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Il cardinale Maffi e il fascismo

Quello tra chiesa cattolica e fascismo è un rapporto complesso, che non può essere ridotto a mera strumentalizzazione reciproca, volta al rafforzamento del consenso e alla soluzione della «questione romana». Come ha spiegato Giovanni Miccoli, si trattò di «un’alleanza e un accordo non meramente tattici ma più intimi e sostanziali», basati su «consonanze essenziali» (il culto di valori come ordine, gerarchia, disciplina, autorità, obbedienza) e «nemici comuni» (su tutti, liberalismo e comunismo). Il dato appare con particolare chiarezza nel caso pisano, caratterizzato da una serie di elementi di particolare rilievo: la violenza estrema dello squadrismo, dilaniato da faide intestine e animato da personaggi brutali come Alessandro Carosi; la forza delle sinistre e in particolare del movimento anarchico, che vantava una lunga tradizione di militanza in città; e, non in ultimo, la presenza del cardinale Pietro Maffi, protagonista della vita intra- ed extra-ecclesiale della prima metà del Novecento italiano.

Nato a Corteolona (Pavia) nel 1858, Maffi fu nominato arcivescovo di Pisa nel 1903. Divenuto cardinale nel 1907, promosse lo sviluppo del movimento cattolico e instaurò rapporti cordiali con i Savoia, approfittando della prossimità della residenza reale di San Rossore. Ciò aumentò grandemente il suo prestigio in seno all’episcopato, al punto da sfiorare l’elezione al conclave del 1914. Durante la Prima guerra mondiale Maffi divenne il simbolo dell’unione tra fede e patria nell’Italia grigioverde, esortando i pisani all’obbedienza e contribuendo a contenere il malcontento attraverso iniziative di carattere assistenziale come la ricerca di informazioni sui militari dispersi o prigionieri negli Imperi centrali.

La ripresa della conflittualità politica e sociale dopo la fine del conflitto lo indusse a lanciare un appello alla pacificazione, auspicando un ritorno alla società cristiana; ciò detto, basta sfogliare «Il Messaggero toscano» – il quotidiano da lui fondato nel 1913 – per rendersi conto che, agli occhi del cardinale, il pericolo maggiore era costituito dal socialismo ateo. Non a caso, quando furono i cattolici a subire attacchi e intimidazioni da parte delle camicie nere Maffi tenne un profilo generalmente basso, cercando di calmare gli animi e di trovare un terreno d’intesa con l’aggressore nella celebrazione della memoria “eroica” dei caduti della Prima guerra mondiale: così accadde nel novembre 1921, durante la cerimonia per il Milite ignoto, e nel maggio 1924, con l’inaugurazione del monumento ai caduti nel cortile della Sapienza. I fascisti, però, volevano restare gli unici padroni della scena pubblica e nel gennaio 1925 distrussero la tipografia che stampava i fogli cattolici distribuiti a Pisa, Lucca, Livorno, Pontremoli e La Spezia. Il danno considerevole spinse Maffi a mutare registro, indirizzando prima un telegramma di protesta al ministro dell’Interno («Vescovo ne ho pianto, italiano ne ho arrossito»), poi una lettera pastorale ai pisani. Dedicata al quinto comandamento, essa conteneva frasi durissime contro chi si era macchiato di omicidio nei recenti scontri politici: «Guai alla mano che gronda sangue! Guai ai piedi che urtano in un cadavere! Oh, la dinastia di Caino! Continua puro; ma lo senta che, dove mancano gli uomini, Dio arriva, Dio che ai colpevoli non dà tregua e incessante li persegue e sopra di loro grida e sentenzia: Maledetto, maledetto! Maledetto nel tempo! Maledetto nell’eternità! Maledictus eris!».

Pietro_Maffi_cardinaleDavanti al pericolo di perdere il sostegno di uno dei membri più illustri dell’episcopato, le cose iniziarono a mutare. Complici la fine della faida tra Bruno Santini e Filippo Morghen e l’ascesa di Guido Buffarini Guidi, l’atmosfera andò rasserenandosi e le relazioni tra Chiesa e fascismo entrarono in nuova fase. Nel maggio 1926, lo stesso Mussolini venne in città per assistere all’inaugurazione del restaurato pergamo di Giovanni Pisano nella cattedrale e si lasciò fotografare al fianco del cardinale, quasi a proclamare alla cittadinanza la ritrovata armonia tra le due autorità. L’evento fu un brutto colpo per i fascisti più ostili a Maffi, che dovettero rassegnarsi. Negli anni successivi, nessun incidente turbò i rapporti tra cattolici e camicie nere, che celebrarono insieme la memoria “eroica” del 1915-1918. Ad esempio, nel novembre 1928 il decennale della vittoria fu celebrato in duomo all’insegna della continuità tra guerra mondiale e fascismo: Buffarini lesse il bollettino della vittoria, l’ex cappellano militare Ezio Barbieri celebrò la messa e Maffi benedisse il tumulo imbandierato e circondato da soldati e fascisti; tutti intonarono infine la Marcia reale, l’Inno del Piave e Giovinezza.

Come si vede, alla vigilia della conciliazione il cardinale non esitò a legittimare il regime che si voleva erede di Vittorio Veneto; il culto dei caduti, tuttavia, fu solo l’aspetto più evidente di una convergenza profonda che, come attesta il bollettino diocesano, si manifestò nell’approvazione delle misure varate dal governo per l’incremento della natalità, del numero delle questure sul territorio e, soprattutto, della produzione cerealicola, funzionale al ritorno alla vita “devota” dei campi.

Per quanto importanti, questi elementi impallidiscono di fronte a quello che, a buon diritto, può essere considerato il sogno di una vita: la conciliazione tra Stato e Chiesa del febbraio 1929, che segnò la fine dell’annosa «questione romana» e il culmine della parabola politico-religiosa di Maffi. Pur non avendo avuto parte attiva nei negoziati, egli volle manifestare la propria soddisfazione con tre lettere di ringraziamento dirette al papa Pio XI, al re Vittorio Emanuele III e al dittatore che «con mano sicura e forte» teneva le redini del Paese. Non si trattava di sentimenti affettati: nel comunicare la notizia al clero diocesano, infatti, il presule annunciò con toni trionfali la fine della vecchia Italia dominata da «massoneria, liberalismo, scuole atee e corruzione».

Gli ultimi anni furono ricchi di soddisfazioni per Maffi, chiamato a Roma nel gennaio 1930 per celebrare il matrimonio tra il principe ereditario Umberto e Maria José del Belgio a Roma. Nella circostanza, egli fu insignito del collare dell’Annunziata, che gli dava il titolo di cugino del re.

La morte lo colse nel marzo 1931, mentre la crisi tra regime e Azione cattolica entrava nella fase più acuta. A riprova delle tensioni mai del tutto sopite, il necrologio de «L’Idea fascista» (organo del fascio pisano) precisò che, al di là dei meriti innegabili acquisiti nel corso della sua carriera, lo scomparso non aveva compreso né apprezzato fin da subito l’importanza del fascismo. I detrattori, però, dovettero mordere il freno davanti alla solennità dei funerali che, oltre alla partecipazione di undici vescovi e del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, ebbero l’adesione del re, del segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli e di Mussolini. Quest’ultimo plaudì in un telegramma all’«illustre cardinale Maffi che durante vita operosa seppe armonizzare religione, patria, scienza» e si fece rappresentare al rito dal sottosegretario di Stato al ministero di Giustizia e affari di culto Giuseppe Morelli. La resa dei conti, però, era solo rimandata. Ancora in ottobre, quando la tempesta sembrava ormai alle spalle, «L’Idea fascista» tornò ad accusare lo scomparso di antifascismo.

La presenza di una figura del calibro di Maffi, decisamente inusuale per una diocesi periferica e dalle dimensioni modeste come quella pisana, contribuì a dare agli eventi locali una risonanza notevole non solo nella penisola ma anche all’estero, facendo della Pisa degli anni Venti una sorta di osservatorio da cui scrutare i punti di forza e le criticità della politica ecclesiastica del fascismo. Soprattutto, la vicenda di Maffi evidenzia un dato cruciale. A dispetto di divergenze, tensioni, moniti, incidenti e intimidazioni, i responsabili ecclesiastici non smisero mai di cercare o, dopo il 1929, di difendere la conciliazione. Le leggi razziali causarono certamente un raffreddamento dei rapporti tra le due autorità, anche perché violavano le disposizioni concordatarie in materia di matrimonio; ciò detto, furono soltanto le sconfitte inanellate dall’esercito nel corso della Seconda guerra mondiale a segnare il distacco definitivo della Chiesa da un regime entrato ormai nella sua fase terminale.




La Città Bianca in camicia nera: dalla fine dell’Ottocento ai fatti di Piazza S. Michele

La Lucca prefascista: conservazione e tradizione

Regione rossa per eccellenza nell’immaginario collettivo assieme all’Emilia Romagna, la Toscana può vantare una “genealogia rivoluzionaria” che dagli studenti pisani volontari a Curtatone e Montanara arriva allo spartiacque di Livorno del 1921, passando per episodi meno noti come la feconda contaminazione reciproca tra socialismo e progressismo positivista d’ispirazione mazziniana nella Versilia a cavallo fra i due secoli [1].

In un simile panorama la città di Lucca spicca per il proprio conservatorismo, “fortemente connesso”, come evidenzia Luca Pighini, “con la difesa dei valori religiosi”; terra d’emigrazione e territorio a vocazione agricola, la Lucchesia conosce l’industrializzazione nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, quando l’imprenditore genovese Vittorio Emanuele Balestrieri impianta uno jutificio in località Ponte a Moriano [2]. Il conflitto sociale, a fronte delle durissime condizioni di vita della classe operaia lucchese, stenta a decollare: soltanto nella primavera del 1914 si tiene il primo vero sciopero di massa, quello delle sigaraie della Manifattura Tabacchi, già protagoniste nei decenni precedenti degli unici, sporadici episodi di combattività operaia in Lucchesia [3], e che durante la Prima guerra mondiale saranno nuovamente al centro delle proteste del 1917 [4 ]. Ma le cose sono destinate a cambiare con la fine del conflitto e il doloroso lascito che questo si lascia alle spalle, a Lucca come nel resto del paese.

