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Gualtiero Vittori: un militante della base comunista

Gualtiero Vittori nasce a Livorno da una famiglia di piccoli commercianti nel 1926.[1] Il fascismo è da poco tempo al potere ma l’educazione che riceve dal padre, antifascista, e dagli stessi nonni, lo conducono sin da ragazzino a immedesimarsi con gli oppositori al regime. Del resto l’ambiente di bottega, un bar vicino ad alcune zone operaie della città, come quella del Cantiere e quella del porto, fanno sì che i suoi contatti siano sempre contrassegnati dalla cifra indiscussa dei “sovversivi”, anarchici, socialisti, comunisti e ancora qualche repubblicano. Una indiscussa congerie politica che connotava la città labronica già da diversi decenni e dove i comunisti, gli ultimi arrivati, si faranno strada a poco a poco soprattutto grazie ad alcune figure carismatiche che li rappresentano, come Ilio Barontini, Vasco Iacoponi, ma anche Emilio Valesini, Otello Frangioni, Garibaldo Benifei e decine di altri che nella sua memoria, conservata all’Istoreco, Gualtiero ricorda con affetto e sollecitudine.

La stesura della memoria di Vittori si colloca nel periodo successivo alla Bolognina quando il Partito comunista si è trasformato in altro da sé e per questo vecchio militante che si autodefinisce “un soldato” di quell’ideale, probabilmente molte cose cominciano a scricchiolare. Ma non possiamo addentrarci in ipotesi poiché il testo non ne fa cenno, è la malizia del lettore che intravede questa lettura come possibile.

Russardo Capocchi

Russardo Capocchi

La memoria fu portata all’Istoreco dal nipote, Vittorio Vittori, già molti anni or sono e purtroppo non c’è stata fino a questo momento possibilità di valorizzarla. In occasione del centenario del Pci, mi è parso opportuno tirarla fuori dal cassetto e non potendo ancora stamparla in qualche modo, perlomeno proporne qualche considerazione sul sito Toscananovecento.it. Il testo è diviso in tre parti, la prima comincia subito dopo la liberazione di Livorno quando Vittori viene assunto nella base degli americani come facchino, autista e per altri lavoretti, e si conclude verso la fine degli anni Cinquanta, periodo durissimo per la sua famiglia presa di mira dalla polizia di Scelba che gli stava sempre addosso in modo vessatorio. La famiglia che era già stata segnata dalla morte del padre durante la guerra, poi sarà colpita anche dalla invalidità del fratello che per fortuna verrà in seguito assunto in Comune come invalido e quella assunzione permise una schiarita nella loro condizione generale.

La seconda parte va a ritroso e come scrive Gualtiero, “è un diario alla rovescia”.[2] Sicuramente è la parte più interessante perché è quella dove si dispiegano meglio le ragioni del suo “essere comunista”. Comincia con il coinvolgimento nella pedagogia del padre che, quando, bambino, lo porta al cimitero a visitare i defunti della famiglia, non dimentica mai di portarlo davanti alla tomba di Russardo Capocchi, grande figura del socialismo e del sindacalismo livornese[3]. Abitudine questa così tanto acquisita che ancora in tarda età, Gualtiero si ritrova a compiere lo stesso rito.

Ma influiscono molto nella sua preparazione e nelle sue inclinazioni anche alcuni suoi compagni di giochi e quelli un po’ più adulti del fratello, come Alfio Pensabene, lavoratore del porto, arrestato dai repubblichini e morto poi a Mauthausen.[4]

Aver assistito più di una volta per la ricorrenza del 1 maggio alle aggressioni gratuite, allorquando qualche avventore si presentava al bar con una cravatta che aveva qualcosa di rosso e il fascistello di turno andava a tagliargliela, sicuro di rimanere impunito, Gualtiero era rimasto disgustato per quelle esibizioni di tracotanza. Umiliazioni fini a sé stesse, ma umiliazioni ingiustificate e prevaricatrici che rimasero impresse in un adolescente abituato a veder suo padre ritingere i muri del suo locale ogni qualvolta vi comparivano scritte tipo: W il fascio, W il Duce.

Emergono anche altri nomi di importanti oppositori scomparsi nella smemoratezza della storia come Dino Rebuzzi, frequentatore del suo bar, antifascista di tempra, combattente nelle Brigate Garibaldi in Spagna, ferito e successivamente condannato al confino a Ventotene. Il padre avvertito da un questurino si recò con la moglie, il figlio ed un amico, alla stazione dove avrebbe transitato e riuscì a porgergli: “dopo aver chiesto il permesso ai carabinieri di scorta, una bottiglia di ponci e assieme al Manzani altri piccoli aiuti vedi pure oggetti di vestiario.”[5] Ed insieme a lui decine di altri, sconosciuti ai più e raramente passati anche attraverso il filtro della storia ufficiale.

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il nostro autore è un militante di base si potrebbe dire, di quelli che sicuramente non hanno neppure mai aspirato a salire nella gerarchia interna, sicuramente un militante appassionato e fedele. Uno tra le tante migliaia e migliaia di iscritti a quel partito, partito che riuscì a stringere a sé, e non solo con la speranza, che sicuramente c’era, di un mondo migliore e più giusto, ma anche con l’esempio dei propri dirigenti. Alla componente popolare della sua base i responsabili della federazione, quelli a capo di settori importanti della vita amministrativa, economica e politica, si presentavano in quegli anni, a quegli uomini e a quelle donne del popolo, come: “compagni di strada”, portatori di una moralità anche rigida ma irreprensibile e di una coerenza di comportamento indiscutibile. La memoria dà conto di diverse testimonianze in questo senso. La più cocente e la più intensa è sicuramente quella legata a Dosolino Bendinelli, comunista e perseguitato politico. Si reca al bar da Gualtiero che rievoca: “chiede di Dino Frangioni, le dico che non si è ancora visto, mi consegna del denaro pregandomi di darlo a Dino per pagare la tessera dell’ANPPIA[6] dovendole riferire che era pari, prese la sua consumazione, mi salutò e non lo rividi più perché all’indomani si sparò una rivolverata (sic!). Gualtiero scrive ancora: “Può anche sembrare banale questo appunto, ma… pensateci un momentino su come erano fatte certe persone”[7].

E non è il solo episodio che vada in questa direzione. Quello che aveva sempre colpito la sensibilità di Gualtiero era sicuramente non tanto la profondità politica delle analisi, o la ricchezza culturale dei dirigenti, l’aveva impressionato soprattutto la loro onestà, la loro coerenza di uomini prima ancora che di dirigenti. Il milieu sociale nel quale era cresciuto si prestava ad una emancipazione politica contrassegnata da queste cifre. Nato in una famiglia composta da un nonno di fede repubblicana e da un padre socialista che aderì al Pci sin dalla scissione del 1921, si trovò collocato naturalmente dentro una tradizione laica e sovversiva, considerate anche le peculiarità politiche della storia della città[8]. Oltre alla passione politica il padre trasmise ai due figli, Gualtiero e Pietro, la passione per la lirica, anche questa passione assai radicata nella città di Mascagni. Uno dei bar da loro gestiti si chiamava, non a caso, Il lirico. Pietro, il fratello più grande e più riflessivo fu indirizzato allo studio della musica e del violino mentre Gualtiero più insofferente alla disciplina fu indirizzato alla scherma. Due passioni queste: la lirica e la scherma tipicamente labroniche.

I diversi esercizi commerciali (Bar del Teatro, Bar Vittori, Bar Moderno) che la famiglia gestì nel tempo, furono tutti collocati nelle zone del centro. Luogo deputato delle manifestazioni di protesta dove spesso, soprattutto nel dopoguerra, Gualtiero venne coinvolto. Il bar era ed è un luogo di ritrovo, dove si faceva colazione la mattina prima di andare a lavoro, dove si passava dopo la fine del turno e dove ci si recava per giocare a carte e discutere con gli amici. Assidui frequentatori erano i portuali, gli avventizi del porto, i dirigenti della Compagnia Portuale ma anche gli uomini più esposti durante il ventennio dell’antifascismo locale, come Barontini[9] o Vasco Jacoponi[10] e altri come Sergio Manetti[11], futuro segretario della locale Camera del Lavoro, Garibaldo Benifei[12] antifascista di lungo corso, Danilo Conti segretario della Fiom e tantissimi altri ancora che sono ancora oggi vivi nella memoria democratica della città.

Il giovane Gualtiero li ascoltava ragionare, coglieva le mezze parole che si dicevano a bassa voce a causa delle lunghe orecchie della polizia di regime prima e poi della polizia politica dell’era di Scelba. Durante l’ultimo periodo della guerra, quando con la famiglia per colpa dei bombardamenti che colpirono la città[13], si rifugiarono tutti a Montenero, si mise ad ascoltare radio Londra e a portare di nascosto qualche arma ai rappresentanti del comando tappa del distaccamento Oberdan Chiesa.[14]

Azioni adatte alla sua giovane età (aveva tra i 16 e i 17 anni), sicuramente pericolose ma svolte con piglio guascone, sicuro e sfottente nei confronti delle autorità repubblichine. Con la fine della guerra però non ci fu un vero e proprio ingresso nella libertà democratica. Dopo la caduta del primo governo De Gasperi si entra a tutti gli effetti nel clima duro della guerra fredda. Sia Gualtiero che i suoi sono tenuti d’occhio. Troppi comunisti frequentano il loro bar ed allora a parte i continui cambiamenti di lavoro per tirare a campare, quando Gualtiero entra in pianta stabile nella gestione dell’esercizio commerciale, spesso si trova costretto a rispondere a vere e proprie vessazioni da parte delle forze dell’ordine, fino all’episodio più grave quando trascorrerà in prigione diversi giorni in carcere. Durante la lotta del Cantiere, nei primi anni Cinquanta, si vede sequestrare un radiogrammofono con l’accusa che si trattava di una radiotrasmittente e  alla punizione di 20 giorni di chiusura![15] Scrive amareggiato:

Eravamo rientrati in quella sorveglianza asfissiante che non ci dava modo di lavorare con sufficiente tranquillità, quando le guardie non entravano si mettevano di faccia a osservare. Arrivammo così alla famosa legge truffa…la sera dopo una comitiva di compagni dopo essere stati a festeggiare passò sotto i portici di Via Grande dall’altra parte della strada rispetto a dove era il Bar. Era circa la mezzanotte e cantavano tutti assieme “Malafemmina” – neanche un motivo politico – entrano in bottega le guardie e, ti pareva, mi intimano di farli smettere. Faccio presente che non sono nel mio negozio e tantomeno vicino e che non stava a me intervenire per farli tacere. Bene: invito a presentarsi al Commissariato di Forte San Pietro all’indomani mattina e là ci fu comunicato la chiusura immediata a tempo indeterminato…[16]

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Nel 1955, alla televisione danno la famosa trasmissione: Lascia o raddoppia? che si poteva vedere anche nella sala Tv nel bar dei Vittori che furono tra i primi esercizi ad avere l’apparecchio. Avevano collocato un’insegna luminosa per segnalarlo e avevano svolto le pratiche obbligate al Comune e si ritenevano a posto. Ma “una mattina arriva un poliziotto che mi conosceva bene e malgrado questo quando all’una di notte chiudevo il bar per andare a casa mi chiedeva i documenti”[17]. Poiché il poliziotto aveva un’ordinanza del Commissariato che intimava di togliere immediatamente l’insegna, il nostro autore perde il controllo e spacca alcuni mobili dell’arredo del bar, per l’esasperazione alla quale era arrivato. Si giunge in questo clima al 1958 quando in città viene organizzata una manifestazione per la Pace in Libano. Gualtiero aveva un appuntamento ma non riesce ad arrivare sul luogo a causa della presenza della celere. Prova e rientrare al bar ma “niente sull’angolo arriva un’altra mandata di poliziotti, scendono dal camion e cominciano a spintonare tutti coloro che si trovavano là, io mi fermo ma arrivano anche a me, spintoni, io non ci stò (sic!) e reagisco e giù manganellate io non sto neanche a queste, mi rompono gli occhiali da sole sul viso con taglio al sopracciglio, smanaccio un po’; poi uno di essi disse: ‘portatelo via!’, mi presero per le braccia, mi liberai dicendo: ‘Ci vengo da me’, mi caricarono sul camion (c’erano altri) e da lì in questura”[18]. Da lì ai Domenicani, all’epoca il carcere di Livorno. Dopo alcuni cambi di cella lo mettono con altri due, dei quali uno giovanissimo che verrà presto rilasciato, ed un altro, Mario Corucci. Alcuni giorni dopo arriva un pacco da Piombino e poi da Eddo Paolini[19] della Federazione di Livorno e dai portuali arrivano anche dei soldi. In sostanza si era attivato un “Soccorso rosso” che era riuscito a realizzare 5.000 £, una cifra non indifferente per l’epoca.[20] Il nostro autore commenta:

“le cifre non contano è importante sapere che qualcuno ti ricorda”[21].

Ma la solidarietà si espresse anche con la maggiore frequentazione più assidua del bar da parte dei clienti abituali. Interessante ricordare che dalla biblioteca del carcere si fa portare due libri già letti, I Miserabili di Victor Hugo e Martin Eden di London, due classici della biblioteca del buon comunista a partire dagli anni Trenta e Quaranta e come evidenzia questa memoria ancora centrali alla fine degli anni Cinquanta.

