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Le falegnamerie nell’Alta Val d’Elsa del Secondo Dopoguerra

La zona nord del territorio senese uscì duramente provata dal Secondo Conflitto Mondiale: pesanti  bombardamenti raseso quasi a zero la città di Poggibonsi danneggiando gravemente le infrastrutture e buona parte delle attività produttive [1]. Proprio su quelle rovine, tuttavia, nascerà in tempi rapidissimi una vivace economia, per molti aspetti con caratteristiche del tutto nuove a quella prebellica che spesso, almeno nella zona, era in gran parte legata al mondo agricolo circostante.

È ipotizzabile che il vigoroso sviluppo della produzione del mobile in Valdelsa sia avvenuto grazie ad una serie di fattori già presenti che andarono a legarsi alla particolarissima congiuntura storica. Innanzitutto la diffusione di botteghe artigiane dedite alla lavorazione del legno (mobili, infissi e attrezzi prodotti per il comparto agricolo e viti-vinicolo) era piuttosto sviluppata nell’area, ma costituiva una realtà che operava su piccola scala, a causa della modestia delle commesse, e soddisfaceva soltanto la domanda locale. Tale presenza era stata favorita dalla facilità di reperire la materia prima a prezzi modesti (il pregiato legno di castagno proveniente dal Monte Amiata e il legname più scadente ricavato dai boschi delle colline circostanti) e dall’essenzialità degli strumenti di produzione che richiedeva investimenti molto modesti.

Un tale tessuto produttivo dovette, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, misurarsi con il fenomeno dell’abbandono di massa delle campagne che stavolse le strutture sociali ed economiche tradizionali. Per chiarire l’entità dell’esodo si tenga presente il caso della città di Poggibonsi, realtà che,  nel 1951, contava 14.387 abitanti (di cui 2278 lavoravano all’industria contro 3396 del comparto agricoltura e 1185 in altre attività); appena dieci anni dopo vivevano nel borgo valdelsano  18.634 persone di cui 8475 lavoratori (ben 4762 erano nel comparto industriale). Il decennio successivo vide un ulteriore incremento di questa tendenza con il definitivo crollo del settore produttivo agricolo (in cui rimasero soltanto 988 addetti su un totale di 10.137 lavoratori) ed il decollo dell’industria (con 6404 addetti) all’interno della quale il settore del mobile faceva la parte del leone (con circa tremila addetti più quelli dell’indotto): nel 1971 Poggibonsi era ormai divenuta una città di dimensioni rispettabili con 25386 abitanti.

images11L4BY0NL’incremento delle attività produttive e demografico della cittadina valdelsana è unico in tutta il territorio senese: la vicina Colle Val d’Elsa, una volta volano industriale dell’area, pur avendo un rilevante incremento demografico nel Secondo Dopoguerra (dai 12063 abitanti del 1951 si passò ai 14812 del 1971) rimase ben lontana dai numeri di Poggibonsi ed il suo sviluppo industriale rimase legato a filo doppio alle attività preesistenti come quella del vetro, del cristallo e dei relativi indotti[2].

Il successo del settore del legno era legato ad una forte domanda ma anche ai buoni profitti legati a vari fattori come le basse retribuzioni delle maestranze di cui una parte rilevante lavorava per ditte artigiane con meno di undici addetti. Nel 1950 un operaio specializzato guadagnava 63,95 lire all’ora, un operaio qualificato 49,75, un manovale specializzato 43,15 lire e un manovale comune 35,45 lire. La manodopera femminile aveva delle retribuzioni più basse mediamente del 20-25% (la parità salariale uomo-donna verrà raggiunta soltanto nel 1962)[3]; facendo un raffronto con i nostri giorni, tenuto conto della contingenza, è possibile calcore che mediamente un operaio valdelsano del comparto legno guadagnava meno degli attuali 500 euro al mese[4].

La contrattazione con gli imprenditori, a partire dagli anni Cinquanta, fu sempre più agguerrita e ben presto, tra le recriminazioni dei lavoratori fece la sua comparsa la richiesta di operare in ambienti più salubri e con idonei dispositivi di sicurezza. Ancora a metà degli anni Ottanta, quando ormai il settore era in piena ristrutturazione, l’83% delle aziende non aveva locali adatti per separare le parti verniciate sottoposte ad essiccazione dagli ambienti di lavoro; disastroso per lo stesso periodo il dato relativo allo smaltimento degli scarti della verniciatura (ritenuti generalmente tossici e nocivi in base al DPR 915 del 1982) in quanto ben l’86%  avveniva in modo incongruo[5]. Le malattie professionali più comuni tra i lavoratori del comparto erano quelle dell’apparato repiratorio e olfattivo (causate dalle polveri del taglio e dell’incisione del legno e dai vapori delle vernici) nonché uditivo (sordità da rumore), mentre gli infortuni (ben 244 nel 1983![6]) erano nella maggior parte dei casi ferite agli arti superiori causate dalla sega circolare e dal  toupie[7].

Il numero di aziende e di addetti salì in modo costante fino ai primi anni Settanta (rispetto a dieci anni prima si era avuto nella sola Poggibonsi un incremento di addetti alle industrie manifatturiere del 9,7% dato superato soltanto da Monteriggioni – 10,7% –   a cui si avvicinava Colle di Val d’Elsa con l’8,5%)[8], per iniziare poi lentamente a calare in seguito allo shock petrolifero del 1973.

La crisi degli anni Settanta mise a nudo le fragilità del comparto del mobile che subì nel primo trimestre del 1975 un calo della produzione del 10,20%, rispetto al periodo precedente, e del 12,80% rispetto allo stesso periodo del 1974. L’analista Giuseppe Tammaro individuava come ragioni della crisi una serie di fattori esterni come le politiche deflattive del biennio ’66-’67, la fine della domanda internazionale e la contrazione della domanda interna a cui il comparto non aveva saputo rispondere efficacemente per una serie di motivi endogeni; in primo luogo, come unico fattore distintivo del prodotto, era stato conservato il carattere artigianale e questo aveva tenuto alti i prezzi; non erano stati fatti studi di marketing per analizzare i gusti della clientela e per cercare nuovi mercati oltre a quelli tradizionali; inoltre il ricorso sempre più massiccio da parte delle (poche) medie industrie al decentramento per contenere i costi della manodopoera e della produzione aveva causato un abbassamento della qualificazione delle maestranze e nessun rinnovo dei macchinari[9].

Ormai il distretto aveva fatto il suo tempo: nel primo semestre del 1986 le industrie del mobile a Poggibonsi erano 36 e davano lavoro a 800 addetti, gli artigiani 280 con mille addetti; rispetto ai tempi d’oro della metà degli anni Sessanta si erano persi più di mille posti di lavoro senza contare l’indotto. La produzione si contrasse progressivamente a laboratori artigiani che producevano mobili e infissi su misura o piccole manifatture che realizzavano componentistica. Una boccata d’ossigeno al settore, ma solo alle industrie, arrivò a fine anni Ottanta con l’esplosione della camperistica, comparto per il quale un pool di aziende, dopo una serie di studi di mercato, iniziò a produrre mobili componibili per poi mettersi in proprio e creare il distretto del camper della Valdelsa[10].

Riccardo Bardotti è insegnante distaccato presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

[1]ANTICHI COSTANTINO, Poggibonsi, Poggibonsi, Tipografia Artigiana, 1965, p.139.
[2]ISTAT,  Consistenza della popolazione residente e popolazione attiva distinta per settore di attività economica nei comuni della Provincia di Siena, in Toscana e in Italia al 1951, 1961 e 1971.
[3]AMOC, FILLEA a1, paghe in vigore nelle PAS del 01-11-1950.
[4]www.infodata.ilsole24ore.com/2015/04/14/se-potessi-avere-calcola-il-potere-dacquisto-in-lire-ed-euro-con-la-macchina-del-tempo/
[5]CUCINI EMANUELA, Indagine sulle condizioni di lavoro e di salute nelle aziende del legno della Val d’Elsa senese, Tesi di laurea discussa presso l’Università degli Studi di Siena, Facoltà di medicina e Choirurgia, a.a. 1987-88, pp.13-14.
[6]AMOC, Zona Valdelsa, VII b1, Unità Sanitaria Locale Alta Val d’Elsa.
[7]CUCINI E., Idem, p.31.
[8]Elaborazione Ufficio Studi dell’Amministrazione Provinciale di Siena su dati ISTAT realizzata nel 1976.
[9]TAMMARO GIUSEPPE, Alcune considerazioni su settore del mobile in Val d’Elsa, lineamenti per un programma di intervento di formazione professionale, Convegno del 28 maggio 1976 organizzato da CGIL CISL UIL.
[10]AISRSEC, Banca delle Memorie, 2017.




Le “cose che si legano male col caffellatte che si piglia la mattina”. Tullio Mazzoncini e il dovere di ricordare.

Non è impresa facile tratteggiare il profilo di un uomo come Tullio Mazzoncini. Ma è doveroso il ricordo e il tributo alla sua figura dignitosa e appassionata. Fu figura di spicco nella Resistenza di Maremma, fu il lievito per far crescere sin dal primo momento la consapevolezza nei suoi giovani concittadini, con cui aveva condiviso lunghi anni di dissidenza fino al momento della guerra di Spagna, momento in cui tutto fu più chiaro e sembrò possibile anche una nuova via.