Dal primo dopoguerra al “biennio rosso”

“Al di là dell’entusiasmo per la vittoria e della retorica di celebrazione”, scrivono Eugenio Baronti e Leana Quilici, “la fine della grande guerra lascia in tutta Italia una tragica eredità: all’elevato numero di morti, mutilati e invalidi si aggiungono i problemi della disoccupazione, della mancanza di generi di prima necessità […]” [5]. Lucca, alle prese con la crisi della produttività agricola e salari sempre più deboli di fronte all’inflazione, non costituisce certo un’eccezione nel quadro nazionale: a denunciare la difficoltà del momento non sono soltanto le organizzazioni socialiste, ma anche una parte del mondo religioso cittadino (“Lucca, città della fame” titola il Serchio, erede di quell’Esare che sin dalla sua fondazione nel 1886 era stato la voce della Curia lucchese)[6 ]. Nel febbraio 1919 vedono la luce le prime leghe sindacali bianche grazie al contributo del parroco di San Marco don Pietro Tocchini, animato certamente da volontà concorrenziale nei confronti dei socialisti, ma anche da una genuina presa di coscienza della dura realtà quotidiana dei propri parrocchiani. Nel novembre dello stesso anno le elezioni nazionali a Lucca premiano il Partito popolare italiano, diviso però al suo interno tra un’ala di sinistra “quasi socialista” – come la definì il Giornale di Valdinievole – e un’ala destra ferocemente conservatrice e ostile a qualsiasi forma di associazionismo operaio, incluso quello cattolico [7].

L’ondata delle proteste lucchesi negli anni del dopoguerra e del “biennio rosso” culminano con il massiccio sciopero del marzo 1920 e l’occupazione della fabbrica S.M.I. a Fornaci di Barga nel settembre dello stesso anno; scarso invece il riverbero in città della rivolta viareggina del 2-5 maggio [8]. Sostanziali le conquiste ottenute, dagli aumenti salariali all’alleggerimento della disciplina di fabbrica. Gli echi delle dimostrazioni di piazza hanno appena cominciato a spegnersi quando la violenza squadrista piomba sulla città – e sulle organizzazioni del movimento operaio.

Il fascismo a Lucca: dalla fondazione all’aggressione di piazza San Michele

Poco più di un anno prima, il 23 marzo 1919, Benito Mussolini ha fondato i Fasci di combattimento, il cui avvenire non sembra roseo fino al 1920 quando – sull’onda del riflusso delle occupazioni operaie e del crescente declino del PSI – il nuovo soggetto politico si pone a capo della “reazione borghese antiproletaria” conoscendo una rapida crescita in termini di iscritti [9]. Anche a Lucca, che soltanto un paio di settimane prima ha subito gli effetti del devastante terremoto che vede il suo epicentro nella Garfagnana, nel settembre 1920 si avvia il processo volto alla fondazione di una sezione locale del fascio, per iniziativa del romagnolo Nino Malavasi, studente di veterinaria, e del farmacista ed ex ufficiale Baldo Baldi [10 ], entrambi provenienti dagli ambienti mazziniani, una cinquantina di simpatizzanti – perlopiù giovani di famiglie benestanti – al seguito [11]. Il fascismo lucchese nasce ufficialmente un mese dopo in via Guinigi, il 26 ottobre 1920, sotto la presidenza onoraria del colonnello Umberto Minuto; il 5 dicembre esce il primo numero de L’intrepido, periodico della sezione.

Il “battesimo dello squadrismo” a Lucca si tiene il 14 dicembre 1920, in piazza S. Michele, dove circa 500 persone si sono riunite nella piazza in occasione di un comizio socialista contro il carovita: l’onorevole Lorenzo Ventavoli prende la parola, ma i fascisti lo interrompono continuamente, accusandolo di vivere nell’agio grazie all’indennità parlamentare [12 ]; dalle parole si passa ben presto alle vie di fatto, agli squadristi lucchesi si uniscono gli oltre 300 camerati pisani e senesi giunti in città, e la Guardia Regia spara sulla folla mentre le camicie nere rientrano indisturbate nella propria sede di via S. Andrea. Restano a terra 19 feriti e due morti, Valente Vellutini, proprietario di una filanda, e l’ex consigliere comunale liberale Angelo Della Bidia. A nulla valgono le denunce di Ventavoli e del comunista Luigi Salvatori: gli unici arresti effettuati dalla polizia vanno a colpire i socialisti. Anche a Lucca dunque, come a Milano e Bologna un anno prima, si registra la connivenza tra apparati dello Stato e fascisti [13]. Il mattino successivo in quella stessa piazza, a fianco della chiesa, compare una scritta minacciosa a caratteri cubitali: “A Lucca comanda il fascio”[14]. E chi comanda il fascio a Lucca sarà da lì a poco Carlo Scorza.

Il Ras di Lucca

Calabrese, classe 1897, Scorza si trasferisce quindicenne a Lucca con la famiglia e alla vigilia della Prima guerra mondiale si fa notare per il suo acceso attivismo interventista; durante il conflitto si distingue durante la difesa del Piave, venendo decorato al valore militare. L’adesione ufficiale al fascismo avviene proprio in quel fatidico 14 dicembre 1920 che ha lasciato dietro di sé due morti, numerosi feriti e ben più di qualche sospetto sulla complicità tra forze dell’ordine e camicie nere. La carriera del futuro “condottiero”[15] dentro il fascio lucchese è rapidissima, tanto da arrivare a ricoprire la carica di segretario a soli quattro mesi dalla sua iscrizione, nell’aprile 1921: sotto la guida di Scorza, ha evidenziato Nicola Laganà [16], si rafforza la componente più violenta del movimento, che si scatena contro le sedi e i luoghi di ritrovo del movimento operaio. Nel dicembre dello stesso anno, dopo la trasformazione dei fasci di combattimento in partito, diviene segretario federale per Lucca; nell’ottobre 1922 partecipa alla marcia su Roma, occupando con i suoi duemila legionari lucchesi Civitavecchia. Il lungo regno del “gangster” Scorza [17] è contraddistinto dalla costante scalata ai vertici del PNF, culminata (non senza contrasti con i capi nazionali e lo stesso Mussolini) nel 1943 con la nomina a segretario nazionale del partito: una strada macchiata di sangue – quello degli antifascisti, ma anche di qualche fascista – e caratterizzata da una gestione del potere che Ugo Clerici, collaboratore di Mussolini da questi inviato a Lucca per far luce sulle “cose poco pulite” che girano sul conto di Scorza e di suo fratello Giuseppe, definirà “camorristica”[18].

1 Per un quadro generale si rimanda alla lettura del recente volume di Edoardo Parisi e Maurizio Sacchetti Dario Calderai, medico mazziniano nella Versilia del marmo di fine Ottocento (2022), edita da Ed. l’Ancora e A.M.I. – Associazione Mazziniana Italiana – sez. Versilia, circolo “Mauro Raffi”.

2 Per una lettura approfondita del fenomeno si rimanda all’esaustivo saggio di Francesco Petrini Aspetti dell’industrializzazione in Lucchesia: 1880-1901, pubblicato per la prima volta sul n. 5 di “Documenti e Studi” del dicembre 1986 ed oggi consultabile a questo link.

3 Vedi anche il saggio di Luciana Spinelli 1914: la Manifattura di Lucca e lo sciopero generale nelle manifatture dei tabacchi, in “Documenti e Studi” n. 3/1985 (pp. 3-34), consultabile a questo link.

4 Per un quadro completo delle proteste lucchesi del 1917 si rimanda al saggio di Andrea Ventura “L’inizio del conflitto sociale? Il caso della provincia di Lucca“, in Roberto Bianchi, Andrea Ventura (a cura di), Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali, Pacini Editore, Pisa 2019, pp. 35-51; altro significativo caso di conflittualità durante e dopo la guerra è costituito dalla SMI di Fornaci di Barga, oggetto del saggio di A. Ventura Fornaci di Barga 1915-1920, in “Documenti e Studi” n. 38/2015, pp. 61-72.

5 Eugenio baronti, Leana Quilici, Lucca 1919: la vita politica e sociale della città raccontata dai giornali lucchesi, p. 7, in “Documenti e Studi” n. 1/1984, pp. 5-36.

6 Ivi, pp. 8-9

7 Vedi anche Antonella Dragonetti, Le vicende elettorali del Partito popolare lucchese nelle elezioni del 1919, in “Documenti e Studi” n. 4/1986, pp. 18-33.

8 Andrea Ventura, Italia ribelle. Sommosse popolari e rivolte militari nel 1920, Carocci, Roma 2020, p. 59.

9 Emilio Gentile, Il fascismo in tre capitoli, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 20-21.

10 Marco Pomella (a cura di), La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 121-122.

11 Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo in stile camorra”, p. 193, in Paolo Giovannini, Marco Palla (a cura di), Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 190-217.

12 Andrea Ventura, “Lorenzo Ventavoli”, in Gianluca Fulvetti, Andrea Ventura (a cura di), Antifascisti lucchesi nel casellario politico centrale. Per un dizionario biografico della provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2018, pp. 183-185.

13 Per un quadro più approfondito si rimanda alla lettura del volume di Andrea Ventura Il diciannovismo fascista. Un mito che non passa, Viella, Roma 2021.

14 Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 18-19, in Gianluca Fulvetti, Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca (vol. 3), Pezzini, Viareggio 2016.

15 Titolo in origine attribuito al signore ghibellino di Lucca Castruccio Castracani degli Antelminelli (1281-1328), la cui figura sarà sfruttata in chiave propagandistica da Scorza proponendone l’identificazione con sé stesso; vedi anche Umberto Sereni, “Carlo Scorza e il fascismo stile camorra”, in Giovannini-Palla (a cura di), Op. cit.

16 Cit. in Pomella, Op. cit., p. 127

17 Secondo il ritratto che ne da il settimanale britannico Observer al momento della nomina di Scorza a nuovo segretario del PNF; in Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, Feltrinelli, Milano 2016, p. 166

18 Cit. in Sereni, Op. cit., p. 203.




Un mito intoccabile?

Prefazione 

Strano destino quello del patrimonio culturale, ovvero di quell’insieme di beni che, per il loro valore culturale e memoriale rivestono un interesse pubblico. Definizione apparentemente netta e precisa ma in realtà contingente, suscettibile delle modifiche che tempi e sensibilità diverse possono suggerire. Chi stabilisce l’interesse pubblico dei beni che vengono poi definiti come patrimonio culturale? Chi decide che cosa è patrimonio culturale o no? Sembra, quest’ultima, una domanda banale; ma è una sensazione pronta a dissolversi in chi si ricordi del Medioevo, con il Colosseo adibito a luogo di pascolo, o chi, semplicemente, ricordi la Napoli degli anni Ottanta dove Piazza del Plebiscito era considerata un grande parcheggio. Sono solo due esempi di un elenco potenzialmente lunghissimo. Ma valgono a ricordare una cosa: che siamo noi a definire chi è e che cos’è patrimonio culturale, perché in quel bene rintracciamo i nostri valori e la nostra identità.

