La protesta delle donne contro la guerra

Durante l’intero periodo bellico, in tutta l’Europa continentale si registrarono fenomeni di opposizione al conflitto; tuttavia, per intensità e frequenza le proteste in Italia evocano gli scenari della Russia che tanto scossero la classe politica nazionale del tempo. Nell’estate 1917, infatti, la vicenda russa costituì un vero e proprio spettro per le autorità italiane. Le ‘terribili’ proteste furono spesso avvertite dai prefetti del Regno come il prologo di una rivoluzione o di gravi sconquassi che di lì a poco avrebbero condotto a uno sconvolgimento del paese. Il prefetto di Pisa non fece eccezione rispetto a queste sentire diffuso. Il giorno prima dell’inizio della famosa rivolta di Torino (22 agosto 1917), aveva scritto al ministero dell’interno una relazione in cui denunciava che da mesi in provincia si verificavano praticamente ogni giorno dimostrazioni di donne contro la guerra. Pur non avendo un quadro nitido delle dinamiche nazionali, riteneva che le dimostrazioni fossero «coordinate ad un unico scopo […] d’impressionare e premere sul Governo centrale pel pronto raggiungimento di una pace qualsiasi». Tuttavia, continuava, non era da escludersi che servissero «di allenamento alle masse per la loro partecipazione ad un eventuale movimento generale rivoluzionario». In questo senso, ammoniva il ministero dell’esistenza di un piano regionale per «la proclamazione di uno sciopero generale con finalità rivoluzionarie». In realtà non solo lo sciopero generale non si verificò, ma di lì a poco la lunga stagione delle proteste del 1917 si sarebbe esaurita anche nella provincia pisana.

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Documeno che attesta la mobilitazione di 1360 operaie degli stabilimenti Pontecorvo (27 luglio 1917, Archivio Centrale dello Stato)

Il prefetto Gaspare Focaccetti non esagerava quando lamentava la reiterazione pressoché quotidiana di forme protestatarie anche se la parabola fu contrassegnata da due cicli di particolare intensità che si verificarono l’uno tra il dicembre 1916 e il marzo 1917 e l’altro in estate. In sintonia con il resto del paese, con le offerte di pace avanzate dal cancelliere tedesco al pontefice (12 dicembre 1916), nel territorio pisano si aprì una stagione densa di lotte intraprese da donne appartenenti alle classi popolari. L’epicentro delle proteste fu la bassa valle dell’Arno (Pisa, San Giuliano, Cascina e Pontedera), dove si concentrava la produzione tessile che rappresentava il più importante comparto industriale di una provincia dotata di un forte settore secondario anche per la presenza di Piombino, nei suoi confini fino al 1925. Il ciclo fu inaugurato dalle operaie tessili degli stabilimenti cotonieri Pontecorvo che, dislocati tra il capoluogo e San Giuliano, contavano 2.420 unità costituite quasi per intero da manodopera femminile. Nella stagione giolittiana, le tessitrici della Pontecorvo avevano rappresentato un soggetto chiave della mobilitazione popolare economica e politica con profondi addentellati con l’anarchismo locale; mentre nei mesi della neutralità, si erano affacciate prepotentemente sulla scena nel corso dei principali appuntamenti contro la guerra. A conferma del dato nazionale sull’elevatissima combattività del settore,  tra il 14 e il 17 dicembre 1916,  le operaie della Pontecorvo, ma non solo, paralizzarono il capoluogo. La pubblicazione sui giornali della profferta tedesca indusse le operaie appena uscite dagli stabilimenti a organizzare una dimostrazione «al grido di abbasso la guerra-vogliamo la pace» in piazza Vittorio Emanuele II, dove il 21 febbraio 1915 si era svolto l’evento cruciale del ciclo di manifestazioni neutraliste. L’intervento della forza pubblica provocò l’arresto di 4 persone, tra cui un’operaia. Il giorno dopo la situazione degenerò: «le operaie di quasi tutti gli stabilimenti più importanti […], in numero di oltre tremila, accentuarono la loro agitazione contro la guerra, e la maggioranza di esse non solo abbandonava il lavoro ma cercava di provocare uno sciopero generale». Ne seguì la militarizzazione della città con violenti scontri, la repressione di forme di radicalizzazione della solidarietà operaia verso l’arrestata,  la conseguente carcerazione per altre donne e lo sgombero di forza dei dimostranti per la pace giunti al Lungarno Mediceo. Tuttavia, al cambio di turno, lo sciopero si riaccese in quasi tutti gli stabilimenti, mentre il 17 a sostegno delle arrestate «le operaie si astennero quasi tutte dal riprendere il lavoro». Trascorsa tranquilla la domenica, il 18 restava in piedi la protesta di una fabbrica Pontecorvo dislocata nel comune di San Giuliano. Il protagonismo di queste lavoratrici risulta tanto più significativo se si tiene conto che donne e uomini della famiglia Pontecorvo erano campioni della prima ora nell’attivismo patriottico e guidavano i comitati di mobilitazione civile del capoluogo; inoltre le fabbriche Pontecorvo, nel quadro della mobilitazione industriale, rientravano nel novero delle ausiliarie dal dicembre 1915. Né la militarizzazione di questi stabilimenti, né il recentissimo decreto di ampliamento del ventaglio repressivo avevano agito da deterrente.