Fu un proprietario. La sua bella villa grossetana, edificata in un orto comprato nel 1910 da suo padre in Via Mazzini, ingentilita da un grazioso giardino, in pieno centro storico, è lì a ricordarcelo. Non cercava il riscatto sociale, quindi, ma semplicemente rivendicava la dignità e la libertà che in quel momento il regime umiliava e negava.

In contatto con l’ambiente universitario antifascista, attraverso gli amici Geno Pampaloni e Antonio Meocci, fu lui ad organizzare l’incontro a Grosseto con Ranuccio Bianchi Bandinelli, allora esponente di quel liberal socialismo nel quale principalmente Mazzoncini si rispecchiava. Chiamò i suoi amici, tutti quelli che riuscì ad invitare a casa sua senza dare nell’occhio, per condividere questa consapevolezza e far scattare nelle coscienze la ricerca di giustizia e la speranza in un nuovo possibile riscatto. Comprese, tuttavia, che il momento storico richiedeva un’anima cospirativa, un’organizzazione efficace, una più coraggiosa propaganda come quella che era agita nelle file del Partito Comunista.

Con la caduta del fascismo le attività da lui promosse si fecero più intense e la speranza si riaccese nell’animo dei giovani e della popolazione. I rappresentanti dei partiti antifascisti, riuniti clandestinamente in un primo comitato militare, continuarono i loro incontri a casa Mazzoncini. C’erano Albo e Raffaello Bellucci, Giuseppe Scopetani, Aristeo Banchi e Antonio Meocci, tutti amici e per lo più coetanei. Erano quelle ore convulse e appassionate, piene di entusiasmo e pulsanti di attività frenetiche. Urgeva prepararsi agli eventi ed essenziale era la propaganda, occorreva assolutamente attirare giovani alla lotta.

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Tullio Mazzoncini

Con il cavallo a sella o col calessino per via delle strade impervie e impraticabili, Mazzoncini si spinse fino ai luoghi più remoti della vasta provincia, parlò con la gente ricevendo appoggio e solidarietà, rafforzando la convinzione di essere ad una svolta cruciale e la certezza che i tempi fossero finalmente maturi per una lotta condivisa di liberazione. In questa sua entusiastica attività di propaganda incontrò tutti quelli che divennero poi i protagonisti della Resistenza in Maremma. Ne ebbe così rinnovata motivazione per continuare quella che ormai era divenuta la sua missione.

L’8 settembre non lo colse impreparato: subito rispose all’appello della storia con i suoi speranzosi amici di sempre. Senza esitazione, coraggiosamente interpretò la situazione come un’opportunità.

Fu la sua una scelta generosa e convinta, che si manifestò con un’azione precisa e meditata, anche se apparente frutto di un ottimismo eccessivo. Si recò assieme ad altri rappresentanti di partiti antifascisti dal Prefetto di Grosseto per offrire collaborazione e subito dopo dal Colonnello Comandante del ditretto militare per preparare l’occupazione senza eccessivo spargimento di sangue dell’aeroporto. Ma le autorità civili e militari non offrirono risposte. Presero tempo, ostentando indecisione e, nascondendosi dietro la mancanza di ordini superiori, si sottrassero alle responsabilità, non seppero o non vollero rischiare.

Quando i bombardamenti a Grosseto si fecero sempre più pressanti, la sua tenuta di Campospillo, a Magliano in Toscana, divenne il centro delle attività di diffusione e propaganda, il luogo in cui assieme ai compagni organizzò una febbrile attività. Alla fine del novembre 1943 un delatore, lo stesso fattore della tenuta, condusse a Campospillo le milizie fasciste. Ci fu una perquisizione. Come ci risulta dal telegramma del capo della provincia Alceo Ercolani furono trovati un ciclostile, del materiale di propaganda, alcune armi.

Foto storica della tenuta di Campospillo

Foto storica della tenuta di Campospillo

A seguito di questo drammatico fatto, Giuseppe Scopetani, Albo Bellucci e Tullio Mazzoncini furono arrestati e la loro attività cospirativa si concluse. Le loro vite cambiarono bruscamente corso. Ci furono la prigionia, gli interrogatori, i processi e infine la deportazione. Giuseppe Scopetani e Albo Bellucci non tornarono mai nella loro Grosseto, l’uno fucilato barbaramente  a Mauthausen, l’altro ucciso dagli stenti e dalla malattia nel sottocampo di Gusen. Solo Tullio Mazzoncini tornò dall’inferno. E come tutti i “salvati” ne ebbe la vita segnata. Quando iniziò a parlare, volle ricordare i suoi compagni, i suoi amici. Pochissimo volle parlare della sua esperienza personale:

«…non ne parlo volentieri. Ogni volta che ne parlo e che la ricordo, si rinnovano una tale angoscia, una tale amarezza, un tale disgusto dell’umanità perché non si può mai supporre che l’umanità possa arrivare a quel punto lì di disumanità. Per cui sono cose che si  legano male col caffellatte che si piglia la mattina, con quel ritmo di vita civile che quando si riprende sembra un sogno che sia esistita…» (1)

Tullio Mazzoncini a Firenze

Tullio Mazzoncini a Firenze

Eppure la vicenda che lega indissolubilmente Mazzoncini alla storia della Resistenza e alla storia della deportazione politica in Maremma risulta con forza essere elemento centrale e parte costitutiva di una testimonianza di vita, tratto fondativo di una personalità. È parte di una figura complessa che ha rivestito un’importanza particolare nel contesto culturale della Maremma.

Mazzoncini, infatti, fu uomo colto, attento e curioso interprete della realtà culturale della città, amico di Luciano Bianciardi, di Tolomeo Faccendi, di Ildebrando Imberciadori, di Carlo Cassola, oltre che di Antonio Meocci; le sue lettere sono copiosamente presenti negli archivi degli intellettuali maremmani. Recentemente la tesi di laurea di Loretta Melosini sulla sua biblioteca personale, oggi conservata nella Tenuta di Campospillo, ne ha restituito la dimensione intellettuale,  aprendo nuovi scenari di indagine per la ricostruzione dell’ambiente culturale maremmano del secondo dopoguerra.

Parte della biblioteca di Mazzoncini

Parte della biblioteca di Mazzoncini

Seguendo il sogno di giovinezza di divenire giornalista, Mazzoncini scrisse anche sui giornali locali. Era un uomo di cultura che credeva nei valori dell’amicizia e della lealtà: «so di avere creduto in molte cose, tutte crollate. Forse quello che mi è meno mancato è stato il conforto degli amici», scrive intorno agli anni ’80 in una sua memoria. Nel catalogo della mostra postuma dedicata allo scultore maremmano Tolomeo “Meo” Faccendi, leggiamo una vibrante testimonianza dell’affetto che legava i due intellettuali:

«Confesso infatti di avere un grande, insolvibile debito con i miei amici, da quelli scomparsi ai viventi, da cui ho sempre tratto conforto ed aiuto. A loro debbo, se ho potuto superare crisi dolorosissime che mi avrebbero spinto a decisioni estreme; confesso qui che non ricordo di aver trascorso una giornata lieta che non sia stata illuminata, riscaldata, dal sorriso dei miei amici».

Lo stesso vibrante senso di amicizia trapela dall’articolo “Quando l’idea si sconta a Gusen“, dedicato al ricordo del compagno di prigionia Albo Bellucci. Per tutta la vita Mazzoncini cercò notizie e testimonianze sulla prigionia e la morte dei suoi due compagni, di cui si sapeva pochissimo. Negli anni ’70 riuscì a rintracciare un compagno di prigionia del Bellucci, il professor Aronica, testimone dei suoi ultimi giorni di vita.

Agli amici caduti dedicò il bassorilievo in gesso commissionato a Tolomeo Faccendi, oggi donato al Comune di Grosseto. Una copia in bronzo dello stesso è presente nella tenuta di Campospillo ed è stato oggetto di una recente valorizzazione in chiave memoriale da parte del progetto “Cantieri della memoria”.

Il 9 gennaio 2018, su iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza di Grosseto e dei familiari sarà posata una pietra d’inciampo a Campospillo, il doveroso omaggio alla memoria di un uomo di grande valore morale e intellettuale.

(1) In: Loretta Melosini, I libri del “Sor Tullio” Mazzoncini a Magliano in Toscana”. Tesi di laurea A.A. 2009-2010 Università della Tuscia.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

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Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.




Armando Angelini ed «il perdono dei forti»

Armando Angelini nacque nel 1891 nel comune di Seravezza, in una famiglia relativamente agiata; si laureò in legge presso l’Università di Pisa ed esercitò per il resto della sua vita la professione di avvocato. Nel 1921 il giovane Armando, già consigliere provinciale, partecipò alle elezioni politiche, divenendo deputato per il Partito Popolare Italiano (PPI), carica che avrebbe mantenuto fino al 1924. Il PPI era stato fondato due anni prima da don Luigi Sturzo e presentava un programma politico ispirato ai valori cattolici e basato su un forte impegno sociale, sul sostegno dato ai piccoli contadini e sul decentramento amministrativo.

Il giovane Armando ai tempi del suo primo incarico parlamentare.

Il giovane Armando ai tempi del suo primo incarico parlamentare, durante la XXVI Legislatura del Regno d’Italia. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato Angelini abbracciava in pieno la filosofia del PPI e dedicava non poche attenzioni al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori della Versilia, sua terra natale. Nel primo dopoguerra, quell’area versava in uno stato di grave crisi economica, causato dal ristagno del commercio del marmo, che, a sua volta, era conseguenza del deterioramento dei rapporti internazionali provocato dalla Grande Guerra. Il risultato fu un aumento della disoccupazione: Armando si sentiva vicino a quelle genti in difficoltà e, in seguito, avrebbe ricordato «il baroccino trainato da un buon cavallo» con cui si recava nei più remoti borghi delle Alpi Apuane non solo per fare della propaganda politica, ma anche per difendere i cavatori rimasti vittima di incidenti sul lavoro.