Ogni volta che lui, come altri, si trovano al cospetto del potere poliziesco, si rivolgono alla deputata eletta nella circoscrizione di Livorno, sorella del primo sindaco della città: Laura Diaz[22]. É una figura fondamentale che sta accanto a lui e a tutti quelli che si trovano nelle stesse situazioni. Con lei si sentono a casa. Alla fine al processo tutti gli imputati vengono condannati a 8 mesi, oltre al mese già trascorso agli arresti ma poiché anche un poliziotto testimonia a loro favore, la pena fu sospesa per cinque anni e il nostro venne scarcerato. Soltanto il suo compagno di cella, Corucci e una donna Giuseppina Santini,[23] rimasero in galera perché recidivi.

Subito dopo la liberazione gli viene notificata dalla Questura la diffida della durata di due anni e poiché capitava che la sera alla chiusura ci fossero discussioni con qualche cliente che aveva alzato il gomito e che Gualtiero non era proprio il tipo da contenersi, per non peggiorare la sua situazione, decide con la moglie e la madre, di vendere il bar. Comprano un negozio di alimentari e si procura una giardinetta per le consegne ma poi scopre che la diffida gli rende impossibile guidare l’auto e così se ne deve disfare. Intanto siamo arrivati al 1960 e ci sono i famosi fatti dei parà[24]. Prima la città è invasa dai militari e poi dalla polizia. Il nostro viene fermato e portato di nuovo in Questura. Il testo prosegue con i ricordi delle prepotenze subite e del calore della solidarietà ricevuta.

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Al termine, a giudicare dalla narrazione, si può pensare ad un vero e proprio pezzo aggiunto, nella cosiddetta III Parte, Vittori racconta episodi scollegati ma ai quali evidentemente teneva molto: la morte di Ilio Barontini, il XX° Congresso del Pcus e alcuni ricordi privati di serate passate con Sergio Manetti, con Fantolini e Paolini a cantare e a suonare la chitarra. L’immagine più forte e più bella di questa parte è quella riservata al funerale di Barontini e di Frangioni e Leonardi morti nello stesso incidente stradale, quando Vittori scrive:

La notizia della morte di Barontini, Frangioni e Leonardi ci giunse nel Bar (all’epoca in Piazza Mazzini), dapprima non chiara, si parlava di feriti, poi la verità dilagò come un’esplosione, non si parlava d’altro e posso dire che la totalità dei livornesi ne fù (sic) coinvolta compreso gli avversari politici. In migliaia ci recammo ad incontrare le salme, pioveva, era sera, e questa moltitudine si ritrovò a Stagno per darle il primo saluto, poi i funerali a Porta S. Marco.[25]

Credo che l’espressione “la verità dilagò come un’esplosione” sia la dimostrazione più forte della adesione a quel lutto e a quella storia che il nostro ci abbia lasciato.

Livorno, 12 maggio 2021

[1] Purtroppo in mancanza di familiari viventi non possiamo indicare la data della scomparsa.

[2] Gualtiero Vittori, Memorie, testo dattiloscritto e non datato, p. 22, conservato presso l’archivio Istoreco.

[3] C. Sonetti, Una morte irriverente. La Società di Cremazione e l’anticlericalismo a Livorno, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 160-163, il cui funerale fu una vera e propria manifestazione di antifascismo insieme a quella di Mario Camici. Cfr. a questo proposito anche Massimo Sanacore, Il percorso interrotto. Il pluralismo etnico, religioso e politico nel sistema industriale livornese. La storia e le immagini (1865-1940), Annuario Sibel, Livorno, Sibel, 2003. La notizia comparve anche su «l’Unità» del 22 aprile 1933.

[4] G. Vittori, Memorie, cit., pag. 11. Può darsi che il nome fosse Angelo e non Alfio perché con quel cognome si trova inserito nel sito, ademol-org/progetto-ocr/deportati-mauthausen. Cfr, Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965.

[5] Ibidem, p. 13.

[6] Associazione nazionale perseguitati politici.

[7] Ibidem, p. 9.

[8] Cfr. gli ormai classici: Nicola Badaloni, Democratici socialisti e livornesi nell’Ottocento, La Nuova Fortezza, Livorno, 1987, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977 e di Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile 1892-1922, Mazzotta, Milano, 1974 e Nota sul primo antifascismo livornese, Olschki, Firenze, 1971.

[9] Cfr. Era Barontini, Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Editrice Nuova Fortezza, Livorno, 1988, Fabio Baldassari, Ilio Barontini. Fuoriuscito, internazionalista e partigiano, Robin, Roma, 2013, e Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti in Unione Sovietica, Ets, Pisa, 2017.

[10] Natale Vasco Jacoponi (1901-1963), eletto deputato nella I-II-III legislatura. Console dei Portuali nel secondo dopoguerra; storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[11] Cfr. scheda su: consiglio.regione.toscana.it/consiglieri, e «Il Tirreno» del 27 gennaio 1999.

[12] Cfr. Garibaldo Benifei, Per la libertà: trent’anni di memoria fra antifascismo, Resistenza, cooperazione (1920-1950), Debatte, Livorno, 1996, Margherita Paoletti, Garibaldo Benifei. 100 anni di un antifascista tra Resistenza e bella politica, Comune di Livorno, 2012, anppia.it/antifacsiti/benifei-garibaldo.

[13] Laura Fedi, Bombardamenti a Livorno, in Aa.Vv. 28.05.1943. “Era di maggio.” Notte e giorno le sirene annunciavano i bombardamenti, Comune di Livorno, Livorno, 2013. Scrive Vittori a pagina 16: erano da poco passate le undici e si alza il lugubre ululato delle sirene, gli operai del Cantiere lasciano il posto di lavoro e si precipitano fuori dello stabilimento, io inforco la bicicletta e corro come un dannato verso la bottega, sul ponte nuovo tra gli schianti della contraerea cominciano a piovere le prime bombe, mi fermo in un portone ed un pescatore napoletano puntando una mano verso il cielo mi grida: eccoli accà, seguo l’indicazione e vedo questi apparecchi che sembrano giocattoli tanto era la loro distanza, al tempo stesso un aereo italiano vola a bassissima quota e si dirige forse verso il vicino aeroporto di Pisa, una torpediniera in bacino spara con le mitragliere accennando un inutile (data la distanza) fuoco di sbarramento; le bombe cadono a grappoli… ricordo in Piazza Roma un cavallo sventrato: la fila delle persone che abbandonavano la città era enorme..

[14] Bruno Bernini, Livorno dall’antifascismo alla Resistenza: il 10. Distaccamento partigiano e la liberazione della città, Comune di Livorno, 2001.

[15] G. Vittori, Memorie, cit., p.2.

[16] Ivi p.4.

[17] Ivi. p. 5.

[18] Ivi.

[19] Eddo Paolini è stato un importante quadro del Partito comunista, autore anche di un volume, E fu subito festa, Tipografia Benvenuti & Cavaciocchi, Livorno,1984.

[20] Ibidem, p. 6.

[21] Ivi.

[22] Cfr. Tiziana Noce, La città degli uomini: donne e pratica della politica a Livorno fra guerra e ricostruzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004 e storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[23] Purtroppo non possiamo scrivere nulla di questi due personaggi.

[24] Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1999.

[25] G. Vittori, Memorie, cit., p.22.




Cantini e Ferrari: comunisti internazionalisti livornesi.

Quarta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

CANTINI  Astarotte (Bruno Baroni)

(Livorno 30.5.1903 – URSS settembre 1938?)

Cantini (1)Nato a Livorno nel 1903, da Milziade e Natalina Parenti, di professione è operaio-manovale. Il fratello Alessandro, classe 1907, è militante comunista. Già nell’immediato primo dopoguerra inizia la sua attività politica come militante rivoluzionario nelle fila del movimento anarchico e nel 1921, in qualità di anarchico convinto e di azione, come recitano i rapporti di polizia entra negli Arditi del Popolo partecipando a scontri di piazza contro i fascisti livornesi tra il 1921 e il 1922. Viene arrestato una prima volta, insieme ad altri tre anarchici livornesi (Virgilio Fabbrucci, Bruno Guerri e Ilio Scali, i cosiddetti bombardieri di via degli Avvalorati) nel giugno del 1922 per fabbricazione e detenzione di materiale esplosivo, da usare contro le squadre fasciste livornesi comandate dal tenente Marcello Vaccari e per questo condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Dopo aver scontato 13 mesi esce per amnistia nel 1923 e viene sottoposto a stretta vigilanza di polizia sino al settembre del 1924; successivamente svolge il servizio militare nella Regia Marina. Nel luglio 1926 è sottoscrittore del giornale anarchico Fede! e sempre in quel periodo emigra in Francia probabilmente sotto il falso nome di Bruno Baroni. Nel settembre 1926 fa parte di una delegazione operaia che visita l’Unione Sovietica, dove soggiorna per tre mesi, per poi rientrare in Francia. L’anno successivo si trasferisce a Esch-sur-Alzette, in Lussemburgo, dove continua la sua attività politica, redigendo e diffondendo giornali e altri stampati anarchici. Scrive più volte ai militanti anarchici Bruno Guerri e Athos Ricci per avere notizie delle situazione economica e politica di Livorno, da pubblicare eventualmente nella stampa anarchica. Nel 1928 viene espulso dal Lussemburgo insieme ad altri anarchici pericolosissimi (Adone Franchi, Luigi Sofrà e Giuseppe Morini) e si trasferisce in Belgio ma pochi mesi dopo ritorna in Francia, a Pavillons-sous-Bois e a Livry Gargan. Qui nel 1929 viene avvicinato da Natale Vasco Jacoponi, anch’egli livornese, militante del P.C.d’I. e passa dalla militanza  anarchica a quella comunista. In questa fase della sua vita politica, il Cantini diffonde a Marsiglia materiale del Komintern e tra le altre attività nel 1929 invia a Livorno, tramite posta clandestina, una copia del giornale Fronte Antifascista a Menotti Gasparri, suo amico sin dall’infanzia, nonché militante comunista livornese (che cadrà  in Spagna nel 1936), insieme a quattro talloncini in cui si invitano i lavoratori livornesi a lottare per l’aumento salariale del 20%  (nel 1929 il salario medio operaio  era diminuito drasticamente a causa della politica economica del regime fascista).  Costantemente vigilato dall’OVRA che lo classifica ancora come dirigente antifascista e come anarchico-attentatore, il Cantini nel 1931 o 1933 si trasferisce in Unione Sovietica, probabilmente utilizzando ancora lo pseudonimo di Bruno Baroni, grazie al quale riesce a trarre in inganno l’OVRA e a far perdere le sue tracce per qualche anno. Nel giugno 1933 infatti invia alla madre una falsa lettera proveniente da Le Havre, nella Francia settentrionale, nella quale le annuncia che dovrà lasciare  la Francia “per ragioni di lavoro”, nel tentativo riuscito di depistare l’OVRA che solo nel l’aprile 1935 sarà certa della sua presenza in Unione Sovietica. In Urss viene inviato dal Partito Comunista, ormai stalinizzato nel suo corpo dirigente, a studiare a Mosca alla MLS, la Scuola leninista. Terminati gli studi presso la scuola di partito, viene ulteriormente inviato come istruttore del Club Internazionale dei Marinai a Tuaspe, nel Kraj (territorio) di Krasnodar, nella Russia meridionale e successivamente a Voroscilovgrad, attuale Lugansk (Luhans’k), nell’Ucraina orientale, dove probabilmente lavora in una fabbrica di dirigibili, almeno fino al 1935 e dove nel 1937 ha dalla moglie Zina (detta Lina), cittadina sovietica, un figlio di nome Gino. Nell’aprile 1936, in una lettera alla madre, menziona un altro comunista italiano transfuga in Urss, Decio Tamberi, il quale deluso dal regime staliniano, gli confessa che vorrebbe rimpatriare in Italia perché non riesce ad adattarsi alla vita sovietica.  Negli ultimi anni della sua vita il Cantini rimane a Voroscilovgrad  (Ucraina), da dove esprime, nel giugno 1937, il proprio dispiacere per la morte in combattimento, sul fronte di Madrid, dell’amico Menotti Gasparri, comunista livornese già esule in Unione Sovietica e da dove scrive alla madre: “…quanto a me, mia moglie e Gino, siamo in ottima salute e speriamo che Gino cresca bene, così un bel giorno lo potrai vedere ed abbracciare. Mia moglie si trova in ferie per ancora due mesi dopo il parto con paga completa, e più 95 rubli per la nascita di Gino. La nostra vita è buona in tutto e per tutto, non si pensa al domani… ”. Già inviso alla dirigenza e ai quadri staliniani del Pci a partire dal 1935 a causa di alcune critiche che il Cantini aveva espresso in passato nei confronti della politica di Togliatti e di Stalin, per essere ideologicamente anarchico, non abbastanza disciplinato (secondo quanto conservato nella documentazione sovietica) e per aver frequentato elementi ritenuti vicino al trotskismo, tra il maggio e il giugno 1938 viene arrestato nella città di Voroscilovgrad con la falsa accusa di spionaggio e il 25 settembre dello stesso è condannato ad una pena imprecisata da una trojka del NKVD. Non vi è certezza sulla sua sorte, tuttavia possiamo affermare che il Cantini è stato probabilmente fucilato nell’immediato e sepolto in una fossa comune, insieme a centinaia di trotskisti. Riabilitato nel luglio 1956, nella cosiddetta fase di destalinizzazione, avviata dal segretario generale del PCUS Nikita Chruscev, il suo nome tuttavia resta dimenticato dal P.C. livornese, a causa della sua morte da antistalinista.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE

Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Biblioteca Franco Serantini, collezioni digitali, dizionario biografico degli anarchici italiani, ad nomen; Memorial, Italiani in Urss, schede biografiche, ad nomen; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen.