La vicenda cittadina rimase un unicum nel panorama industriale locale. Piombino e i suoi stabilimenti siderurgici non offrirono esempi simili anche se va detto che le sue vicende  meritano una trattazione a parte, considerato che proprio in dicembre il comune «fuori legge» amministrato dai socialisti era dato per spacciato dal sottoprefetto. L’unica altra astensione dal lavoro di opifici di importanti proporzioni si verificò a Pontedera nel febbraio 1917, ma ebbe breve durata anche per il durissimo intervento delle autorità. Il 2 febbraio una dozzina di donne della frazione La Rotta, insieme ad alcuni sovversivi, convinsero le lavoranti delle 2 maggiori fabbriche tessili e dell’impresa alimentare Crastan a lasciare il lavoro e a recarsi al municipio. Il tentativo di invaderlo al grido di «abbasso la guerra, vogliamo i nostri mariti a casa» fu all’origine di colluttazioni con carabinieri e militari. Di fronte al dilagare della violenza si ricorse alla militarizzazione e alla denuncia di 75 persone. La durezza della reazione paralizzò la città e non si verificarono altri scioperi industriali. Di questi ultimi non si ha traccia in altri comuni; in altre aree calde come il volterrano e la costa tirrenica le dimostrazioni assunsero fisionomie diverse. In gennaio, nella zona estrattiva di Volterra e nel distante borgo di Sassetta il rifiuto di riscuotere i sussidi, che rappresentava una modalità di protesta diffusa nel centro-nord, approdò in rivolte ad altissima partecipazione destinate a sfregiare i luoghi e le persone della dirigenza municipale interventista e della mobilitazione civile, che spesso in Toscana coincidevano. “Contagiate” da Volterra, il 18 gennaio circa duecento donne di Montecatini Val di Cecina riuscirono ad accreditare presso il sindaco una loro rappresentanza femminile che avanzò richieste per il ritorno degli uomini e per l’adozione di provvedimenti economici, riuscendo ad ottenere qualche miglioramento sotto il profilo distributivo. Un mese dopo, nell’area della costa retrostante Livorno, le modalità di pressione sui poteri locali assunsero tratti differenti, ma non meno significativi. Di fronte alle dimostrazioni per la pace, a Fauglia il sindaco formulò la falsa promessa di inviare un telegramma al ministero a nome delle donne per fermare il conflitto. Una parte di esse si convinse a riproporre questo esempio persuasivo a Collesalvetti. Se si eccettua  Montecatini, in tutti questi casi la repressione fu ancora una volta durissima.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La relativa calma che seguì al mese di marzo fu interrotta in luglio. Anche il ciclo di luglio è caratterizzato da una concentrazione di eventi nella bassa Valle dell’Arno lungo l’asse Pisa-Pontedera, spesso attivati dal malcontento per l’aumento del prezzo del pane. A differenza della fase antecedente, si registra una parabola temporale inversa rispetto a Pisa, che chiude il mese caldo aperto da Cascina. In quest’ultimo comune, dove forte era la presenza di fabbriche alimentari e dell’industria rurale tessile a domicilio, il 17 e il 21 luglio si registrarono le agitazioni di centinaia di donne per il pane e la pace, che seguirono la direttrice dell’attacco alla fabbrica di proiettili Cecchetti, da poco fornitrice del Ministero delle armi e delle munizioni. Almeno una parte delle stesse donne, il 20 e il 21 si concentrò su un altro opificio di proiettili nella vicina Calcinaia. Nei giorni seguenti, inoltre, la cintura di Cascina fu attraversata da un’ondata di protesta variegata con epicentro a Vicopisano. Al contempo, lungo la traiettoria tirrenica e in prossimità di Pisa si consumavano episodi simili e altrettanto partecipati. Piombino, Castellina Marittima, Castagneto Carducci furono teatro di rivolte che si andarono a sommare alla vertenza dei coloni campigliesi in atto da tempo. L’apogeo delle agitazioni si toccò però a Pisa. Il 26 e 27 luglio le tessitrici di tutti e tre gli stabilimenti Pontecorvo e quelle della Pitigliani e Cameo, la seconda fabbrica tessile cittadina per occupati, iniziarono uno sciopero per il salario sfociato in rivendicazioni di pace. L’alto numero delle partecipanti e alcune informative lasciarono temere che si trattasse di un appuntamento in vista di uno sciopero generale. In realtà la città tacque, anche in virtù delle misure preventive, mentre in agosto fu l’area delle colline pisane a infiammarsi con le agitazioni di centinaia di donne di campagna a Terricciola, Chianni, Peccioli e Buti. In quest’ultimo borgo, in due giorni consecutivi (15-16 agosto), si ripeterono dimostrazioni pro-pace con numeri incredibili rispetto al totale della popolazione.