Egli, inoltre, non mancava di prestare il proprio sostegno anche alle cause dei contadini, come nel marzo 1922, quando assistette tre coltivatori che, il 18 giugno 1920, avevano impedito con violenze e minacce il ritiro del grano appena raccolto da parte della commissione per la requisizione dei cereali. Oltre a tutto ciò, nel 1923 l’onorevole Angelini fu tra i promotori de «L’idea popolare», un periodico che divenne organo locale del PPI. Egli, in definitiva, era ritenuto da tutti «una persona equilibrata e corretta sì da godere la stima di ogni classe di cittadini».

Anni ’20: un affollato comizio popolare dell’onorevole Angelini.

Primi anni ’20: un affollato comizio popolare dell’onorevole Angelini. (Giannelli, La Versilia in camicia nera, p. 62)

L’impegno profuso per migliorare la qualità della vita in Versilia lo accompagnò anche nel suo primo mandato parlamentare, periodo che andò di pari passo con l’ascesa del fascismo. Subito dopo la marcia su Roma, pur tra le varie perplessità, il PPI entrò a far parte del nuovo governo, ma si indebolì progressivamente, in particolar modo a partire dal 1924, dopo il delitto Matteotti e la partecipazione del PPI all’Aventino. La posizione fragile del PPI era resa evidente anche dalla maggiore facilità con cui i fascisti rivolgevano contro di esso le loro iniziative più violente (in precedenza riservate soprattutto a comunisti, socialisti e anarchici). In particolare, i giorni che precedettero le elezioni del 1924 trascorsero in un clima di terrore, in cui le squadre fasciste impedirono ogni tipologia di propaganda non governativa: in quel contesto fu attaccato a Pietrasanta il circolo cattolico, dove Armando stava tenendo una conferenza elettorale per i popolari. Violentemente e pubblicamente percosso in piazza Carducci, Armando non venne rieletto e i fascisti riuscirono nel loro intento di impedirne il ritorno in parlamento.

Armando Angelini con il figlioletto Piero. Sulla destra, Giulio Paiotti con un prelato

Anni ’20: Armando con in braccio il figlioletto Piero, fotografato assieme ad un gruppo di amici. (Giannelli, La Versilia in camicia nera, p. 74)

Probabilmente tutto questo non servì a scoraggiare definitivamente il combattivo avvocato, poiché nel 1926 si verificò un nuovo episodio di violenza nei suoi confronti, vale a dire l’incendio di Villa Angelini, una dimora di sua proprietà situata sulle colline versiliesi. Dopo quell’ennesimo tentativo di intimidazione, Armando abbandonò la vita politica, si trasferì nella provincia di Massa-Carrara e si dedicò esclusivamente all’esercizio della sua professione. Ciò, tuttavia, non comportò un’adesione al regime, anzi, come in seguito avrebbe affermato, parlando di Armando, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi

Tutto fu travolto, vennero gli anni oscuri ed egli si ritirò, come molti altri, dalla vita politica. Si chiuse nella sua attività professionale, ma non si piegò all’autoritarismo imperante. Ebbe campo di mostrare anche in quegli anni la bontà del suo animo perché egli pose la propria attività, la propria esperienza e anche le proprie non larghe finanze, nell’impiego di aiutare, difendere, di confortare, di sostenere coloro che erano perseguitati.

Fu nel secondo dopoguerra che Armando poté riprendere liberamente e pienamente la sua attività politica. Membro dell’Assemblea Costituente, nel 1948 egli divenne deputato per la Democrazia Cristiana (DC), carica che mantenne per tutta la I e la II legislatura (quindi complessivamente fino al 1958). In quel periodo Armando ricoprì il ruolo di Presidente della commissione trasporti – comunicazioni – marina mercantile e fu promotore di diversi progetti di legge, dedicati sia al settore delle comunicazioni e dei trasporti (di una certa rilevanza fu la proposta, poi divenuta legge, recante provvedimenti a favore dell’industria delle costruzioni navali e dell’armamento), sia, come sempre, alla sua Versilia. Di grande interesse, in questo senso, è il disegno di legge relativo alla tassa sui marmi nei comuni di Pietrasanta, Seravezza e Stazzema: i tributi sul commercio del marmo costituivano un’importante fonte di introito per i territori interessati dall’escavazione e il progetto dell’onorevole Angelini prevedeva un adeguamento dell’importo da riscuotere, che andava ora a interessare anche i prodotti di scarto come le scaglie e la polvere. Un altro progetto con ricadute territoriali fu quello dedicato alla messa in atto di provvedimenti a favore dell’area portuale di Pisa e Livorno.
A partire dal 1958, Armando Angelini ricoprì la carica di senatore e, tra il 1955 ed il 1960, presiedé il Ministero dei Trasporti. Il senatore Angelini non abbandonò mai la sua morale cristiana, quella stessa che, nel 1965, in una sezione del suo libro E le cicale continueranno a cantare, dedicata alla vittime della Seconda Guerra Mondiale, lo avrebbe condotto ad affermare che

Il perdono dei forti, il perdono cristiano, questo gigantesco atto di grandezza umana che non cancella la colpa ma che, lungi dal sancire una sentenza, fallace come possono essere tutte le sentenze degli uomini, sublima la giustizia in un abbraccio d’amore, questo perdono che ci hanno suggerito le vittime stesse e che suona condanna ugualmente nei secoli, non deve significare oblio.

Armando Angelini si spense nel 1968.

Rachele Colasanti (Pietrasanta, 1992) si è laureata in Storia e Civiltà all’Università di Pisa nel luglio 2017, con una tesi sugli antifascisti della provincia di Lucca denunciati al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Attualmente, sta frequentando un master di II livello in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna.




«Giovane e oscuro a un seggio illustre».

Era il 23 giugno 1919, quando Domizio Torrigiani, avvocato toscano vicino al partito radicale, accettava la sua designazione alla guida del Grande Oriente d’Italia riconoscendo, nel discorso d’insediamento, di essere salito «giovane e oscuro a un seggio illustre». Torrigiani, che succedeva all’ormai anziano Ernesto Nathan, diveniva Gran Maestro a soli quarantatré anni e avendo fino ad allora dato poco risalto pubblico alla sua appartenenza massonica.

Il discorso di insediamento, di ampio respiro, risentiva dell’eccezionalità del momento storico: le trattative di pace erano in corso di svolgimento e il Paese faticava a riprendere il suo normale corso. Quella nomina, dunque, veniva interpretata come un segnale di apertura dell’ordine massonico verso un rinnovamento -d’età e d’intenti- che il periodo di profonda conflittualità sociale e politica rendeva necessario, attraverso il passaggio di testimone alla generazione che aveva raggiunto la maturità negli anni dell’ultimo giolittismo e della Grande Guerra.

2

Lettera di D’Annunzio a Torrigiani, 7 settembre 1920 (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»).

Proprio nel suo scritto programmatico, Torrigiani definiva la partecipazione italiana al conflitto come la più alta manifestazione dell’incidenza massonica nella storia nazionale, un vero e proprio coronamento delle lotte risorgimentali per l’unificazione. Lui stesso era partito volontario ed aveva combattuto fino alla fine delle ostilità.

Tra i suoi primi atti in veste istituzionale, alla fine dell’estate 1919, l’appoggio a Gabriele D’Annunzio nell’impresa di Fiume. Torrigiani non farà mistero del suo interessamento personale per la questione e sosterrà, anche in seguito, di averla difesa con convinzione, prendendo, tuttavia, le distanze da progetti rivoluzionari e allontanandosene definitivamente ai primi del dicembre 1920, alla vigilia della drastica occupazione della città istriana, per cui aveva invece suggerito una risoluzione pacifica.

È cosa ormai nota come consensi e aiuti al movimento fascista siano giunti, tra il 1919 e il 1922, anche dal Grande Oriente d’Italia; un atteggiamento di benevolenza che si legava, in particolare, ad alcuni aspetti del primo fascismo: lo spirito patriottico, la tendenza repubblicana, l’anticlericalismo e l’ostilità nei confronti di popolari e socialisti.

Anche Torrigiani, pur con la necessaria prudenza, parve guardare con interesse all’avanzata di Mussolini: alla vigilia della marcia su Roma egli dichiarava, infatti, di considerare il fascismo una «rivolta necessaria» a mettere fine alla confusione del dopoguerra, sottolineando come, in particolare, l’idea di rinnovamento della «coscienza nazionale» costituisse un elemento di affinità e vicinanza.

Ma si trattava di uno scenario destinato ben presto a mutare: conquistata la direzione del Paese, le vere intenzioni di Mussolini non tardarono a manifestarsi con atti di governo che contraddicevano il programma originario: primo fra tutti, il cambio di orientamento nel rapporto Stato-Chiesa.

Appartiene a questa fase un’importante intervista del Gran Maestro al «Giornale d’Italia» (30 dicembre 1922): Torrigiani ribadiva la lealtà della massoneria a Mussolini, prendendo le distanze dalle accuse di antifascismo che gli venivano mosse. Si trattava, tuttavia, di una vicinanza sottoposta ad alcune condizioni e vincolata al rispetto dell’idea di laicità dello Stato, principio irrinunciabile per l’avvocato e l’istituzione rappresentata. Dunque, una fedeltà fatta di dubbi e di incertezze; e d’altronde, lo stesso Torrigiani non aveva mai fatto mistero di temere l’imprevedibilità di Mussolini.

