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“Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”

In una notte di giugno del 1944, una squadra di giovani partigiani penetra nel buio di una galleria della linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio, tra Ponte a Moriano e Borgo a Mozzano: l’obiettivo è il ponte che si trova proprio all’uscita del tunnel, e i guerriglieri, per ostacolare i movimenti delle truppe naziste lungo la valle, si accingono a farlo saltare con gli esplosivi. A guidare i ragazzi, tutti di origini sarde, è il ventottenne Pietro Pistis, nativo di Lanusei (Ogliastra): fino all’8 settembre 1943 sergente del genio guastatori del Regio Esercito, combatte adesso per la formazione “Baroni”, operativa in Lucchesia. Senza fare rumore, la formazione avanza nella galleria a gruppi di tre, in coda due muli e i conducenti per il trasporto degli ordigni. Il gruppo è già piuttosto avanti nel tunnel, quando Pistis fa cenno con le braccia ai compagni di fermarsi e guardare verso l’uscita: all’imbocco opposto della galleria, si riconoscono infatti le ombre di alcune sentinelle tedesche che si muovono da una parte all’altra della volta. Consapevoli del rischio, i partigiani decidono di proseguire comunque, strisciando ai lati dei binari nel massimo silenzio. D’un tratto, tuttavia, i tedeschi si accorgono di qualcosa ed aprono il fuoco: i giovani si mettono subito al riparo, e, non appena la sparatoria dà un attimo di tregua, avanzano verso il caposquadra per fargli intendere che la missione è fallita, che l’unica scelta, oramai, è la ritirata. Nel buio più totale, bersagliati dai proiettili nazisti, due ragazzi raggiungono il comandante, rimasto indietro: dal momento che non reagisce, decidono di toccarlo, per spingerlo a fuggire quanto prima. Ma Pistis non dà segni di vita: colpito al cuore, è morto senza fare rumore. Devastati dalla perdita dell’amico, i compagni arretrano e, coprendosi l’uno con l’altro, riescono tutti a mettersi in salvo fuori dalla galleria. Sul luogo del sacrificio di Pistis, proprio nelle vicinanze del tunnel che lo vide morire, in un vasto piazzale affianco alla via Ludovica appena prima di entrare nel paese di Borgo a Mozzano provenendo da Lucca, nell’ottobre 1992 il comune e le associazioni combattentistiche e patriottiche vollero erigere un piccolo monumento.

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La copertina della nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Feliciano Bechelli per Pezzini Editore.

Il cippo in memoria di Pistis in località “Madonnina di Mao” è soltanto uno dei molti luoghi della memoria contenuti nella nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” (Pezzini Editore), secondo tassello del grande progetto tripartito di valorizzazione del patrimonio storico provinciale del tempo di guerra portato avanti dall’Isrec Lucca nel corso degli ultimi due anni di lavori. Scritta dal lucchese Feliciano Bechelli, giornalista pubblicista e membro del Consiglio direttivo dell’Istituto stesso, direttore responsabile, fra l’altro, della rivista semestrale di approfondimento storico dell’Isrec “Documenti e studi”, la pubblicazione fa seguito al primo volume della serie, dedicato alla Versilia, uscito poche settimane fa, parimenti completato con la supervisione scientifica del prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e reso possibile dal sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca: adottando un efficace taglio divulgativo, adatto ad un pubblico variegato, il libro raccoglie e presenta un gran numero di siti, vicende e personaggi altamente significativi, capaci di restituire il racconto corale dell’esperienza comunitaria delle genti del Serchio nell’ultimo, terribile anno e mezzo di guerra.

Avvalendosi di mappe, documenti d’epoca ed immagini di oggi e di ieri, Bechelli guida il lettore alla scoperta (o alla ri-scoperta) degli avvenimenti che sconvolsero Mediavalle e Garfagnana fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, un territorio caratterizzato dall’ingombrante presenza della Linea Gotica e da quasi quotidiani scontri fra formazioni partigiane e reparti nazifascisti.

La tetra struttura dell'ex-albergo "Le Terme" ai Bagni Caldi di bagni di Lucca, convertita nei mesi dell'occupazione a campo di controvento provinciale per ebrei.

L’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, convertito nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei.

Suddivisa in capitoli dedicati ai singoli paesi e ai rispettivi dintorni, di cui l’autore tratteggia anche la storia nelle epoche precedenti ed evidenzia con apposite schede attrazioni turistiche ed eventi “da visitare”, la narrazione affronta così tutti i principali aspetti del conflitto nel suo scorcio più cruento, di volta in volta condensati in “punti caldi” di grande rilevanza per la memoria locale: dal lavoro coatto per la costruzione della Gotica, esemplarmente rappresentato dal campo tedesco di Socciglia, presso Borgo a Mozzano, ai bombardamenti angloamericani, capillari in tutta la valle del Serchio, ma in particolar modo a Castelnuovo di Garfagnana, dalle stragi naziste, come nel caso delle uccisioni compiute dalla Wehrmacht a Montefegatesi e Ponte a Serraglio (presso Bagni di Lucca) fra il 14 ed il 18 luglio 1944, alle persecuzioni antiebraiche, tristemente identificabili nell’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, trasformato nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei, da cui il 30 gennaio 1944 partì un treno destinato ad Auschwitz con 97 persone, di cui soltanto cinque riuscirono a fare ritorno a guerra conclusa.

Non mancano poi dettagliate ricostruzioni delle principali operazioni di guerriglia delle squadre partigiane locali, come la sanguinosa battaglia del monte Rovaio, presso l’Alpe di Sant’Antonio, nel comune di Molazzana, che, il 29 agosto 1944, vide coinvolto il Gruppo Valanga del gallicanese Leandro Puccetti (1922-1944) contro truppe tedesche e reparti della GNR: anche in questo caso, il dato storico è accompagnato dalle immagini e dalle indicazioni pratiche per la visita ai luoghi e ai sentieri che fecero da sfondo ai combattimenti.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR, il 29 agosto 1944.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia del 29 agosto 1944 fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR garfagnina.

Affianco alle iniziative di indomiti resistenti rimasti impressi nel racconto corale della guerra in Valdiserchio, come Giovanni Battista Bertagni, comandante del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense, e Manrico “Pippo” Ducceschi, a capo dell’XI Zona Patrioti, attiva fra la montagna pistoiese e la Mediavalle, rivivono quindi i giorni della “guerra guerreggiata” lungo la Linea Gotica fra le truppe nazifasciste e gli uomini della 92° Divisione “Buffalo” afroamericana, impegnati in un logorante scontro di posizione dall’autunno del 1944 alla primavera dell’anno successivo: a tal proposito, di grande interesse è il capitolo dedicato a Sommocolonia, borghetto d’altura vicino a Barga, che fu teatro della devastante battaglia di Natale del 25, 26 e 27 dicembre 1944 (nome in codice tedesco: “Wintergewitter Aktion”), ultimo, vano tentativo germanico di spezzare il fronte alleato in direzione sud, conclusosi con intensissimi bombardamenti e vaste distruzioni in tutta la valle.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell'estate del 1944 fu al comando del Battaglione "Casino" della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell’estate del 1944 fu al comando del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Oltre a trattare gli eventi della “grande storia” sul territorio, la nuova pubblicazione dell’Isrec di Lucca parla anche di Resistenza civile, di solidarietà umana e cristiana, soffermandosi sulle scelte della gente comune e di non pochi sacerdoti, che, di fronte alla spietata caccia all’uomo scatenata dalle forze nazifasciste contro oppositori politici, ebrei e renitenti alla leva, seppero reagire con decisione, offrendo spontaneamente rifugio, cibo e protezione ad un gran numero di perseguitati: è il caso, ad esempio, di Giuseppe Lombardi e don Gino Bachini a Colognora di Pescaglia, che salvarono la famiglia dell’ebreo viareggino Renato Pieri, di don Giovan Maria Torre, che, oltre ad assistere molti ricercati, s’impegnò a trasferire le attrezzature dell’ospedale bombardato ed inagibile di Castelnuovo nella canonica della propria chiesa, ad Antisciana, per non parlare di don Guglielmo Sessi, parroco di Sillico (nel comune di Pieve Fosciana), che, più volte arrestato dai fascisti e quindi tornato in libertà, s’impegnò fino alla fine del conflitto nell’assistenza agli ebrei e ai prigionieri di guerra alleati in fuga verso le proprie linee.

Utile strumento per una vasta diffusione della conoscenza storica del territorio nel periodo 1943-1945, certamente di grande validità anche a scopi didattici, la guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” sarà a breve seguita dal terzo ed ultimo capitolo del grande progetto “Luoghi della memoria” dell’Isrec, dedicato al capoluogo provinciale ed alla Piana di Lucca.