Con la discesa in piazza delle campagne nessuna area provinciale si prospettava immune da movimenti contestativi. I tempi, la geografia, la diffusione degli avvenimenti e la ripresa delle forze politiche regionali allarmarono a tal punto le autorità locali da convincerle, come accennato, dell’esistenza di un piano rivoluzionario. Le agitazioni invece quasi si arrestarono dopo le proteste di Buti. La campagna chiuse la calda stagione del 1917 ben prima di Caporetto. All’epilogo contribuirono probabilmente il giro di vite repressivo locale e nazionale, la crescita dei poteri dei comitati regionali della mobilitazione industriale e la legislazione speciale di pubblica sicurezza. Peraltro, un certo miglioramento economico nelle industrie e lo svuotamento delle speranze in una prossima fine dovettero allo stesso tempo deprimere lo spirito generale. Il riaccendersi dell’insofferenza si sarebbe verificato in inverno, ma con modalità diverse anche in virtù delle nuove norme repressive e del clima post Caporetto.

 *Emanuela Minuto è ricercatrice di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa.

Articolo pubblicato nel novembre del 2017.




“Volevamo chiamarti Angelita”

“Volevamo chiamarti Angelita” è una vecchia canzone dimenticata degli anni Sessanta. Parla di una bambina dai capelli biondi adottata dai soldati brasiliani sbarcati ad Anzio. Li accompagna nell’esplorazione della città  laziale tenendo in mano delle conchiglie piene di sabbia per poi morire cadendo vittima della reazione tedesca. Ad Anzio la storia di Angelita, che tutti ritengono vera, è ricordata da un monumento rappresentante una bambina che alza le mani in un volo di gabbiani.

Monumento ad Angelita ad Anzio

Monumento ad Angelita ad Anzio

Anche la montagna pistoiese ha un monumento che ricorda una ragazza, Graziella, uccisa dai tedeschi in ritirata davanti agli Alleati, quando ormai erano già  passate alcune settimane dalla liberazione di Pistoia, avvenuta l’8 settembre 1944.