All’interno di questa definizione possiamo senza dubbio far rientrare la toponomastica, soprattutto quando in essa parte della popolazione rintraccia i suoi elementi identitari. Il pensiero corre dunque alla recente polemica che ha investito il Liceo Amedeo Duca di Savoia di Pistoia, balzato alle cronache di molti quotidiani in quanto il Collegio Docenti ha proposto un dibattito intorno alla possibilità di cambiarne la denominazione. Innumerevoli le sdegnate polemiche, generate dal fatto che nel nome del Liceo si intravvedeva parte dell’identità della città, e da un sentire comune che identificava in Amedeo Duca d’Aosta, Viceré d’Etiopia sotto il regime fascista, morto nel 1942 prigioniero degli inglesi, una persona non collusa con il Regime.

Dal Liceo al personaggio: il punto dell’analisi storica di Amedeo duca d’Aosta

La questione ha poi travalicato il contesto locale. Ambienti monarchici, giornali conservatori, esponenti di destra e gruppi reducistici sono intervenuti in difesa del duca, agitando lo spettro della “cancel culture” e derubricando i tentativi di problematizzare il personaggio a contraffazioni della storia. Si sono trincerati dietro a una rappresentazione apologetica di vecchia data, fondata su alcuni topoi (l’eroe dell’Amba Alagi, lo sconfitto a cui il nemico tributò gli onori, il “buon colonialista”, ecc.), che ignora quanto emerso negli studi soffermatisi, anche solo en passant, sulla figura . L’incrocio di questi testi, integrato con un affondo sulle fonti a stampa, aiuta a restituire le vicissitudini del principe sabaudo a una dimensione storica.

Il racconto consolidato vuole che Amedeo d’Aosta, nato del 1898, rimase lontano dalla scena politica, almeno fino alla metà degli anni ’30. In effetti, dopo aver partecipato come volontario al primo conflitto mondiale, nell’immediato dopoguerra alternò brevi periodi in Italia, per proseguire gli studi e la carriera militare, a lunghi viaggi in Africa, prima in Somalia, poi in Congo. La data di conclusione del secondo soggiorno è, però, dibattuta: per una versione, più diffusa, il gennaio 1923, per un’altra il settembre 1922, quando si sarebbe riunito al suo reggimento a Palermo. Una questione solo in apparenza di poco conto. Infatti, nella seconda ricostruzione – accettata al tempo, evidenzia Gianni Oliva – il principe, a fine ottobre, avrebbe raggiunto Roma per presenziare, in camicia nera, al corteo squadrista dinanzi al Quirinale. Questo implicherebbe una sua adesione al fascismo, antecedente all’instaurarsi del regime. Del resto, ciò sarebbe in linea con le posizioni assunte dal ramo cadetto della famiglia regnante, di cui era erede. Il duca Emanuele Filiberto, padre di Amedeo e celebrato generale della Grande Guerra, fu precoce sostenitore di Mussolini e, secondo voci del tempo mai confermate, fu dietro ai preparativi per la marcia su Roma, pronto persino a sostituirsi al re e cugino Vittorio Emanuele III, se questi si fosse opposto ai fascisti (A. Merlotti, Savoia Aosta, Emanuele Filiberto di, duca d’Aosta, in Dizionario Biografico degli Italiani, v. 91, 2018).

I Savoia-Aosta persero peso politico negli anni ’20, ma il regime continuò a servirsene a scopo propagandistico, specie del giovane principe. Con il suo stile di vita, incarnava il modello dell’uomo nuovo fascista: atletico, anticonformista, avventuroso, amante dei motori, appassionato dell’Africa e protagonista delle imprese coloniali. Tra il 1925 e il 1931, infatti, prese parte, per lunghi periodi, alla riconquista della Libia, una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Tra le dune libiche, il suo mito si consolidò: la pubblicistica, che lo ribattezzò il “principe sahariano”, dedicò ampi reportage alle sue azioni alla testa dei “meharisti”, le truppe indigene montate sui dromedari, e ai suoi voli nel deserto. Dell’esperienza in Libia, un passaggio poco indagato, perdura un ritratto romanzesco, senza cenni al suo coinvolgimento nell’attività repressiva. Eppure, non ebbe incarichi secondari: fu collaboratore, tra l’altro, del generale Rodolfo Graziani e partecipò all’offensiva contro l’Oasi di Cufra (gennaio 1931), su cui l’attenzione dovrebbe concentrarsi. Stando alla memorialistica e alla stampa coeva, il principe compii bombardamenti aerei contro il centro senusso e partecipò all’inseguimento, dai cieli, dei ribelli in rotta, tra cui vi erano anche donne e bambini. Per la rivista «Time» (Italia: Valanghe; Senussi, 9 febbraio 1931), in un articolo scritto quando i rapporti italo-americani erano ancora buoni, Amedeo si distinse nel bersagliare, con bombe e mitragliatrici, i fuggiaschi.

Rientrato in Italia e divenuto capo del casato, visse a Trieste, dedicandosi al volo e presenziando a iniziative pubbliche. Il duca partecipava alla vita del regime, ma non aveva incarichi di peso. L’occasione giunse sul finire del 1937: Mussolini gli offrì la carica di Viceré d’Etiopia. Avrebbe sostituito Graziani, che, nonostante i metodi brutali, non era riuscito a reprimere la resistenza etiope. Il duce si affidava a una figura prestigiosa,ma impreparata: Amedeo si era laureato con una tesi in diritto coloniale, ma non aveva mai ricoperto cariche politiche di grande responsabilità. Così, forse, il dittatore e gli apparati di regime contavano di avere tra le mani una personalità controllabile.

Nel primo periodo del suo mandato, in effetti, il duca incontrò difficoltà ad imporre la sua politica paternalistica e di conciliazione. Il generale Ugo Cavallero, comandante delle truppe e detentore in sostanza del potere militare, gestì la “pacificazione” in continuità con la condotta di Graziani: in questa fase avvenne la strage di Zeret (9-11 aprile 1939). Sembra che il duca preferisse non ricorrere a tali metodi, perché vanificavano i suoi piani, ma accettò – o, meglio, subì – la strategia del suo sottoposto. Dopotutto, quando il duce, spronato dagli iniziali successi, diede ordine di perseverare con questo approccio, il principe assicurò che la direttiva sarebbe stata eseguita con la massima energia .

Solo dopo la rimozione del generale (primavera 1939), il Viceré ebbe più margini, ma gli ostacoli furono diversi. Le trattative con i capi ribelli diedero risultati limitati, così le azioni repressive proseguirono, pur cercando di salvaguardare i civili. I tentativi di coinvolgere i notabili indigeni nell’amministrazione si scontrarono con l’opposizione del regime a forme di “dominio indiretto”. Non discusse, poi, le misure che contraddicevano le sue politiche. Nel suo mandato trovò applicazione la legislazione razziale e segregazionista, promulgata a partire dal 1937, che, normando la subalternità dei nativi, esacerbava le divisioni tra dominatori e dominati.

Di lì a poco, la crisi internazionale rese prioritaria l’organizzazione dei piani di guerra. L’Africa orientale italiana versava in una situazione disperata, accerchiata da colonie britanniche, difficilmente rifornibile (la Royal Navy dominava i mari) e difesa da un contingente, per metà composto di coloniali, logoro e male attrezzato. I territori del Corno d’Africa erano destinati ad essere perduti. Assalito da dubbi e scettico sull’intervento, si adeguò anche a questa scelta e assunse il comando delle forze regie nella zona. Dopo l’occupazione del Somaliland nell’estate 1940, la situazione iniziò a precipitare. La ribellione prendeva vigore, supportata da Londra, e aumentavano le avvisaglie della controffensiva britannica. Gli fu proposto di chiedere un armistizio separato, ma il principe rifiutò sdegnosamente: avrebbe significato tradire il sovrano, la patria e Mussolini, perdendo l’onore per sé e il casato. Per quanto descritto come una personalità autonoma, le vicende citate restituiscono altresì lo spaccato di una figura inquadrata nel regime, a cui fu fedele nei passaggi più controversi. Il suo atteggiamento dipendeva da un coacervo di fattori (la formazione militare, l’educazione patriottica, la tradizione familiare), che forse includeva anche un’adesione tutt’altro che formale al fascismo e fondata, in buona misura sulla devozione, per il duce, come traspare dai resoconti dei colloqui privati con la moglie del sovrintendente generale britannico in Kenya, Katharine Fannin (Alessandro Pes, British Eyes on the Fascist Empire: il viaggio di Katherine Fannin nell’Africa orientale italiana, in Id. (a cura di), Mare Nostrum. Il colonialismo fascista tra realtà e rappresentazione, Cagliari, Aipsa Edizioni, 2012, p. 26).

Nei primi mesi del 1941, le truppe regie furono travolte dalla controffensiva degli anglo-indiani, a cui si unirono le formazioni irregolari etiopi: il 6 aprile Addis Abeba veniva liberata. I comandi regi si trincerarono in vari ridotti. Il duca d’Aosta, alla testa di una forza piuttosto disomogenea di 7.000 uomini, ripiegò sul massiccio dell’Amba Alagi. Lì si si consumò la battaglia che costituisce la pietra angolare del suo mito. Prima che la narrazione epica divenisse dominante, alti ufficiali criticarono la scelta. Il gruppo montuoso era solo in apparenza inespugnabile e non aveva le risorse idriche necessarie al fabbisogno di migliaia di uomini. Vi erano, poi, alternative migliori, come unirsi ai 40.000 uomini del generale Nasi, nel Gondar (dove avrebbe resistito fino a novembre. A condizionare le mosse del duca furono, forse, l’inesperienza nel comandare grandi corpi ed errori di valutazione (in cui caddero anche generali navigati), oltre che una concezione premoderna della leadership, fondata sull’ostentazione delle virtù guerriere, ma slegata dalla pianificazione e dal calcolo. La scelta ricadde sulla montagna tigrina anche per assicurarsi, nel disastro, una fine memorabile ed eroica, emulando le gesta del maggiore Pietro Toselli, che nel dicembre 1895 vi cadde assieme ai suoi soldati, entrando però nel pantheon degli eroi della nazione.

Il 17 aprile, il Viceré si ritirò sul ridotto. Dopo l’iniziale speranza di poter prolungare la resistenza, il quadro si aggravò rapidamente. Furono presi contatti con i comandi britannici, frenati dalla ritrosia del principe a capitolare: temeva di infangare il suo onore. Neppure l’autorizzazione di Mussolini lo smosse. Tempo perduto, che comportò lo spargimento di altro sangue. Il duca, alla fine, acconsentì alla resa: a persuaderlo fu, forse, il timore che l’assalto finale sarebbe stato condotto dagli irregolari etiopi, di cui si temevano le rappresaglie. Il 19 maggio, il contingente regio lasciò il ridotto, transitando davanti al picchetto d’onore anglo-indiano. Tale aspetto è stato più volte evocato, nel recente dibattito, per provare la statura del personaggio. Nondimeno, in proposito sono necessarie opportune contestualizzazioni. Gli onori militari furono una delle condizioni poste dal Viceré per arrendersi, che i comandi britannici gli accordarono (Rovighi). Dopotutto, tale prassi, seppur di grande valore simbolico, non aveva costi strategici, ma anzi consentiva di risparmiare risorse e permetteva di avere un controllo più saldo sui prigionieri nelle convulse fasi successive alla cattura. Insomma, senza negare che le truppe regie si batterono bene, l’atto dei comandi britannici non può essere reputato spontaneo e disinteressato. Oltracciò, la cerimonia dell’onore delle armi avvenuta sull’Amba Alagi non fu un unicum nella seconda guerra mondiale. Durante l’invasione della Francia, i tedeschi garantirono simili onori ad alcune guarnigioni arresesi, così i britannici, proprio nel teatro africano, omaggiarono più gli italiani sconfitti.