Vittorio Bardini. Costituente senese

Condannato dal Tribunale Speciale nel 1928 perché comunista e pericoloso oppositore del regime, si era fatto otto anni di reclusione. Poi era espatriato clandestinamente in Unione Sovietica dove aveva frequentato una scuola militare. Inviato in Spagna, aveva combattuto nelle file repubblicane ed era riparato in Francia in seguito alla vittoria del franchismo. Dopo due anni di campo di concentramento, consegnato alla polizia fascista dal governo filonazista di Vichy, nel 1941 aveva fatto il suo ingresso nel carcere di Santo Spirito di Siena. Lì lo volle incontrare l’Arcivescovo della città, Mario Toccabelli, forse incuriosito dalla sua storia e dalla sua personalità. “In occasione della festa del carcerato (…) fui l’unico che non andò a messa (…). Verso la fine della cerimonia (…) Monsignor Toccabelli vene a trovarmi in cella. Con molto garbo e correttezza ci salutammo. Mi fece alcune domane e dopo qualche battuta a conclusione del nostro incontro, mi chiese a quale curia appartenevo: gli risposi che non ero molto ferrato nella conoscenza della gerarchia e della organizzazione ecclesiastiche. Si congedò invitandomi a pregare il buon Dio e a ritornare su quella che secondo lui era la giusta strada, la strada del fascismo”.

Bardini (al centro della foto sotto il ragazzo seduto sul cannone) in Spagna negli anni della guerra civile

Bardini (al centro della foto sotto il ragazzo seduto sul cannone) in Spagna negli anni della guerra civile

Così amava raccontarsi Vittorio Bardini, nato a Sovicille nel 1903, professione muratore. A quell’incontro con l’alto prelato sarebbero seguiti il confino a Ventotene, un breve periodo di libertà dopo il 25 luglio 1943, il trasferimento a Milano, di nuovo in clandestinità, per organizzare i Gap, l’arresto, la deportazione a Mauthausen e infine, a guerra conclusa, i ruoli dirigenti nel Pci, l’elezione al Parlamento e prima ancora all’Assemblea Costituente.
Di questa suo ruolo in uno dei luoghi politici di massima rilevanza per la storia della Repubblica, Bardini non ha lasciato memorie, mettendolo in secondo piano rispetto all’attività nel partito e per il partito. Probabilmente considerava un puro servizio anche il suo voto su quei banchi. E d’altra parte, se la preparazione in materia giuridica non gli poteva consentire chi sa quali apporti originali, la sua presenza, insieme a quella di molti altri ed altre come lui, bastava da garanzia sul fondamento antifascista della legge fondamentale del nuovo Stato repubblicano che si andava elaborando.

Roma, dicembre 1947. Da sinistra: Vittorio Bardini, Ilio Barontini, Walter Audisio e Francesco Moranino.

Roma, dicembre 1947. Da sinistra: Vittorio Bardini, Ilio Barontini, Walter Audisio e Francesco Moranino.

Solo da qualche ricordo frammentario si ricavano notizie non sulla discussione in aula, bensì su quella che si svolgeva fra la base comunista, con una dialettica e una libertà di parola superiori a quanto ci si potrebbero immaginare. Per due volte, nel 1946 e nel 1947, Palmiro Togliatti arrivò a Siena per assistere al Palio. In entrambe le occasioni partecipò ad una assemblea degli scritti, accompagnato da Bardini. E in entrambe le occasioni non mancò chi gli rivolse critiche esplicite sull’amnistia che aveva decretato come Guardasigilli e sul voto del Pci sull’articolo 7, rivelando il malcontento serpeggiante sia per la mano tenera con i fascisti, sia per la mano tesa alla chiesa e alla Dc. Bardini probabilmente non gradì quegli interventi, ma alla fine poté quasi rallegrarsene perché, come ricordò, si trattava di parole dette da “bravi compagni, ma di tipo particolare, personaggi caratteristici che con alcune loro espressioni si rendevano anche simpatici. Per queste caratteristiche si resero simpatici anche Togliatti”.

Anche un comunista d’acciaio come lui non mancò tuttavia di ricevere critiche da chi ancora più d’acciaio lo avrebbe voluto. Teresa Noce ebbe infatti a dolersi per il fatto che avesse accettato di entrare, in quota Pci, nella Deputazione del Monte dei Paschi di Siena. A lei i banchieri non piacevano, anche se erano iscritti al partito e certi incarichi le parevano un allontanamento dalla prospettiva della rivoluzione socialista. Ma forse era nel torto, non avendo valutato a pieno quale fosse il significato, anche simbolico, di un comunista dentro la Rocca di Piazza Salimbeni, da sempre presidio finanziario esclusivo della nobiltà agraria, della borghesia dei commerci e della rendita immobiliare e delle forze politiche di loro rappresentanza.

Bardini in Piazza Matteotti a Siena. Comizio per il 25 aprile 1946

Bardini in Piazza Matteotti a Siena. Comizio per il 25 aprile 1946




“L’Ombrone affitta ma non vende”: il patto antico tra Grosseto e le acque.

Le piene dell'Ombrone

Livello delle piene dell’Ombrone

In occasione delle celebrazioni legate al Cinquantenario della drammatica alluvione del 4 novembre del 1966, alluvione che non vide solo Firenze al centro della epocale vicenda, ma innumerevoli altre realtà tra le quali Grosseto e la sua Maremma, emerge con chiarezza la necessità di una riflessione storica di lungo periodo che ci consenta di cogliere le peculiarità di un complesso problema storico e geografico.

La realtà grossetana, infatti, presenta alcuni spunti per definire una prospettiva che nasce da incroci di punti di vista disciplinari e da sensibilità diverse giocate nell’intento di restituire l’organicità complessa del sistema uomo-ambiente nel tempo.

Grosseto non è solcata dal fiume, ma dal fiume è stata segnata per intero la sua esistenza, sin dalla sua origine. Dal legame stretto con l’acqua, buona o cattiva, sgorga la sua stessa essenza e la sua identità, che dà forma alle cose, disegna i contorni del paesaggio, forgia le vite delle generazioni che vi dimorano: un connubio da indagare nelle sue radici profonde e da insegnare a chi sta crescendo in questo luogo, perché impari a rispettare il patto della città con il suo ambiente, lo accolga e lo difenda.

Da questa riflessione nasce l’idea dell’urgenza e della necessità di un lavoro didattico organico e mirato per avvicinare i ragazzi alla storia dei luoghi, intesi come nodo problematico nato dall’ambiente e dall’uomo che vi si insedia nella prospettiva storica di lungo periodo. In questo contesto la caratteristica precipua della didattica proposta dagli istituti storici, che risiede nella impostazione del lavoro su base laboratoriale, consente di avvicinare i ragazzi al testo delle fonti storiche: siano quelle classiche o quelle archivistiche, archeologiche o iconografiche, non trascurando le fonti materiali ancora presenti sul territorio né un’organica e strutturata lettura del paesaggio urbano e fluviale, né la copiosa messe di studi editi sulla città e il territorio.

Ci viene incontro a questo proposito la mostra organizzata presso l’Archivio di Stato di Grosseto, “L’Ombrone ed altri fiumi. Breve storia delle alluvioni in Maremma” presentata il 24 settembre 2016, che ci restituisce il panorama storico documentario, offrendoci preziosi spunti per una ricostruzione degli eventi che caratterizzarono la complessa vicenda delle acque e la città, estratti dai documenti conservati nei fondi archivistici grossetani, quali l’Uffizio de’ Fossi e Coltivazioni, Il Genio Civile, l’Ingegnere Ispettore del Compartimento, il Commissario della Provincia Inferiore, La Sottoprefettiura di Grosseto, L’Uffizio di Buonificamento delle Maremme, Il Catasto, la Prefettura Granducale, la Provincia di Grosseto, il Comune di Grosseto.

Ilario Casolani (Siena 1588 - 1661) Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  Olio su tela cm.274x160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d'Arte della Maremma e Museo Diocesano d'Arte Sacra.

Ilario Casolani (Siena 1588 – 1661)
Madonna col Bambino in gloria e i Santi Cipriano, Sebastiano, Lorenzo e Rocco, 1630  |   Olio su tela cm.274×160. Già nel coro della Cattedrale, ora custodito nel Museo Archeologico e d’Arte della Maremma e Museo Diocesano d’Arte Sacra.

A sintetizzare mirabilmente le vicende che legano la città all’ambiente fluviale e palustre in cui è immersa, l’antica immagine iconografica forse più suggestiva della città di Grosseto. Si tratta del particolare tratto dalla pala d’altare conservata presso il Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Madonna con Bambino e i Santi Rocco, Lorenzo, Sebastiano e Cipriano di Ilario Casolani del 1630, immagine cara agli storici della città, che l’hanno indagata più è più volte per poter immaginare un ambiente storico lontano nel tempo, ormai totalmente modificato, tanto da risultare irriconoscibile. È la vista a volo d’uccello di una piccola città chiusa nelle sue mura stellate, ancora circondate da un fossato, immersa nella luce dorata riflessa da un paesaggio di terra e d’acqua che si perde in lontananza e sfuma i contorni di una natura che si intuisce ostile indomita e selvaggia, sublimata in una struggente bellezza.