Graziella Fanti oggi è una lapide nel piccolo giardino pubblico delle Piastre, una località  celebre per il campionato della Bugia, posta sulla strada granducale che conduce alle piste dell’Abetone e nei pressi della quale nel 1944 scorreva la linea Gotica, zona di combattimenti che, come afferma il Sac. Vasco Lorenzini causarono la morte di quattro persone della parrocchia e di tre sfollate.

Graziella Fanti era nata il 21 dicembre del 1927 e quindi il 21 settembre 1944 era una ragazza di 17 anni dalle trecce bionde e dallo sguardo un po’ malinconico. Era una “bastarda”, una figlia della colpa, perché Bruna, sua madre, donna di servizio presso alcuni nobili che villeggiavano alle Piastre, era rimasta incinta ventenne e senza essere sposata. Qualcuno diceva che il padre di Graziella fosse il padrone di casa, altri che fosse un uomo di Roma, altri ancora, come la testimone Miranda Pisaneschi, sostengono che questi fosse emigrato in Francia e che tornò in Italia solo a guerra finita.

La madre e la figlia vivevano presso le Piastre in località  detta il “Brocco” con un uomo, separato dalla moglie, che si prendeva cura di loro. Bruna e il patrigno erano comunisti e non frequentavano la parrocchia. Per la mentalità  dell’epoca essere comunisti e conviventi portava ad essere malvisti ed esclusi dalla piccola e tradizionale comunità locale. Pare che fosse negata loro anche la benedizione pasquale.

Erano sfollati lontano dalle Piastre presso il paesino di Le Forri e abitavano in una capanna di fango e paglia vicino al ruscello. La ragazza aveva alcune amiche in località  “Il Casone di sotto”, sempre nei pressi delle Piastre.

Il 21 settembre 1944 Graziella si recò al ruscello nel folto del bosco, come faceva ogni giorno probabilmente, al fosso dei Gambioni nei pressi delle Forri, a lavare i panni. Si credeva al sicuro, lontana dalla soldataglia tedesca che aveva il suo quartier generale a Cassarese, sulla strada che dalle Piastre conduce a Casamarconi.

Non portava conchiglie in mano come Angelita, ma del sapone e un cesto di vimini. Cantava, Graziella, per dimenticare la cattiveria della gente e la guerra. La sua voce, probabilmente, fu udita da alcuni soldati tedeschi, pare tre, innervositi dalle cattive notizie sull’andamento della guerra. Si era chinata sul ruscello, i panni stesi intorno. Forse aveva accanto a se gli abiti del patrigno. Probabilmente più che la bellezza della ragazza furono questi ad attirare i sospetti dei nazisti. Forse questi ipotizzarono che la ragazza collaborasse con i partigiani lavando loro i panni.

Graziella fece in tempo a vedere i soldati avvicinarsi e impaurita tentò di fuggire, ma i colpi sparati vigliaccamente da questi la raggiungero alle spalle mentre chiamava la madre. Si dice che i tedeschi allontanandosi imitassero stupidamente le sue parole “Mama, mama”. Sulla fine di Graziella esistono diverse versioni: alcuni testimoni affermano che morì sul colpo, altri che mani pietose la portarono morente in un fienile nei pressi delle Forri dove spirò.

Graziella, sola in vita, rimase, purtroppo, sola anche da morta. Nessuno nel paese reclamò il corpo, nè la chiesa, nè i partigiani. Solo dieci giorni dopo un uomo di nome Lido prese il corpo coperto di sangue per darle una sepoltura.

foto 3Finita la guerra la madre fece porre sulla tomba nel cimitero delle Piastre una lapide bianca con su scritto “uccisa dalla barbarie nazista”. Sulla lapide la foto della ragazza, le trecce bionde, lo sguardo malinconico.

Passarono gli anni e il mondo si dimenticò di Graziella.