FERRARI  Fernando

(Livorno 19.7.1900- Livorno 28.5.1943)

Nato a Livorno nel 1900 da Girolamo ed Elisabetta Di Rosa, di professione è facchino portuale, successivamente venditore ambulante, in ultimo operaio al cantiere Odero-Terni-Orlando. Segnalato inizialmente come anarchico, agli inizi degli Anni Venti si evidenzia per la sua attività antifascista. Nel dicembre 1922 viene condannato dalla Corte d’Appello di Lucca a 3 anni 10 mesi e 20 giorni di reclusione per aver sparato ad un fascista ferendolo,  nel corso degli avvenimenti sanguinosi che in quegli anni videro contrapporre le squadracce e i “sovversivi” nella città di Livorno. Amnistiato nell’ottobre del 1923, emigra per un certo periodo in Francia, per poi rientrare in Italia. Si avvicina quindi al Pcd’I divenendo probabilmente militante in quegli anni. Nel marzo 1930 viene fermato e subisce una perquisizione domiciliare nel corso della quale viene rinvenuto un pugnale, che gli viene sequestrato e per ciò viene condannato, il 1 giugno di quell’anno, ad una ammenda di L. 100 per omessa denuncia.  Nel dicembre 1930 è invece arrestato insieme ad altri dirigenti del Partito Comunista livornese in una vasta operazione di polizia mirante a smantellare l’organizzazione territoriale clandestina del Pcd’I: il Ferrari è ritenuto essere capo della cellula del rione Borgo San Iacopo, dove risiede, nonché comandante della squadra d’azione (servizio di sicurezza) del settore di Piazza Mazzini. Dalle carte d’archivio si apprende che tra il 1929 e il 1930 si era effettivamente ricostituita a Livorno l’organizzazione comunista clandestina, che risultava divisa in due settori: Barriera Garibaldi (Livorno Nord) e Piazza Mazzini (Livorno Sud). Ogni settore a sua volta era diviso in diverse cellule che variavano di numero in base ai quartieri e ai luoghi di lavoro e ogni dirigente aveva dei compiti prestabiliti. Il settore Sud, quello di Piazza Mazzini, diretto da Arturo Silvano Scotto aveva tra fiduciari: Oreste Baldi, per la stampa e la diffusione nei quartieri e nei luoghi di lavoro; Rosolino Pelagatti per il Soccorso Rosso e Fernando Ferrari per il servizio sicurezza, chiamata squadra d’azione. Al momento dell’arresto gli viene sequestrata anche una somma pari a lire 230 a lui versata dagli altri capi cellula, frutto di una raccolta fondi, per l’acquisto di armi. In effetti Ferrari si sarebbe dovuto occupare dell’acquisto in quei giorni di una sessantina di rivoltelle ed altre armi, cosa che sfumò a causa dell’arresto. Deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato il 24 dicembre 1930, viene condannato nel maggio successivo a quattro anni di reclusione, tre anni di vigilanza ed esclusione perpetua dai pubblici uffici per il reato di ricostituzione del Partito Comunista e per propaganda sovversiva, condanna che sconta nelle carceri di Roma e Civitavecchia. Scarcerato nel novembre 1932, in quanto beneficia dell’amnistia del “Decennale”, rientra a Livorno, dove viene costantemente vigilato. Fermato nel marzo 1933, insieme a moltissimi altri comunisti, in occasione dei funerali di Mario Camici e per l’esplosione notturna di due ordigni presso il Dopolavoro San Marco e la caserma della MVSN, viene rilasciato dopo pochi giorni. In un elenco del 1934 dove sono segnalati i nomi dei militanti del Partito comunista espulsi per attività controrivoluzionaria (elenco rinvenuto dalla Polizia politica fascista), risulta essere stato espulso dal Partito comunista non per aver inoltrato domanda di grazia, cosa che fece nel settembre 1931, ma per un non meglio precisato tradimento, forse perché probabilmente vicino alle posizione bordighiste o trotskiste. Dopo aver esercitato il mestiere di venditore ambulante, nel maggio 1937 viene assunto in qualità di operaio al cantiere navale Odero Terni Orlando, ma nell’ottobre dello stesso anno viene nuovamente arrestato per aver rifiutato di dare indicazioni sulla propria identità personale alle forze dell’ordine e condannato al pagamento di un’ammenda di L. 50. Nel gennaio 1938 viene scarcerato e riprende l’attività lavorativa presso il suddetto cantiere Orlando. Costantemente vigilato, in quanto ancora comunista, Ferrari muore a Livorno nel corso del bombardamento aereo alleato del 28 maggio 1943 che distrusse buona parte della città.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile.




Livorno 1921. Ipotesi su una bandiera

Il Telegrafo / La Gazzetta Livornese 1º maggio 1923:

Due bandiere rosse sequestrate dai fascisti.

Dai fascisti dalla Sezione delle Case Popolari sono stati sequestrati nelle case di due ferrovieri due vessilli rossi: uno di seta con frangia nera, appartenente alla Sezione comunista di Livorno e l’altra al gruppo socialista «Spartaco».

Le bandiere sono state consegnate ai dirigenti del Fascio.

  Da questo vecchio articolo potrebbe iniziare una nuova ricerca per ricostruire la vera storia della bandiera della Sezione di Livorno del Partito Comunista d’Italia, attualmente esposta a Livorno presso il Museo della Città, dopo il difficile recupero e restauro compiuto nel 2015, durante cui è andato perduto ciò che restava sui bordi delle frange originarie (nere o dorate).

La sua storia – orale – è abbastanza nota: cucita da compagne livornesi, si sarebbe salvata dalle incursioni fasciste e durante il periodo della clandestinità, dopo essere stata nascosta da Ilio Barontini e da Armando Gigli sino alla Liberazione. Dopo di che sarebbe stata conservata presso le sedi della Federazione del PCI per approdare al Circolo democratico S.Marco-Pontino “Lanciotto Gherardi” con sede in via Garibaldi.

Sempre secondo la memoria tramandata, questa sarebbe stata la prima bandiera della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, risalente alla fondazione nel gennaio 1921 e avrebbe persino sventolato sul Teatro S. Marco.

Telegrafo 1MAGGIO23

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L’articolo del maggio 1923 sembra però contraddire tale datazione. Innanzitutto, va precisato che all’epoca i vessilli delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio erano uniche e quindi è da escludersi l’esistenza di due bandiere per la stessa sezione locale del PCdI, come di qualsiasi altro sodalizio sovversivo.

Infatti, il momento dell’inaugurazione era politicamente e simbolicamente importante, tanto che avveniva in forma solenne in occasione di manifestazioni, come il Primo Maggio, o con feste collettive dedicate proprio a tale presentazione, comprendenti significativi discorsi degli esponenti del partito o della lega.

Soltanto l’usura o la perdita accidentale di tale bandiera poteva motivare la fabbricazione e la comparsa in pubblico di una nuova.

L’articolo in questione non lascia quindi molti dubbi sul fatto che il sequestro si riferisce con ogni probabilità alla prima bandiera della sezione comunista livornese.

La successiva consegna della stessa, come trofeo di guerra, alla sede del Fascio in piazza Cavour era poi una “consuetudine” fascista, così come ricordato da Garibaldo Benifei nelle sue memorie che vi aveva veduto: «una sala in cui stavano in bella mostra, come trofei di caccia, le bandiere conquistate ai “rossi” durante le spedizioni, gli agguati, gli scontri».

Almeno parte di tale raccolta venne trasferita a Roma, assieme ad altri cimeli, nel 1932 per la Mostra della Rivoluzione Fascista, ma soltanto alcune bandiere provenienti da Livorno sono state recuperate e si trovano conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato; per cui, si può affermare che quella comunista è andata perduta, magari nelle contingenze belliche.

Il dettaglio della frangia nera è inoltre comune a numerose bandiere comuniste – ed anche socialiste – dell’epoca.

La bandiera che è arrivata sino a noi potrebbe dunque, pur essendo del tutto autentica, essere quella che sostituì, in un momento successivo, quella sequestrata dai fascisti.

A rafforzare tale sospetto, ci sono due elementi. La scritta nera nella parte inferiore del campo rosso, con la dicitura Sezione di Livorno, appare in caratteri diversi e meno elaborati, rispetto all’iscrizione superiore – Partito Comunista d’Italia – ricamata in un bellissimo stile Liberty.

Anche in fase di restauro, è stato osservato che la scritta inferiore risulta realizzata in un momento successivo, come per adattare e connotare una bandiera pre-esistente, circostanza questa alquanto improbabile se si fosse trattato della prima bandiera del neonato partito.

In secondo luogo, può essere interessante una considerazione iconografica, in base al confronto con tutte le bandiere comuniste note del periodo; talvolta senza simboli (come quella di Pitelli). Il simbolo centrale della stella con inscritta la falce e martello (peraltro posizionati in senso contrario rispetto all’orientamento tradizionale) risulta del tutto inconsueto, per non dire eccezionale, nel 1921. Come si può constatare pure nelle tessere del Partito, la stella, di derivazione sovietica, entrò infatti nella simbologia comunista soltanto anni dopo – anche perché in Italia era legata ad altri movimenti e contesti culturali – e quindi rafforza la convinzione dell’esistenza di un’altra storia, ancora sommersa e tutta da scrivere.

Un’altra bandiera comunista scomparsa nel vortice della guerra civile è quella della Federazione giovanile di Livorno, con sede in via Solferino devastata nel 1922 dai fascisti, ricordata dal militante Ilio Paperi (“I giovani livornesi affrontano i fascisti sulle piazze”): «anche noi giovani comunisti s’aveva una bandiera bellissima più grande di quella della federazione adulta, e che purtroppo non è stata mai ritrovata».

 




Danilo Mannucci

All’interno della rassegna di alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921, presentiamo quello di Danilo Mannucci, arricchito in allegato da un ricordo commosso del figlio Giuseppe.

MANNUCCI Danilo (Livorno 28.8.1899 – Gardanne (Bocche del Rodano, Marsiglia, Francia) 21.3.1971)

Danilo Mannucci nasce a Livorno nel 1899 da Gastone ed Anna Peruzzi; il padre, soprannominato Libeccino, dal vento Libeccio che soffia a Livorno, è un repubblicano dirigente dell’associazionismo mazziniano e anticlericale. Di professione è rappresentante di commercio.

Il giovane Mannucci cresce in seno a un’umile famiglia proletaria nella quale, grazie all’influsso educativo paterno, ma anche a quello del nonno Giuseppe, si leggono giornali e libri, si studia e si discute di diritti sociali e civili e della difesa della libertà del proletariato.

A l’età di 16 anni, dopo aver appreso della morte di Amedeo Catanesi (1890-1915), segretario generale della Federazione Giovanile Socialista Italiana, avvenuta il 17 luglio 1915 nelle trincee d’Andraz sul Col di Lana, poi ribattezzato Col di Sangue aderisce alla detta Federazione.

Chiamato alle armi non ancora diciottenne nel maggio 1917, Danilo Mannucci fu un Ragazzo ’99, e viene inviato in zona di operazioni nell’estate del medesimo anno, dove partecipa ai rastrellamenti dei reparti dispersi e sbandati dopo la sconfitta di Caporetto (ottobre 1917). Nel gennaio 1918 viene inviato sul Monte Grappa dove prende parte alla battaglia del Solstizio (giugno 1918) e alla controffensiva di Vittorio Veneto (ottobre 1918), restando al fronte anche dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, venendo nominato caporale nel gennaio 1919. Ha seguito col commando gruppo i differenti spostamenti dalla zona del fronte fino a Cittadella (Padova) dove è rimasto fino all’invio in congedo illimitato nel febbraio del 1920.

Immediatamente, partecipa attivamente al biennio rosso nelle file della Lega Proletaria dei Combattenti Livornesi, prima formazione di autodifesa armata operaia nella città portuale toscana.

Il 21 gennaio del 1921 è presente al Teatro San Marco di Livorno, (pur non essendo tra i 58 delegati della Frazione Astensionista) dove assiste alla nascita del Pcd’i, al quale aderisce immediatamente contribuendo a fondare il 29 gennaio 1921 la Federazione livornese della quale ricopre ruoli direttivi a partire dal marzo successivo.

Tra i fondatori degli Arditi del Popolo a Livorno, fa parte del suo Esecutivo Segreto, diventa comandante di una compagnia formata da comunisti e grazie alla sua esperienza al fronte viene nominato insieme ad Athos Freschi, comandante in seconda degli Arditi del Popolo livornesi, diretti dal socialista Dante Quaglierini, ex ufficiale di fanteria. Nel luglio del 1922 è costretto, con suo sommo dispiacere, a lasciare gli Arditi del Popolo dietro ordine esplicito della direzione del Pcd’I.