Questa bellezza aspra, che riesce a commuovere chi vive e ama la Maremma, e ne vuole indagarne il segreto, percepirne le forza e la sostanza, costituisce la radice identitaria di un territorio che va capita e fatta capire anche a chi è giunto da poco, a chi è giovane oppure che l’ha dimenticata, perché è qualcosa di delicato e fragile, un equilibrio secolare che ogni tanto si infrange e chiede quindi attenzione, cure, nuove fatiche e ancora riflessione.

Sin dall’antichità le fonti più importanti sono quelle di Tito Livio, (Ab urbe condĭta libri, XXVIII, 45, 18) che parla di contributi in legno d’abete e grano destinate a Scipione che raggiungono Roma forse per vie d’acqua (fluitazione), di Plinio, (Naturalis Historia, III 51 ) che definisce l’Ombrone “Navigiorum capax” o del citatissimo Rutilio Namaziano, (De Reditu suo) che nel 417 ripara la notte presso la foce dell’Ombrone, “Non ignobile flumen” definendo la foce un attracco sicuro ed esprimendo il desiderio impossibile di potervi rimanere più a lungo.

Ma forse l’indizio che ci fa maggiormente intuire il legame d’affetti tra gli antichi abitatori della Maremma con le acque del suo fiume è il frammento con iscrizione ritrovato presso lo Scoglietto (all’interno del Parco della Maremma non distante dalla foce dell’Ombrone) con dedica a Diana Umbronensis e restituitoci dagli studi di Studi di Sebastiani e Cygielman.

Molte questioni rimangono aperte, come la presunta navigabilità dell’Ombrone: per molti studiosi certa per l’ultimo tratto, discussa a fondo con posizioni diverse e contrastanti riguardo al tratto nei pressi di Grosseto.

Certo è che in epoca altomedievale il fiume scorreva vicino alla città: esiste un legame imprescindibile tra l’Ombrone e l’origine della città. Essa infatti compare verso la fine del VI secolo, dopo la decadenza della villa di San Martino accanto al tracciato della Via Emilia Scauri (II sec. a.c.) che aveva percorso più interno rispetto alla vecchia Aurelia (III sec. A .c) e guadava il fiume nei pressi di Grancia. Vi era forse un approdo fluviale: nella direttrice fiume – saline – mare- è da rinvenire la cifra dell’esistenza di questo minuscolo centro abitato nascente sulle rovine di un’antichità che aveva visto fiorire città importanti e potenti come Roselle e Vetulonia. Così il piccolo centro prende vita su piccole alture o su un pianoro sommitale nell’area dell’ attuale Piazza della Palma e via Garibaldi -come ci restituiscono recenti scavi urbani- forse per scongiurare il pericolo delle piene dell’imminente fiume.

Ma Grosseto è città fluviale? Non certo in senso classico, come le grandi città italiane, Roma Firenze o Pisa: non è attraversata dal fiume. Ma in forma simile a Grosseto altre città sono lambite da fiumi, basti pensare ai casi di Casale Monferrato sorta accanto al Po, a Cuneo nata vicino ai fiumi Stura e sul Gesso, a Vicenza, lambita dal Bacchiglione, al caso toscano di Prato sorta a sfiorare il Bisenzio. Una possibile pista di analisi conoscitiva potrebbe nascere dalla comparazione delle realtà storico- geografiche simili, valutando analogie e differenze per meglio comprenderne gli equilibri passati e le prospettive future.

Uno spunto importante, poi, su cui concertare una riflessione è la storia delle alluvioni in Maremma nella documentazione e nella letteratura: se poco si sa delle alluvioni in età altomedievale è facile intuirne la presenza nelle caratteristiche legate alla struttura urbana di Grosseto, come si è detto sviluppatasi su piccole alture nei pressi del corso del fiume, ma anche nella mancanza di locali ipogei e di cantine. Documentate sono invece le alluvioni nel basso Medioevo soprattutto nel 1318 (G. Venerosi Pesciolini, Mura e casseri di Grosseto nell’Evo Medio, Siena 1925) e la grande alluvione del 1333 descritta nella Cronica di Giovanni Villani, libro undecimo:

“negli anni di Cristo 1333, il dì di calen novembre, […] onde quel dì della Tussanti cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e nell’Alpi e montagne, e così seguì al continuo quattro dì e quattro notti […] dovunque ha fiumi o fossati in Toscana e in Romagna crebbero in modo che tutti i loro fiumi ne menaro e usciro di loro termini, e massimamente il fiume Tevero e copersono le loro pianure d’intorno con grandissimo dammaggio del contado del Borgo a San Sepolcro e di Castello, di Perugia, di Todi d’Orbivieto e di Roma; e ‘l contado di Siena e d’Arezzo e la Maremma gravò molto.”

Alluvioni imponenti, quasi un flagello divino, un preludio dell’apocalisse tanto che il fiume Ombrone cambiò il suo corso e si allontanò dalla città di oltre un chilometro e mezzo: il toponimo Fiume morto a designare un ampio territorio che va dalla Porta Vecchia della città di Grosseto all’attuale argine in fondo a Via de’ Barberi, ne è la testimonianza più evidente. Il toponimo è altresì attestato sin dal 1258 nei pressi di Istia-San Martino, segno evidente che il fiume tendeva a variare il suo corso con andamento progressivo (G Prisco, Atlante storico topografico)

In Età moderna si segnalano man mano che ci avviciniamo al presente, moltissime alluvioni: la documentazione si fa più ricca e più indagata risulta la storia più vicina a noi. Ci basti ricordare le disastrose alluvioni del 1557 del 1758 e del 1813. Epoche difficili segnate da guerre, crisi, carestie. La prima ha una probabile connessione con il conflitto Franco-Spagnolo in cui è inserita la guerra di Siena, che tanto coinvolse da vicino le sorti della Maremma, consegnata, con tutta la Repubblica di Siena, come premio al nascente stato regionale dei Medici; la seconda è al culmine di quello stato di prostrazione demografica ed economica che ispirò a Sallustio Bandini il Discorso su la Maremma di Siena (scritto probabilmente nel 1737); la terza da mettere probabilmente in relazione con le guerre napoleoniche che avevano insanguinato tutta l’Europa. Epoche in cui, dunque, il patto col fiume viene meno? Difficile dimostrarlo con certezza. Sappiamo solo che alla fine dell’età moderna si inizia veramente in maniera seria e strutturata a pensare di intervenire per mettere finalmente a regime le acque maremmane: è del 1815 un bellissimo progetto di sistemazione dell’argine mediceo dell’Ombrone onde scongiurare il pericolo dell’alluvione per la città (Archivio di Stato di Grosseto, Uffizio de’Fossi 609). Di lì a poco iniziarono i grandi lavori che trasformarono in maniera radicale e irreversibile in senso moderno l’ambiente intorno alla città, con il Motuproprio di Leopoldo II di Lorena del 27 novembre 1828, che dispose l’inizio della bonifica e l’avvio dell’opera di colmata prospettata da Vittorio Fossombroni, deviando all’altezza dell’attuale Steccaia il corso del fiume e dirottando le sue acque torbide all’interno della piana di Grosseto e del Padule di Castiglione.

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Feritoie a Porta Vecchia dove doveva incanalarsi la chiusa mobile progettata per arginare le acque, 1868

Purtroppo, però, malgrado le maggiori attenzioni e l’immane lavoro svolto, i documenti ci parlano di continue tracimazioni delle acque dell’Ombrone: il 28 dicembre del 1821, nel settembre del 1848, il 30 novembre 1864, il 4 e 5 ottobre 1868, nel novembre e dicembre del 1869, nel 1874, il 7 agosto del 1880, il 7 novembre 1896. Si moltiplicano documenti e notizie, le stime dei danni, le parole delle popolazioni colpite soprattutto nelle abitazioni, nei lavori agricoli, nella morte del bestiame.

Singolare è poi un progetto di una chiusa mobile a Porta Vecchia di ferro fuso per contenere le piene del 1868 (Archivio di Stato di Grosseto, Comune X 98) di cui ancora leggiamo all’interno dell’arco di Porta Vecchia la scanalatura in cui era inserito il meccanismo, proprio accanto al bastione che riporta le iscrizioni lapidee dei livelli delle piene: un vero e proprio luogo della memoria delle ultime alluvioni storiche della città.

Tra queste, l’alluvione del 2 novembre del 1944 è ancora tutta da studiare e da riscoprire. La città liberata da pochi mesi dall’Esercito alleato, ancora dolente per le profonde ferite inferte al tessuto urbano e sociale dai bombardamenti e dalla guerra, stava lottando per tornare ad una difficile e precaria normalità, quando, secondo le testimonianze dei vecchi grossetani, le sirene d’allarme antiaereo suonarono di nuovo, stavolta annunciando un flagello diverso più antico e familiare, ma non meno inquietante. Scarseggiano i documenti e le immagini, si tratta di una storia tutta da ricostruire. Ci vengono in aiuto importanti testimonianze documentarie conservate nell’archivio dell’Isgrec nel fondo del CPLN di Grosseto. A ridosso dell’alluvione, il 9 novembre, si riunisce il Comitato provinciale di Liberazione nazionale per discutere i numerosi problemi di una città che sta ancora in bilico tra la guerra e la pace, tra istanze di democrazia, di ritorno ad un’agognata normalità, e il desiderio di giustizia per le violenze subite. Trova spazio al n.5 dell’ordine del giorno, la voce “aiuti pro sinistrati dell’inondazione del 2 corrente mese” che sviluppa l’idea di creare una commissione formata dai rappresentanti dei sei partiti che formano il CLN unitamente al tenente Rush per la distribuzione degli aiuti. Viene poi stesa una circolare da inviare ai maggiori proprietari della zona per sollecitare donazioni di danaro per i sinistrati.

