgassi, Francesco Mori.
Con votazione separata furono nominati i due assessori supplenti (ogni consigliere 2 pre-ferenze): Mori Torquato ottenne 9 voti; Barzi Dario, 8; Orzalesi Adon Noè, 3; Bartolini Raffaello, 3; Ceppatelli Giuseppe, 2; Lenci Ivo, 2; Tassi Emilio, 1; Bigazzi Terzilio, 1; Staccioli Tranquillo, 1. Quindi, come assessori supplenti risultarono eletti Torquato Mori e Dario Barzi.
Quindici giorni dopo (ASCM, s.D, n. 54, Carteggio anno 1923, fasc. Amministrazione, Estratto dal Verbale di Giunta dell’11 febbraio 1923) furono assegnati gli incarichi. Designati “assessori delegati” Rodolfo Bartolini (di anni 45; 1878-1960), Alberto Sarperi (di anni 43; 1880-1935), Duilio Burgassi (di anni 35; 1888-1951), Francesco Mori (di anni 28; 1895-1965), Dario Barzi (di anni 52; 1871-1947), il sindaco Anselmo Tonelli (di anni 40; 1883-1929) procedette alla distribuzione delle cariche, stabilendo che «Sarperi Alber-to, delegato per gli Atti di Stato Civile e per rappresentare il Sindaco in caso di assenza, è investito della carica per Finanze e Scuole; Bartolini Rodolfo, delegato ai Servizi di Cal-miere, Dazio, Annona, è investito della carica per Stoffe in deposito e Stabili di proprietà comunale; Barzi Dario è delegato per il Comitato delle Miniere; Mori Francesco è investi-to della carica per Farmacia, Nettezza, Nuove costruzioni, Acque pubbliche; Burgassi Duilio è investito della delega per Strade comunali». Torquato Mori (di anni 54; 1869-1936), notaio a Volterra, non fu investito di alcuna delega.
Della Lista fascista – ossia dei 15 eletti nel capoluogo – che includeva 5 reduci dall’avventurosa marcia su Roma (Rodolfo Bartolini, Francesco Mori, Ivo Lenci, Tranquillo Staccioli e Giuseppe Pietro Ceppatelli), facevano parte pure alcuni rappresentanti dell’Ani (Associazione Nazionalista Italiana; 1910-1923).
Si tiene, oggi forse più di allora, ad evidenziare questa distinzione, che tuttavia fu tale solo fino al 26 febbraio 1923, allorché fu deliberato lo scioglimento dell’Ani e l’iscrizione «in blocco d’ufficio» dei suoi associati al Pnf. Unificazione che fu celebrata il 20 aprile, vigilia del Natale di Roma (Erminio FONZO, Storia dell’Associazione Nazionalista Italiana, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017).

Con le elezioni del 7 gennaio prese quindi avvio il Ventennio montecatinese.
Già nella riunione dell’11 febbraio, l’Amministrazione comunale deliberò di assegnare un sussidio annuo di lire 250 per «far fronte alla pigione del locale ad uso sociale dell’Associazione Nazionale Combattenti e Fascio di Combattimento» (ASCM, 14/B, De-liberazioni Giunta, 1921-1926, Del. n. 9). Nella medesima riunione (Del. n. 18) la Giunta stabilì che in seguito all’adesione alla Federazione dei Comuni fascisti, fosse «Emilio Tassi (di anni 48; 1875-1957) delegato a rappresentare il Comune alla riunione di tutti Comuni Fascisti il 17 p.v. a Pisa».
Furono questi i primi atti che caratterizzarono il 1923 come anno frenetico, intenso di provvedimenti, manifestazioni e riti instaurati per volontà del nuovo regime dei quali tratteremo, semmai, in altra occasione.

Articolo pubblicato su “La Spalletta”, a. XXXVIII, 4 dicembre 2021