Nel 1974 a Treviso è in corso uno dei primi convegni di agricoltura biodinamica. Un uomo, un archelogo, si presenta a Ivo Beni presidente allora dell’Associazione Biodinamica Italiana con un sacchetto di chicchi di grani trovati in una tomba egizia. Gli consegna i chicchi con la promessa che se questi avessero prodotto del grano si sarebbe dovuto chiamare con il nome della figlia morta in guerra tanti anni prima: Graziella. Consegnati i chicchi l’uomo se ne va senza rivelare il proprio nome.

I chicchi vengono seminati e in capo a qualche anno il miracolo si compie. Da quei pochi chicchi oggi si produce un grano che porta il nome di una ragazza uccisa dalla barbarie nazista settanta anni fa. Non sapendo qual era il cognome del padre della ragazza si è provveduto ad attribuire una ulteriore denominazione facendo riferimento al nome del Sole, Ra, nella religione egizia.

Quel grano, frutto di un pugno di antichi chicchi e un piccolo monumento nel parco di un paesino di montagna, ricordano oggi una ragazza per troppo tempo dimenticata perché come dice Chita Banerjee Divakaruni “Finché esisterà  del pane fresco, le cose non potranno guastarsi in maniera irreparabile”.

Articolo pubblicato nell’ottobre 2017.




Abbasso la guerra, viva la rivoluzione!

Questa breve nota storica comincia da venticinque anni dopo i fatti che ne sono l’oggetto. Frugando fra i documenti del Casellario Politico Centrale del periodo fascista mi capitò di incontrare, ormai diverso tempo fa, il nome di Natalina Barbieri, arrestata a Siena nel 1942 perché in una salumeria, mentre “la proprietaria del negozio affettava il salame, si permise di fare delle odiose e sboccate allusioni dicendo: vorrei affettare la fava di Mussolini”. Frase che – forse la spia fu la salumiera, forse un’altra cliente – le costò la condanna al confino. Nella sua scheda, oltre alle consuete, nelle relazioni del Casellario, notizie denigratorie – vedova di guerra unita more uxorio con un sovversivo, dedita al vino, sboccata – lessi anche che nel 1917, poco prima di venire a trovarsi in stato di vedovanza – il marito sarebbe morto in Albania nel 1918 –, aveva partecipato, a Sinalunga dove era nata nel 1889 e dove allora risiedeva, ad una manifestazione piuttosto burrascosa. Era un indizio che confermava che alcune proteste contro la guerra, di cui si aveva, fino ad allora, soltanto vaga e frammentaria memoria, si arano verificate anche nel territorio senese. Magari in forma meno estesa ed eclatante che in altre zone della Toscana, ma pur sempre significativa.

In seguito, grazie agli studi preparatori della mostra “Fotografi in trincea. La Grande Guerra negli occhi dei soldati senesi” (2016), curata da Gabriele Maccianti, venne individuato, all’Archivio Centrale dello Stato, un fascicolo che ha consentito una ricostruzione finalmente più puntuale e ha innescato la possibilità di altre ricerche negli archivi comunali e giudiziari.

Oggi è dunque possibile raccontare, anche con una certa dovizia di particolari, le manifestazioni che si verificarono in due distinte zone della provincia di Siena, il Chianti (Radda 7 maggio; Gaiole 8 maggio) e la Val di Chiana (Sinalunga 6 gennaio; Montepulciano e Chiusi 6 agosto), nel contesto più ampio di gesti individuali e di parole contro la guerra il cui moltiplicarsi, proprio nel corso del 1917, è attestato dal notevole aumento delle denunce e dei processi contro chi si comportava in modo tale da “deprimere lo spirito pubblico e altrimenti diminuire la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione interna internazionale dello Stato”.