Fa seguito un nutrito fascicolo di documenti, costituito, tra le altre cose, da una lista di proprietari e persone abbienti di Grosseto, dalle lettere di risposta di alcuni di questi con la comunicazione della cifra donata. Si tratta di uno spiraglio per restituire alla città una memoria che rischia di andare perduta, imprescindibile anello di una catena che ci conduce al presente dando un senso diverso anche all’alluvione di cinquant’anni fa.

In ultima analisi, ciò che ci suggerisce questo breve excursus è l’impellente necessità di conoscere, di studiare il passato per mantenere in futuro un sano equilibrio tra gli uomini ed il loro ambiente che può trasformarsi in qualcosa di temibile e minaccioso se l’avidità, l’immediato interesse la sconsiderata ricerca di profitto prevarranno a oscurare la natura insieme difficile e gentile della Maremma: “L’ Ombrone affitta ma non vende”, dicevano un tempo i vecchi grossetani, gli stessi che per San Lorenzo, patrono della città, giocavano la Giostra del Saracino in via dei Barberi fino ai primi del Novecento. (La Nazione, 10 agosto 1980, Roberto Ferretti). Era una gara tra la città degli uomini e la natura che la accoglieva, sotto gli occhi benevolmente ironici del Santo con la graticola.




Il riscatto della bellezza

ll 6 novembre 1966, appena due giorni dopo l’Alluvione, pochi trattennero le lacrime davanti all’imponente Crocifisso di Cimabue sfigurato nella sua quasi totalità.
Sicuramente non le trattennero Ugo Procacci, allora soprintendente di Firenze ed eroico monument man civile durante la II Guerra Mondiale, e Umberto Baldini, direttore del Gabinetto dei Restauri. Accorso in Santa Croce all’alba del 6, dopo una segnalazione dei gravi danni che avevano colpito la Basilica e il suo Museo, Procacci registrò che “la rovina della grande opera d’arte era ancora maggiore di ogni più infausta previsione; e fu questo forse per me il più tragico di questi tragici giorni”. Non un’ora ancora poteva essere ancora rimandata per tentare di salvare l’enorme tavola, capolavoro di ebanisteria e di pittura, opera simbolo di tutta l’arte medievale italiana. Fu così che, come come continuò a registrare Procacci nella relazione stilata per il Ministero della Pubblica Istruzione il 30 novembre 1966, “chiesto invano l’intervento e l’aiuto dei vigili del fuoco, la cui opera era invocata ovunque, si dové operare da soli”, come lo “smontaggio della smisurata croce dal supporto, eseguito in condizioni veramente disastrose, tra il fango altissimo con il solo aiuto di alcuni operai delle ditta Mugelli”.
il-crocifisso-di-cimabue-irrimediabilmente-danneggiatoIl Crocifisso di Cimabue fu sicuramente uno dei simboli della devastazione che colpì una quantità incredibile di opere d’arte, danneggiate sia dalla violenza dell’acqua che travolse oggetti anche pesantissimi, sia dall’azione chimica dovuta alla prolungata immersione e al conseguente deposito di fango, detriti, nafta, olio combustibile. Secondo i dati riportati da “Il Corriere UNESCO” del 1967 15 furono i musei colpiti, fra cui il Museo Nazionale del Bargello, il Museo dell’Opera del Duomo, il Museo dell’Opera di Santa Croce, i Chiostri monumentali di Santa Maria Novella, il Museo Horne, il Museo Bardini, il Museo Mediceo, Casa Buonarroti, il Museo di San Salvi, il Museo di Storia della Scienza; 18 le chiese monumentali invase dalle acque con conseguente danneggiamento di tutti gli oggetti artistici ivi conservati; un migliaio circa le opere d’arte complessivamente colpite, tra le quali 321 dipinti su tavola, 413 dipinti su tela, 3000 metri quadri di cicli di affreschi, 14 complessi di sculture, 144 sculture singole. Un complesso imponente, tra cui si ricordano la porte bronzee del Battistero, con le cornici spezzate e le formelle cadute, e la Maddalena lignea di Donatello.
Gli stessi Uffizi, così vicini all’Arno e fin da subito assediati dalle acque, avevano vissuto momenti di grande drammaticità; solo la presenza in loco del personale e la repentina messa in sicurezza delle opere collocate al piano terra impedì perdite ancora più ingenti. Verso le nove e mezzo di mattina del 4 novembre il museo era già diventato irraggiungibile da parte di chiunque; rimasero isolati e arroccati tra la furia delle acque Procacci e una quindicina di dipendenti, tra cui la direttrice degli Uffizi Luisa Becherucci e Umberto Baldini, “tagliati fuori da ogni comunicazione anche telefonica, e uniti solo attraverso il soprapassaggio con Palazzo Vecchio, dove erano assediati come noi il Sindaco e diverse altre persone”, ricorda il Soprintendente. Fin dalle prime ore della mattina si cercò di contrastare i danni della velocissima inondazione dei locali posti al piano terra degli Uffizi, adibiti a deposito di opere in attesa di restauro, per cui “senza perdere neanche un minuto furono incominciati a trasportare subito ai piani superiori numerosissimi quadri che si trovavano al piano terreno della Vecchia Posta. Questo intervento, fatto affannosamente, mentre l’acqua già invadeva i locali, crescendo poi con notevole velocità, valse la salvezza di un gran numero di dipinti di eccezionale importanza, ed evitò quindi una catastrofe di immense proporzioni: basti citare tra i tanti quadri posti in salvo il polittico di Giotto della Badia, la Incoronazione di Filippino Lippi degli Uffizi, la tavola centrale del trittico di Masaccio della Chiesa di San Giovenale a Cascia”. Mentre alcuni uomini trasportavano a mano, per le scale, tali opere (in alcuni casi di ingenti dimensioni), altri si precipitarono nel Corridoio Vasariano per rimuovere, in una lotta contro il tempo, tutta la collezione -unica al mondo- degli Autoritratti di artista. Il terrore di quei momenti fu infatti che la furia delle acque potesse travolgere, da un momento all’altro, il Ponte Vecchio e il loggiato. Solo nel tardo pomeriggio del 4 novembre, con il defluire delle acque, i colleghi della soprintendenza da Palazzo Pitti si avventurarono con coraggio lungo il Corridoio Vasariano per portare i primi viveri a coloro che erano rimasti agli Uffizi.
Alla devastazione delle opere d’arte si era quindi aggiunto il danneggiamento dei luoghi della conservazione: il Laboratorio della Vecchia Posta presso gli Uffizi era stato inondato e oramai impraticabile e i relativi macchinari completamente fuori uso.
5-13-gli-angeli-del-fango-alla-biblioteca-nazionaleNonostante la mancanza di luoghi e strumenti, Procacci decise con repentina lucidità che il grande cantiere per il salvataggio delle opere d’arte dovesse essere allestito a Firenze e non altrove. In una Firenze che, già moralmente colpita, non avrebbe visto la partenza di tutte le opere d’arte alluvionate, con l’ulteriore rischio di danneggiamenti dovuti ai trasferimenti in laboratori di restauro italiani ed europei. I luoghi di ricovero allestiti in tempi record furono Villa Petraia e alcuni ambienti di Palazzo Pitti per i mobili, il salone grande della Galleria dell’Accademia per le tele, il Forte Belvedere per la maggioranza dei libri, Palazzo Davanzati per le sculture e le arti minori e la Limonaia di Boboli per le tavole. Quest’ultime, appena conclusa la prima fase di deumidificazione, furono trasferite nel nuovo Laboratorio di restauro costruito appositamente alla Fortezza in un capannone militare in disuso.
Superati i primissimi giorni di emergenza, arrivarono immediatamente contributi economici e scientifici dai più importanti centri e istituti italiani e mondiali. Fu così, che, come auspicato da Ugo Procacci, la città riuscì, grazie anche agli uomini e agli strumenti messi a disposizione da pioneristici istituti e laboratori- a curare i propri malati e sfruttare la grande tragedia da cui era stata colpita per risollevarsi e crescere, per diventare un polo d’avanguardia del restauro e della cultura, per riscattarsi nuovamente in nome della bellezza e di un patrimonio artistico amato e aiutato da tutta la comunità internazionale.

Le immagini qui sono tratte da M. Carniani, P. Paoletti, Firenze. Guerra e Alluvione, Firenze, Becocci Editore, 1991.