Attivo oppositore dello squadrismo, a causa delle sue idee comuniste e anche per aver diffuso il Manifesto della iii Internazionale Ai Lavoratori d’Italia, viene arrestato ed imprigionato più volte dalle forze dell’ordine oltre ad essere aggredito e bastonato in più di una occasione dalle camicie nere.

Mannucci CPC (1)Nel febbraio 1923 venne arrestato nel corso della famosa operazione di polizia, voluta dal primo governo Mussolini appena insidiatosi, che colpì la maggior parte dei dirigenti (a incominciare da Bordiga), quadri e militanti del Pcd’I, con l’accusa di Complotto contro la sicurezza dello Stato tuttavia nell’aprile 1923 viene rilasciato in seguito all’intervento dei dirigenti della Camera del Lavoro, tra i quali Augusto Consani.

Ricercato ancora dai fascisti per aver partecipato ai funerali di un anarchico, dove aveva presenziato insieme alla sua vecchia compagnia degli Arditi del Popolo, nel maggio 1923, grazie all’aiuto di alcuni compagni liguri, emigra clandestinamente in Francia, dove chiede l’asilo politico.

Stabilitosi a Marsiglia entra da subito nelle file del Pcf, venendo chiamato alla segreteria del partito per il cantone di Gardanne (nel circondario di Marsiglia); inoltre diventa il comandante di una formazione comunista, una compagnia della centuria proletaria Luigi Gadda.

Per più di 10 anni dirige il Sindacato Unitario dei Lavoratori del Sottosuolo nelle Miniere di Carbone di Provenza (Cgtu) di orientamento comunista. Come si può leggere nel verbale dell’interrogatorio di polizia a Livorno nel gennaio del 1936, svolge anche attività clandestina a Lione, Cannes, Beziers e in Alsazia.

Nel corso del 1935, in qualità di segretario regionale dirige gli scioperi delle miniere che coinvolgono circa ottomila lavoratori per circa 50 giorni, attività che gli frutta un’espulsione dalla Francia il 4 gennaio 1936.

Riconsegnato a Ventimiglia nelle mani della polizia fascista italiana, viene processato dal Tribunale Speciale e condannato a cinque anni di confino, con una prolunga di due anni alla scadenza, che sconta dapprima ad Amantea e Fuscaldo in Calabria, successivamente a Ponza e Ventotene, a Pisticci (Matera) e infine a Baronissi (Salerno). In quest’ultima località lavora alla stesura di manifesti di propaganda per il partito che i compagni Matteo Romano e Luigi Rarita si incaricano di portare a Salerno.

Dopo lo sbarco delle truppe americane a Salerno, in una situazione piuttosto caotica, da subito presta la sua opera per l’organizzazione del Fronte di Liberazione Nazionale, della CGdL e della Federazione Salernitana del PCd’I.

Il 21 dicembre 1943 è sancita la nascita della Camera del Lavoro affiliata alla  CGdL, di cui diventa il primo segretario nel dopoguerra, dimettendosi però nel settembre 1944 rifiutando l’adesione alla Cgil imposta dal tripartito, in seguito al patto di Roma firmato il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e da Emilio Canevari per la componente socialista.

Il 10 gennaio 1944 si svolge a Salerno il I Congresso della Federazione Salernitana del Pci, che lo vede tra i relatori e che elegge segretario l’avvocato Ippolito Ceriello, comunista legato ad Amadeo Bordiga. Questo congresso ancora oggi non è riconosciuto dagli stalinisti-togliattiani, i quali individuano come primo congresso solo quello del 27-28 agosto 1944.

La federazione salernitana del Pci inizia la pubblicazione del suo organo Il Soviet, senza l’autorizzazione del Psychological Warfare Branch e per questo sia Mannucci che Ceriello sono condannati ad un mese di carcere. Il Soviet proibito dalle autorità alleate su pressione della dirigenza nazionale del Pci, esce quindi come numero unico, poiché in esso sono contenute le linee politiche che Ceriello e Mannucci intendono portare avanti.

Infatti in contrasto della Svolta di Salerno, voluta da Togliatti su ordine di Stalin, Mannucci e Ceriello si oppongono anche alla concezione togliattiana di Partito Nuovo, ragion per cui Mannucci, insieme a Mario Ferrante e Bernardina Sernaglia, viene espulso dal Pci dal Comitato di Riorganizzazione composto di stalinisti nelle prima decade di luglio 1944 per corruzione e indegnità. Mannucci ne vene a conoscenza solo il 14 luglio dal giornale locale Il Corriere. Mannucci reagisse immediatamente con una lettera pubblicata nel stesso giornale Il Corriere del 15 luglio, affermando che la sua espulsione arriva un poco in ritardo «poiché io ero già non solo spiritualmente, ma anche materialmente molto lontano dal partito, che mi sta sempre nel cuore, ma dalla cricca dei suoi dirigenti che con la loro azione hanno falsato e sovvertito tutto il suo programma.» Circa la motivazione dell’espulsione, Mannucci averte che si accinge «a dare querela a chi di dovere con la più ampia facoltà di prove.» La lettera è firmata «Danilo Mannucci, comunista della vecchia Guardia, ex confinato politico.» Ippolito Ceriello invece ne viene espulso per ‟acclamazione” al Congresso della Federazione di Salerno del 27-28 agosto successivo.

Nei mesi successivi Mannucci, Ceriello e insieme al liberatorio Ettore Bielli, costituiscono la Frazione della sinistra salernitana che in qualche modo si ricollega alla Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti, già presente nel variopinto quadro alla sinistra del Pci togliattiano e riconducibile all’altrettanto variegata tradizione bordighista.

L’unico giornale della frazione salernitana che ottiene l’autorizzazione, il 3 maggio 1945, è il quindicinale L’Avanguardia, il cui direttore responsabile è proprio Ippolito Ceriello, tuttavia l’autorizzazione alla pubblicazione del giornale viene revocata poco dopo e anche in questo caso del giornale ne esce solo un numero.

In quei primi mesi del 1945 Mannucci stringe una feconda collaborazione politica con il vasto movimento anarchico meridionale, scrivendo una serie di articoli per il giornale anarchico Umanità Nova, con lo pseudonimo di Spiritus Asper e intrattenendo (secondo alcune fonti di polizia) rapporti politici con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi e il suo “gruppo insurrezionale”.

A Napoli il 29 luglio del 1945 la maggioranza della Frazione decide lo scioglimento e di confluire quindi nel Partito Comunista Internazionalista, per cui anche Ceriello e Mannucci aderiscono al Pc.int.

Anche in questo caso tuttavia i contrasti con la direzione del Partito sono così aspri da costringere il Mannucci ad uscire dallo stesso partito, soprattutto a causa sia dell’adesione di Mannucci, Bielli ed altri all’associazione vi Braccio, organizzazione malvista dal PC.int. perché considerata interclassista e apartitica, che della decisione di Ippolito Ceriello di candidarsi alle elezioni amministrative nel Comune di Laviano.

In seguito ciò Mannucci aderisce al Psiup negli anni 1947-1948, entrando in contatto con Lelio Basso e Alfonso Di Stasio e ricoprendo un doppio incarico, sia come funzionario di partito che come funzionario sindacale in zone difficili del Meridione, segnato dalle lotte contadine per l’occupazione delle terre in Calabria, Puglia e Basilicata.

Si stabilisce in Puglia per un anno e mezzo, dove partecipa e dirige le lotte dei braccianti del Tavoliere ed entra in contatto con Natino La Camera a Cosenza, tuttavia il nuovo percorso politico da lui intrapreso risulta assai illusorio, in quanto è costretto ad affrontare nuove e più forti difficoltà burocratiche spesso capziose per cui tutte le promesse che gli furono fatte si riveleranno assai vane.

Nel 1949 compiuti i 50 anni, dei quali più di trenta passati fra lotte politiche e sindacali e aver subito anche sette anni di confino, ora ha anche la responsabilità di una famiglia con moglie e tre figli piccoli, decide lasciare l’Italia e trasferirsi definitivamente in Francia, permettendo così ai suoi cari un’altra e migliore opportunità di vita.

Qui continua ad interessarsi di politica, legge Le Monde, La Marseillaise (giornale locale del Pcf) e L’Humanitè e spesso ogni domenica mattina si reca al mercato di Gardanne, per diffondere L’Humanitè-Dimanche.

Dei giornali italiani trova a Gardanne solo La Stampa, La Domenica del Corriere, e la Gazzetta dello Sport, tuttavia riceve dall’Italia anche altra stampa: Umanità nova, l’Avanti, l’Antifascista e forse altri. Una certa attenzione ai problemi e alla politica italiana e francese nel corso di quegli anni c’è stata, lo testimoniano la presenza alla Conferenza di Gardanne sul tema del sindacalismo e della storia italiana e due articoli scritti su Umanità Nova nel 1957, sempre con lo pseudonimo di Spiritus Asper.

Durante gli avvenimenti del 1968 prende posizione in favore degli studenti in sciopero e in particolare di Daniel Cohn-Bendit, Jacques Sauvageot e Alain Krivine.

Muore il 21 marzo 1971 a Gardanne, dove viene sepolto accompagnato dal canto dell’Internazionale durante funerali civili a cui partecipano esponenti del Pcf e della Cgt.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio Fondazione Istituto Gramsci (Torino), Archivio Partito Comunista, Fondo Mosca; Archivio Giuseppe Mannucci (Banon, Francia); Archivio Nazionale Francese, Fascicolo Danilo Mannucci 8383; Battaglia Sindacale, 29 agosto 1944; Libertà, a. ii, n. 2, 6 gennaio 1944; Libertà, a. ii, n. 3, 13 gennaio 1944. Il nome di Mannucci, come quello di Ceriello, Bielli e Vincenzo Nastri, appare in una lettera della Regia Questura di Roma del 14/4/1945, con la menzione attività insurrezionale attribuita a Paolo Schicchi.




Bonsignori e Becocci: comunisti internazionalisti livornesi

Seconda parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

BECOCCI  Ettore Augusto

(Livorno 17.07.1902 – Livorno 07.01.1972)

Nato a Livorno il 17 luglio 1902 da Eugenio e Vittoria Ciucci. Di professione è fuochista navale, successivamente pescatore, bracciante e nel secondo dopoguerra spazzino comunale. Possiede la licenza elementare.

Nel corso del primo conflitto mondiale si iscrive alla Federazione Giovanile Socialista, e partecipa al Biennio Rosso (1919-1920).

Appena diciottenne partecipa al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, tenutosi a Livorno nel gennaio del 1921, in quanto è segnalato tra i seguaci del futuro deputato comunista Francesco Misiano (uno dei 58 delegati al Congresso della Frazione Comunista), del quale è guardia del corpo proprio in occasione dei giorni infuocati del Congresso socialista stesso e nell’atto di fondazione del Partito Comunista d’Italia. Accompagna ancora Misiano quando nel febbraio 1921 questi si reca a Livorno per coordinare la locale sezione del Pcd’I con la direzione del partito stesso.

Militante del Pcd’I sin dalla sua fondazione, è tra i più attivi nella propaganda e nell’azione. Membro attivo degli Arditi del Popolo, inquadrato in una compagnia comunista, partecipa a tutti gli sconti con i fascisti ed in particolare si segnala nel maggio del 1921, quando colloca una bandiera rossa su una barca, presso gli Scali del Pontino, uno dei quartieri più proletari della città, al fine di provocare ed attirare i fascisti in quel quartiere, dove furono respinti. Successivamente si imbarca su vari piroscafi dove svolge le mansioni di fuochista navale. Inoltre è iscritto alla Federazione Gente di Mare (Federazione dei marittimi) diretta da Giuseppe Giulietti.

Costantemente vigilato dalle autorità di polizia sin dal 1921, nell’ottobre 1926 cerca di espatriare clandestinamente in Francia dove vive la sorella Guglielma, ma a Ventimiglia viene fermato e rimandato a Livorno, dove riceve dalle autorità una ammonizione per l’attività politica svolta in passato. Per la sua attività il suo nome è inserito nell’elenco delle presone da arrestare in particolari contingenze politiche.

Perso il lavoro di fuochista navale anche a causa di un infortunio che lo rende claudicante, nel giugno 1928 le autorità gli negano il nullaosta per l’imbarco a causa delle sue idee politiche, impedendogli così di espatriare perché ritenuto pericoloso per il regime anche all’estero. Negli anni seguenti scrive una lettera di abiura al Prefetto affinché le autorità potessero dargli una nuova occupazione.

Nel settembre 1931 viene arrestato e condannato per adulterio, in quanto da uomo sposato, intrattiene una relazione con una ragazza, Giuseppina Bua, che diverrà la sua nuova compagna. Una volta scarcerato, il 9 aprile 1932 gli viene restituito il passaporto e compie numerosi viaggi tra l’Italia e la Francia, in particolare Marsiglia (dove si stabilisce nuovamente presso la sorella) e la Corsica, per cui viene sospettato di mantenere i contatti e di fare da corriere tra gli antifascisti fuoriusciti e quelli livornesi.

Dopo pochi mesi è costretto a rientrare a Livorno per assistere la madre gravemente ammalata e nel settembre 1932 viene nuovamente arrestato e processato insieme alla sua compagna per furto, reato commesso a causa dell’impossibilità di trovare una occupazione, ma usufruisce di una amnistia e viene scarcerato.