A Sinalunga furono circa trecento le donne e i ragazzi che, dalle campagna circostanti, si diressero in paese aggregando man mano una folla di un migliaio di persone. I carabinieri chiesero rinforzi, ma sorpresi dall’evento di cui non avevano avuto sentore, furono nell’impossibilità di disperdere la manifestazione, durante la quale vennero lanciati sassi che infransero i vetri di alcuni uffici pubblici e delle case del sindaco e di altri amministratori comunali. Meno violenta, ma comunque intensa risultò la protesta di fronte al municipio di Chiusi durante la quale fu deciso di rifiutare il sussidio statale spettante ai parenti dei richiamati, come atto di insubordinazione verso uno strumento che sembrava voler favorire la prosecuzione del conflitto. Alla periferia del centro abitato di Montepulciano furono invece fermate, ma non senza tafferugli, le donne provenienti da Acquaviva e da Abbadia, quest’ultima località già teatro, nell’agosto del 1916, di un assembramento di fronte alla villa di un possidente per chiedere che il prezzo del grano non venisse aumentato, assembramento conclusosi in una sassaiola per l’intervento troppo rude di un fattore verso le manifestanti. Sempre nella zona fra Acquaviva e Abbadia di Montepulciano, nel medesimo periodo venne lanciato un appello clandestino alle famiglie mezzadrili affinché si rifiutassero di seminare il tabacco perché sottraeva terreno e forza lavoro alle colture alimentari tanto più indispensabili nella penuria del tempo di guerra, iniziativa che, accompagnata da due incendi dolosi, preoccupò molto i grandi proprietari terrieri e le autorità.

Chiara è la matrice sociale e di genere di questi sommovimenti, così come confermato anche dagli elenchi degli arrestati, composti per la stragrande maggioranza da nomi di donne, quasi tutte salariate agricole, qualcuna mezzadra, qualche altra “dedita alla casa”. Più difficile dirimere il rapporto fra spontaneità e organizzazione. Indubbiamente i disagi e i lutti causati da un conflitto di cui, nonostante le offerte dei pace degli Imperi Centrali di fine 1916, non si intravedeva il termine, la certezza che ogni giorno in più di combattimenti avrebbe causato chi sa quanti ulteriori morti e feriti, i vuoti affettivi delle assenze, i racconti delle sofferenze, dei rischi, delle insensatezze di tante azioni militari al fronte fatti da quanti tornavano in licenza, ne costituirono la base materiale e psicologica. La sola richiesta di riavere vivi ed integri i mariti, figli, fratelli era di per sé un possente elemento di comunità di intento avverso al conflitto e al suo perdurare, senza il bisogno di troppi indirizzi e indottrinamenti politici. Ma almeno in Val di Chiana – più incerta è la valutazione nel Chianti, dove forse andrebbe studiata con molta attenzione la presenza di un clero orientato dal vescovo di Arezzo che fu, in Toscana, fra i più ostili al conflitto – traspare una regia di matrice socialista.

Traspare nelle convocazioni effettuate non solo con il passaparola, ma anche con i manifesti, traspare nel fatto che l’epicentro del movimento furono le località in cui il socialismo, con le sue strutture organizzate e le sue sedi, era più radicato, traspare in obiettivi quali il rifiuto del sussidio o in parole d’ordine esplicite come quella annotata nella sentenza che condannò le donne di Abbadia di Montepulciano per i fatti del 1916, e cioè “abbasso la guerra, vogliamo la pace, viva la rivoluzione”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2017.




Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane

La ricerca in archivi pubblici e privati ha confermato un dato già acquisito da ricercatori e ricercatrici, che si sono cimentati con la storia delle donne: l’agire femminile, pur registrato in questi luoghi, non ha lasciato solchi profondi, ma lievi tracce; prezioso risulta l’Archivio fotografico F.lli Gori, dal quale emergono le immagini dell’impegno femminile nei primi venti anni dell’età Repubblicana. La parte più debole della documentazione di questa mostra virtuale è quella relativa all’attività delle donne cattoliche in ragione di una produzione minore, ma anche per una forte dispersione. In parte il vuoto è stato coperto dalla stampa cattolica conservata presso la redazione grossetana di “Toscana Oggi”, i settimanali “Vita Nuova” e “Rinnovamento”, che copre quasi tutti gli anni Settanta. Nuovi possibili ritrovamenti potranno venire dal futuro riordino dell’Archivio Provinciale della Democrazia Cristiana.