Per la cultura e per il bene comune

Professore di lettere comandato dal 1933 presso la Soprintendenza alle Gallerie per le province di Firenze Arezzo e Pistoia, Cesare Fasola è ricordato soprattutto per l’attività svolta durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale a tutela delle opere d’arte che erano state messe in salvo in ville e castelli di varie località toscane. Come testimoniano le sue lettere-diario alla moglie Giusta, presenti nel fondo a lui intitolato conservato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, nel momento del passaggio del fronte egli si adopera per sorvegliare e presidiare i depositi di opere d’arte dei musei nella zona della Val di Pesa, a Montagnana, Montegufoni, Poppiano e Uliveto, prima sotto l’occupazione tedesca e poi, dal 27 luglio, sotto gli Alleati. Per questa attività Fasola riceverà nel 1947 la medaglia di bronzo al valore civile.
Da ricordare è anche il suo ruolo di funzionario delle Gallerie incaricato dal soprintendente Giovanni Poggi della tutela artistica dei beni ebraici. In occasione delle requisizioni antisemite Fasola si occupa di valutare se fra gli oggetti portati via si trovino delle opere d’arte da sottrarre ai sequestri, destinandole alla Galleria dell’Accademia secondo quanto disposto dall’Ufficio affari ebraici della Prefettura. Dopo aver cercato di salvare il più possibile dalle razzie nazifasciste, nel dopoguerra collabora attivamente per la ricognizione ed il recupero dei beni requisiti, lavorando anche in contatto con Rodolfo Siviero.