Il 22 marzo 1933 viene fermato, insieme a molti altri sovversivi, a seguito dei funerali del comunista Mario Camici e per gli ordigni esplosi presso la sede del Comando della Milizia e quella del Dopolavoro di San Marco, quindi viene nuovamente ammonito dallo svolgere attività politica. Tuttavia gli viene concessa una pensione di invalidità di 150 lire erogate dall’Ente Comunale di Assistenza.

Nel 1933 viene cancellato dall’elenco delle persone da arrestare in determinate contingenze politiche.

Nel secondo dopoguerra si iscrive al PCI e viene assunto come netturbino dall’Azienda Municipalizzata Pubblici Servizi, diventando un membro attivo nella costituzione della cellula comunista di quell’azienda.

Nel 1956 esce dal PCI in forte polemica con la politica di Togliatti a causa dei fatti di Polonia e Ungheria e abbandona anche la CGIL per passare alla CISL, rimanendo tuttavia vicino agli ambienti della Sinistra Comunista antistalinista.

Muore a Livorno nel gennaio 1972.

 

FONTI ARCHIVISTICHE:  Archivio di Stato di Livorno, fondo Questura, serie A8, busta n. 1372; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.

FONTI BIBLIOGRAFICHE: M. Rossi,  Livorno ribelle e sovversiva, BFS, Pisa, 2013; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006.

 

BONSIGNORI Alfredo (Galliano, Gracco, Alfonso e Nanni)

(Cecina (Livorno) 28.1.1895 – Lione (Francia) 3.4.1976)

Nato a Cecina nel 1895 da Giuseppe ed Italia Silvestri. Ha frequentato i primi anni della scuola elementare e di professione è falegname ed ebanista. Si avvicina giovanissimo al socialismo grazie al suo compaesano Giuseppe Macchia, anch’egli falegname e si iscrive al Psi.

Nel 1915 partecipa alle proteste contro l’ingresso dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale, ma nel frattempo viene riformato dal servizio di leva perché ha una deformazione all’occhio destro. Sposato con Corinna Michelotti, nel gennaio1919 ha un figlio a cui dà il nome Lenin.

Nel 1919 oltre che militante del Psi è anche sottoscrittore del giornale socialista di Piombino L’Operaio, partecipando inoltre nello stesso anno alla formazione e all’organizzazione della Lega proletaria e contadina di Cecina. Nel novembre del 1920 viene eletto a Cecina consigliere comunale, elezioni che videro la formazione di una giunta rossa guidata dal sindaco Ersilio Ambrogi.

Nel gennaio 1921 aderisce al Pcd’i, ma il mese seguente subisce un arresto per correità nell’omicidio del fascista livornese Dino Leoni, il quale si era recato a Cecina insieme ad una squadraccia fascista per costringere l’amministrazione social-comunista ad affiggere nuovamente nel Palazzo Comunale la lapide col bollettino della vittoria e i nomi dei cecinesi caduti nella Prima Guerra mondiale, dato che la stessa lapide era stata tolta nel novembre 1920, all’indomani della vittoria elettorale dei socialisti.

Candidato allora alle elezioni politiche del maggio 1921, con il nome di Galliano, nel collegio di Arezzo-Siena-Grosseto, non riesce ad essere eletto e rimane quindi in carcere e nel 1922 è definitivamente condannato a dieci anni, tre mesi e dieci giorni di reclusione sempre per la morte del fascista Leoni.

Liberato il 14 agosto 1926 in seguito ad un’amnistia, ritorna a Cecina, ma i fascisti locali gli impongono di lasciare la città entro 24 ore. Anche a Roma, dove ripara, viene però malmenato perché indossa una cravatta nera alla Lavallière, simbolo anarchico.

Si trasferisce quindi a Milano con la famiglia ma, poco dopo, emigra clandestinamente in Francia, stabilendosi a Lione, dove riprende il suo lavoro di ebanista.

In quel periodo e per qualche tempo nella sua abitazione a Lione, ospita alcuni fuoriusciti anarchici: Oscar Scarselli detto lo Zoppo, di Certaldo, capo ed animatore insieme ai fratelli Tito ed Egisto della “Banda dello Zoppo”, (fondata durante la rivolta anarchica di Certaldo nel febbraio 1921, durante la quale muore il fratello Ferruccio, scoppiata all’indomani dell’uccisione del ferroviere comunista Spartaco Lavagnini per mano dei fascisti), Giuseppe Parenti, di Campiglia Marittima, arrestato per i fatti di Ulceratico e il ciclista, acrobata e lottatore livornese Giovanni Urbani, membro della “Banda di Stefano Doneda”, tutti evasi dal carcere di Volterra (Pisa) nell’ottobre del 1924.

Viene espulso dal Pcd’I probabilmente tra il 1927 e il 1928 per le sue tendenze bordighiste e nel 1928 aderisce ai Gruppi di Avanguardia Comunista (Gac), fondati l’anno precedente  dal comunista bordighiano Michelangelo Pappalardi (1895-1940), che pubblicano Le Réveil communiste.

Vicino alle tesi di Amadeo Bordiga (1889-1970), ma contestualmente interessato alle posizioni del KAPD (Partito Comunista Operaio di Germania) e dalla sinistra marxista tedesco-olandese personificata da Karl Korsch (1886-1961), Hermann Gorter (1864-1927) e Anton Pannekoek (1873-1960), nonché dalle posizioni della sinistra russa rappresentata dal Gruppo Operaio di Gavril Ilyich Myasnikov (1889-1945), già membro dell’Opposizione Operaia in Unione Sovietica, sostiene la successiva evoluzione “operaista” dell’organizzazione di Pappalardi, che nel 1929 approda alle posizioni del Kapd, costituendo i Gruppi Operai Comunisti (Goc), aventi come organo L’ouvrier communiste.

Agli inizi del 1928 viene colpito da un decreto di espulsione dal territorio francese, ma rimane clandestinamente a Lione senza rinunciare tuttavia all’attività politica, tanto da essere accusato nell’ottobre dello stesso anno, insieme ad altri comunisti ed anarchici, di aver assalito due italiani che ritornavano da una manifestazione fascista e patriottica.

In quegli anni sottoscrive più volte per il giornale bordighiano Prometeo e per il giornale comunista operaista L’ouvrier communiste e partecipa più volte, sempre in quegli anni, a raccolte fondi per la liberazione di Myasnikov, detenuto nelle carceri turche, dopo la fuga dall’Urss nel 1928.

Nel novembre 1929 sottoscrive ancora per il giornale bordighiano Prometeo, inviando una messaggio al giornale, nel quale inneggia a Michele della Maggiore, il comunista di Ponte Buggianese (Pistoia), condannato e fucilato nel 1928 dal regime mussoliniano, per aver ucciso due fascisti.

Nel giugno 1931 partecipa ad una riunione al circolo anarchico “Sacco e Vanzetti” di Lione, durante la quale i comunisti operaisti e gli  anarchici cercano di stabilire un lavoro politico comune. Nel dicembre del medesimo anno partecipa alla campagna internazionale in favore dell’anarchico Francesco Ghezzi (1893-1942), deportato dagli stalinisti in Siberia.

Quando il gruppo di Pappalardi si scioglie, nel corso del 1931, riprende i contatti con i vecchi compagni bordighisti, pubblicando, con lo pseudonimo di Gracco, due articoli sul quindicinale Prometeo stampato a Molenbeeck-Bruxelles.

Nel 1932 rompe però con il marxismo e passa, insieme a Lodovico Rossi e Quinzio Panni, al movimento anarchico, al quale rimarrà legato per tutta la vita.  È in questo periodo che il giornale degli stalinisti italiani La Nostra bandiera stampato a Parigi, inizia a pubblicare articoli ingiuriosi su di lui, con lo scopo evidente di farlo espellere definitivamente dalla Francia.

A questa campagna sia denigratoria che di delazione, egli replica sul giornale La Lanterna, periodico anarchico di Marsiglia, denunciando le responsabilità politiche del Komintern ormai stalinizzato nell’ascesa del nazismo in Germania, e attaccando al contempo la sua apologia del cosiddetto “paradiso sovietico”.

In quegli anni svolge attività per il circolo anarchico Sacco e Vanzetti di Lione, e nel 1935 partecipa al convegno anarchico di Satrouville come delegato di Lione insieme a Camillo Berneri, Leonida Mastrodicasa e Giulio Bacconi.

Nel luglio 1936 si reca in Spagna e si arruola nelle file della Sezione italiana della Colonna Ascaso della F.A.I.-C.N.T., detta anche Colonna Italiana o Colonna Rosselli, a maggioranza anarchica, partecipando ai combattimenti sul Monte Pelato e a Tardiena.

Nel novembre 1936 rientra in Francia e interviene alla conferenza politica che il comandante della Colonna internazionale Lenin del P.O.U.M., Enrico Russo, tiene a Lione e nel marzo del 1937 è segnalato a Barcellona, dove svolge propaganda in favore della F.A.I.-C.N.T. e forse del P.O.U.M.

Rientrato in Francia continua l’attività politica tra gli anarchici e viene costantemente sorvegliato dall’O.V.R.A., che ritiene che possa rientrare clandestinamente in Italia insieme ad altri elementi per compiere attentati terroristici contro personalità del regime fascista.  Dopo la sconfitta della Francia nel 1940 partecipa attivamente alla Resistenza nella regione del Rodano e a Lione.

Nel 1943, alla caduta del Fascismo cerca senza riuscirci di rientrare in Italia. Nel 1945 rientra a Cecina, dove dà vita insieme ad altri ai gruppi anarchici Alba dei liberi e Luce e libertà e partecipa al III Congresso della F.A.I. che si svolge a Livorno nell’aprile del 1949.

Negli anni seguenti rientra a Lione con la famiglia dove continua la sua attività politica e sostiene la stampa libertaria, restando in contatto con i compagni rientrati in Italia, siano essi anarchici come Umberto Marzocchi (1900-1986), che comunisti bordighisti come Carlo Mazzucchelli (1902-1957).

Muore a Lione nell’aprile del 1976.

 

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; F. Bucci, S. Carolini, C. Gragori, G. Piermaria, Il Rosso, Il Lupo e Lillo. Gli antifascisti livornesi nella Guerra civile spagnola, La ginestra, Follonica, 2009; Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna (Aicvas), La Spagna nel nostro cuore 1936-1939. Tre anni di storia da non dimenticare, Aicvas, Roma, 1996; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen; Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, Pisa, Biblioteca F. Serantini Editrice, Pisa, 2003-2004, ad nomen; D. Erba, Prometeo ribelle e violento. Violenza individuale e violenza di masse nella lotta politica, All’insegna del gatto rosso, Milano, 2013; D. Erba, Ottobre 1917-Wall Street 1929. La sinistra comunista italiana tra bolscevismo e radicalismo: la tendenza di Michele Pappalardi, Quaderni di Pagine Marxiste-serie blu, III, Milano, 2010;  G. Pajetta (a cura di), Livornesi oltre i Pirenei. I volontari livornesi nella guerra antifascista di Spagna 1936-1939, Roma,  2012, www.aicvas.org.; Livornesi alla guerra di Spagna 1936-1939, pubblicazione a cura dell’Archivio di Stato di Livorno e del Centro Filippo Buonarroti Toscana, Livorno, 2020; www. radiomaremmarossa.it/biografie-resistenti/oscar-scarselli/.




Dalla battaglia contro il riformismo alla lotta contro fascismo e stalinismo: comunisti internazionalisti livornesi.

Presentiamo, in questo come in articoli che seguiranno, alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

Con ciò vogliamo non solo ricordare le basi politiche su cui il Partito Comunista nacque e cioè la rottura col PSI e le sue correnti (i massimalisti di Serrati e Lazzari e i riformisti di Turati, Treves e Modigliani), ma vogliamo offrire anche alcuni elementi di riflessione per non cadere nella vulgata di quella narrazione storica in base alla quale il PCI ha sempre rivendicato una sua continuità con la scissione di Livorno, fondando caso mai la sua specificità sugli svolgimenti politico-ideali seguiti all’assunzione della direzione del Partito da parte di Gramsci con il Congresso di Lione del 1926. Indubbiamente una discontinuità reale e profonda, che in quel congresso vede l’estromissione definitiva di gran parte di quel gruppo dirigente e di non pochi militanti che quel partito avevano fondato e guidato a partire dal 1921, per poi arrivare, tra il 1927 e il 1934 ad un graduale processo di espulsione degli stessi. Credo che sia d’obbligo qui ricordare in primis Amadeo Bordiga (1889-1970), colui che sino ad allora era considerato il leader de facto del partito e che nel PSI aveva raccolto attorno a sé già dal dicembre 1918 i militanti del gruppo napoletano de Il Soviet, contribuendo a fondare la Frazione Comunista Astensionista, vero motore della scissione comunista di Livorno. E come non ricordare Bruno Fortichiari (1892-1981), attorno al quale si era organizzata la sinistra socialista milanese durante il Biennio Rosso, divenuto successivamente responsabile del lavoro illegale del PCd’I (il cosiddetto Ufficio n. I) e dei rapporti con le altre formazioni che combattevano attivamente i fascisti sul campo (come gli anarchici e gli Arditi del Popolo). Esiste poi una seconda narrazione storica relativa alla nascita del PCd’I, ripresa dalla pubblicistica più disparata che vede nella scissione di Livorno una miopia politica manifestata dai comunisti, i quali uscendo dal PSI, avrebbero indebolito il fronte antifascista che si stava con fatica cercando di costruire. Tuttavia è d’uopo ricordare in sede storica che pochi mesi dopo la scissione di Livorno il Psi firmò un Patto di pacificazione con i fascisti (3 agosto 1921), che sicuramente ha indebolito il fronte antifascista nel mentre si andavano formando gli Arditi del Popolo, organizzazione nata per arginare le violenze delle squadre d’azione di Mussolini. Oltre a ciò è necessario dire che il 15 ottobre 1922, a tredici giorni dalla Marcia su Roma, il PSI subì una seconda scissione, questa volta da parte dei riformisti di Turati e Modigliani, che andranno a formare il Partito Socialista Unitario.