3

«Giornale d’Italia», Roma 20 febbraio 1923 (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»)

Era l’inizio di un deteriorarsi dei rapporti sempre più rapido.

Il 28 gennaio 1923, la Giunta di Palazzo Giustiniani convocava a Roma la sua Assemblea; vi prendevano parte circa cinquecento delegati con lo scopo di stabilire la condotta da tenere nei confronti del governo. Nel corso dell’adunanza, l’avvocato, chiamato a controbattere alle accuse di antifascismo che gli erano state mosse, non volle cedere alla pregiudiziale anticlericale.

L’incontro vide l’Assemblea spaccarsi fra quanti avrebbero voluto seguire un indirizzo di incondizionato appoggio al fascismo e chi rivendicava per la massoneria una posizione «al di sopra dei partiti», «nella concezione superiore degli interessi della patria». Fu proprio tale orientamento a ottenne la maggioranza dei consensi, portando alla riaffermazione dell’idea di laicità dello stato, del rispetto delle libertà politiche e delle organizzazioni sindacali.

Riferendosi alle conclusioni dei lavori, un dispaccio filogovernativo del 30 gennaio 1923 annunciava che il Gran Consiglio si sarebbe occupato presto della questione dell’associazionismo segreto: la nota suonava come un’autentica minaccia.

Mussolini, dalla sua, era ormai certo che la massoneria, dichiarandosi al di sopra dei partiti, non potesse essere conciliabile con il suo governo. Era inoltre consapevole che combatterla, in un paese profondamente cattolico, avrebbe assicurato il consenso dei fedeli. Il 15 febbraio 1923, dunque, il Gran Consiglio, a maggioranza, dichiarava incompatibile l’appartenenza alla massoneria con l’adesione al Partito Nazionale Fascista.

Di fronte al nuovo attacco, Torrigiani tornava ad offrire garanzie di lealtà. Il 16 febbraio inviava una circolare alle Logge per confermare la volontà di fiancheggiare il governo, invitando tutti ad applicare le direttive votate. Allo stesso tempo cercava di difendere l’Ordine, ricordando a Mussolini come: «le nostre Logge ed i nostri membri non hanno mai mancato in fedeltà alla Patria». In quei giorni, tuttavia, aveva inizio una serie di assalti squadristi contro sedi del Grande Oriente, mentre l’8 agosto 1924 il Consiglio Nazionale fascista approvava un ordine del giorno che ratificava la rottura definitiva con la massoneria.

Il 6 settembre 1925, l’Assemblea costituente dell’Ordine tornava a rieleggere Torrigiani alla guida della Logge e, data la gravità del momento, gli conferiva poteri pieni e straordinari.

Due mesi più tardi, il 4 novembre, scattava l’azione poliziesca per reprimere un possibile attentato contro Mussolini. Tito Zaniboni e il generale Luigi Capello, di nota affiliazione massonica, erano arrestati con l’accusa di esserne gli ideatori. Palazzo Giustiniani veniva invaso e saccheggiato, mentre il Ministero dell’Interno diramava l’ordine di far occupare le Logge.

A distanza di poco più di due settimane, nel mese di novembre, il Senato approvava definitivamente la legge 2029 sulla «disciplina delle associazioni, enti e istituzioni e sull’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato», mirando, in maniera specifica, a colpire la massoneria. Consultandosi con i suoi consiglieri Torrigiani decideva, vista la gravità del momento, di sospendere i lavori di tutte le Logge.

Per far funzionare l’organizzazione attorno al Gran Maestro, che manteneva la carica, si era formato, intanto, un comitato ordinatore: Torrigiani lo presiedette fino al 1926, quando, dopo aver ricevuto notifica circa l’annullamento dell’acquisto di Palazzo Giustiniani, comprato dall’Ordine nel 1911, lasciava ufficialmente l’Italia per motivi di salute, trasferendosi in Costa Azzurra.

4

Il Gran Maestro al confino (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»)

Nel frattempo, il procedimento contro i responsabili dell’attentato del 1925 andava avanti. Veniva chiesta l’imputazione di Zaniboni e Capello «per tentato omicidio premeditato e per guerra civile». Il nome del Gran Maestro compariva tra gli imputati. L’11 aprile 1927 avevano inizio le udienze. Torrigiani si trovava ancora in Francia, ma decideva di rientrare in Italia, nonostante in tanti avessero cercato di dissuaderlo dal proposito di consegnarsi nelle mani del regime.

Il dibattimento si concludeva con la condanna a trent’anni di reclusione per i due imputati. Il momento era propizio anche per mettere fuori gioco il capo della massoneria che, sebbene assolto per mancanza di prove, veniva comunque arrestato e portato nel carcere di Regina Coeli. Due giorni dopo sarà assegnato al confino di polizia per cinque anni, gli ultimi della sua vita. Il regime, dunque, riusciva ad agire contro di lui tramite misura preventiva che svuotava, di fatto, la stessa sentenza del tribunale.

Tradotto nell’isola di Lipari, vi rimarrà per circa un anno e mezzo, sottoposto a una speciale sorveglianza perché ritenuto detenuto “pericolosissimo”, condizione che lo costrinse a un insopportabile isolamento.

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A Ponza, 1928 ca (ISRT, Archivio «Domizio Torrigiani»).

Durante l’estate 1928 la salute di Torrigiani iniziò a deteriorarsi: era affetto da emorragie retiniche causate dall’ipertensione, cominciava a perdere la vista. Dal 20 ottobre 1928 gli fu concesso il trasferimento a Ponza. Anche se ormai malato, non rinunciò alla sua attività. Tra il giugno e il luglio 1931, con i fratelli presenti sull’isola, fondava la Loggia clandestina «Carlo Pisacane», la cui attività proseguiva per circa un anno. Verso la fine del 1931, visto il suo stato di saluto irreversibilmente compromesso, la guida della massoneria di Palazzo Giustiniani era passata ad Alessandro Tedeschi.

Il 21 aprile 1932, dopo quasi due anni di permanenza a Ponza, Torrigiani era finalmente scagionato per «maturazione del termine d’assegnazione»; gli era stata concessa la libertà vigilata. Ottenne la possibilità di recarsi nella villa di famiglia a San Baronto, anche se ormai le sue condizioni di salute apparivano critiche. Si spegnerà la sera del 30 agosto 1932.

La morte del Gran Maestro ebbe ampia eco sulla stampa massonica internazionale: «senza entrare nel merito delle scelte dell’illustre fratello», si legge sul Bollettino della Gran Loggia di Francia, «durante i primi anni del regime fascista Torrigiani si trovò a guidare la massoneria in tempi resi difficilissimi dallo scatenarsi dell’orrore e della barbarie. Circostanze, a fronte delle quali, nessuno si è mai trovato né in Italia né altrove»; e si conclude: «Domizio Torrigiani resterà, nella storia massonica, il Gran Maestro martire».




Persecuzione e deportazione degli ebrei sulla montagna pistoiese

LA PRESENZA EBRAICA A SAN MARCELLO

Nel corso del 1938, in seguito al già citato inasprirsi delle sanzioni contro gli ebrei, il Ministero dell’Interno impose ai Comuni, con l’aiuto delle Prefetture, di individuare attraverso “una precisa rilevazione statistica degli ebrei residenti nei vari comuni alla mezzanotte del 22 agosto” (Collotti E., Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI, Carocci Editore, Roma 2007, p. 31 vol. 2, doc. II.2.)

Ovviamente con tale provvedimento si mirava ad individuare gli ebrei da sottoporre successivamente a forme di detenzione ben più dure.

Il comune di San Marcello provvide prontamente a individuare gli ebrei presenti sul proprio territorio e infatti si nota dai fondi della sottoprefettura di Pistoia, busta 199, cartella “Razza, Censimento degli ebrei”, fogli 132-140, che alla mezzanotte del 22 agosto erano presenti sul territorio sette “capo famiglia o capo convivenza”, per un totale di quattordici persone. Si trattava di ebrei presenti solo in modo temporaneo e per questo non registrati presso l’anagrafe comunale ( Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche nel comune di San Marcello Pistoiese,  edizioni C.R.T, Pistoia, 2002, p. 254). E’ da rilevare che la richiesta mirava ad accertare la presenza di ebrei stabilmente residenti e non temporaneamente presenti. Il comune fu in questo caso estremamente “zelante” nel rispondere alla direttiva del Ministero.

I sette capofamiglia erano:

  • Bassani Alessandro, del fu Eugenio
  • Carpi Cividali Olga, del fu Raffaele
  • Corinaldi Mario, del fu Cesare.
  • De Benedetti Clelia, del fu Salomone
  • Fiorentino Mosè, del fu Benedetto
  • Osima Rimini Bianca del fu Alessandro
  • Teglio Carpi Enrica, del fu Alessandro

È interessante notare che delle persone sopraindicate non risultano tracce nè ne Il libro della memoria, che indica le biografie di tutti gli ebrei deportati fra il ’43 e il ’45, nè nei diversi siti già più volte citati in queste lavoro. In parole povere le persone sopra citate non risultano deportate o almeno non lo risultano dall’Italia.