Tuttavia c’è un altro aspetto della sua vita che merita di essere raccontato, che va di pari passo con la sua attività culturale, nell’ambito di una concezione ampia di impegno civile e di servizio per il bene comune. Ci riferiamo ovviamente al suo impegno politico, che si realizza a partire dal 1942 con l’iscrizione al Partito d’azione (PdA), per poi proseguire come membro del Comitato di liberazione nazionale (CLN) di Fiesole prima e dopo la Liberazione, e come amministratore comunale dalla seconda metà degli anni ‘40 al 1960. Aspetto riguardo al quale non possiamo avvalerci di molte fonti; le carte del fondo Fasola e quelle del CLN di Fiesole, conservate presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, integrano in misura piuttosto limitata i documenti della busta intitolata a Fasola e i resoconti delle sedute consiliari e della giunta conservati tra le carte dell’Archivio comunale postunitario di Fiesole.
Dal modulo di iscrizione alla Sezione fiorentina del Partito d’azione, datato 1° settembre 1944, risulta che Fasola – che ricordiamo essere stato sacerdote dalla giovane età fino ai primi anni ’30, sembra con scarsa convinzione – abbia “aderito” al Partito nazionale fascista dal 1927 al 1943, ma anche che sotto il fascismo sia stato “denunciato e sorvegliato”, senza subire provvedimenti di polizia.
Come abbiamo accennato, la sua attività politica vera e propria comincia nel 1942 con l’adesione, insieme alla moglie Giusta, al neonato Partito d’azione. Al suo interno Fasola fa parte del Comitato esecutivo della Sezione di Firenze. Inoltre durante la Resistenza rappresenta il PdA in seno al Comitato toscano di liberazione nazionale e milita nella Divisione Giustizia e libertà di Firenze, che riunisce le formazioni militari azioniste. Secondo un curriculum conservato nell’archivio del PdA fiorentino, presso l’ISRT, “durante il periodo clandestino nel suo recapito di città fece da centro di collegamento per gli emissari delle regioni dell’Italia liberata e occupata in rapporto con le attività antinazifasciste del Partito a Firenze… collaborò per la diffusione della stampa clandestina e alla raccolta di fondi”. Il suo ufficio presso le Gallerie di Firenze diventa un centro di ritrovo clandestino, con tutti i rischi che ne derivano: lo stesso curriculum riporta che Fasola viene denunciato alla famigerata banda Carità per mezzo di lettere anonime, fortunatamente intercettate.
Per l’attività svolta durante la Resistenza nella provincia di Firenze, nel 1950 la Commissione regionale toscana per il riconoscimento della qualifica di partigiano, istituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, dichiarerà Fasola “partigiano combattente” per il periodo che si estende dal 1° ottobre 1943 al 7 settembre 1944, ovvero da poco dopo l’inizio della Resistenza fino allo scioglimento delle formazioni partigiane ad opera degli Alleati. Inoltre sarà decorato della medaglia d’argento e riceverà la croce al merito di guerra.
Anche Giusta durante il periodo clandestino mette gravemente in pericolo la propria vita: nonostante sia stata segnalata e denunciata ai tedeschi, si occupa come il marito del collegamento di gruppi antifascisti, della trasmissione di informazioni e della distribuzione di stampa clandestina a Firenze e fuori città; inoltre è membro del Comitato consultivo del PdA di Firenze e del Comitato esecutivo di emergenza. Anche Giusta riceverà la qualifica di “partigiano combattente” e la croce al merito di guerra.
Venendo al contesto fiesolano, è proprio a casa dei coniugi Fasola che dal settembre 1943 si svolgono le prime riunioni del Comitato di liberazione locale, organismo pentapartitico nel quale i due intellettuali rappresentano il Partito d’azione. Il primo nucleo del CLN si riunisce infatti in via degli Angeli 4, in una casa della famiglia Micheli allora presa in affitto da Cesare e Giusta, dove ancor oggi possiamo vedere, scritte a matita su un lato del caminetto, le firme dei Fasola e di altri antifascisti: Giuseppe Roselli, Enrico Baroncini, Giovanni Ignesti, Aldo Gheri, Mino Labardi e Edoardo Salimbeni. Come gli analoghi CLN formatisi in Italia centro-settentrionale a partire dal settembre 1943, il Comitato fiesolano riveste un ruolo importante non solo nel periodo clandestino, durante il quale svolge principalmente propaganda antinazifascista e assiste le bande partigiane, ma anche dopo la liberazione di Fiesole, quando assume il governo del territorio e si adopera per la ripresa della vita politica, economica, associativa. Il Comitato si occupa del rifornimento di alloggi e di beni di prima necessità, coordina l’attività dei partiti, di cooperative di consumo, di associazioni, incoraggia iniziative di beneficenza e di assistenza, gestisce l’epurazione e tratta problemi inerenti la disoccupazione, il mercato nero, i trasporti.
I documenti dell’archivio del CLN fiesolano attestano l’attiva partecipazione di Fasola e di sua moglie, sempre presenti alle sedute del Comitato; Giusta fra l’altro ricopre la carica di segretaria, occupandosi della convocazione delle riunioni e della conservazione delle carte del CLN stesso. Come dimostrano i verbali delle sedute Cesare interviene su questioni diverse: la necessità dell’assistenza ai reduci di guerra, l’opportunità di schedare i fascisti che rientrano dal nord, la situazione dei CLN per i quali auspica un ruolo più incisivo nella vita politico-istituzionale del Paese.
É stato sottolineato come per molte persone l’attività all’interno dei Comitati di liberazione locali abbia costituito una sorta di palestra politica, la prima fase di un intenso impegno all’interno dei partiti e delle istituzioni comunali. A Fiesole il caso più evidente è quello del socialista Ignesti, presidente del CLN, che sarà sindaco tra il 1958 e il 1964, ma anche quello di Fasola è significativo, in quanto il suo ruolo di membro del Comitato sfocia senza soluzione di continuità in quello di assessore e di consigliere. Già dai primi di settembre 1944, del resto, la prima giunta post-Liberazione, insediata dal CLN e guidata dal socialista Casini, è composta per la maggior parte da membri del CLN stesso. Tra questi Cesare Fasola, nominato assessore in un primo momento con delega all’Assistenza sociale e l’igiene e poi con delega ai Lavori pubblici.
In una situazione drammaticamente caratterizzata dalla distruzione di alloggi, strade, ponti, acquedotti e impianti elettrici, dalla mancanza di mezzi di trasporto, dalla necessità di procedere ad un urgente intervento di sminamento, possiamo immaginare quanto impegnativo sia stato il suo incarico. In giunta Fasola riferisce e avanza proposte in merito alla condizione degli edifici scolastici che hanno subito danni di guerra, alla rimozione delle macerie che ingombrano le strade e a quella delle mine collocate dai tedeschi, alla riattivazione della corrente elettrica, ai danni alla produzione boschiva, e curiosamente alla necessità di provvedere alla fornitura di macchine da scrivere, dopo le razzie effettuate dai tedeschi. In quanto assessore interviene inoltre nella polemica tra il sindaco e monsignor Rodolfo Berti, proposto della Cattedrale, per la mancata partecipazione dell’amministrazione comunale alle cerimonie religiose in onore di S. Romolo, approvando la scelta di Lugi Casini di non aderire ad un’usanza “introdotta dai fascisti e di sapore medievale, come l’offerta del cero”, e biasimando l’affissione sulla porta della Cattedrale della lettera in cui il sindaco declinava l’invito a partecipare alle manifestazioni per la festa del patrono.
Alle elezioni amministrative del 24 marzo 1946 – le prime dopo la caduta del fascismo – Fasola è eletto consigliere comunale per il Blocco democratico della ricostruzione, formato da azionisti, socialisti e comunisti. Nel 1947, dopo la fine del Partito d’azione, come molti suoi ex-compagni aderisce al Partito socialista, e nelle file di questo partito sarà presente in tutte le successive amministrazioni, che lo vedranno di nuovo assessore, questa volta con delega all’istruzione e al turismo, in seguito alle elezioni del 1951, e consigliere in seguito alle elezioni del 1956 e a quelle del 1960.
Nel quindicennio circa che va dal 1946 al 1960, durante il quale prosegue l’opera di ricostruzione da parte delle giunte Casini e Ignesti, Fasola partecipa alla vita politica fiesolana muovendosi prevalentemente nell’ambito dell’istruzione, della cultura e del turismo. Già nel dicembre 1946 presenta un’interpellanza in Consiglio in merito alla riapertura al pubblico del Museo Bandini– “una istituzione che interessa il decoro della nostra Città e che rivolge l’invito al forestiero per essere visitata” – e alla antica Scuola di disegno – a proposito della quale chiede al sindaco “se non sia possibile riprendere una tradizione antica e utile alla cittadinanza”. Da assessore, lavora alla ricerca di contatti per lo svolgimento di spettacoli estivi al Teatro romano, riferisce in giunta in merito alla riattivazione degli scavi nella zona archeologica e ai rapporti con la Soprintendenza, su sollecitazione dell’Ente provinciale per il turismo fa parte di un comitato per la ricostituzione dell’Associazione turistica di Fiesole.
Una questione che lo interessa particolarmente, legata al turismo, è il decoro cittadino: ad esempio nel 1947 presenta un’interpellanza perché i muri fiesolani siano ripuliti da scritte e residui di manifesti, perché “E’ evidente l’interesse che abbiamo a che le nostre vie, che sono visitate da numerosi forestieri, presentino quel carattere di lindura e di proprietà, che mette in risalto la bellezza turistica, che è quasi sola ricchezza che noi possediamo”. In una lettera al sindaco datata 1948 chiede che la strada Vincigliata-Maiano, meta di gite domenicali, e l’area di San Francesco siano ripulite dalla spazzatura e dotate di apposti bidoni. In una lettera del 1954 avverte Luigi Casini del pericolo presentato da un muro in via degli Angeli ancora pericolante per le cannonate subite in guerra, con grave rischio per i passanti.
Un altro problema che sta a cuore a Fasola è il ripristino del servizio filoviario Firenze-Fiesole, la cui interruzione nell’immediato dopoguerra costringe gli operai a recarsi quotidianamente a piedi nel capoluogo, e ancora nel 1947, in mancanza di un collegamento diretto, ad effettuare lunghe soste tra i tratti in cui è suddiviso il percorso. Sempre in merito alla filovia presenta interpellanze in Consiglio e si pronuncia in difesa degli interessi dei lavoratori affinché i biglietti abbiano tariffe più eque.
I suoi interventi in Consiglio comunale tra il 1951 e il 1956 spaziano da questioni squisitamente locali ad altre di più ampio respiro. Si va dal cordoglio per la morte di due lavoratori in un incidente avvenuto a Villa Machiavelli, al problema della formazione dei turni scolastici alla scuola comunale, dovuto alle gravi carenze dell’edilizia scolastica, alla discussa scarcerazione di Francesco Moranino, partigiano medaglia d’oro arrestato per episodi avvenuti durante la guerra di liberazione, ai fatti del 1956 in Ungheria, in Egitto, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, riguardo ai quali esprime la propria angoscia per “ciò che sarebbe potuto accadere, e che avrebbe ancora una volta interrotto la marcia del progresso e del proletariato”. Rispetto a questi eventi riesce a far convergere su un unico ordine del giorno i voti di democristiani e comunisti, notando come, nonostante esistano diversità di opinioni (anche tra comunisti e socialisti, come è noto), ci sia “un’unità di intenti, così come esisteva nel tempo della liberazione, quando tutto era chiaro, perché tutti si sapeva dove erano l’oppressione e la tirannia. Oggi è meno chiaro: c’è l’Ungheria, ma ci sono anche Suez, l’Algeria, il Kenia. Condanniamo allora, l’ingiustizia e la violenza, ovunque si trovino”. Nel maggio 1957, quando il Sindaco mette in approvazione un ordine del giorno in cui auspica che il nuovo governo insediato applichi la Costituzione e adotti una politica estera contro gli esperimenti atomici, Fasola interviene sollecitando un’ampia partecipazione su problemi di tale rilievo e di fronte ai quali non può esserci “alcuno spirito di rinunzia o sfiducia”.
Gli interventi di Fasola presentano più di una volta richiami ai valori della Resistenza e allo spirito ciellenistico. In una seduta del Consiglio comunale del dicembre 1957, relativamente ad un ordine del giorno comunista in difesa dei valori della Resistenza in occasione dell’omaggio reso dal Presidente della Repubblica federale tedesca Heuss ai martiri delle Fosse Ardeatine e in vista della traslazione a Firenze delle salme dei fucilati alle Cascine, Fasola ricorda che “è proprio in virtù della Resistenza e del sacrificio di chi vi partecipò” che “questo Consiglio comunale si riunisce, avendo la Resistenza segnato il ritorno alla libera manifestazione della volontà popolare e quello delle rappresentanze elettive del popolo”; anche questa volta, grazie alla sua mediazione, i voti dei democristiani e dei comunisti convergono su un unico ordine del giorno che viene votato all’unanimità. É importante per lui anche la conservazione della memoria resistenziale: iscritto all’ANPI, è tra i soci fondatori dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, istituito nel 1953, presso il quale si conserva il piccolo fondo personale che è già stato menzionato, e dove nel 1964 – anno successivo alla sua scomparsa – sarà commemorato da Carlo Ludovico Ragghianti.
Vale la pena ricordare anche che nel 1952 Fasola è tra i fondatori dell’Alleanza per la ricreazione popolare, un movimento che riprende in parte le posizioni del vecchio comitato di difesa dell’ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori), e che agisce come organismo di collegamento tra vari circoli e case del popolo: insieme a personalità di varia provenienza culturale e politica – ma soprattutto di sinistra, come Gaetano Pieraccini, Orazio Barbieri e Mario Fabiani – è membro del Comitato direttivo.
Torinese trapiantato a Firenze e poi a Fiesole, Fasola risulta infine ben integrato nel contesto sociale e culturale cittadino. Ad esempio intrattiene rapporti con Charlotte Spinn, vedova di Heinrich Ludolf Verworner, uno dei tanti artisti che avevano scelto il “colle lunato” come luogo d’elezione. Nel 1953 pronuncia un discorso in occasione dello scoprimento della lapide in ricordo di Verworner a villa di Fontelucente; da una cartolina a Charlotte datata Natale 1955 (conservata nel fondo archivistico intitolato a suo marito presso l’Archivio comunale) si intuisce un legame basato non solo su comuni interessi artistici ma anche su stima e affetto.
Il suo ultimo incarico di consigliere comunale, assunto in seguito alle elezioni amministrative del 6 novembre 1960, ha durata brevissima: dopo due anni di malattia, l’8 novembre Giusta viene a mancare e Cesare decide di dimettersi. Il 3 dicembre successivo le sue dimissioni sono discusse e approvate dal Consiglio, che si rammarica per la perdita e lo ringrazia per l’impegno profuso sin dai tempi del CLN.
Dopo la scomparsa della moglie, con cui ha condiviso decenni di impegno politico e culturale – ricordiamo che Giusta era storica dell’arte ben conosciuta, studiosa del Medioevo e del Rinascimento, docente universitaria a Genova – Fasola si trasferisce a Bagno a Ripoli, dove morrà tre anni dopo; ma possiamo immaginare che un legame particolare abbia continuato a unirlo a Fiesole. Secondo il verbale della seduta di insediamento del nuovo Consiglio dopo le elezioni del 1951, Fasola stesso sottolinea che per quanto sia nato altrove, “a Fiesole è giunto nel momento più cruciale ed a Fiesole si sente legato dal più affettuoso attaccamento, poiché qui ha vissuto il periodo più bello della vita”.




L’anticomunismo italiano e il ’56

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da Andrea Mariuzzo, ricercatore in Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

Riflettendo sul valore periodizzante, finanche di crisi esistenziale, che il 1956 ebbe anche nel contesto della sinistra italiana, può apparire curioso il fatto che le elezioni politiche tenute appena due anni dopo, il 25 maggio del 1958, si siano risolte in una generale stabilizzazione del quadro di consensi ai vari partiti, dopo un decennio di lotte al calor bianco e di conseguenti continue ridefinizioni degli equilibri, e che addirittura il Partito comunista italiano si sia rivelato capace di incrementare di 600.000 voti il proprio corpo elettorale rispetto al già positivo risultato della campagna del 1953 contro la cosiddetta “legge truffa”, passando in termini percentuali dal 22,6% al 22,7%. Di fronte a questo quadro generale viene soprattutto da chiedersi perché le rodate centrali di mobilitazione anticomuniste non siano riuscite ad avvantaggiarsi appieno della crisi esplosa con la denuncia dei crimini staliniani al XX Congresso del PCUS e della denuncia della violenta repressione dell’insurrezione ungherese, punta dell’iceberg di una più generale violenta agitazione nei paesi del blocco orientale di fronte alle attese generate della “destalinizzazione” e ai significativi mutamenti nella classe dirigente al potere.