La propaganda fascista sfruttò tale aspetto per enfatizzare la resistenza offerta dal distaccamento e indorare la notizia della disfatta, che preannunciava l’imminente, ma si credeva temporanea, perdita dell’Impero. “L’insuccesso glorioso” dell’Amba Alagi divenne oggetto di un racconto epico, di cui il Viceré ne era l’eroe. La sconfitta andava ricordata sia per celebrare la virtù dei protagonisti sia per alimentare la revanche nazionale. Il motto “ritorneremo” campeggiava nell’immagini del duca, risuonava nelle canzoni. Di lì a breve, questa retorica avrebbe attinto nuova linfa dalla fine prematura del Viceré in prigionia, il 3 marzo 1942, a causa del tifo e della malaria. Il regime sfruttò la notizia per demonizzare i britannici e fece del duca un eroe-martire da vendicare. La sua figura fu celebrata nei pamphlet, nelle iniziative pubblica e intitolandogli strade e edifici pubblici, come lo stesso Liceo scientifico di Pistoia.

Nel secondo dopoguerra, non soltanto i settori monarchici, gli eredi del fascismo e gli ambienti militari custodirono la memoria di Amedeo d’Aosta. Le stesse istituzioni repubblicane, che non avevano del tutto rinunciato alle aspirazioni coloniali, continuarono a celebrarlo. Nell’aeroporto di Gorizia, nel 1962, il presidente della Repubblica Antonio Segni inaugurò il Monumento all’Aviatore, un complesso ospitante una statua in travertino alta 5 metri del duca sabaudo, in uniforme da pilota e con il volto simbolicamente rivolto verso l’Africa, attorniata da dieci cippi commemoranti le sue imprese militari (dal Sabotino, nella Grande Guerra, a Cufra, in Libia, fino all’Amba Alagi). La sua figura fu poi ricordata in film, documentari e reportage delle riviste patinate dedicati allo scontro sulla montagna etiope: in essi, il Viceré spiccava positivamente come emblema del “colonialista buono”, una rappresentazione che ben si accordava col mito del “bravo italiano”. Nonostante, le iniziative pubbliche per ricordarlo si siano rarefatte e le iniziative per ricordarle siano diventate sempre più esclusiva di ambienti di nicchia, la rappresentazione romantica e malinconica, dai tratti quasi agiografici, del duca sopravvive. Sotto la coltre di un mito, «nel complesso […] falso, o falsificabile», come ha scritto Nicola Labanca, vi è una vicenda tutt’altro che lineare, con passaggi oscuri e controversi, che un’indagine storica puntuale dovrebbe farsi carico di ricostruire.

Francesco Cutolo ha conseguito il dottorato di ricerca in “Culture e società dell’Europa contemporanea” presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (novembre 2021).  Attualmente è docente a contratto presso l’Università di Pisa, per l’insegnamento Continuità e gestione della crisi, e “cultore della materia” in Storia contemporanea presso l’Università di Firenze. Dal 2015 collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia, per il quale svolge attività di ricerca e divulgazione sul territorio. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria. Società e storia pubblica» e «Storia locale». La sua ricerca si concentra sulla storia sociale, culturale e militare del primo Novecento. Tra i suoi lavori si segnala: “L’influenza spagnola del 1918-19. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” (ISRPt Editore, 2020)

Chiara Martinelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze, dove insegna “Storia dell’educazione” e “Storia ed evoluzione dei servizi per la prima infanzia”. E’ membro del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia; collabora con i comitati di redazione di “Rivista di storia dell’educazione” e di “Farestoria”. La sua ricerca si concentra sulla storia delle istituzioni scolastiche in età contemporanea. Tra le sue opere, ricordiamo “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico–industriali italiane in età liberale” (Roma, 2019).

 




Alla conquista della “piccola Russia”

oltre mille fascisti, inquadrati militarmente, sono sboccati in piazza Vittorio Emanuele, fermandosi dinanzi al Palazzo Comunale. Il marchese Dino Perrone Compagni, dopo aver salutato il tricolore che sventola dalla sommità del Palazzo civico, ha intimato a gran voce all’amministrazione comunale socialista di dimettersi entro le ore 12. La folla ha vivamente applaudito. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922.]

Dopo un colloquio con il prefetto Eduardo Verdinois e l’on. Costanzo Ciano esponente emergente della classe dirigente livornese, forte della sua fama di eroe della Grande Guerra e degli stretti rapporti con i vecchi ceti dominanti (a partire dalla famiglia Orlando) e con il fascio urbano, il sindaco socialista Umberto Mondolfi decide di dimettersi, cedendo alle minacce di Dino Perrone Compagni, ras del fascismo toscano, alla guida dell’offensiva squadrista contro la città labronica e regista delle spedizioni squadriste dirette da Firenze nelle altre province della regione.
Questi era stato inviato a Livorno a luglio dal Comitato centrale del PNF sia per riportare ordine all’interno del fascio locale scosso da gravi tensioni interne e dalla minaccia di scissione della componente più estremista vicina all’ex segretario Marcello Vaccari sia per attuare l’ultimo atto dello scontro con le forze “sovversive”: la conquista violenta del municipio.
Dati i precedenti personali di Perrone Compagni, figura carismatica all’interno di quel fascismo toscano che da mesi guardava con odio al sopravvivere della giunta socialista di Mondolfi in un contesto regionale già fortemente fascistizzato, il prefetto Verdinois, in una relazione al Ministero degli Interni di quello stesso mese di luce, si fa facile profeta di una spedizione fascista contro la città, vista anche come occasione perfetta per ricompattare gli sforzi e gli interessi delle diverse anime del fascio e degli ambienti collaterali come gli ex combattenti, rinsaldando una rinnovata unità.
Livorno del resto non era solo uno degli ultimi municipi a guida socialista ma una città simbolo, sede del congresso fondativo del partito comunità, città di consolidate tradizioni “sovversive”, teatro di importanti scioperi e manifestazioni negli anni del primo dopoguerra fra miti rivoluzionari e crescenti timori nei ceti medi e borghesi e nei tradizionali gruppi dirigenti di una città, provata dalle forti divisioni politiche suscitate dal primo conflitto mondiale e provata dalle difficoltà economiche e dalle conseguenze sociali determinate dai processi di riconversione economica postbellica.

Nella notte tra il 2 e il 3 agosto le squadre fasciste erano arrivate con i treni da tutta la Toscana. Un gruppo era riuscito a penetrare nel Municipio e ad issare sulla torre un grande vessillo tricolore. La mattina del 3 agosto Perrone Compagni, sia con una lettera, sia con una telefonata in municipio, lo aveva chiaramente ammonito: «dopo il tramonto non avremo più alcun sentimentalismo verso nessuno come voi non avete mai alcun sentimentalismo per la Patria e l’onestà». [Testo della conversazione telefonica fra Perrone Compagni e Mondolfi, secondo quanto riportato da «Il Telegrafo», 4 agosto 1922.]

Già nelle ore precedenti la città aveva conosciuto la violenza degli squadristi. Appena si era sparsa la notizia dell’adesione della Camera di Lavoro confederale e di quella sindacale allo sciopero generale proclamato dall’Alleanza del lavoro, gli squadristi erano stati mobilitati da Perrone Compagni. La mattina del 2 agosto due squadre erano state inviate nei vari stabilimenti e alla stazione dei tramvai; gruppi in auto e camion carichi di camice nere avevano iniziato a pattugliare le vie della città. I fascisti avevano ordinato di appendere le bandiere nazionali alle finestre delle case e il tricolore veniva issato anche sul Duomo.
Subito dopo il suo arrivo in città, Costanzo Ciano aveva fatto affiggere un manifesto in cui esprimeva il suo pieno sostegno all’azione dei fascisti, in quanto «l’attentato alla Nazione compiuto dai dirigenti delle organizzazioni sovversive, impone agli italiani di difendere la Patria, la libertà, la famiglia! Contro i matricidi insorge il fascismo. Concittadini, nella calma, nella serenità più perfetta attendete la vittoria».
Il ferimento di due militi aveva provocato le prime spedizioni punitive contro i circoli ´sovversivi`: Il Cigno, Il Germoglio all’Ardenza, e quello dei ferrovieri. La violenza fascista aveva colpito in particolare la famiglia Gigli:
appena è stato loro aperto, hanno iniziata una scarica di revolverate nella stanza d’ingresso, ferendo mortalmente il tranviere avventizio Pilade Gigli, di anni 30, il fratello Pietro Gigli, di anni 35, consigliere comunale comunista, parrucchiere, e la loro madre, la vecchia settantacinquenne Giulia Cantini nei Gigli. Un figlio di Pietro, Armando, noto anche lui come comunista, insieme allo zio Manlio Gigli, riuscirono a dileguarsi calandosi da una finestra. [«Il Telegrafo», 3 agosto 1922]

Nella giornata del 3 le dimissioni della giunta, che sanciscono la vittoria di Perrone Compagni, non segnano la fine degli scontri, che anzi riprendono con maggiore intensità in seguito al ferimento dell’ex segretario del fascio Marcello Vaccari. Gli squadristi attaccano e devastano la Camera del lavoro e le abitazioni di vari esponenti socialisti:
sfondata la porta dell’assessore Bacci hanno fatto irruzione nell’appartamento devastandolo. I mobili, i quadri e quanto altro vi si trovava ed era asportabile è stato gettato sulla strada ove n’è stato fatto un immenso falò. La cronaca registra inoltre un tentativo d’invasione del quartiere abitato dall’assessore Urbani, in piazza Magenta, dove la porta, solidissima ha resistito. […] Un altro gruppo di fascisti in Corso Amedeo ha fatto irruzione, devastandola, nella casa del consigliere comunale Luigi Gemignani che è rimasto ferito alla guancia sinistra. [«Il Telegrafo», 4 agosto 1922]
Stessa sorte tocca alla sede dei comunisti in via Santa Fortunata, alla casa dell’assessore Giuseppe Cardon, la cartoleria dell’assessore Giuseppe Bacci, il banco di commercio dell’assessore Giorgio Urbani, la sede della Federazione socialista: «dopo non pochi sforzi la porta ha ceduto e gli assalitori sono penetrati nell’interno. I fascisti si sono impossessati dei mobili, delle carte, hanno staccati dai muri i numerosi quadri e hanno gettato ogni cosa nella strada. Tutto è stato devastato». Al termine della giornata il bilancio degli scontri riportato da «Il Telegrafo» è di 18 feriti, fra cui un ragazzo di 18 anni, due donne e un vecchio di 71 anni, e di 4 morti: Gilberto Catarsi, operaio del Cantiere Parodi e Del Pino, ucciso da un colpo di arma da fuoco partito da un camion, Oreste Romanacci di 73 anni, il muratore Filippo Filippetti, Bruno Giacobini di 14 anni casualmente ferito durante degli scontri in via Palestro, dove si era recato per curiosità.