Si può ipotizzare che, presenti solo temporaneamente sulla montagna pistoiese, siano poi riuscite a fuggire altrove, forse in Svizzera, o in un altro paese, dove possano essere state catturate e sfortunatamente uccise o deportate.

Aldilà dei casi sopra esposti emerge che nel comune di San Marcello non ci furono nè arresti nè deportazioni (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 234). Fra i numerosi atti che Fagioli riporta ve ne è uno particolarmente interessante, la lettera del 20 settembre 1938 inviata dalla direzione didattica dei comuni di Agliana e San Marcello al Podestà nella quale si scrive che:

“Un decreto legge di prossima pubblicazione prevede la istituzione, a spese dello stato, di speciali sezioni di Scuole elementari per fanciulli di razza ebraica in quallunque località dove siano almeno dieci alunni e manchi la scuola mantenuta dalla Comunità isrealitica. Vi prego dunque di farmi sapere, no oltre il 23 c.m., con ogni precisione, il numero dei ragazzi di razza ebraica, residenti in codesto comune.”

Il commissario prefettizio risponde alla lettera tre giorni dopo dicendo che “In relazione al foglio sopra distinto, significo che nessun ragazzo di razza ebraica risiede in questo comune” (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 235-237).

Nel 1938 quindi a San Marcello non dimoravano stabilmente persone di razza ebraica in età scolare.

 IL CASO DEGLI EBREI  CONDOTTI SULLA MONTAGNA DA MONTECATINI TERME

Oltre ai già citati casi, risulta che una buona parte degli ebrei presenti sulla  montagna pistoiese provenisse da Montecatini, una delle nove già citate zone di internamento presenti nel territorio pistoiese.

La comunità di Montecatini Terme in seguito all’ordine del 9 settembre 1941 di Italo Balbo di trasferire in Italia gli stranieri presenti in Libia ospitava un consistente numero di stranieri, per la maggior parte anglo-maltesi, alloggiati in diversi alberghi. Molte di queste persone, come affermato anche dal prefetto di Pistoia Francesco Bianchi non godevano di buona salute. In particolare gli sfollati: “appartenenti in genere a classi sociali dal punto di vista economico ed igienico molto modeste, sono arrivati in Montecatini in condizioni igieniche personali pessime per sudiciume della pelle e degli abiti”. La popolazione locale timorosa di contagi (era particolarmente temuto in quel periodo il tracoma), provata dalle dure condizioni della guerra e inasprita dal fatto, vero o presunto, che queste persone potessero godere di sovvenzioni provenienti dai paesi d’origine, spingeva perchè queste persone fossero destinate altrove.

Del resto all’epoca Montecatini Terme era già una località molto frequentata e i timori che la presenza straniera potesse nuocere all’attività turistica era forte. Membri del partito fascista affermavano che ” si rileva a Montecatini Terme fra le condizioni dei nostri connazionali o rimpatriati dall’Africa Italiana e quelle di parecchi ebrei e internati stranieri […]. Questi ultimi, per le sovvenzioni che a loro provengono per tramite della Svizzera e per il largo sussidio loro concesso, tengono un tenore di vita frivolo e agiato” .

Dalle proteste verbali alcuni cittadini erano passati alle minacce, come si evince dal documento sotto riportato.

In seguito alle pressioni della cittadinanza quindi con il marzo 1942 cominciarono i primi trasferimenti.

Nel novembre 1942 erano comunque presenti a Montecatini ancora 89 anglo-maltesi, che ricevono un sussidio dal governo inglese e uno da quello italiano e circa sessanta cittadini stranieri, di varie nazionalità, internati o allontanati da zone militarmente importanti di altre province.

Il prefetto decise, come si nota dal documento riportato, di trasferire alcuni ebrei da Montecatini in piccoli località periferiche.

 Furono pertanto trasferiti a Cutigliano sulla montagna pistoiese:

Nadel Salomone di nazionalità polacca nato a Lwow, l’attuale Leopoli,  il 09/01/1881. Residente a  Genova dal 1938 . Venne prima internato a Guardiagrele (CH) il 27/07/40 e successivamente a Montecatini dal 09/08/41 fino al 31 agosto 1943.

Eckerling Chana (Chane) di nazionalità polacca nata a Hodorenka il 9 gennaio 1896, residente a Genova nel 1940, internata prima a Guardiagrele (Chieti) il 20/07/1940 e poi a Montecatini il 19/08/41.

Kreisling Edith nata a Vienna, nazionalità tedesca ex austriaca, nata il 16/03/1908, internata a Montecatini il 2/07/43

Weiller Alessandro, nato a Prijedor (Iugoslavia), apolide ex italiano, nato il 2/5/1890, residente a Fiume nel 1 1940, internato a Montecatini il 18/08/43.

Mevorah Miriam, nata a Prijedor (Iugoslavia), apolide ed ex italiana, nata il 2/01/1911, presente a Fiume nel 1940 e internata a Montecatini il 2/07/43.moglie di Weiller Alessandro.

 Dai dati disponibili sul portale del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e sul sito sito www.annapizzuti.it, che raccolgono i dati degli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, risulta che Salomone Nadel e Eckerling Chana (Chane) furono liberati a Bari il 15 febbraio del 1945, mentre Kreisling Edith e Mevorah Miriam furono liberate a Roma. Evidentemente in qualche modo riuscirono a fuggire alla cattura e a passare la linea del fronte scendendo nel meridione.

Il destino di Alessandro Weiller fu purtroppo diverso perchè come sopra indicato venne deportato e morì in un campo di concentramento a tutt’oggi sconosciuto.

 IL CASO DEGLI EBREI CATTURATI A CUTIGLIANO E PRUNETTA

Un destino molto diverso caratterizzò purtroppo gli ebrei livornesi sfollati a Cutigliano che furono catturati a gennaio 1944 ad opera di militari italiani e tedeschi.

Furono catturati nella località della montagna pistoiese:

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 14/1/1920. Deportato a Auschwitz fu l’unico del gruppo a sopravvivere.

– Baruch Clara di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 23/4/28. Morì ad Auschwitz il 15 aprile 1944, dopo la liberazione del campo.

– Baruch Isacco di Baruch David e Benezra Giuditta, marito di Cadina Masriel, nato a Smirne il 20/3/1890.

– Baruch Marco di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 27/11/31

– Baruch Susanna di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 21/10/29

– Masriel Cadina di Moise Masriel e Susanna Masriel, moglie di Baruch Isacco, nata a Smirne il 24/12/1900. Uccisa il 26 febbraio 1944

– Pesaro Gualtiero di Leone Pesaro e Argia Piperno, marito di Rosa Cremisi, nato a Livorno il 23/7/1896

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 14/1/1920

Tutti finirono ad Auschwitz con il convoglio partito da Fossoli il 22 febbraio 1944 e qui, salvo come detto Baruch Behor Michele trovarono la morte.

In un’occasione successiva alla retata del 26 gennaio furono catturati:

– Pesaro Arnaldo di Leone Pesaro e Argia Piperno nato a Livorno il 23/10/1900. Arrestato a Cutigliano, morì nell’eccidio di Ponte alla Lima di cui si parlerà successivamente.

– Tullio Levi di Angelo Levi e Rosilde Ravà, nato a Parma nel 1876, sposato con Elisabetta Nesti. Catturato con alcuni abitanti del luogo venne fucilato presso il cimitero di Pianosinatico (vedi paragrafo successivo)

La cattura del primo gruppo di persone avvenne il 26 gennaio 1944, favorita da spie italiane.  Non fu necessario ricorrere alla ricerca casa per casa perchè la presenza degli ebrei era nota alla polizia locale che intimò agli sfollati di presentarsi in caserma per le cinque del mattino del 26 gennaio. L’ebrea Nina Molco, nel suo diario ricorda che supplicò il locale maresciallo di lasciare stare lei e sua zia Clelia a causa della tarda età (87 anni) di quest’ultima. Il maresciallo la invitò a presentare un certificato medico che attestava le precarie condizioni di salute dell’anziana e così le due donne poterono rimanere a Prunetta fino alla liberazione, vivendo comunque nelle privazioni e con l’ansia di un arresto imminente. Nel maggio ’44 Clelia morì’ e Nina continuò a raccontare nel suo diario della presenza di truppe tedesche e le razzie compiute dagli invasori per procurarsi il cibo nonchè il costante pericolo di rappresaglie. Nina Molco annotò anche che «Tutti quelli che erano qui, e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare». Lo scritto lascia trapelare che quindi a cadere vittima dei nazi-fascisti furono soprattutto gli ebrei appartenenti ai ceti popolari, quelli che non avevano risorse sufficienti a consentire loro di accedere ad eventuali vie di fuga. Si fa presente inoltre, ed è un dato importante, che alcuni, probabilmente temporaneamente residenti e quindi non registrati ufficialmente, riuscirono a fuggire alla cattura.