Per quanto riguarda l’agenzia socio-culturale di gran lunga più influente nel confronto col comunismo nell’opinione pubblica italiana, la Chiesa cattolica, è innanzi tutto necessario notare che gerarchie ecclesiastiche avevano da tempo elaborato un’interpretazione teologico-politica e pastorale del comunismo ateo e materialista come assoluta manifestazione dell’errore e dell’allontanamento dell’uomo da Dio. Essa sembrava definitivamente confermata tanto dalla requisitoria di Chruščëv nei confronti di Stalin, quanto dall’intervento militare a Budapest a fine anno. Tuttavia i protagonisti delle battaglie contro il “pericolo rosso”, dal “microfono di Dio” padre Lombardi al potente presidente dell’Azione cattolica Luigi Gedda, apparivano ormai appannati nel loro smalto, intenti più che altro a curare la disciplina interna al mondo ecclesiale e al cattolicesimo organizzato, e scottati dalla difficoltà con cui negli anni passati il successo delle mobilitazioni anticomuniste aveva dato inizio al tanto agognato percorso di conversione della società italiana e al suo ritorno all’obbedienza alla Chiesa.

Dal canto suo, nel primo decennio dopo la fine della Seconda guerra  mondiale la stampa liberal-conservatrice di parte laica o comunque non apertamente confessionale si era rivelata un importante volano per la diffusione di un “senso comune” anticomunista nel pubblico meno politicizzato, con una scelta di campo che si era fatta chiara in vista dell’appuntamento elettorale del 18 aprile 1948 e che si era confermata negli anni successivi. Di fronte ai moti dell’Europa orientale e in particolare al dramma ungherese, però, i fogli quotidiani più “istituzionali” evitarono di seguire le voci più radicali nelle polemiche sulle violenze sovietiche, da Oggi, a Epoca, al Candido guareschiano, al Borghese di Longanesi. In molti casi, poi, l’area della destra intellettuale non riuscì neppure ad offrire un’interpretazione pienamente condivisa dei fatti. Basti pensare alla polemica tra Longanesi stesso e un suo autore di punta, inviato a seguire i fatti da vicino, Indro Montanelli. Quest’ultimo, firma di prestigio del Corriere della Sera inviato tra Vienna e Budapest in occasione delle sollevazioni, usò spesso la rivista longanesiana per esprimere posizioni meno controllate e legate alla cronaca di quanto stava accadendo a Budapest. Tuttavia, il giornalista di Fucecchio si rivelò pronto a smentire ogni semplicistico tentativo di etichettare in senso tradizionalista genuinamente filo-occidentale il complesso e variegato fronte dell’opposizione antisovietica attivo in Ungheria, giungendo fino alla rottura col direttore, più propenso a trovare senza contraddizioni nella rivolta la conferma della propria diffidenza anticomunista.

In generale, la ricezione degli sconvolgimenti del ’56 in Italia tra le voci più critiche nei confronti dell’esperienza comunista appare segnata dal fatto che il gioco politico si svolgeva ormai in larga misura su altri tavoli, specie dopo i risultati delle elezioni del 1953. Con essi, da un lato si vedeva consolidata la presenza sociale del PCI, ormai ineliminabile il suo ruolo di “opposizione istituzionale”. Dall’altro, la maggioranza di governo centrista era uscita da quel voto definitivamente indebolita, al punto che la sua classe dirigente doveva cercare nuovi spazi vitali: in questo termini si potevano spiegare tanto la maggiore autonoma della Democrazia cristiana dalla Chiesa con l’operazione di radicamento del partito messa in opera durante la leadership di Amintore Fanfani, quanto la trasformazione della pur persistente ostilità alla minaccia comunista nei termini positivi della crescente attenzione al Partito socialista liberato dalla zavorra del “frontismo”. Per queste ragioni il discorso anticomunista aveva perso centralità, ed era destinato a restare un “basso continuo” nel sottofondo del dibattito pubblico almeno fino alla crisi definitiva dei grandi partiti di massa e della loro capacità di aggregare e dirigere il consenso.




L’ALTRA ALLUVIONE

«Ognuno ricorderà come nei giorni dell’alluvione si facessero le cose che erano necessarie con l’unico criterio del fare subito, del fare presto, dell’intervenire immediatamente».

Dopo la devastazione che ha colpito il centro di Firenze fin dalle primissime ore del mattino, alle 5.00 a Lastra a Signa, i torrenti Rimaggio, Guardiana e Vingone, affluenti in riva sinistra dell’Arno, rompono gli argini e inondano Ponte a Signa, lungo via di Sotto, le zone di Stagno e Tripetetolo, oltre al centro storico, dove si registrano picchi di inondazione di cinque metri. Quasi contemporaneamente il Bisenzio rompe a San Piero a Ponti, per un tratto di circa ottanta metri, riversando le proprie acque su San Mauro a Signa e Campi Bisenzio. Poco dopo, alle prime luci dell’alba, sotto una pioggia ancora incessante, l’Ombrone Pistoiese rompe l’argine sinistro prima a Ponte a Tigliano, per un tratto di quasi cento metri, inondando la campagna meridionale di Prato (Tavola, Cascine Medicee di Tavola, Castelnuovo, San Giorgio a Colonica, Le Fontanelle) poi a Castelletti, nel comune di Signa. Unendosi a quelle del Bisenzio, le acque dell’Ombrone sommergono Lecore, Sant’Angelo (dove si registrerà una delle situazioni più difficili da gestire per il totale isolamento in cui la frazione si verrà a trovare) e Le Miccine. Più a ovest i torrenti Stella e Quadrelli sommergono Caserana e l’area della Querciola, nel comune di Quarrata, oltre a Valenzatico e Olmi. Il Fosso di Iolo e il Torrente Calice peggiorano la situazione pratese. Infine, l’Arno, rompe a San Donnino. Il reticolo è completamente collassato: l’Arno, è al massimo della sua portata, e i suoi due affluenti principali nella zona, Bisenzio e Ombrone, sono costretti a “tornare indietro” perché il fiume non riceve e così fanno gli affluenti minori e tutto il reticolo di canali e gore, causando rotte e tracimazioni. La tempesta perfetta.

s-mauro

San Mauro

A metà mattina il cielo si rischiara, tutto intorno un’unica, luccicante distesa d’acqua, a perdita d’occhio. Ma non si tratta di un “mare della tranquillità” bensì di un’inondazione senza precedenti, improvvisa e furibonda, che in alcuni punti ha raggiunto oltre cinque metri e spazzato via tutto ciò che ha trovato sul suo cammino: case, negozi, fondi artigianali, automobili, mezzi da lavoro, fattorie, animali. Chi abita in quelle zone è abituato alle piccole inondazioni, venti, trenta centimetri, ma nessuno si aspetta niente del genere e le precauzioni, quindi si sono limitate a paratoie alle porte e qualche suppellettile riparata sopra un tavolo o su un mobile. Tutto inutile.

La macchina dei soccorsi si organizza, spontanea, in ogni frazione colpita, e le testimonianze qui si assomigliano un po’ tutte: grande spirito di solidarietà, coraggio, intraprendenza: zattere di fortuna costruite con assi e bidoni, i cosiddetti “brusini”, per portare in salvo parenti, amici, vicini o far arrivare loro da mangiare. Beni di prima necessità, come acqua, pane e latte, per chi ha ancora la fortuna di averli, passati di casa in casa sui fili dei panni o con canne di bambù; mezzi privati a disposizione dei comuni, che in brevissimo tempo si organizzano in centri operativi (piccole unità di protezione civile ante litteram) di raccolta e smistamento di aiuti e interventi. Un’unica grande comunità riunita, oltre ogni distinzione culturale, sociale e politica, in un’unità d’intenti che non si vedeva, forse, dal secondo Dopoguerra. Gli aiuti organizzati arriveranno pochi giorni dopo e, fra i contadini che non erano mai stati al mare, in molti ricordano i patini di Viareggio, che vedevano per la prima volta.

In tutto questo va ricordata la straordinaria opera del Comune di Prato, “un’isola in un mare di disperazione”, come fu definita più volte nelle cronache di quei giorni, il cui centro rimase all’asciutto, sommersa la sua parte meridionale, prestata con grandissima generosità sul suo fronte cittadino e su tutti quelli circostanti, fino a Fiesole, Empoli, Castelfiorentino. Come scrisse il sindaco di Firenze Piero Bargellini in un telegramma al sindaco di Prato Giorgio Vestri del 21 novembre: “Firenze ancora col fango alla gola rivolge a lei e alla sua generosa città un primo fervido ringraziamento per l’opera di soccorso”.
Con il deflusso delle acque arrivò il grande problema della ripulitura dalla nafta e dal fango e l’amara constatazione che molto era irrimediabilmente perduto, soprattutto nelle zone agricole, che saranno in gran parte abbandonate a favore di piccola imprenditoria tessile e artigiana. Ma erano gli anni Sessanta e a Natale di quell’anno il peggio sembrava davvero già superato.