Nei giorni successivi la pubblica sicurezza perquisisce il circolo repubblicano di via Pellegrini e, trovandovi armi ed esplosivi, arresta Gino Reggioli segretario della sezione del PRI, il presidente del Circolo e altri membri; intanto le bandiere nazionali vengono appese ai balconi e alle finestre delle case e il preposto della Cattedrale monsignor Pera acconsente che il tricolore sventoli sul Duomo.

Il 4 agosto la manifestazione patriottica che sfila per le strade della città suggella, anche simbolicamente, l’unione tra le forze industriali, patriottiche, ex combattenti e fasciste che avevano concorso all’abbattimento della bandiera rossa dalla torre municipale, mentre il generale Ibba Piras, comandante della Divisione militare, assume la gestione dell’amministrazione cittadina come commissario straordinario fino all’11 agosto.

La lettura del “Telegrafo”, quotidiano cittadino, può aiutare a ricostruire il clima di sollievo e soddisfazione che la caduta della giunta porta negli ambienti della borghesia cittadina. La violenta aggressione e deposizione di un’istituzione legalmente eletta si trasforma nella retorica del giornale in una liberazione salvifica, una grande festa per la fine del “governo bolscevico”:
Livorno ha salutato ieri il ritorno del tricolore in modo che sarebbe follia voler descrivere. E’ stata un’altra vibrante festa italiana quella che si è svolta in un trionfo di bandiere nazionali e alla quale il nostro popolo -ancor fiero delle sue tradizioni patriottiche- ha partecipato con un entusiasmo che supera ogni immaginativa. [“Telegrafo”, 5 agosto 1922]

Così in due giorni, sfruttando l’occasione dello sciopero legalitario proclamato in tutta Italia dall’Alleanza del Lavoro proprio contro le violenze fasciste, Perrone Compagni guida le camice nere labroniche alla conquista della città, grazie al sostegno degli squadristi giunti da tutta la regione, alla complicità di ampia parte della vecchia classe dirigente e al benevolo attendismo delle forze di pubblica sicurezza.




Il “soccorso nero” in una provincia rossa. Il Movimento italiano femminile a Siena.

Il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia”.

Il Movimento italiano femmine, comunemente riassunto nell’acronimo MIF, fu tra le prime organizzazione neofasciste formatesi nell’Italia postbellica, con l’obiettivo di assistere gli ex fascisti in carcere o in clandestinità. Fondato ufficialmente il 28 ottobre 1946, una sorta di mito fondativo ne avrebbe ricondotto in realtà la paternità a Mussolini in persona, che nell’aprile 1944 avrebbe incaricato la principessa Maria Elia Pignatelli di riunire le donne fasciste e orientarne l’attività in senso assistenziale e propagandistico. Già distintasi, assieme al marito Valerio, nell’organizzazione delle reti fasciste clandestine nell’Italia liberata, la principessa Pignatelli avrebbe dato vita a un’organizzazione strutturata a livello nazionale, con sedi in quasi ogni provincia e un’estesa rete di collaboratrici, comprendente figure di rilievo nel mondo dell’industria, della politica e, soprattutto, all’interno della Santa Sede. Scopo principale del MIF fu quello di fornire assistenza materiale e legale ai cosiddetti prigionieri politici fascisti, favorendo al contempo l’espatrio dei latitanti. Tuttavia, l’azione del movimento si sarebbe progressivamente allargata, portandolo a stringere rapporti con altre organizzazioni neofasciste europee, come pure a svolgere propaganda in favore del Movimento sociale italiano. Anche per tale attivismo, nonché per la sua funzione aggregatrice, il MIF avrebbe rappresentato uno degli attori più importanti del panorama neofascista italiano dell’immediato dopoguerra.

L’archivio del MIF e l’iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Le carte del Movimento italiano femminile sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Cosenza. Disposizioni per il versamento, avvenuto nel 1969, furono impartite dalla stessa Maria Pignatelli poco prima della sua scomparsa nel marzo 1968, a causa di un incidente stradale. Il fondo, riordinato e inventariato, conta oggi 88 buste, relative all’attività svolta dal MIF dalla sua costituzione fino alla prima metà degli anni Cinquanta. La suddivisione interna presenta serie dedicate all’organizzazione del movimento; all’amministrazione; ai rapporti con organi dello Stato, enti, associazioni, partiti politici; alla corrispondenza con assistiti, avvocati, personalità politiche ecc. La serie più voluminosa è però quella relativa all’organizzazione periferica del movimento, comprendente i fascicoli delle sue sezioni provinciali e comunali.

Attraverso la cordiale collaborazione del personale dell’Archivio di Stato di Cosenza, nel 2020 l’Istituto storico della Resistenza senese si è impegnato nella riproduzione della documentazione riguardante la sezione senese del MIF, organizzata in tre ricchi fascicoli. Tali documenti sono adesso conservati in versione digitale presso la sede dell’Istituto di via San Marco 90 a Siena.

Brevi cenni sulla storia del MIF senese.

Un ufficio senese del Movimento italiano femminile fu costituito nell’ottobre 1947, sollecitato dall’inizio dei procedimenti contro i collaborazionisti fascisti presso la sezione speciale della locale Corte d’Assise. Già dal maggio precedente, infatti, si erano intensificati al riguardo i contatti tra la principessa Pignatelli e la lucchese Tita Luporini, responsabile toscana del movimento, e tra la stessa e l’ex capo della provincia di Siena Giorgio Alberto Chiurco. Nella prima metà di ottobre, la Pignatelli decise di recarsi personalmente nella città del Palio, per organizzare un primo nucleo del MIF e prendere contatti con importanti esponenti della nobiltà cittadina, disposti a finanziare le attività del movimento. Una prima lista delle iscritte alla sezione senese, risalente probabilmente a quel periodo, conta una quarantina di nominativi, vagliati dalla signora Chiurco per accertarne l’affidabilità.

Nel contesto dei processi senesi, l’azione del MIF si indirizzò verso il sostegno materiale ai detenuti, fornendo indumenti, sigarette, riviste da leggere; soprattutto, fu l’organizzazione della Pignatelli a sostenere la difesa degli imputati, rintracciando gli avvocati e provvedendo, assieme al concorso di alcuni notabili cittadini, al pagamento delle relative spese legali. Un’attività che non si limitò al solo capoluogo, allargandosi ai detenuti fascisti delle carceri di San Gimignano, tra i quali figurava anche l’ex federale milanese Vincenzo Costa.

Di grande interesse risultano al riguardo le relazioni economiche relative ai bienni 1948-1949 e 1950-1951, dalle quali emergono indicazioni di carattere quantitativo circa l’azione assistenziale del movimento, comprendente l’invio di pacchi natalizi, generi alimentari e medicinali; l’organizzazione di pranzi; l’assistenza alle famiglie dei detenuti.

Merita infine un accenno la corrispondenza intrattenuta con i singoli imputati – particolarmente significativa quella riguardante Chiurco e l’ex comandante della squadra politica fascista Alessandro Rinaldi – dalla quale emergono sia informazioni circa la quotidianità dei prigionieri, il loro stato d’animo e le preoccupazioni del momento; sia indicazioni relative all’organizzazione dei ricorsi dopo le prime condanne emesse dall’assise senese.

Riferimenti bibliografici.

  1. F. Bertagna, Un’organizzazione neofascista nell’Italia postbellica. Il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia» di Maria Pignatelli di Cerchiara, in Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 1, 2013, pp. 5-32;
  2. R. Guarasci, La lampada e il fascio. Archivio e storia di un movimento neofascista. Il «Movimento italiano femminile», Laruffa, Reggio Calabria 1987;
  3. K. Massara, Vivere pericolosamente. Neofascisti in Calabria oltre Mussolini, Aracne, Roma 2014;
  4. A. Orlandini, G. Venturini, I giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Il caso di Siena, La Pietra, Milano 1983;
  5. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia. 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 55-74;
  6. N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.



GIUGNO 1940: SIRENE D’ALLARME

La gente era intorno e commentava: tutto era ancora nel raggio delle cose possibili e prevedibili; una casa bombardata, ma non si era ancora dentro la guerra, non si sapeva ancora cosa fosse (Italo Calvino, L’entrata in guerra)