I Baruch, erano sfollati presso la pensione Catilina, oggi un negozio di abbigliamento, nella piazza principale del paese. Erano fuggiti a Livorno da Smirne nel 1933 dove Michele, l’unico che sopravviverà, lavorava come manovale. Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, aveva perso il lavoro. La famiglia era sopravvissuta solo grazie all’elemosina della comunità ebraica fino al momento della deportazione. Catturato con la famiglia, fu imprigionato per circa un mese presso il carcere delle Murate a Firenze, poi condotto a Fossoli e da lì con un viaggio di quattro giorni in cui potè consumare solo da un panino alla marmellata a Auschiwitz. Subito separato dal resto della famiglia non vide più nessuno. Comprese il destino dei suoi familiari solo in un secondo momento. “…Mentre facevamo l’appello – scrisse quarant’anni dopo Michele – di fronte alle nostre baracche vedevamo un’altra baracca molto grande, con una grossa ciminiera le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori. Noi nuovi del campo non sapevamo che cosa venisse fatto là e per appagare la nostra curiosità domandammo a qualcuno più anziano del campo a cosa serviva quella ciminiera e così venimmo a sapere che quello era un forno crematorio. Poi domandai quando potevo incontrarmi con la mia famiglia, me purtroppo seppi la verità e cioè che i miei cari erano stati barbaramente stroncati nelle camere a gas ed i loro corpi fatti scomparire per sempre nel forno crematorio. Mi sentii mancare il terreno sotto i piedi pensando ai miei cari ed a quanto avevano dovuto soffrire… allora per diverso tempo implorai la morte, perché ero rimasto solo ed avevo appena ventiquattro anni” Il Tirreno, ed. Livorno, del 25 maggio 2009).Ad Auschwitz rimase quattro mesi, poi passò per molti campi fra cui Mathausen, Bergen Belsen e Dachau. Fu liberato in un piccolo campo della Germania Orientale il 20 aprile del ’45 dalle truppe russe e rimandato in Italia dopo quattro mesi di cure (Intervista disponibile in http://digital-library.cdec.it/cdec-web/audiovideo/detail/IT-CDEC-AV0001-000209/michele-behor-baruch.html)

A Prunetta, una località ad internamento libero, dove cioè gli ebrei potevano muoversi con una certa libertà, il 26 gennaio furono arrestate le sorelle Gabriella e Vera De Cori, di origine pisana e sfollate con l’anziana madre, Giuseppina Ambron sulla montagna pistoiese. Furono  catturate con l’inganno dal questore Chicca che le aveva invitate a presentarsi in Questura per regolare alcune pratiche. La madre venne rilasciata perchè anziana con la promessa che le figlie sarebbero state liberate entro poche ore. In realtà furono condotte via senza abiti invernali a Firenze prima e a Fossoli dopo, per poi finire la loro esistenza probabilmente a Auschwitz. La madre inviò una supplica al ministro dell’Interno sostenendo che aveva perso il marito e il figlio durante la prima guerra mondiale e sostenendo l’italianità della sua famiglia. Al momento dell’istanza della signora Ambron probabilmente le figlie erano già decedute. Con le sorelle il 26 gennaio 1944 furono catturati da italiani alcuni ebree jugoslavi provenienti da Aosta, originarie della zona di  Zagabria.

Dal sito del Cdec e dal sito annapizzuti.it risultano inoltre catturate a Prunetta:

–                    Fiser Regina, nata il 1/1/1909 da Massimiliano Fiser e Giulia Svez a Nosice (Iugoslavia). Condotta a Fossoli da qui con il convoglio nr. 08 del 22 febbraio partì per Auschiwitz dove giunse quattro giorni dopo. Non è sopravvissuta al campo di concentramento.

–                    Weiss Nada,  nata a Zagabria il 12 aprile 1916, figlia di Norbert Weiss e Giza Haim. E’ sopravvissuta alla Shoah.

Il responsabile della deportazione, il questore di Pistoia, pisano come le sorelle De Cori, non ha mai pagato per il suo crimine, grazie all’amnistia concessa ai collaborazionisti.

 LE STRAGI DEL LANIFICIO TRONCI E DEL CIMITERO DI PIANOSINATICO: LA MORTE DI ARNALDO PESARO E DI TULLIO LEVI

Il fratello di Gualtiero Pesaro, uno delle vittime della retata del 26 gennaio, Arnaldo, morì nella strage del lanificio Tronci, avvenuta in seguito alla vendetta nazista successiva ad un attacco partigiano contro le truppe tedesche che stavano risalendo la penisola. A Casotti fra il 26 e il 27 settembre 1944 le truppe tedesche rastrellarono infatti 35 abitanti e li rinchiusero nel lanificio Tronci, situato lungo il torrente Lima. La situazione già precaria dei prigionieri peggiorò con la fuga di Guido Vasetti, uno dei detenuti. Il comandante tedesco che aveva minacciato in un primo momento di fucilare cinque prigionieri successivamente ritornò sulle sue decisioni e liberò gli ultrasessantenni, fra cui il titolare dell’azienda Raffaello Tronci. Questi, saputo che i tedeschi se ne erano andati, ritorno nel pomeriggio nei pressi del lanificio e udì l’esplosione dei locali che provocarono la morte di cinque persone fra cui il già citato Arnaldo  Pesaro.

In un altro attacco contro un convoglio tedesco compiuto dai partigiani guidati da Ducceschi morirono due soldati ed uno rimase ferito. La ritorsione nazista fu pronta, la zona di Pianosinatico ed il territorio del comune di Cutigliano vennero rastrellati con l’obiettivo di “ripulirlo” dalla presenza partigiana.

Undici prigionieri, in prevalenza ultrasessantenni, vennero condotti presso il cimitero di Pianosinatico a fucilati. Tra essi, anche il professore ebreo Tullio Levi ( cfr. scheda  su http://www.straginazifasciste.it/)

Inoltre, per garantire la ritirata, i tedeschi minarono quasi tutte le abitazioni di Cutigliano.

 Sulla strage furono avviate indagine dalla procura militare di Roma nel 2010. Il 30 giugno fu fissata un’udienza con richiesta di accertamenti sull’esistenza in vita di militari tedeschi sospettati della strage.

 Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.




La persecuzione fascista contro gli ebrei nel pistoiese

CENNI STORICI SULLA PRESENZA EBRAICA A PISTOIA

Le prime tracce delle presenza ebraica a Pistoia risalgono alla fine del XV secolo quando due ebrei di origine pisana, Sabato e il figlio Musetto, chiesero agli Anziani ed al Gran Consiglio di poter “fenerare”, cioè di poter svolgere l’attività di prestatori di denaro o in alternativa di esercitare qualsiasi altro mestiere, risiedendo in città con le loro famiglie e la servitù. Esprimevano nella loro richiesta il desiderio anche di essere considerati cittadini alla pari degli altri e di poter godere della libertà di culto e della immunità da tutti gli oneri, ad eccezione delle gabelle, per un periodo di circa dieci anni, prerogativa di tutti i prestatori di denaro (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 63-73).

L’attività feneratizia, cioè volta al prestito del denaro, continuò anche successivamente, come attestano i capitoli del 1455 tra il Comune e un banchiere per la gestione di un banco di pegno per 6 anni (Capecchi, I. – Gai, L., Il Monte della Pietà a Pistoia e le sue origini, Firenze 1975, p. 69).

In seguito all’obbligo per gli ebrei toscani di trasferirsi nei ghetti di Siena e Firenze a fine XVI secolo la piccola comunità ebraica pistoiese scomparve per riapparire intorno al 1641, anno in cui la presenza ebraica tornò ad essere menzionata quando dopo l’incendio della sacrestia della cattedrale, alcuni ebrei acquistarono i resti degli armadi intagliati da Ventura Vitoni.

Il termine “ghetto” compare per la prima volta nella storia pistoiese nel 1718, quando viene usato nel registro della parrocchia di San Matteo, per designare l’area occupata da quattro famiglie residenti al primo piano di una corte sita nei pressi della piazza dell’Ortaggio (ex piazza del Pesce), ora piazza della Sala.

Il ghetto citato è ricordato fino al 1753, mentre da un documento del 1777 risulta che nel quartiere di Porta Lucchese vi fosse un vicolo “detto del Ghetto” che corrispondeva ad una piccolissima corte dell’odierna via Puccini (Zdekauer, L., L’interno di un banco di pegno nel 1417, in Archivio Storico Italiano Firenze, S.V., XVII, p. 63-104).

E’ possibile inoltre che in città esistessero in quel periodo un cimitero ebraico e una piccola sinagoga.

In alcuni documenti del 1742, relativi a quella che da tempo veniva chiamata “Piazza Ebrea” o Piazza dello Spirito Santo (attualmente Piazza S.Leone), si legge che: Gli agnelli, uccelli, uovi , e altri commestibili proibiti nel tempo della Quaresima, non si vendano né si possano vendersi altrove che sulla Piazza dello Spirito Santo (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 64.

 LA PERSECUZIONE FASCISTA CONTRO GLI EBREI NEL PISTOIESE

Con l’estate del 1938 si scatenò una fortissima campagna anti-giudaica caratterizzata da una serie di leggi volte a perseguitare gli “appartenenti alla razza ebraica” il cui culmine fu l’ordine di arresto e di internamento del 30 novembre 1943 che ebbe tragiche conseguenze anche per gli ebrei “pistoiesi”. Particolarmente negativa per gli ebrei fu la pubblicazione di alcuni testi come “Gli ebrei in Italia” di Paolo Orano in cui si attaccavano addirittura quelli appartenenti al partito fascista o “Sotto la maschera di Israele” di Gino Sottochiesa  (Fornaciari P., L’universo minore. Confino, internamento, concentramento, deportazione degli Ebrei. Le responsabilità italiane ed il caso di Pistoia, Edizioni Erasmo, Livorno, 2014, p. 23-25)

Il testo che più di ogni altro mosse l’opinione pubblica contro gli ebrei fu comunque il “Manifesto della razza” apparso sul Giornale d’Italia con il titolo “Il Fascismo e i problemi della razza”. Apparso senza firma, nei giorni successivi alla prima pubblicazione fu sostenuto, su diretta richiesta del duce, da una decina di medici e professori universitari.