*estratto dal libro di Aurora Castellani “L’altra alluvione – Il 4 novembre 1966 a Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata” – Edizioni Medicea Firenze – www.edizionimediceafirenze.it

“L’altra alluvione” racconta, con materiale fotografico e documenti inediti, il 4 novembre 1966 fuori Firenze: Prato, Campi Bisenzio, Signa, Lastra a Signa e Quarrata. Una calamità quasi sconosciuta ma non meno dolorosa per chi subì la furia improvvisa di Arno, Bisenzio, Ombrone pistoiese e di molti torrenti, in molti casi perdendo tutto; di certo non lo spirito, il coraggio e la generosità. Si reagisce e ci si rimboccano subito le maniche per ripartire e aiutare parenti e amici, offrendo quel che si ha per distribuirlo ai meno fortunati. E i comuni, Prato in testa, si fanno trovare pronti ad accogliere questo grande slancio, la mobilitazione spontanea di una comunità intera che si riunisce per portare aiuto ovunque ci sia bisogno.

Aurora Castellani (Prato, 1980), editor e traduttrice, lavora nel mondo dell’editoria dal 2007, curando pubblicazioni di vario genere. È stata assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Vaiano dal 2009 al 2014 e attualmente è Presidente del Museo della Deportazione e Resistenza di Prato. Dal 2015 è direttore editoriale di Edizioni Medicea Firenze. Questo è il primo lavoro a sua firma, frutto di una lunga ricerca d’archivio e interviste inedite.




Terra e Lavoro

La nascita della prima organizzazione sindacale dei lavoratori della terra d’ispirazione socialista fu di difficile gestazione. Il periodico locale del partito, L’Avvenire, che fiancheggiava anche l’attività della neonata Camera del lavoro, fin dal 1902 tenne un’intensa campagna rivolta in particolare ai contadini mezzadri e fittavoli, ma senza risultati. Un’azione che nell’estate del 1906 si andò intensificando ed entrò in polemica con il giornale dei cattolici, La difesa religiosa e sociale, impegnati a loro volta nella costituzione delle leghe “bianche”. Tuttavia i tempi stavano maturando e verso la fine dell’autunno del 1906 nel paese di Ramini i contadini si resero disponibili a costituire una Lega. Nel gennaio del 1907 era già ben avviata ed alle riunioni partecipavano anche lavoratori di altre zone come Collina, Casale (o Casalguidi), Sant’Alessio. Nel giro di pochi mesi erano già costitute leghe anche nei paesi limitrofi di Casale, Cantagrillo, Masiano, ed in quelli sul lato opposto della piana di Sant’Alessio e  Valdibrana. A Vinacciano la lega nacque al termine di un comizio – secondo un tipico modus operandi – durante il quale si era verificato un contraddittorio tra i sindacalisti e il sindaco di Serravalle Pistoiese, che tentò di far interrompere l’adunata.

unspecified2Nel 1907 batteva le campagne Giovanni Martini, sempre presente come oratore in tutti i paesi in cui si costituirono le leghe ed anche in quelli dove l’organizzazione non riuscì a radicarsi, come Montale, in mano ai cattolici. Il suo Vademecum del contadino toscano si apriva con l’affermazione: «la scintilla della ribellione è finalmente penetrata». L’opuscolo conteneva le norme interne del sindacato ed elencava gli obiettivi rivendicativi, in primis il miglioramento dei contratti di mezzadria e affitto e la difesa  dei braccianti, che dovevano essere pagati in denaro e non in natura, ma anche l’istituzione di un ufficio di consulenza, di magazzini sociali dove comperare semi, attrezzi, concimi, solfato di rame ecc… e magazzini di deposito per i prodotti di parte contadina. Del sindacato potevano far parte i braccianti, i mezzadri, gli affittuari e come soci aggregati anche i coltivatori diretti. Il risultato di questo movimento, che più che in scioperi si risolse nella nascita e organizzazione delle leghe, fu un’immediata risposta padronale. Nel marzo 1907 questi costituirono una propria associazione con l’obbiettivo di riaffermare il patto mezzadrile, introducendo alcuni cambiamenti per sottrarre terreno ai socialisti attraverso un cauto riformismo.
Si assistette così nella primavera ad un confronto a distanza tra le proposte dei proprietari e quelle delle leghe, che non sfociò mai in un tavolo di trattativa. La prima mossa la fece il fronte padronale, appoggiato dalla Lega democratico nazionale – d’ispirazione cattolica –presentando nel maggio le norme per un nuovo patto colonico per fittavoli e mezzadri. La CdL le respinse, irridendone i contenuti limitati mentre lasciavano inalterati altri aspetti palesemente sproporzionati a favore del padrone, negando che si trattasse di una reale riforma. Soprattutto l’attacco investì il metodo, rendendo evidente che in gioco c’era anche il futuro delle relazioni sindacali e più in generale della democrazia. L’Avvenire commentava infatti la “comunicazione” del patto senza mezzi termini: «Non avendo poi interpellato la Camera del Lavoro e le leghe dei contadini,[l’associazione dei proprietari] ha voluto escludere ogni diritto di ingerenza nelle loro vedute e di discussione dei loro deliberati alla classe dei contadini: ha voluto sottrarsi al controllo dell’organizzazione lasciando arbitri i proprietari di fare ciò che desiderano». Al progetto dei proprietari le leghe risposero con una mobilitazione e con una propria proposta, entrambe fatte partire da Ramini.

Il 12 maggio nel paese si tenne un comizio, con la partecipazione delle leghe dei paesi vicini di Vinacciano, Masiano, Cantagrillo e Casale, al termine del quale fu approvata una piattaforma con una serie di richieste di cambiamento del patto colonico, che rientrava nel solco delle tipiche rivendicazioni mezzadrili d’inizio ‘900, senza discostarsi dall’approccio riformistico mirante ad ottenere miglioramenti immediatamente godibili e verificabili. Che in quel momento la dirigenza del movimento sindacale socialista dei contadini a Pistoia fosse in mano ai riformisti è testimoniato anche da un altro fatto. Nelle zone di Gabbiano, Vinacciano e Collina alcuni contadini avrebbero voluto dare un colpo di acceleratore alla protesta, abbandonando le necessarie operazioni di ramatura delle piante e alzando il livello delle richieste, ma vennero convinti a desistere, a non precipitare gli eventi e ad attendere con pazienza gli sviluppi della situazione. La linea era quella della trattativa, dura ma proiettata verso un esito che si riteneva fattibile, come nel caso della mobilitazione – portata ad esempio – di una quarantina di braccianti che, entrati in sciopero, riuscirono a chiuderlo positivamente. Probabilmente i dirigenti erano anche dell’idea che il movimento mezzadrile non fosse ancora abbastanza forte da sostenere l’organizzazione di uno sciopero e il suo impatto, e scelsero una linea mobilitativa basata su manifestazioni meno impegnative, ma capaci di essere portate a termine da un’organizzazione giovane e debole.
unspecified3Non a caso il passo successivo non fu il lancio di uno sciopero per ottenere l’accettazione del memoriale di Ramini, ma l’organizzazione di una manifestazione nella forma del comizio. Si tenne il 30 maggio al Politeama Mabellini di Pistoia, con l’intervento di tutte le leghe contadine e l’invito a partecipare anche ai contadini non organizzati. Per L’Avvenire alla manifestazione parteciparono circa 1.000 persone. Alla fine fu approvato un OdG che dava mandato ai Consigli delle leghe di eleggere una Commissione che insieme alla Commissione esecutiva della CdL predisponesse una piattaforma da discutere poi con i singoli proprietari. Questo primo confronto tra le organizzazioni padronali e le neonate strutture sindacali contadine dei socialisti restò confinato al dibattito pubblico, non verificandosi atti di scontro più rilevanti da ambo le parti, e cioè senza disdette ai contadini da parte dei concedenti e senza scioperi. Non ci furono nemmeno risultati apprezzabili, rimanendo di fatto lettera morta i due progetti di riforma, senza nessun confronto o accordo tra le parti, che continuavano a confrontarsi a distanza. Anche gli organi dello Stato restarono a guardare, mentre le amministrazioni locali, guidate da ceti legati alla proprietà agricola, non intervennero nel merito. In pratica l’applicazione dell’uno o dell’altro progetto di riforma veniva lasciata al confronto diretto tra singoli proprietari e contadini, e non ci fu nemmeno per questa via nessun accordo di rilievo. La questione però era posta, e continuò a tener vivo il dibattito e una certa agitazione tra i contadini anche negli anni immediatamente successivi.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.