Il 10 giugno 1940, dalle ore 13.55 alle 14.05, a Livorno suonarono sinistramente le sirene dell’allarme aereo e «la città si paralizzò». Le disposizioni prevedevano che il segnale durasse 15 secondi, ad intervalli pure di 15 secondi. In realtà si trattava di un falso allarme, causato da un guasto tecnico, ma «nella popolazione si è manifestata una certa apprensione», anche perché per le ore 18 era atteso l’annuncio di Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia fascista contro Francia e Inghilterra, trasmesso dagli altoparlanti dal Palazzo Littorio in piazza Cavour.
All’entusiasmo bellicista, già nella notte tra l’11 e il 12 giugno, il Bomber Command britannico replicava colpendo Torino e Genova, seppure con incursioni aeree di carattere prevalentemente dimostrativo, nonostante alcune vittime civili. Lo stesso comando aveva individuato anche Livorno tra i primi 17 principali «obiettivi industriali in Italia» con riferimento alle raffinerie, ma fortunatamente la città si trovava, per la distanza dalle basi inglesi, al limite dell’autonomia operativa dei bimotori da bombardamento della RAF, Wellington e Whitley.
Regia Aeronautica e Armee de l'AirFu invece l’Armée de l’Air a colpire Livorno e Rosignano, in segno di reazione per l’aggressione voluta da Mussolini per sedersi, con ambizioni espansionistiche, al tavolo dei vincitori (tedeschi) a pochi giorni dalla resa francese.
Dopo aver sostenuto l’offensiva germanica sul fronte occidentale, l’aviazione francese era appena in grado di impiegare pochi velivoli, sovente inadeguati, per lo più singolarmente o in sezioni ridotte, senza difesa da parte della propria caccia, nel tentativo di danneggiare le strutture industriali, militari e portuali italiane, soprattutto delle zone costiere, isole comprese.
Nonostante tali limiti operativi l’effetto propagandistico ed anche psicologico fu comunque conseguito, mostrando al popolo italiano la vulnerabilità del territorio metropolitano e quanto poco fosse affidabile la protezione dagli attacchi aerei, a dispetto delle vantate capacità e dei mezzi della Regia Aeronautica.
Anche la provincia livornese fu raggiunta più volte – pur senza gravi conseguenze materiali – dall’aviazione francese, in quanto per la vicinanza alla Corsica e alla Costa Azzurra, era facilmente raggiungibile, senza peraltro temere danni da parte dell’evanescente reazione della Milizia Artiglieria Contraerei (13ª Legione DICAT) e dei caccia italiani, anche se presso l’aeroporto di Pontedera, in località Curigliana, vi erano dislocate due squadriglie di Fiat G.50 e una di Fiat CR 32.
Su queste incursioni, irrisorie a confronto di quelle ben più devastanti e luttuose del 1943 – ’44 compiute dai bombardieri anglo-americani (ed anche tedeschi), le informazioni sono scarse, confuse e sovente contraddittorie; stante anche la reticenza dei Bollettini di guerra e la censura che impediva – per motivi militari e politici – la pubblicazione di ogni notizia sui giornali, pur se la cittadinanza labronica ne aveva fatto esperienza diretta, tanto da indurre i primi “sfollamenti”.
Infatti, sia il prefetto Zannelli che il questore Roselli di Livorno avevano inoltrato alla stampa locale la seguente velina del Minculpop del 12 giugno: «Giornali non devono dare assolutamente notizie di allarmi incursioni aeree, bombardamenti che non siano comprese nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze. Tali notizie non potranno essere né ampliate né commentate».
Nei diversi saggi pubblicati riguardanti i bombardamenti sull’Italia si trova a malapena appena qualche accenno a quelli compiuti da aerei francesi su Livorno e persino il fondamentale saggio di Henri Azeau sul conflitto italo-francese ignora tali incursioni.
RR Bagni PancaldiControversi e discordanti appaiono i riferimenti a date, obiettivi, bombe, antiaerea, numero e tipo degli aerei impiegati che è possibile trovare nei testi (ma anche riviste e siti web) italiani a disposizione; d’altronde persino la documentazione d’archivio esistente è tutt’altro che univoca.
Informazioni utili per la presente ricostruzione, non conclusiva, sono stati desunti da alcuni documenti militari francesi, raffrontati con i rapporti pervenuti o trasmessi dalla Questura di Livorno, peraltro non esenti da inesattezze. Esistono inoltre ben tre diverse e poco concordanti cronologie degli allarmi e dei bombardamenti: il Registro degli allarmi avuti nella città di Livorno nel periodo bellico 1940 – 1945, redatto nel 1946 dal personale addetto all’impianto delle sirene dislocato presso Villa Maria; l’elenco allegato ad una comunicazione del Prefetto di Livorno alla Procura generale della Corte dei Conti, nel marzo 1965; uno schema similare pubblicato nel 1948 all’interno del libro di Gastone Razzaguta, Livorno nostra.
le-jules-verne-avion-corsaire-1In particolare, vi è molta incertezza attorno al primo presunto raid aereo su Livorno.
Secondo quanto riportato in una pubblicazione del Comune di Livorno del 2013, il 13 giugno un Farman 223-2 dell’Armée de l’Air avrebbe colpito, non gravemente, alcuni caseggiati. Per tale data però non vi è alcun riscontro documentale dell’azione, ma nel citato Registro appare riportato un allarme dalle 3.10 alle 3.55 del 12 giugno, con l’improbabile annotazione «bombe sull’Anic», mentre sul Bollettino di guerra n. 2 allo stesso giorno risulta segnalato un più verosimile sorvolo, forse di ricognizione, da parte di aerei nemici.
Su «Il Telegrafo» non venne ovviamente fornita alcuna notizia in merito, ma il 14 giugno vi furono pubblicate le Norme generali per gli allarmi aerei emanate dal Ministero della Guerra. Nella pagina laterale, invece, era possibile leggere una cronaca dettagliata del bombardamento notturno subito da Torino il 12 giugno con 14 morti e decine di feriti ad opera di velivoli inglesi.
Il 15 giugno, ancora sul quotidiano livornese, comparve un promemoria per la Protezione antiaerea in cui, oltre a confermare la «perfetta attrezzatura antiaerea», si ricordavano i doveri della popolazione civile, concludendo che «Livorno s’è messa perfettamente in linea e nella sua veste guerriera attende, con la tranquillità dei forti, al proprio lavoro».
Nei giorni seguenti, sarebbero seguiti altri articoli in cui si richiamavano i compiti dei militi dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), dei gruppi rionali fascisti e dei «capofabbricato» per l’attuazione puntuale delle misure di oscuramento e prevenzione antincendio.
La prima, accertata, incursione avvenne nelle prime ore del 16 giugno. Il Farman 223-4 “Jules Verne”, decollato da Bordeaux-Mérignac, raggiunse nottetempo Livorno; le sirene d’allarme risuonarono attorno alle ore zero. Dopo aver sorvolato la città per circa un’ora alla ricerca dell’obiettivo, ossia la raffineria Anic a Stagno, sganciò il carico causando solo principi d’incendio nelle vicinanze di una casa colonica, anche se il pilota Henri Yonnet nelle sue memorie vantò un successo completo della missione, descrivendo fuoco e fiamme sul bersaglio.
Facendo rotta verso sud, dall’aereo furono lanciati migliaia di piccoli manifestini, così come era avvenuto su Roma, raccolti in gran numero l’indomani nel quartiere San Jacopo, su cui era possibile leggere:

Il Duce ha voluto la guerra? Eccola! La Francia non ha niente contro di voi. Fermatevi! La Francia si fermerà

Donne d’Italia ! Nessuno ha attaccato l’Italia. I vostri Figli, i vostri Mariti, i vostri Fidanzati
non sono partiti per difendere la Patria. Soffrono, muoiono per soddisfare l’orgoglio d’un uomo. Vittoriosi o vinti, avrete la fame, la miseria, la schiavitù“.

Nel resoconto della Questura non compare alcun cenno alla reazione dell’antiaerea che, invece, alcuni fonti indicano come vivace ad opera delle postazioni al Cantiere navale, nel porto (zona Piloti), a Colline, nonché da un cacciatorpediniere presente nel Cantiere. Analogamente, in alcuni testi il raid viene attribuito a bombardieri medi di diverso tipo (Amiot 143, Leo 451, Martin 167) con danni leggeri arrecati nel quartiere Venezia Nuova, piazza Vittorio Emanuele e piazza Magenta; ma tali riferimenti appaiono incerti e forse riferentesi erroneamente alla successiva incursione del 22 giugno.
Il “Jules Verne”, comandato dal leggendario capitano di marina Henri-Laurent Dailliére, aveva già compiuto sedici rocambolesche missioni, tra cui quelle su Anversa, Berlino (primo bombardamento alleato, 7 giugno 1940), Rostock, Porto Marghera e, la notte precedente, Roma (lancio di migliaia di volantini). Il velivolo, un Farman 223-4, era un imponente quadrimotore (due motori in tandem) dell’Air France nato per voli civili transatlantici, “militarizzato” e incorporato nella Aviation Navale (Escadrille de Bombardement B-5) per dare la caccia alle navi corsare tedesche, assieme ai gemelli “Camille Flamarion” e “Urbain Le Verrier”, ma poi impiegato per azioni offensive a lungo raggio, ultima delle quali fu quella su Livorno.
Cratere bomba alla SolvayLa notte seguente venne il turno di Rosignano: alle ore 3 e 5 minuti del 17 giugno, il Farman 222-2 “Arcturus” n. 16 della Escadrille d’Exploration 10E dell’Aviation Navale (con base algerina ad Oran-La Sénia), colpiva con precisione la fabbrica chimica Solvay in due o tre passaggi, sganciando tredici o quattordici bombe da 100 e 200 kg., così come risultò dalla perizia balistica su una spoletta recuperata. Una di queste abbatté 35 metri di una delle due ciminiere, alta 105 m., mentre altre lesionarono seriamente un’officina meccanica, la palazzina ad uso foresteria per il personale dirigente, condutture elettriche e tubazioni idriche, con danni alle strutture per oltre un milione di lire e la perdita di 168.00 ore lavorative, con conseguente arresto della produzione di soda per 12 giorni e la successiva riduzione ad un terzo, con rilevanti riflessi su quella dell’alluminio e nell’industria tessile.
Oltre alle bombe – per un carico totale di circa 2/2,5 tonnellate – furono lanciati in quantità i soliti volantini di propaganda disfattista su Rosignano e Cecina.
A seguito dell’incursione, alle 3.15 l’allarme suonò anche a Livorno e fu allertata la contraerea, temendo che il bombardiere francese – presumibilmente diretto in Corsica – facesse rotta su Livorno.
propaganda_1940Il 22 giugno, su «Il Telegrafo», veniva pubblicato un articolo sconcertante sulla Psicologia delle masse di fronte ai bombardamenti e, a titolo d’esempio, era riportata l’improbabile testimonianza di una «degna figlia della Roma fascista»: «La prima volta si prova quasi impressione; poi non ci si bada più e quasi ci si piglia gusto…»; ma poche ore prima dell’uscita del giornale nelle edicole, Livorno era stata nuovamente raggiunta da bombe francesi, come riportato dal Bollettino di guerra n. 11 che riferì di «danni rilevanti sulla stazione marittima e abitazioni al centro», pur riferendosi genericamente ad un’incursione nemica.
Su questo bombardamento ci sono abbastanza informazioni, grazie ai rapporti della Questura inerenti i danni riportati, ma è ipotizzabile che le incursioni siano state due, tra le 3.30 e le 4.50. Appare infatti improbabile, considerato il numero delle bombe – esplose e non – che sia stato un solo velivolo a sganciarle, anche perché il carico esplosivo risultava ridotto, per avere una sufficiente riserva di carburante.
Il solito Farman 222-2 “Arcturus”, proveniente da Oran, autore del raid su Rosignano sganciò alcune bombe da 250 Kg. – forse con target l’Accademia navale – sul viale Regina Margherita, diroccando invece l’Albergo Palazzo (già Hotel Palace, prima del fascismo) e i RR. Bagni Demaniali Pancaldi.
La stima dei danni fu di circa Lire 1.200.000 per l’Albergo, 115.000 per i Pancaldi e 25.000 per ripristinare il manto stradale davanti ai Bagni dove era rimasto un cratere di 10 metri nonché la balaustra spazzata via dall’esplosione, mentre nel quartiere erano andati in frantumi i vetri delle finestre di molte abitazioni.
Invece, come indicato dallo storico dell’aviazione Bonacina, alcuni moderni bombardieri francesi LeO 451 provenienti da Istres (Marsiglia), puntarono sulla zona portuale, dove tre bombe colpirono la stazione ferroviaria marittima (allora “Livorno Porto Vecchio”). Gli ordigni produssero crateri di circa 14 metri di diametro e profondi 5, distruggendo una dozzina di scambi e binari, oltre a deragliare tre vagoni (danni stimati per Lire 80.000), mentre altre tre bombe furono rinvenute inesplose.
Danneggiati pure i Macelli comunali presso il Forte S. Giacomo (per 40-50.000 lire) e un serbatoio della società petrolifera “Nafta” (8-10.000 lire), nonchè numerosi edifici delle zone limitrofe.
Una bomba incendiaria colpì il palazzo del Municipio, sul retro, lato scali Finocchietti, rendendo inagibile l’abitazione del segretario generale. Altri edifici colpiti furono segnalati in piazza del Luogo Pio (compreso il Dopolavoro fascista “Dino Rimediotti”), scali Rosciano, viale Caprera, via delle Galere, via della Posta, via Vittorio Emanuele (l’attuale via Grande), via Ernesto Rossi, nonché sugli scali Saffi dove un incendio disastrò il buffet del Teatro Politeama. Una bomba fu rinvenuta inesplosa in piazza Magenta.
Paradossalmente, il radiotelemetro sperimentale RDT3 della Regia Marina, situato presso l’Accademia navale, era stato in grado di rilevare gli aerei nemici in avvicinamento già a 30 km., offrendo in teoria la possibilità di allertare la contraerea e la caccia italiana per intercettarli; ma non vi fu alcun contrasto aereo e soltanto in seguito sarebbe stata piazzata una batteria antiaerea alla Terrazza Mascagni (allora intitolata a Ciano).
Eravamo comunque al baroud d’honneur: nella stessa notte Marsiglia veniva bombardata da velivoli italiani con l’uccisione di almeno 143 civili e due giorni dopo fu firmato l’armistizio tra Italia e Francia, dopo 14 giorni di inutile belligeranza, costata alle truppe italiane 631 morti, 2631 feriti e ben 2151 congelati.
Complessivamente a Livorno, in queste prime incursioni aeree del giugno 1940 risultarono colpiti e danneggiati, oltre alle strutture citate, una settantina di appartamenti privati, con danni stimati attorno a Lire 70-76.000: un preavviso dei bombardamenti che Livorno doveva ancora patire nel corso della guerra fascista, con la distruzione pressoché totale dell’area portuale e del centro storico, nonché di centinaia di vittime, senza che il regime fosse in grado di assicurare adeguate misure di difesa attiva e protezione, dato che pure i rifugi si sarebbero tragicamente rivelati delle tombe collettive.
«La storia apparentemente tecnica della contraerea di Mussolini – come osservato da Nicola Labanca – è in fondo la storia generale di un regime che parla e affretta la guerra senza prepararvisi, anteponendo l’ideologia, la politica e il partito alla razionalità delle esigenze della guerra».