La negativa campagna di stampa e l’emanazione delle leggi razziali colpirono anche la piccola comunità ebraica di Pistoia, composta da alcune “storiche” famiglie fra le quali possiamo ricordare i Corcos, i Piperno, i Coen e i Bemporad, proprietari di una bottega di stoffe e abbigliamento in via del Can Bianco e che avevano fatto costruire nel 1910 la torre “Bemporad”, ancor oggi esistente. La famiglia era anche proprietaria di un mulino presso Serravalle Pistoiese (Cutolo F., La deportazione degli ebrei nel pistoiese)

Israele Bemporad, ad esempio, che si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, nel 1939 in seguito alle leggi razziali fu espulso dall’Università. Successivamente si iscrisse alla formazione partigiana “Fantacci” che operava sulle colline della Castellina e Casore del Monte, presso Serravalle Pistoiese. Partigiano divenne anche Giancarlo Piperno che era stato accolto, avendo la casa distrutta dai bombardamenti, dalla famiglia Bemporad nella villa in località Bacchettone, posta sulla collina fronteggiante la stazione di Serravalle Pistoiese. Giancarlo Piperno anni dopo divenne un famoso radiologo specializzato in radiologia medica oncologica presso l’ospedale di Pistoia (Balleri S., Mario Parri scultore e altri personaggi dell’antifascismo e della resistenza nel pistoiese, Pistoia 2017, p. 111-115.)

Allo scoppio della guerra, il regime fascista decise la costruzione di campi di concentramento in tutto il territorio nazionale per internare i cittadini dei paesi nemici, i prigionieri di guerra, gli oppositori politici, gli omosessuali e gli ebrei stranieri. Con l’8 settembre la situazione degli ebrei peggiorò ulteriormente e quelli che non erano stati internati cercarono di fuggire sparpagliandosi sui monti. Agli ospiti “originari”, dopo il 30 novembre ’43, si aggiunsero nuove vittime, che nonostante si fossero date alla macchia cercando rifugio sui monti per fuggire ai rastrellamenti, erano stati catturati.

Nella provincia di Pistoia, vi erano in tutto nove località di detenzione: Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia, Ponte Buggianese, Prunetta e Serravalle Pistoiese. La tendenza fu quella di adattare  per l’internamento edifici o strutture già esistenti. Gli internati vennero quindi, almeno inizialmente, collocati in ville, case private, conventi, scuole, fabbriche dismesse, addirittura in cinematografi. Gli internati avevano quindi la possibilità di spostarsi, in alcuni casi addirittura di andare e venire dai luoghi d’origine. Spesso la popolazione locale non conosceva, o fingeva di non conoscere, l’origine di questi “stranieri” (Fornaciari P., op. cit, p. 35)

Con l’8 settembre del 1943 la situazione peggiorò decisamente. Polizia e carabinieri confluirono nella guardia nazionale repubblicana (GNR) che venne sostenuta dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, costituita da fascisti della prima ora.

Nel periodo intercorrente fra il 30 novembre 1943 e l’ottobre 1945 in provincia di Pistoia furono arrestati in seguito alle retate dei nazisti e dei fascisti ottantotto ebrei, secondo quanto indicato nei database dei siti www.nomidellashoah.it e www.annapizzuti.it, che vennero uccisi direttamente o deportati nei campi di concentramento di Buchenwald, Auschwitz e Mathausen, dopo essere stati condotti prima nel carcere di Pistoia e poi a Fossoli, nei pressi di Carpi.

La maggior parte degli ebrei che si trovavano nel pistoiese fu catturata al momento del passaggio del nucleo operativo nazista specializzato in “rastrellamenti” guidato da Dannecker, che dopo aver compiuto la retata degli ebrei nel ghetto di Roma (mille persone complessivamente catturate di cui solo quindici tornarono in Italia alla fine della guerra) stava ripiegando (Cutolo F., op. cit., consultabile in in www.toscananovecento.it). Dannecker era uno specialista in questo genere di azioni e proprio per questa sua grande capacità era stato spostato dalla Bulgaria all’Italia. Fu questi a compiare la retata del 6 e 7 novembre a Firenze e a irrompere nella sinagoga fiorentina per catturare circa duecento  persone. A Firenze furono razziati anche i conventi, dove molti perseguitati si erano rifugiati. Al Carmine, dove si trovavano molte donne ebree con i loro figli piccoli, avvenne l’episodio più odioso. Ci fu un’irruzione il 26 novembre e per quattro giorni le donne recluse, prima di essere deportate e uccise ad Auschwitz, subirono inerrarabili violenza da parte dei militi fascisti di guardia, accorsi in aiuto dei tedeschi (Baiardi M., tratto dall’inserto a cura della Regione Toscana “I l giorno della memoria 2002-2009” in La Nazione del 25 aprile 2009). Alle catture contribuirono dunque, in virtù dei provvedimenti emanati dalla RSI alla fine del novembre ’43, anche le forze di polizia locali, compresi numerosi reparti di carabinieri e le unità della GNR. La deportazione avvenne ad opera delle forze armate tedesca, spesso con la collaborazione dei militi della RSI.

La maggior parte degli ebrei fu catturata nelle province settentrionali della regione, perchè qui avevano deciso di fuggire, cercando disperatamente di scendere verso il meridione, o perchè qui erano stati internati in quanto stranieri dopo l’entrata in guerra dell’Italia. La percentuale degli ebrei deportati dall’Italia è stata calcolata intorno al 20 per cento (Sarfatti M., La Shoah in Italia, Einaudi, 2005, p. 109). L’ottanta per cento degli ebrei si salvò dunque, ma è altrettanto vero che molti italiani contribuirono con delazioni, a volte volontarie a volte estorte con la forza, alla cattura. Gli ebrei sfuggiti alla cattura vissero quindi in clandestinità adottando le più disparate strategie di sopravvivenza.

Molti degli ebrei catturati a Pistoia avevano trovato qui ospitalità su indicazione della Delasem (Delegazione per l’Assistenza agli ebrei emigranti), creata dall’Unione delle Comunità Israelitiche nel 1939 per aiutare gli ebrei a espatriare e a sostenere comunque gli internati in Italia. Gli ebrei in questione erano in molti casi originari di Livorno e vivevano prevalentemente intorno alla sinagoga della città labronica. Solo i più ricchi vivevano nella zona dell’Ardenza. La maggior parte di queste persone apparteneva al ceto popolare ed era occupata nel settore cantieristico o svolgeva la professione di venditore ambulante (Orsi P.L., Dal censimento del 1938 alla persecuzione,  la comunità ebraica di Livorno, Belforte, Livorno 1990, p. 210).  Una sostanziale parte della comunità era costituita da ebrei provenienti dalla Grecia e dalla Turchia, giunti a Livorno negli anni Trenta. Con il settembre del ’43 e la occupazione tedesca gli ebrei cercarono rifugio in zone più impervie o comunque note. La famiglia di Nina Molco con la zia si trasferirà ad esempio a Cutigliano dove era solita recarsi per le vacanze estive.

Alla fine del 1943 la Delasem fu purtroppo infiltrata da spie che contribuirono a scoprire i nomi degli ebrei aiutati che, quindi, se non erano riusciti a fuggire, furono perciò catturati (Daghini R., La Shoah a Serravalle e Pistoia, in Microstoria, nr. 52, 2007, p.33.)

In provincia di Pistoia i primi rastrellamenti avvennero a Montecatini Terme il 5 e il 6 novembre 1943. Il resto degli arresti risale al gennaio ’44.

Gli Ebrei catturati nel pistoiese appartenevano dunque alle famiglie “locali” e a quelle “sfollate”.

Degli ottantotto catturati solo cinque saranno i superstiti.  Michele Behor Baruch, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone; una sesta superstite, Gertrude Loeb, pur vedendo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz (27 gennaio 1945), morì due settimane dopo per le sue pessime condizioni di salute. Fra gli altri periranno nel campo di Auschwitz Carlo e Massimo d’Angeli rispettivamente di 5 anni e 2 anni e 5 mesi, Bruno e Guido Valabra di 11 anni e 7 anni e mezzo, Claudio e Lia Vitale di 7 anni e 2 anni e tre mesi.

La superstite Sol Cittone, apparteneva a una delle famiglie di ebrei turchi di Livorno sfollate a Serravalle per i bombardamenti.

Fu arrestata con tutta la sua famiglia il 12 gennaio 1944 dal maresciallo Luigi Cellai, comandante della stazione dei carabinieri di Serravalle Pistoiese, portata prima nel carcere di Pistoia, poi nel carcere delle Murate a Firenze per circa due settimane, da qui a Fossoli con tutta la famiglia e infine sui vagoni per Auschwitz dove giunse alla mezzanotte del quinto giorno. Venne  liberata dall’esercito russo nel 1945.  Rimpatriata da Auschwitz a Livorno l’anno successivo denunciò il 10 settembre attraverso l’UCEI il maresciallo Cellai usando questi termini «Fatemi il piacere se lo vedete, denunciatelo subito e fategli torture e lavorare peggio deve anche soffrire e deve fare una fine peggio dei cani quel maledetto repubblicano. Nemmeno la cenere ci deve rimanere come lui ha rovinato me e tutta la famiglia». Nel dopoguerra, decise di imbarcarsi per Israele e visse a Haifa. E’ tornata a Serravalle nel 2014. Sol ricordava ancora quei momenti e mostrava ancora disprezzo per il maresciallo Cellai che aveva consegnata la sua famiglia ai nazisti e non aveva mai pagato per i suoi crimini. Della sua famiglia, composta dai due genitori e da cinque fra fratelli e sorelle, una di solo tre anni, lei, all’epoca quindicenne, fu l’unica superstite (Il Tirreno, ed. Pistoia, 16 ottobre 2014.).