Per quel che concerne la storia della Sezione Livornese del Partito Comunista d’Italia, possiamo dire che essa venne fondata il 29 gennaio 1921 da un piccolo ma determinato nucleo di militanti che precedentemente avevano ricoperto dei ruoli dirigenziali all’interno del PSI, in primo luogo quei quattro consiglieri comunali eletti nelle file socialiste nel novembre 1920 che contribuirono a fondare la sezione comunista labronica: Gino Brilli, Ilio Barontini, Giuseppe Lenzi e Pietro Gigli. In particolare significativo è il ruolo politico di Giuseppe Lenzi che fu delegato livornese a Imola, dove si erano riuniti i rappresentanti della Frazione Comunista del PSI.

Alla sezione livornese aderirono immediatamente 255 militanti provenienti in modo quasi esclusivo dalle fila del Partito socialista, in particolare da quanti avevano già aderito alla Frazione Comunista Astensionista e alla Mozione di Imola; nel corso degli anni aderirono poi al PCd’I militanti provenienti dalla corrente cosiddetta terzinternazionalista del PSI (detta terzina, corrente facente capo a livello nazionale a Giacinto Menotti Serrati, già direttore dell’Avanti e a Fabrizio Maffi), come, nella città labronica, Athos Lisa, dirigente della locale Camera del Lavoro, oppure Alberto Mario Albanesi, solo per citare i più noti.

Una parte dei militanti livornesi provennero dall’anarchismo, soprattutto negli anni seguenti alla fondazione del Partito stesso, come ad esempio gli stessi Astarotte Cantini e Fernando Ferrari.  Altro contributo assai importante alla fondazione della sezione livornese del Partito giunse dai militanti della Federazione Giovanile Socialista, che quasi al completo passarono al nuovo PCd’I, con in testa Armando Gigli, Pietro Fontana e Angelo Giacomelli.

La caratteristica dei militanti comunisti di Livorno e provincia fu la sua componente di classe, quasi tutti di estrazione operaia, fatta eccezione per alcuni militanti, i quali copriranno un ruolo dirigenziale di primo piano, al contrario di estrazione borghese: Ilio Barontini, impiegato delle ferrovie, consigliere comunale nonché assessore aggiunto nella giunta socialista del sindaco Mondolfi, proveniente da una famiglia della piccola borghesia industriale (il padre possedeva la nota fabbrica di pipe Barontini); Anna Launaro e il suo compagno Ettore Quaglierini, entrambi figli della classe media labronica, appartenenti al ceto impiegatizio e intellettuale. Tutti costoro entreranno a far parte della componente dei funzionari a tempo pieno del Partito Comunista. A questi nomi va aggiunto quello di Ersilio Ambrogi, avvocato, deputato, sindaco di Cecina, appartenente ad una famiglia della media borghesia professionale di Castagneto Carducci. Tuttavia è necessario ricordare, in sede storica, che Cecina nel 1921 apparteneva alla provincia di Pisa e quindi Ersilio Ambrogi è stato un importante dirigente per la fondazione della sezione pisana del PCd’I. Egli comunque ebbe un ruolo importante durante l’autunno del 1920, insieme col fiorentino di origine svizzera professor Virgilio Verdaro, nella fase preparatoria precongressuale, ovvero nell’aspra campagna politica, svolta anche a Livorno nelle locali sezioni del PSI, a favore della Frazione Comunista e per l’espulsione della corrente riformista, capeggiata nel capoluogo labronico da Giuseppe Emanuele Modigliani. Quest’ultimo rispose di rimando a Ersilio Ambrogi, dicendo che non era il caso che il sindaco di Cecina venisse a Livorno a dettar legge e a cercare di subornare gli animi alla propria tendenza. In quel periodo vennero a Livorno a dar man forte ad Ambrogi anche Egidio Gennari e il fiorentino Filiberto Smorti. Quanto ad estrazione sociale, il resto dei militanti erano in gran parte operai metalmeccanici del Cantiere Navale Orlando o nelle fabbriche metallurgiche del comprensorio livornese; operai specializzati delle piccole e medie imprese site tutte nella zona di Livorno Nord, in particolar modo nel quartiere Torretta, detta la Manchester della Toscana (quindi tornitori, manovali, meccanici, falegnami, marmisti e vetrai); scaricatori portuali impiegati presso il porto di Livorno o lungo il sistema di canali che conducono ad esso (navicellai); marinai civili (fuochisti e mozzi); pescatori; ferrovieri e tranvieri ed infine commessi viaggiatori. Non mancava la componente proletaria agraria, fatta di braccianti e contadini, seppur di gran lunga minoritaria rispetto a quella operaia, concentrata nella zona settentrionale della città, nel quartiere oggi detto Fiorentina (dunque al di fuori della cinta daziaria), non distante da dove sorgevano i Mercati Generali, oppure nel Comune di Collesalvetti, la cui economia all’epoca era essenzialmente agraria. A ciò si aggiungono elementi della piccola borghesia commerciale e dei servizi: negozianti (pescivendoli e alimentari); ambulanti (frutta e verdura, prodotti caseari e vestiario) e infine parrucchieri. Stessa composizione si aveva nelle cittadine e nei paesi della provincia di Livorno, che fino al 1925 comprendeva solo la città di Livorno e l’Isola d’Elba, mentre successivamente dal novembre di quell’anno col Regio Decreto n. 2011/1925 verranno aggiunti il Comune di Collesalvetti, a nord di Livorno in direzione di Pisa, e i Comuni di Rosignano Marittimo, Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, Sassetta, Suvereto, Campiglia Marittima e Piombino a sud. In particolare in quest’ultima città si faceva sentire la presenza comunista all’interno dell’acciaieria.

Per quel che concerne la concentrazione spaziale all’interno della città labronica, la maggior parte dei militanti livornesi proveniva dai due quartieri tra essi confinanti, nonché più sovversivi di Livorno: Pontino e La Venezia, situati nella zona nord-occidentale dell’abitato, a ridosso delle due Fortezze e in prossimità degli scali marittimi. Il primo era essenzialmente un quartiere a carattere operaio, vicinissimo al già nominato quartiere Torretta, ad esso limitrofo. Il secondo era invece uno dei quartieri storici cittadini, ampliato a partire dal ‘600, popolato quasi esclusivamente da famiglie di lavoratori portuali, zona in cui ancora oggi sorge il diroccato Teatro San Marc (dove il PCd’I è formalmente nato) e in cui ancora oggi ha sede la Fratellanza Artigiana, luogo dove spesso si sono tenute riunioni sindacali e “sovversive”.

Sul grado di istruzione dei militanti comunisti livornesi c’è da dire che essa presenta un quadro piuttosto omogeneo, come del resto nella provincia: tutti sono più o meno alfabetizzati, ma non hanno gradi di istruzione oltre la licenza elementare e in molti casi neppure quella. Vi sono tuttavia delle eccezioni; alcuni posseggono la licenza media o meglio il cosiddetto avviamento al lavoro: Barotini, Kutufà, Mannucci, Scotto, Pietro e Armando Gigli. Una militante ha la licenza di scuola media superiore: Anna Launaro, mentre due sono i laureati: Ersilio Ambrogi in Giurisprudenza e Ettore Quaglierini in Scienze Politiche.

Le donne che in quegli anni entrano a far parte del PCd’I sono quattro: Anna Launaro, Alice Giacomelli e Alda Cheli a Livorno e la cecinese Primetta Cipolli.

La prima sede del PCd’I labronico fu collocata in via Santa Fortunata, probabilmente dove oggi ci sono le Scuole medie G. Borsi, nella zona centrale della città, vicino a Piazza della Repubblica e non lontano da piazza Grande dove si trova la Cattedrale. Via Santa Fortunata si trovava in un quartiere popolare, che ospitava quotidianamente il mercato e il Mercato Coperto (come del resto ancora oggi).

I membri del consiglio direttivo della sezione livornese del Partito Comunista d’Italia, in quei primi anni furono: Gino Brilli (che ricoprì il ruolo di primo segretario), Ilio Barontini (segretario nel 1921), Carlo Cantini, Pietro Gigli (anch’egli segretario nel 1922), Giuseppe Lenzi, Carlo Kutufà, Danilo Mannucci, Otello Gragnani, Pietro Gemignani, Angiolo De Murtas, Ugo Lorenzini, Quinto Vanzi ai quali si aggiungeranno Gino Niccolai, Alcide Nocchi, Fortunato Landini, Vasco Jacoponi, mentre nel sindacato assunsero importanti ruoli dirigenti i comunisti Archisio De Carpis e Athos Lisa.

Discorso diverso deve essere fatto per Ettore Quaglierini, il quale per le sue caratteristiche intellettuali già dal marzo 1921 è chiamato dal Centro Politico del Partito a Milano e inviato poi a Mosca dove lavorerà insieme alla compagna Anna Launaro per il Komintern.

In provincia si segnalano come fondatori delle locali sezioni Plinio Trovatelli, piombinese, già presente alla fondazione del PCd’I al San Marco e di lì a poco inviato come delegato al III° Congresso dell’Internazionale Comunista, nonché Macchiavello Macchi, fondatore insieme al fratello Mario della sezione Spartacus a Collesalvetti e assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco comunista Alessandro Panicucci.

I giornali comunisti diffusi a Livorno erano Il Comunista, organo ufficiale del partito; Battaglia Comunista, giornale delle Federazioni di Massa, Lucca, Pisa e Livorno che veniva stampato a Massa e Avanguardia, giornale della gioventù comunista. Esisteva anche un giornale comunista locale, stampato in pochi numeri tra il 1921 e il 1922 chiamato Il Garofano Rosso, di cui purtroppo alcuna copia è oggi reperibile. Con una certa probabilità erano diffusi, anche se in misura minore, Il Soviet di Napoli (sino al 1922), l’Ordine Nuovo di Torino e a partire dal 1924 l’Unità.

Con queste biografie dal carattere non agiografico, vogliamo dunque ricordare che è esistita una schiera di militanti comunisti, che, contro venti e maree avversi, rappresentati in primis dal fascismo e dallo stalinismo, hanno continuato la loro battaglia di comunisti e rivoluzionari in coerenza con la linea politica tracciata a Livorno nel 1921.

TROVATELLI PLINIO

(Piombino (Livorno) 20.1.1886 – Piombino (Livorno) 24.12.1942)