Bagni di Casciana 1922: Gino Bonicoli, morte di un mezzadro

Morire a diciott’anni con una pallottola in testa. Per un fiore rosso portato con orgoglio all’occhiello. O per aver fischiettato Bandiera Rossa passeggiando per le strade del paese.

Piccoli gesti – apparentemente innocui – mossi dagli ideali, che si riveleranno fatali per Gino, perché considerati un affronto da coloro che stanno dalla parte opposta della barricata, resa ogni giorno più forte dall’arroganza che sfocia in violenza, dalla prepotenza che spazza via la ragione, lasciando sul campo una scia infinita di sangue. Date lontane un secolo, luoghi così vicini, scene maledettamente simili. Tanti nomi che oggi rischiano di ridursi a semplici elementi della toponomastica, legati a una via o a una piazza. Persone che hanno pagato con la vita il loro desiderio di libertà, per sé e per gli altri, finendo calpestati dallo squadrismo fascista. Quello di Gino Bonicoli, mezzadro ucciso per la sua fede comunista, non fu soltanto il frutto dell’esaltazione di un gruppetto di ragazzi, che se la presero con un coetaneo. Non fu solo la fredda esecuzione di un giovane che si ribellava alle nuove regole che si facevano strada seminando distruzione e violenza, sopraffazione. Esaltazione accompagnata dal tentativo di annientamento degli avversari politici.

Il libro “Gino Bonicoli. Morte di un mezzadro. Bagni di Casciana, 1° giugno 1922” (Tagete Edizioni, 2015), di Francesco Turchi, giornalista del Tirreno e scrittore per passione, ha l’obiettivo di ripercorrere una vicenda che rischiava di essere cancellata nella Memoria della comunità locale e non solo. L’autore ha ricostruito la vicenda attraverso i documenti originali del tempo, raccolti negli archivi anche al di fuori dei confini regionali; verbali di consigli e giunte, informative prefettizie, sentenze. Ma anche articoli di giornale dell’epoca.

Quell’omicidio per essere compreso va inserito nel contesto storico nel quale maturò. Con un’Italia in ginocchio per le conseguenze della prima guerra mondiale.  Ed è qui che si inserisce il lavoro di Francesco Biasci, autore di una introduzione che prende il lettore per mano e lo porta indietro nel tempo, in un quadro ben definito sul piano economico, sociale e politico.

L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato, fatto di padroni e di servi che rivendicavano condizioni di vita migliori. In questo contesto, i fascisti, in un crescendo di violenza, prendono possesso dei paesi, fino a dominarli, soffocando qualsiasi opposizione. Minacciando, picchiando. Uccidendo. In tutta la provincia di Pisa come nel resto d’Italia. Con una frequenza terribile. Marzo 1921: a Barca di Noce viene ucciso Enrico Ciampi, fondatore della prima sezione comunista del Pisano. Il 13 aprile la stessa sorte tocca al maestro Carlo Cammeo, direttore del giornale socialista “L’Ora Nostra”, freddato nel cortile della scuola dove insegna a Pisa. Il 17 agosto viene ucciso Silvio Rossi, segretario comunale della giunta di sinistra a Palaia; un mese dopo vengono assassinati a Cascina i socialisti pontederesi Paris Profeti e Guido Bellucci. E ancora, nella primavera successiva, Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, socialista, assessore, viene ammazzato a Casteldelbosco mentre sta andando a Marti a una riunione sindacale. Il fuoco riduce in cenere sedi di partito e sindacati, i manganelli fanno il resto. E quando non bastano, entrano in scena le armi da fuoco.

Succede anche la sera del 1° giugno 1922 a Bagni di Casciana. Cinque mesi prima della marcia su Roma, Gino è vittima di un agguato mentre sta tornando a casa, nella campagna di Fichino. Non gli sono bastati avvertimenti e ultimatum. Continua a portare quel garofano rosso all’occhiello, ignorando le minacce. L’ha fatto anche la mattina stessa e poi la sera, “sorpreso” in un caffè quando invece gli era stato ordinato di starsene a casa. Nello Menicacagli, mugnaio di 21 anni e i due braccianti di poco più giovani, Alfredo Falchetti e Pietro Fabbri lo affrontano con una pistola. Menicagli spara, Gino muore. E morirà una seconda volta, poco tempo dopo, in un’aula di tribunale, quando al termine di un processo-farsa, gli imputati difesi dall’avvocato Guido Buffarini Guidi (sindaco di Pisa e poi podestà tra il 1923 e il 1933, futuro ministro della Repubblica sociale di Mussolini), ottengono l’assoluzione: «Hanno agito per legittima difesa», minacciati da Bonicoli. Che in realtà non ha mai avuto una pistola in vita sua, tanto meno quella sera maledetta. Ucciso due volte, umiliato una terza. Perché i suoi genitori fecero scrivere sulla lapide “vilmente assassinato mentre rincasava“. Nessun riferimento esplicito a mandanti (la cui esistenza non può essere esclusa ma non è mai stata provata) o esecutori. Ma tanto bastò per “invitare” i familiari a rimuoverla. Mamma Anna Maria, non obbedì, ma ordinò al marmista di girare la lapide. Per capovolgerla di nuovo e iniziare a riscrivere la verità, serviranno ventitré anni.

il cippo in memoria di G. BonicoliDopo la Liberazione e la fine dell’occupazione tedesca, i cascianesi rendono omaggio a Gino e poco dopo la Corte di Cassazione cancella il processo del 1922. Dodici mesi più tardi, il 19 giugno 1946 la Corte d’Assise di Pisa ristabilisce la verità su tutta la vicenda, condannando Alfredo Falchetti, l’unico rimasto in vita dei tre che tesero l’agguato a Bonicoli.

Ricordato, in questi giorni, nel centenario della sua morte,  con una serie di iniziative promosse dall’Amministrazione Comunale di Casciana Terme Lari, dalla sezione “Gino Bonicoli” dell’ANPI Valdera Colline, dal Circolo ARCI di Casciana Terme “Il proletario”, con la speranza che la Memoria non cancelli il suo sacrificio per la libertà.

Sono intervenuti alla commemorazione istituzionale di sabato 28 maggio il Sindaco di Casciana Terme Lari Mirko Terreni, il presidente nazionale Anpi Gianfranco Pagliarulo, Ivan Mencacci presidente della sezione Anpi Valdera Colline “Gino Bonicoli”, il responsabile Memoria e Antifascismo Arci Toscana Stefano Carmassi, l’Assessora Regionale alla Cultura della Memoria Alessandra Nardini. Con la partecipazione e i contributi degli alunni della scuola media di Casciana Terme, accompagnati dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Pizza.

Nel programma altre due  iniziative: il concerto del 1° giugno del Gruppo Musicale “La serpe d’oro”, e il 3 giugno una serata di musica e parole a cura di Guascone Teatro con la regia di Andrea Kaemmerle e la partecipazione del prof. Roberto Bianchi dell’Università di Firenze.




1922-2022. L’affaire Comaschi.

Il 19 marzo 1922 Comasco Comaschi, anarchico cascinese e maestro ebanista, viene fermato sul Fosso Vecchio mentre è in calesse di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana e viene ucciso con armi da fuoco in un agguato fascista.

Comasco Comaschi era nato a Cascina il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi. Comasco nella sua formazione politico-sociale è influenzato dal contesto cittadino, dove l’economia si basa sulla presenza di piccoli artigiani del legno e l’associazionismo operaio si è rivelato vivace e attivo sin dall’Unità d’Italia, e dal padre, che milita nel movimento anarchico fin dagli anni ottanta dell’800. Comaschi è dunque tra i promotori della locale sezione della Pubblica Assistenza e stimato insegnante alla Scuola d’arte di Cascina. Sotto la sua guida il gruppo anarchico di Cascina è molto attivo e organizza anche un gruppo di Arditi del popolo.