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.




Don Milani: ieri, oggi, domani

Sono passati cinquanta anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani, perciò è naturale che siano molte le iniziative, celebrative, pubblicistiche e di ricerca, che, nel corso del 2017, si sono proposte di ricordarne la figura e l’opera e di tracciare un bilancio della sua presenza nella storia recente della Chiesa e della società italiana in un’ottica, finalmente, meno condizionata da quei contrasti ideologici che hanno a lungo caratterizzato l’interpretazione della sua personalità e della sua azione pastorale ed educativa. Grazie ad un  approccio più “storico” alla sua vicenda spirituale, umana e culturale oggi possiamo quindi rileggere con più serenità ed oggettività il ruolo che egli ha svolto nell’arco di quei due decenni del ‘900 (gli anni sessanta e settanta) particolarmente densi di trasformazioni sociali e culturali e complessi dal punto di vista del consolidamento della nostra giovane democrazia.

Il mio ricordo di don Milani, tuttavia, seguirà necessariamente una logica diversa, non storica ma molto soggettiva,  in ragione del legame, emotivo e personale, che sento ancora vivo con la figura di questo prete e con la sua esperienza, perchè esse hanno pesato molto nella mia vita, nelle mie scelte professionali, religiose e politiche.

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Don ALfredo Nesi con i ragazzi della scuola di Corea (Archivio Fondazione Nesi)

Ho conosciuto don Milani nel 1965. In quell’anno era tornato sulle pagine dei giornali a causa del processo per l’obiezione di coscienza e della famosa “Lettera ai giudici”. Io  insegnavo nella scuola elementare e facevo volontariato nel doposcuola del quartiere Corea di Livorno, dove operava un prete fiorentino, don Alfredo Nesi, amico di don Milani e suo ex–compagno di studi in seminario. Anche lui col pallino della scuola come “strumento di emancipazione sociale per le classi deboli”. Frequentavo anche Pedagogia a Firenze nell’allora Magistero e molto sentivo parlare e discutere  in questi ambienti di Barbiana, di questa scuola diversa da tutte le altre. Perciò, spinta dalla curiosità, chiesi a don Nesi di portarmi con lui in una di quelle  visite periodiche che faceva a Barbiana, insieme a gli studenti della sua “casa” e a qualche collaboratore.

Eravamo all’inizio dell’estate, ma la scuola di don Milani non andava mai in vacanza; trovammo lui ed otto ragazzi fuori, sotto il pergolato, intorno al tavolone. Come sempre accadeva per i nuovi arrivati non c’erano particolari cerimonie: la misura dell’accoglienza corrispondeva alla disponibilità a stare dentro il “programma” che la scuola di Barbiana prevedeva per quel giorno. Ricordo di quella calda giornata di luglio un dom Milani, già malato ed affaticato, intellettualmente spigoloso ed affatto compiacente, imprevedibile nelle argomentazioni, duro e rigoroso nel metodo con cui affrontava ogni problema, ogni spiegazione, ma anche orgoglioso come una chioccia dei suoi ragazzi e di  come lavoravano.

Ricordo quei ragazzi così diversi da quelli “di città” che io conoscevo : diversi nelle domande che facevano, nel modo di lavorare con il libri, di discutere di grammatica e di sintassi, di storia o di astronomia. Così a loro agio in quella “scuola” spartana, lontana dai “programmi” e lontana dal mondo, ma non fuori dal mondo.

Ricordo la scritta “I care”, di cui i ragazzi stessi mi spiegarono la storia ed il significato.

Ricordo di aver cominciato a capire quel giorno che per me “fare scuola” non poteva essere  un mestiere come un altro; era piuttosto una sfida ed un dovere e che sul “come fare scuola” avevo ancora tantissimo da imparare perché le cose che avevo  visto ed ascoltato quel giorno avevano messo in crisi molte delle certezze pedagogiche e didattiche che pensavo di possedere.

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Don Alfredo Nesi a Barbiana (Archivio Fondazione Nesi)

Altre cose le ho capite leggendo, due anni dopo, “Lettere ad una professoressa”; altre ancora le ho capite insegnando per più di trent’anni nel Villaggio scolastico di Corea, le cui scuole hanno sempre cercato di mantenere un legame ideale con Barbiana e l’esperienza milaniana, pur con scelte di contesto diverse (scuola pubblica, insegnanti e programmi “normali”, ecc.).

Sono tornata a Barbiana nel ’70, tre anni dopo la morte del priore, e a maggio 2002 con tanti amici provenienti da ogni parte d’Italia in quella iniziativa, che da allora si ripete ogni anno, che non solo vuole ricordare la figura straordinaria di questo “educatore atipico”, ma vuole soprattutto dire, con la forza che viene dai simboli, che la scuola italiana di oggi e di domani, la scuola di un paese democratico ha lì una delle sue radici più vitali, da lì deve ancora trarre molto della propria identità.

Infatti ancora oggi la domanda è: cosa  resta di quella esperienza? cosa di quella idea di “scuola” è bene tenere vivo per l’oggi e per il domani? (visto che alcuni di questo prete dissero: “don Milani è più per domani che per oggi” e che lui stesso diceva di sé di essere “appassionatamente attento al presente ed ancor più al futuro” ).

Certo non il modello organizzativo; quella di Barbiana era una scuola non riproducibile ed anche un po’ assurda: 12 ore al giorno per 365 giorni; tutto in comune letture, pensieri, incontri… con un rapporto tra insegnante ed allievo del tutto particolare e nessuna distrazione rispetto a quello che era l’obiettivo fondamentale e totalizzante: imparare per essere liberi, passando attraverso una disciplina severa, uno studio ininterrotto. E tutto questo non evitava le bocciature perché quando andavano a fare gli esami nelle scuole “normali” spesso i ragazzi di Barbiana facevano fiasco. Hanno saputo scrivere collettivamente “Lettera ad una professoressa” ma di fronte al titolo “Davanti ad un’edicola” non riuscivano a scrivere uno straccio di “tema”…

Sicuramente, invece, vanno tenute vive le sfide culturali, piuttosto che pedagogiche su cui  quella scuola aveva scelto di cimentarsi. Prima fra tutte, ed anche  la più chiara e provocatoria, quella di essere strumento per liberare le coscienze. Siamo abituati a intrattenerci con molte definizioni di educazione, di formazione, di scuola che aggiorniamo via via, in cui però i termini “libertà” e “coscienza” sono elusi o minimizzati. “La buona scuola è quella che rende tutti uguali…”- diceva don Milani – ma dove sta  la misura dell’uguaglianza se non nella liberazione per ciascuno dai condizionamenti  sociali, economici,culturali, religiosi, consumistici, ecc. in modo che la coscienza personale possa esprimere fino in fondo il suo primato e ciascuno sia e si senta cittadino a pieno titolo di questo paese?”

Sta scritto anche nella nostra Costituzione che questa è la funzione della scuola, ma a distanza di 70 anni dalla sua proclamazione e a 50 dalla morte del priore, vedo ancora tanto bisogno di affermarlo e, quasi, di gridarlo.

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Don Milani a Barbiana

Un’altra sfida che il priore ci consegna è quella delle periferie. Il suo modo di essere uomo e  credente lo hanno portato inesorabilmente verso le “periferie” della società del suo tempo: periferie fisiche (S. Donato, Barbiana), e soprattutto periferie sociali e culturali (i lavoratori, contadini, gli analfabeti, i senza parola). La scoperta della scuola, della potenza della scuola avviene per lui in questi contesti così come lì matura la convinzione che il “sapere” è l’unico viatico con cui trarsi fuori dalla condizione di marginalità, di subalternità: uscirne insieme, perché questo è la politica.

Quali sono oggi le nostre periferie in cui  stanno i senza parola? Alcune sono facili da vedere (una per tutte: gli stranieri) altre sono più difficili da individuare, in un tempo in cui sembrano prevalere apparenti omologazioni, tutti sembrano uguali eppure mai come oggi sono forti le diversità, sono nuove e terribili le ingiustizie.

Una terza sfida è quella della parola. L’attenzione alla parola, ai linguaggi, alla comunicazione è stata centrale in tutta la pedagogia milaniana. Era quasi maniacale l’insistenza con cui sezionava quasi ogni parola, nella sua etimologia, nelle trasformazioni, nei significati, nelle sfumature, trasmettendo ai suoi ragazzi la consapevolezza che la parola è tutto ed esserne padroni è la chiave che apre ogni porta. Questo aspetto dimostra la grande modernità culturale di don Milani, che già negli anni ’60 aveva compreso il ruolo e l’importanza della comunicazione nella nostra società e come essa sarebbe potuta diventare, anche  in modo subdolo, la nuova padrona delle coscienze individuali.

Che ne è oggi della parola, nella nostra scuola e nella nostra società dove il numero degli “analfabeti di ritorno” si conta a milioni, nonostante che ormai quasi tutti abbiano frequentato la cosiddetta “scuola dell’obbligo” ed anche oltre ?

Fosse solo per questi tre elementi, la lezione di don Milani  conserva una grande attualità e non può che essere motivo di seria riflessione sia per chi fa scuola che per chi fa politica.