Nato a Piombino, nell’allora provincia di Pisa da Ferdinando e Cristina Grassi, di professione è tornitore. Militante socialista dal 1901 nei ranghi della Federazione Giovanile, si segnala già nel 1906 in quanto scrive su il Martello, foglio operaio diffuso a Livorno e Piombino, dove critica la politica dell’ala riformista del PSI rappresentata a Livorno da Giuseppe Emanuele Modigliani. All’entrata dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale è esonerato dal servizio militare, in quanto svolge il lavoro di tornitore in una fabbrica militarizzata, destinata alla produzione bellica; tuttavia svolge propaganda antimilitarista e disfattista tra gli operai a Piombino e successivamente, nel 1917, a Savona, dove viene trasferito per motivi di lavoro. Nel corso di diverse perquisizioni domiciliari gli vengono sequestrati documenti e altro materiale che comprovavano la sua attività sovversiva. Nel gennaio 1921 è tra i fondatori del Pcd’I a Livorno in quanto è tra i 58 delegati della Frazione Comunista al Congresso Socialista i quali fuoriescono dal Partito Socialista e si recano al Teatro San Marco. Nel maggio del medesimo anno è fermato a Luino (Varese) mentre tenta di espatriare in Svizzera per recarsi nelle Russia Sovietica come delegato del Pcd’I a partecipare, con voto consultivo, al III Congresso dell’Internazionale Comunista. Riesce a varcare la frontiera insieme al comunista istriano Franz Cinseb, ma i due appena giunti in Germania vengono nuovamente arrestati. Nell’aprile 1922 in occasione del Trattato di Rapallo tra Germania e Russia Sovietica, presta sevizio quale guardia rossa presso la delegazione sovietica presieduta dal Commissario del Popolo agli Affari Esteri Georgij V.Cicerin. Nel giugno 1923 emigra in Francia presso il fratello Gino, anch’egli militante comunista, dove lavora sempre come tornitore prima a Tolone e poi a Parigi. Anche in Francia continua a svolgere attività politica per il Partito comunista e per tali motivi nel giugno 1925 è espulso dal paese ed ottiene il visto per l’Unione Sovietica, grazie anche all’interessamento di Robusto Biancani, presidente del Club di Mosca e all’autorizzazione del Comitato centrale del Partito Comunista Francese. Stabilitosi nella capitale sovietica e ottenuta l’autorizzazione a iscriversi al Partito Comunista Sovietico, inizia a lavorare come tornitore presso la fabbrica Gomsa e successivamente per l’Istituto Aereo-idrodinamico Zaghi. In quegli anni si sposa con la con Dar’ja Balandina, cittadina sovietica, dalla quale avrà nel 1930 il figlio Bruno. Alla fine del 1929 è espulso dal Pci e poco dopo dal Partito comunista sovietico in quanto accusato di appartenere all’opposizione bordighista-trotzkista. Nel 1934 trova lavoro presso la Casa cinematografica Mejrabpomfilm, fondata da Willi Muzenburg e diretta da Francesco Misiano, già deputato comunista, tuttavia a causa del clima sempre più pesante dovuto all’inizio delle purghe staliniane nel dicembre del 1936, chiede alle autorità diplomatiche italiane il passaporto per potersi recare in Belgio presso il fratello Alfredo. Costantemente sorvegliato dalla polizia politica staliniana ed essendosi fatto notare insieme ad altri trotzkisti a fare propaganda antistalinista, nella documentazione d’archivio sovietica è descritto nei seguenti termini: “Mantiene un’ideologia trotskista antipartito, distaccato dagli altri compagni, ha legami con Sensi e Cerquetti”. Nell’ottobre 1937 ottiene l’autorizzazione a lasciare l’Urss e anche grazie al “Fondo Matteotti” si stabilisce a Bruxelles, presso il fratello, dove nell’aprile del 1938 viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. In Belgio lavora presso la bottega del calzolaio Ovidio Mariani, antifascista italiano ed entra in contatto con antistalinisti italiani lì residenti, in particolare con militanti bordighisti.  Nel luglio 1940, con l’occupazione tedesca del Belgio, chiede alle autorità consolari italiane l’autorizzazione al rientro in Italia e ma la ottiene solo nel luglio di due anni dopo. Si stabilisce quindi nel luglio 1942 a Piombino, città che aveva lasciato nel 1917 e qui muore il 24 dicembre 1942.

FONTI ARCHIVISTICHE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.




“Caro Ilio…”. Barontini nelle lettere di “raccomandazione” dei “compagni”

Nella carte dell’ex Federazione del Partito comunista di Livorno, custodite presso l’archivio dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea (Istoreco), c’è un fascicolo pieno di lettere scritte da comuni cittadini a Ilio Barontini (qui un profilo biografico). E’ un fascicolo di una certa consistenza. Si tratta infatti di settantatre lettere inviate all’attenzione di Ilio. Sin dall’incipit compaiono delle differenze tra gli scriventi. Ci sono quelli che iniziano la lettera, appellandosi all’ ”Onorevole” o “all’Onorevole senatore”; ci sono quelli che si appellano al “caro compagno”; ce ne sono alcuni che scrivono semplicemente: “Caro Ilio”. Talvolta incontriamo chi gli pone con molta  bonomia e ingenuità, se vogliamo, il problema che scrivendo si è posto: “Come bisogna interpellare Ilio Barontini, senatore della Repubblica, con il tu perché lo conosciamo e perché siamo compagni uniti dallo stesso ideale, con il lei o con il voi?”[1]

Cosa chiedono e cosa raccontano queste lettere? Perché sono due cose diverse: una problematica è collegata a ciò che chiedono, e un’altra è ciò che raccontano a noi che siamo lontani da quel periodo, oltre 70 anni, poiché le lettere partono dal 1944 e arrivano al 1950, cioè alla vigilia della morte dello stesso Barontini, avvenuta per un incidente stradale a Scandicci nel gennaio 1951.[2]

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Per prima cosa proviamo  a guardare in modo analitico a questo carteggio. I diversi mittenti che in maggioranza sono uomini anche se non mancano le donne, presenti in tredici casi, scrivono più spesso a penna che con una macchina da scrivere. Essere compilate a mano è una scelta ovvia: la macchina da scrivere era un lusso di pochi, pochissimi, e ancora più piccolo era il numero di coloro che sapevano utilizzarla.  Non solo per ragioni di reddito ma anche per problemi legati al livello, assai scarso di alfabetizzazione. Sono spesso vergate su carta non deputata, fogli di quaderno e poco più. Erano nella stragrande maggioranza persone semplici che scrivevano con testi profondamente sgrammaticati, con calligrafie improbabili, tipiche di chi non era abituato a tenere la penna in mano. La prosa, l’espressione comunicativa era comunque una prosa diretta, senza giri di parole, immediata.

Scrivevano per chiedere sostegno per le più diverse cause, anche se poi tutte le motivazioni sono raggruppabili ad uno stato di bisogno profondo. Lo scopo di aiuto invece che predomina è quello relativo al riconoscimento di una pensione. Si ragiona intorno a richieste inevase per pensioni di guerra (padre o marito morto ucciso dai tedeschi, figlio o marito invalido a causa di una bomba e simili) già inoltrate da molto tempo, talvolta da oltre due anni, tre, e non ancora arrivate in porto. Tutti gli scriventi denunciano una grandissima difficoltà economica e spesso anche la mancanza di un tetto sul capo. Talvolta sono richieste di consiglio e di aiuto per ottenere pensioni da lavoro, soprattutto pensioni per le attività lavorative svolte in Francia, soprattutto in Corsica e a Marsiglia, luoghi dove Barontini era stato a lungo presente come fuoriuscito, e chi domanda è evidentemente convinto che Barontini possa intervenire con efficacia. Sicuramente Ilio aveva conosciuto direttamente la realtà di quei contesti, e la durezza del lavoro in terra straniera come emigrante, poiché anche se la sua emigrazione fu sempre e solo politica, con incarichi speciali dalla direzione del Partito comunista, certo non poteva essergli sfuggita la dura realtà di tutti quegli emigrati che univano nella loro condizione, sia la difficoltà dell’emigrato sospetto alla forze dell’ordine, che quella del disoccupato, che cercava di entrare nel mercato del lavoro per sopravvivere.

Spesso l’aiuto per lavorare, guarda alla città labronica, ma talvolta la domanda rinvia anche ad altri centri della regione. Sono abbastanza presenti i comuni dell’isola d’Elba, ma compaiono anche luoghi lontani da Livorno come: Giulianuova, Sondalo, Bologna, Firenze, Roma, Modena, Volterra, Reggello, Cecina, Montescudaio etc. In quel lontano e pesantissimo secondo dopoguerra, a causa delle immani distruzioni belliche molti non hanno più trovato la possibilità di rientrare là dove lavoravano prima del 1940 e adesso cercano in Barontini un appoggio. Le richieste che si avanzano sono quasi tutte modeste. Si domanda lavoro come operai, come boscaioli nei cantieri di rimboschimento, come edili e poco più. Solo in alcuni casi, adducendo la maggiore istruzione che si può mettere in gioco, si chiede di fare l’impiegato, talvolta l’impiegato bancario e,  solo in un caso, questa richiesta è avanzata con un tono di aperta arroganza.

Ma ci sono anche domande di aiuto per ottenere la liquidazione di un credito da parte degli Americani che hanno prelevato da un magazzino–deposito, diverse tonnellate di carbone e poi hanno lasciato il debito insoluto. Un altro piccolo gruppo di missive riguarda un gruppo di militanti malati e ricoverati in un ospedale ortopedico di Bologna, il Putti, dove Barontini ogni tanto si recava in visita perché era diventato un istituto di assistenza per molti ex partigiani.

Lettera

Una delle lettere a Barontini conservate nell’Archivio Istoreco

Ci sono anche alune lettere di ex combattenti che desiderano il riconoscimento di una pensione, e poi incontriamo la richiesta di una donna, Simoncini Silvana, che desidera l’attribuzione della qualifica di partigiana combattente[3]. Una lettera importante anche per la sua eccezionalità. Come sappiamo dalla storiografia e dalle memorie, furono pochissime le donne che, pur avendo combattutto nei gruppi combattenti, chiesero poi di veder riconosciuto il loro impegno.

Un altro gruppo riguarda alcuni disoccupati delle Ferrovie dello Stato, licenziati per motivi politici per gli scioperi del 1920 e del 1921, che chiedono il reintegro o l’adeguamento della pensione[4]. Come possiamo comprendere una varietà significativa di contenuti, tutti contrassegnati però da un bisogno materiale che è anche la testimonianza di una ingiustizia sociale.

Al di là dell’oggetto della lettera è evidente la minore presenza di richieste provenienti dalla città labronica. Questo significa soltanto che i livornesi preferivano avere un colloquio diretto con Barontini poiché il senatore era spesso in città e non era difficile raggiungerlo in Federazione dove svolgeva con assiduità e autorità il compito di segretario. Egli era sì un grandissimo personaggio, che fra i militanti del suo partito emanava certamente ammirazione, rispetto, qualche volta anche timore, ma non agiva sui suoi interlocutori con la forza del mito. Era percepito, soprattutto dagli uomini e dalle donne della sinistra di Livorno, come “uno dei loro”, burbero quanto si voglia, ma diretto e senza atteggiamenti altezzosi.

Fra le altre c’è una lettera particolarmente commovente nella sua ingenuità. È stata scritta da una donna, De Santis Anna che, dal sanatorio di Villa Corridi a nome suo e anche dell’amica, Gina Freschi, scrive chiedendo del denaro:

[…] Siamo due ragazze molto giovani, che ci ha condotto in questo sanatorio di Livorno che ci ha colpito un male che non perdona, siamo orfane di padre e di madre e non abbiamo nessuno che ci aiuti… abbiamo tanto bisogno, che siamo veramente scalze di tutto, specialmente ora che siamo giunte all’inverno non abbiamo niente da coprirci…. Che siamo anche noi compagne. Il numero della tessera è 1064929. [5]

L’amica è di Roma anche lei è tesserata  al Pci ma ha lasciato a casa la tessera e la scrivente non può quindi indicare il numero a riprova della sua fede politica.

Accanto ad una missiva così diretta e semplice, la più semplice dell’intero deposito, ce n’è una che possiamo definire curiosa. Il mittente chiede al senatore comunista di parlare con Scelba perché vorrebbe entrare in Polizia.[6] Forse gli era sfuggito il clima della guerra fredda o riteneva Barontini capace di fare miracoli!

Ma cosa ci raccontano sulla vita, l’esistenza dei singoli, le condizioni di lavoro queste lettere? Molto anche senza darlo ad intendere, direi come un effetto secondario e quasi superfluo per il mittente e il destinatario di allora che condividevano lo stesso contesto di riferimento, ma non per noi, lettori di oggi, che, attraverso queste scritture, veniamo avvolti dalla durezza degli anni postbellici.

Il primo dato che emerge, forse anche un po’ scontato per chi si occupa regolarmente di storia, è la condizione di grande precarietà che attanagliava le famiglie italiane, sia sul piano delle abitazioni, ancora in gran parte distrutte, che su quello della possibilità di trovare un salario anche solo per la mera sopravvivenza fisica dentro quel presente. A riprova, ricordiamo che da una di queste missive, proveniente da Firenze, datata 1950, nella quale prende la parola un livornese. Costui, costretto per ordine dei tedeschi, allo sfollamento dal 13 novembre 1943, si trova ancora, dopo 7 anni, lontano da Livorno e non sa dove sbattere il capo. Dichiara fra l’altro che gli è terminata l’erogazione del sussidio per gli sfollati pari a £ 125, e senza quel piccolo aiuto, adesso è caduto in una condizione di prastrazione gravissima, senza casa, senza lavoro, senza sostegno alcuno.[7]

Questa lettera e molte altre simili, del deposito archivistico sul quale ragioniamo, ci racconta anche la farraginosità della macchina burocratica nazionale. Ricordiamoci che si trattava di una macchina organizzata dal fascismo – che ancora a distanza di 5 anni dalla fine del conflitto, così come non era riuscita ad attribuire la sacrosanta pensione alle vittime della guerra, aveva cominciato solo da poco una ricostruzione lenta e a macchia di leopardo e dal punto di vista complessivo si carretterizzava per una continuità significativa con il passato regime.[8]

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Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ma ci raccontano ancora di più e meglio. Ci raccontano la pesantezza del clima della ricostruzione dove accanto alla gioia per la fine del conflitto, la fine dei bombardamenti, va accostata la disperazione per la perdita della casa, la ricerca di un impiego là dove non si intravedevano possibilità a portata di mano perché non solo il tessuto urbano era andato distrutto ma anche le fabbriche, le officine, i porti, erano saltati in aria e, noi che scriviamo adesso, sappiamo che molte di queste attività lavorative mai più riprenderanno.

Ecco allora ecco la reiterata richiesta di partecipare ai cantieri di rimboschimento che furono un modo neppure troppo larvatamente assistenziale, ma assolutamente giustificato, di togliere disoccupati dalle strade. Ricordo che lo stesso Piano del Lavoro della Cgil[9] che voleva indicare verso quali attività indirizzare la ricostruzione, e che sottointendeva un progetto ponderato ed articolato, dall’altra parte però cercava e, in parte riuscì, a far partire una serie di attività lavorative – oggi si direbbero lavori socialmente utili – che tamponavano la disoccupazione dilagante, appesantita fra l’altro dal blocco dei salari. Così come il Piano Casa, cosiddetto Piano Fanfani[10], aveva come primo scopo esplicito la lotta alla disoccupazione.