L’assassinio di Comaschi è l’ultimo di una lunga serie di uccisioni politiche perpetrate dai fascisti locali, come quella del comunista Enrico Ciampi, o del giovane Archimede Bartoli, o ancora dei socialisti Paris Profeti e Corrado Bellucci.

 1922. Il processo fascista

La vicenda giudiziaria si apre all’indomani dell’uccisione di Comasco Comaschi, quando vengono immediatamente fermati i presunti responsabili dell’assassinio, ma si chiuderà definitivamente solo nel 1951.

Il giorno successivo all’uccisione di Comaschi infatti i Carabinieri di Cascina iniziano le indagini e arrestano i presunti responsabili dell’omicidio: Pilade Damiani, Giovanni Barontini, Orfeo Gabriellini, Vasco Paoletti, Gaetano Diodati, Antonio e Italiano Casarosa, Francesco Del Seppia e Arturo Masoni. Tutti negano la propria responsabilità nell’omicidio, provvedendo a fornire prove di alibi. Anche alcuni testimoni non hanno il coraggio di denunciarli, per timori di ritorsioni e rappresaglie, così tra il 20 marzo e l’11 luglio tutti gli accusati vengono scarcerati per ins ufficienza di prove. Responsabile del celere insabbiamento del processo anche il comandante dei Carabinieri di Cascina, Frullini, vicino agli ambienti fascisti.

Successivamente anche il procuratore generale di Lucca, nella sua requisitoria del 23 ottobre 1922, chiede che l’istruttoria sia chiusa per insufficienza di prove. Emblematico che questa prima fase della vicenda giudiziaria sull’omicidio Comaschi si chiuda proprio nei giorni a cavallo della marcia su Roma. Se la requisitoria del procuratore generale è infatti del 23 ottobre, l’8 novembre giunge la sentenza. Il giudice conferma infatti non doversi procedere per insufficienza di prove.

1945. La riapertura delle indagini

L’affaire Comaschi sembra essersi concluso, senza giustizia. Passa il ventennio, giunge la guerra, ma il processo è destinato a riaprirsi il 17 marzo 1945.

Cascina è stata liberata il 4 settembre 1944, ma ancora il suolo italiano è diviso e occupato dagli eserciti stranieri. Il 17 marzo Vasco Comaschi denuncia nuovamente ai Carabinieri di Cascina i responsabili dell’assassinio del fratello, elencando tutte le vicende delittuose che dal 1921 al 1944 li hanno visti protagonisti.

Nella stessa giornata quindi i denunciati vengono reperiti, fermati e portati alle carceri di Pisa, anche per salvaguardare la loro incolumità, dato che il lunedì successivo, ricorrendo l’uccisione del Comaschi Comasco, vi sarebbe stato in Cascina un corteo commemorativo e quindi qualche elemento, definito irresponsabile, avrebbe potuto compiere atti di vendetta.

10 maggio 1945. La resa dei conti

Mentre si riaprono le indagini e si svolgono dunque interrogatori e testimonianze, il 10 maggio 1945 rientra dal Nord, dove si era trasferito in seguito all’istituzione della Repubblica di Salò, facendo parte della GNR di Malorno (Brescia), Orfeo Gabriellini, ritenuto il capo della squadra d’azione che aveva ucciso Comaschi.

Il maresciallo Adolfo Mascolo, segnala di essere intervenuto sul Corso Vittorio Emanuele dopo aver notato in lontananza un individuo che perdeva sangue dalla testa ed accompagnato da molta gente che lo offendeva con parole e pugni, conducendo quindi il Gabriellini in caserma, al cui esterno si era radunata una moltitudine di persone che volevano fare giustizia sommaria. Il Gabriellini, dopo aver confessato la propria responsabilità in merito all’uccisione di Comaschi, veniva tradotto nelle carceri di Pisa.

Negli stessi giorni sempre sul corso Vittorio Emanuele era stata tosata anche la direttrice della scuola elementare da un gruppo di donne e uomini di Cascina.

Si riapre quindi il processo, ma le indagini si concludono nel 1946. Il processo del dopoguerra si apre all’insegna della lentezza, dei cavilli trovati per rinviare il processo, mostrando quindi la debolezza della macchina giudiziaria. Nel 1946 infatti siamo oltre la fase dell’epurazione e dei conti col fascismo dell’immediato dopoguerra. C’è già stata la famosa amnistia Togliatti (decreto presidenziale n. 4 del 22 giugno 1946), con la quale il guardasigilli ricorda che c’è ormai una volontà e una necessità di pacificare il paese e di tornare ad una normalizzazione, di lasciarsi indietro i rancori e le divisioni prodotte da vent’anni di fascismo e dalla guerra.

 1946-1947. l’istruttoria e il processo a Pisa

Dopo aver raccolto nuove indagini, il 17 febbraio avrebbe dovuto svolgersi il dibattimento presso la Corte di Pisa.

Gli avvocati difensori, tra cui Mario Gattai, presentano però alcune presunte lettere anonime di minaccia, sostengono che lo svolgimento del processo a Pisa avrebbe potuto provocare gravi disordini, visto che a Pisa, dove il fascismo aveva lasciato impronte indelebili di violenze e delitti, la popolazione è talmente sovraeccitata che basterebbe un nonnulla per far nascere i più impensati e gravi incidenti, specialmente quando vi si celebrasse il processo per l’uccisione di Comasco Comaschi, che fece allora grande scalpore nella zona della piana di Pisa.

Nonostante l’esito delle indagini circa la lettera anonima da parte del brigadiere Luigi Girasoli dei Carabinieri di Cascina del 10/2/1947, ritenga che la minaccia diretta all’avvocato Gattai possa essere un’astuzia adoperata dagli anonimi allo scopo di trasferire il processo dalla parte politica opposta, il processo viene comunque trasferito a Firenze per legittima suspicione dalla Corte suprema di Cassazione con ordinanza del 13 febbraio 1947.

1946-1948. Il processo di Firenze

Dopo una prima udienza del 16 maggio 1947, in cui la Corte di Firenze ritieen la improcedibilità nei rapporti del Gabriellini del Damiani Pilade e del Casarosa, la sentenza presso la Corte di Firenze venne pronunciata il 7 luglio 1948, quando Gabriellini, Damiani e Bertelli vengono ritenuti colpevoli. Gabriellini, che nel mentre si era reso latitante, è condannato a 21 anni, Bertelli a 6 anni e 3 mesi e Damiani a 12 anni e 6 mesi. I condannati beneficiano di larghi sconti di pena grazie all’amnistia Togliati e all’indulto del 1948, e vengono quindi condonati 14 anni al Gabriellini e l’intera pena del Bertelli.

Vengono invece assolti Casarosa Antonio, per non aver commesso il fatto, e Damiani Oreste per insufficienza di prove.

 1949-1950. Rinvio alla corte di Perugia

Dopo un altro ricorso in Cassazione da parte dei condannati, l’8 febbraio del 1949 il processo viene rinviato dalla Cassazione al giudizio della Corte di assise di Perugia.

Il 21 dicembre del 1949 intanto Orfeo Gabriellini veniva reperito e arrestato a Fiesole, presso il convento di San Francesco dove era stato assunto come personale di fatica.

Quindi la Corte di Perugia sostanzialmente conferma le pene comminate precedentemente, quindi a 14 anni di reclusione Gabriellini, 4 anni e 2 mesi di reclusione per il Bertelli, 8 anni e 4 mesi per il Damiani. Anche in questo caso gli imputati beneficiano di ulteriori sconti di pena e il 16 maggio 1950 Damiani e Gabriellini, gli unici ancora in carcere per l’uccisione di Comasco Comaschi vengono scarcerati.

 La memoria di Comasco Comaschi

 Si conclude così dopo 30 anni l’affaire Comaschi, ma la memoria di Comasco invece resta viva nella comunità cascinese.

Già a partire dal giorno del funerale c’erano stati momenti di grande partecipazione pubblica in ricordo di Comaschi,.

Umanità nuova il 26/3/1922, descrive sulle sue pagine la manifestazione di cordoglio a Cascina, quando la cittadina era tutta parata in rosso e nero, il corteo funebre aveva attraversato le vie seguita da enorme folla, commossa e piangente, che gettava fiori sul carro funebre, coperto da oltre 60 corone. Tutti i lavoratori, i contadini, senza nessun ordine, spontaneamente avevano abbandonato il lavoro, tutti i negozi, perfino le farmacie, erano rimasti chiusi.

Il 9 novembre 1945 la giunta deliberò di nominare la circonvallazione del paese all’anarchico cascinese. Molte iniziative di commemorazione si tennero per gli anniversari dell’uccisione tra il 1945 e il 1950.

Il momento culminante della memoria pubblica fu la giornata di scopertura del busto in bronzo realizzata dallo scultore Francesco Morelli domenica 19 marzo 1961, nella piazza della Mostra artigiana, alla presenza di una grande folla. Presero la parola il sindaco, Alfonso Failla e Remo Scappini. Il primo rievocò le gesta criminali degli squadristi; Scappini ricordò anche la lotta dei partigiani per abbattere la dittatura. Entrambi gli oratori esortarono ad agire compatti, per evitare il risorgere del fascismo. Per espresso desiderio di Gusmano Mariani, che insieme a Pilade Caiani levò a Cascina la protesta anarchica l’indomani dell’assassinio di Comaschi, Aristide Galli depose un memore fiore rosso alla base del busto.

Infine alcune iniziative più recenti hanno coinvolto i più giovani e le scuole, come per esempio gli spettacoli teatrali a cura dell’istituto Pesenti e il gruppo TeatroInBiliko, del 2003 e del 2012, La notte di Comasco e Comasco.

Nel 2014 in occasione del 70° anniversario della Liberazione della Toscana e di Cascina, il Comune di Cascina, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Lucca (ISREC) e l’Istituto di Istruzione Superiore “Antonio Pesenti” di Cascina hanno promosso I Sentieri della Libertà e delle Resistenze, che si snodano attraverso i luoghi in cui vennero uccisi gli antifascisti cascinesi, come Comasco Comaschi, e proseguono attraverso quei siti che testimoniano il passaggio della guerra e la presenza degli eserciti stranieri: quelli in cui i soldati nazisti perpetrarono stragi civili, oppure i luoghi simbolo delle distruzioni provocate dai bombardamenti Alleati e tedeschi.

Ancora oggi a cento anni dalla sua morte dunque la memoria di Comaschi è ancora viva, come ha dimostrato la gremita sala della gipsoteca comunale, che ha testimoniato come il miglior testamento che possiamo raccogliere dall’anarchico cascinese è quello di portare avanti i valori dell’umanità, la solidarietà, la fratellanza tra i popoli, opponendoli alla violenza, alla sopraffazione, alla guerra e diffonderli anche e soprattutto nelle nuove generazioni.