Ma queste lettere ci dicono qualcosa di più soprattutto sull’etica di quelli che scrivevano. Queste persone, uomini e donne cercavano una risposta, una solidarietà, più che un appoggio clientelare rivolgendosi al proprio rappresentante politico di più alto grado, a quel politico che era così diverso da loro, inviato a rappresentarli in Parlamento e nell’Assemblea Costituente, ma così vicino alla loro comunità di appartenenza da potergli scrivere e “aprirgli il cuore”. Non si facevano richieste illegittime, non si chiedevano privilegi. Chiedevano di lavorare e lo facevano tramite il rappresentante locale del Partito più importante del mondo del lavoro di allora, il primo partito della città di Livorno, il Partito comunista italiano. Scrivevano sicuri che Ilio avrebbe preso nota, che avrebbe fatto direttamente o indirettamente qualcosa, e questo era anche confermato dalle stesse missive perché spesso i mittenti ritornavano sulla loro richiesta per ringraziare, per informare Barontini che qualcosa si era mosso, qualcosa si era risolto. Barontini veniva visto, cosa che oggi pare davvero lontana anni luce dalla realtà odierna – un politico non solo vicino alle persone, ma lui stesso persona in mezzo ad una massa di uomini che si ritenevano solidali per idee, per obiettivi, per percorsi di vita. Barontini era il loro migliore rappresentante, quello che si era evidenziato di più, che era salito più in alto, ma per coerenza, per coraggio, per intelligenza, senza camarille di potere, senza giochi di corrente, a  testa alta, e spesso anche controcorrente tra i suoi, e questo lo rendeva ancora più forte e più autorevole agli occhi dei militanti di base. Questi testi ci documentano anche come Barontini ebbe effettivamente una capacità di ascolto adatta a quei singoli ed umili mittenti, così come seppe ascoltare, in altri contesti, altri leaders, anche internazionali, rimanendo fedele a sé stesso e alla sua storia.

E in questo nostro presente, ci raccontano che un altro rapporto con la politica è possibile, sia dalla parte dei rappresentanti che dalla parte dei rappresentati. La storia non si ripete mai e neppure è abituata a progredire, ma è anche vero che potremmo provare con modalità diverse, adatte ai nostri tempi, a ricostruire perlomeno qualcosa di simile, ad avere fiducia negli eletti, a pretendere una selezione adeguata dei medesimi. Occorre però il coinvolgimento di tutti, che tutti si ritorni ad essere più soggetti partecipi e meno telespettatori.

 [1] Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Sottofascicolo di “Barontini Pci”: Raccomandazioni Lettera di Alberto De Pasquale dell’8 febbraio 1950, dal Cavo (Elba)

[2] Ilio Barontini (Cecina 1890-Scandicci 1950).

[3]Archivio Istoreco, Fondo Pci, Busta 39, Fascicolo Lettere a Barontini. Lettera del 29 maggio 1949 di Simoncini Bigongiari Silvana da Pisa.

[4] Ibidem. Si tratta di Ciurli Gino, Vaselli, Scappini di Empoli, il padre di Mario Piselli da Roma, Stefani Oreste, Luigi Guarnelfi da Roma, Modesti Arno di Montescudaio. Tutte lettere collocate tra il maggio 1948 e il luglio 1950.

[5] Ibidem. Lettera scritta a Livorno il 5 dicembre 1950. Scritta a mano e appellandosi a Barontini con: “all’onorevole”

[6] Ibidem. Lettera del 27 giugno 1950, da Giulianuova a firma di Santucci Vincenzo.

[7] Ibidem. Lettera del 28 maggio 1950 di Oscar Benedetti.

[8] Cfr. Claudio Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

[9] Fabrizio Loreto, Storia della Cgil. Dalle origini ad oggi, Ediesse, Roma, 2009.

[10] La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa el’Italia degli anni ’50 ( a cura di Paola Di Biagi), Donzelli, Roma, 2001

 




Fotografie di soldati ebrei durante la Grande Guerra

Non c’è libro di storia che non sottolinei come la Grande Guerra fu una specie di spartiacque nella vicenda ebraica italiana, e non solo in quella. I cittadini italiani di religione ebraica, che da pochi decenni avevano ottenuto la completa emancipazione ed erano diventati in tutto e per tutto uguali agli altri, corsero in gran parte volontari per il fronte.

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Foto 2. Giorgio Cividalli, documento (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Poiché il loro livello di alfabetizzazione era assai più elevato rispetto alla gran massa degli italiani, si trovarono spesso nelle file dei sottufficiali, degli ufficiali superiori ed anche al vertice della struttura militare. Questa constatazione è vera soprattutto per gli ebrei piemontesi che per primi poterono uscire dai ghetti e che, numerosi, si iscrissero alle Reali Accademie per fare la carriera militare. In qualche modo questa scelta costituiva anche un riconoscimento di lealtà nei confronti di Casa Savoia. È altrettanto nota la partecipazione, che possiamo definire “civile”, delle donne ebree alla causa della Grande Guerra. Cercarono e raccolsero fondi per i soldati più disagiati, prepararono sciarpe e calzini da inviare al fronte, parteciparono attivamente alla propaganda interventista, scelsero il ruolo di madrine di guerra. Sostennero in mille modi la causa bellica.[1] E queste considerazioni che si possono estendere anche ad altri gruppi minoritari, fu sicuramente la novità nel panorama della mobilitazione generale.

Del resto gli stessi numeri ci raccontano come la partecipazione fu estesa e diffusa: considerando il fatto che la popolazione ebraica presente nella penisola era, fatto qualche possibile aggiustamento, di 35.000 individui, di questi 5.500 parteciparono al conflitto. Tra costoro, 450 erano toscani.[2]

Quello che invece è perfettamente sovrapponibile con gli altri soldati partiti per il fronte è la loro reazione di fronte allo scenario che si parò loro davanti. Una fonte utile per riconoscere e riflettere su questa omogeneità con tutti gli altri soldati del fronte, sono le fotografie che scattarono una volta giunti nello spazio bellico.

Il confronto si può fare con facilità con il bel libro curato da Marco Ruzzi per l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo.[3]

Le fotografie del periodo immediatamente precedente la partenza per il fronte sono spesso foto prese dall’alto, con un atteggiamento che testimonia anche una certa retorica. Come i soldati schierati in ordine perfetto dentro il cortile della Reale Accademia militare di Torino, dentro uno spazio che parla già di guerra, ma in qualche modo è uno spazio asettico, pulito, ordinato. Qualcosa di molto lontano dalla realtà della guerra che ciascuno di loro, volontario o meno, sperimentò in prima persona. (si veda la foto 1)

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Foto 3. Giorgio Cividalli in trincea (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Una volta al fronte i soldati ebrei si comportarono come tutti gli altri. Forse partirono entusiasti, ma presto cominciarono a perdere l’enfasi iniziale perché la guerra si dimostrò molto più dura di quanto ciascuno di loro poteva aver immaginato. Come si rappresentarono, soprattutto per i cari familiari che li attendevano a casa? All’inizio in posa davanti all’obiettivo, con la divisa ordinata e con lo sguardo fiero. Poi lentamente il paesaggio bellico prese il sopravvento. Ma anche lo stesso spazio nel quale erano immersi era così diverso dalle loro case e dalle loro abitudini. Ricordiamoci che la stragrande maggioranza di questa piccola minoranza viveva in città. Era una minoranza urbana sia per abitudini che per nascita. E adesso i giovani maschi presenti al fronte avevano come compagnia le montagne di dolomia, il paesaggio innevato, i cavalli e i mezzi bellici: cannoni, mitragliatrici, postazioni, trincee, costruzioni artificiali fatte dopo aver con ogni evidenza disboscato gli spazi, o case vuote e abbandonate dalla popolazione locale che era stata costretta ad uno sfollamento forzato. (Si vedano le foto 2, 3, 4)

Nonostante tutto ciò le foto che si inviano a casa vogliono mostrare uno scenario positivo, vogliono rincuorare i genitori, le fidanzate, le giovani mogli. Per dare questa impressione di positività si ricorre alle foto con gli amici più stretti, quelli con i quali si condivide tutto, quelli che ci sono accanto quando si rischia la vita.

In uno di questi piccoli fondi fotografici[4] sono presenti alcune foto dello stesso soldato, Giorgio Cividalli[5], quando dopo la guerra, in compagnia di amici e della giovane moglie, ritorna sugli stessi luoghi. Le foto sono scattate davanti alle stesse montagne sulle quali si è combattuto. Chissà forse per rendere meglio l’idea di cosa ha significato per questo fiorentino, borghese, giovane, vivere e lottare a 2.000 metri di altitudine. È un po’ come tornare sul luogo del delitto. (Si veda la foto 5)

Ma nessuno di loro, o perlomeno pochissimi, soprattutto quelli che si erano riconosciuti nel pacifismo di un loro correligionario più famoso e più avvertito, Giuseppe Emanuele Modigliani, smentirono mai quella scelta, che continuarono a rivendicare anche a decenni dalla fine del conflitto. In questo pensiamo pesi molto anche la loro estrazione borghese, poiché per le testimonianze che abbiamo delle classi popolari il discorso è assai più articolato e complicato.

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Foto 4. Giorgio Cividalli in montagna (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

E per questa adesione alla vecchia scelta ci soccorrono le immagini in divisa militare, quando oramai la guerra è lontana, foto scattate in uno studio in totale tranquillità, lontanissimi dalle granate e dal freddo, dai pidocchi e dalle malattie che quella guerra sporca, disumana come mai altre prima, aveva fatto loro conoscere.

Pensiamo alla bella foto di Carlo Castelli, farmacista partito per la guerra e combattente della sanità[6] (si veda la foto 6) o quella di Carlo Alberto Viterbo che posa accanto alla giovane sposa in abito da ufficiale della Grande Guerra[7]. E la loro identificazione è evidentemente molto forte considerando anche il fatto che ciascun ebreo si trova, una volta giunto al fronte, a sparare contro probabili correligionari che combattono sull’altro fronte. Ebrei contro ebrei.

Nonostante questo le foto ci raccontano una identificazione pressoché totale con la causa italiana, mai venuta meno. Identificazione del resto condivisa anche dalle donne ebree, quelle donne che si erano mobilitate per dare assistenza e conforto ai soldati partiti per il fronte. Scriveva una di loro, a molti anni di distanza, quando si sentiva abbandonata dallo Stato italiano sotto le bombe, in fuga dalla sua casa, perseguitata e perseguibile proprio perché ebrea:

”Ho amato l’Italia con tutte le forze dell’animo mio. Nell’altra guerra ho fatto quanto era in me per concorrere in qualche modo alla vittoria delle armi italiane: ho passato si può dire la vita negli ospedali, ho lavorato per mandare pacchi ai soldati, la sera fino a mezzanotte. E quando sono venute le terribili giornate di Caporetto ho pianto di dolore e di vergogna.

Avrei dato la vita per salvare l’Italia!”[8]

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Foto 5. Giorgio Cividalli in montagna dopo la guerra (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Eppure Emma De Rossi nei Castelli aveva il primogenito al fronte, Carlo, e sicuramente tremava per la sua sorte. Ma l’adesione all’impresa bellica era stata così forte e partecipata che anche nella tormenta della Seconda guerra e della persecuzione antiebraica, il ricordo rimaneva vivo e veniva rivendicato in nome di una italianità che il fascismo poi aveva calpestato. Perché quella loro partenza entusiasta, spesso anche dalle colonie italiane per combattere contro gli austroungarici, fu poi sconfessata totalmente dallo stato totalitario di Mussolini che in ottemperanza alle sciagurate Leggi razziste del 1938, li espulse da ogni rango dell’esercito italiano[9].

[1] Cfr. la Sezione 01, Gli ebrei toscani e la Grande Guerra 1915-1918, del Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, Ets, Pisa, 2016, pp. 34-35, e 52-53.

[2] Il conteggio è possibile attraverso la lettura analitica del testo di Pierluigi Briganti, Il contributo militare degli ebrei alla Grande Guerra 1915-1918, Silvio Zamorani editore, Torino, 2009.

[3] Cfr. La Grande Guerra. Fotografie dal fronte, note da Cuneo e dalle città “irredente”, a cura di Marco Ruzzi, Primalpe, Cuneo, s.d.

[4] Si tratta si documentazione raccolta dall’Istoreco di Livorno durante la preparazione della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, archiviata presso l’archivio dell’Istituto stesso.

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Foto 6. Carlo Castelli da ufficiale (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Orefice)

[5] Le foto della famiglia Cividalli ci furono donate dalla signora Sara Cividalli figlia del soldato Giorgio di cui ragioniamo in questo testo.

[6] Cfr. il Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, cit., p.33.

[7] Ibidem, p.33.

[8] Emma De Rossi, Pensieri e diario giugno 1943-novembre 1945, in Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Comune di Livorno, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000, p.181.

[9] Cfr. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, Il Registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 125-129 e Alberto Rovighi, I militari di origine ebraica nel primo secolo di vita dello stato italiano, USSME, Roma, 1999.