I materiali sono stati organizzati seguendo due criteri fondamentali intrecciati tra loro: quello cronologico e quello tematico. Alla prima selezione “oggettiva”, avvenuta in sede di conservazione delle fonti, si è aggiunta la scelta di chi ha curato la mostra, orientata dall’esigenza di offrire l’opportunità di una lettura diretta dei documenti. Le introduzioni che precedono le sezioni, infatti, vogliono essere una semplice e breve guida alla lettura dei documenti, senza gli appesantimenti di commenti analitici o chiavi di lettura, con il preciso obiettivo di lasciare aperta la possibilità di costruire percorsi e relazioni, sia per chi ha interessi di ricerca, sia per chi si avvicina ai documenti per semplice interesse conoscitivo, sia per chi vi ritrova tracce della realtà sociale di cui è stato/a testimone e/o protagonista.

Le sezioni in cui è suddivisa la mostra rispondono tematicamente e cronologicamente ad una periodizzazione generalmente accolta, che ha suggerito di accorpare quello che rientra nell’ambito del periodo della guerra e del lungo dopoguerra, cui seguono le fasi storiche usualmente definite come dell’“emancipazione” e dei “movimenti”. La prospettiva di accessibilità di nuovi archivi pubblici e l’ipotesi di sollecitare qualche curiosità, e dunque il reperimento di nuovi documenti e memorie, conforta l’attesa di ulteriori sviluppi nella ricerca.

 

ANNI QUARANTA E LUNGO DOPOGUERRA

I fili conduttori che legano l’attività dei movimenti femminili grossetani in un periodo critico come quello che va dal passaggio del fronte – che nel territorio grossetano avvenne nel giugno del 1944 – agli inizi degli anni Cinquanta, sono la ricerca di nuove modalità di partecipazione alla sfera pubblica e l’urgenza di far fronte alle necessità scaturite dal periodo bellico, le cui problematiche si protrassero in quello che abbiamo definito “lungo dopoguerra”.

Inizia “l’apprendistato politico” delle donne, sia con la partecipazione alle organizzazioni dei rinati partiti, sia con la partecipazione ai primi Consigli e alle prime Giunte comunali. Ben pochi, però, sono i documenti che testimoniano i primi passi dell’agire politico: qualche relazione di organizzazione dei partiti della sinistra, qualche foto di manifestazioni della Federterra, a testimonianza che la condizione delle donne contadine inizia a farsi sentire in tutta la sua gravità. La maggior parte della documentazione e delle fotografie qui raccolte testimoniano, da un lato, il ruolo giocato dalle organizzazioni femminili – cattoliche e di sinistra – nell’individuazione dei bisogni della popolazione (povertà, emergenza profughi, educazione dei fanciulli, assistenza agli anziani…); dall’altro, le risposte delle Istituzioni per far fronte a tali necessità.

Quello che emerge in tutta evidenza è il tentativo da parte di soggetti femminili di trovare un ruolo, una collocazione politica e sociale in una società dapprima violentata da venti anni di dittatura e dalla guerra, successivamente entrata in una fase di rapida e convulsa trasformazione, cui si doveva far fronte con spirito di adattamento e prontezza nel trovare soluzioni ai problemi della quotidianità. Siamo ancora molto lontani dai temi della specificità femminile, che esploderanno negli anni Settanta. L’agire insieme e l’apparire in pubblico si concretizzeranno ancora per molti anni soprattutto in termini di supporto alla “politica maschile” o di assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli.

Molteplici sono le formazioni cui partecipano le donne. L’Unione donne italiane (UDI) nasce a Roma il 12 settembre 1944 col proposito di rappresentare tutte le donne che si riconoscevano nel valore dell’antifascismo. In breve, tuttavia, si separarono le donne cattoliche, con la fondazione di una nuova associazione nell’ottobre 1944: il Centro Femminile Italiano (CIF). Sebbene distanti in quanto a riferimenti politici – partiti della sinistra, da una parte, e Democrazia Cristiana, dall’altra – sul piano concreto le due associazioni seppero ben presto trovare forme di collaborazione e, qui come altrove, allentare il vincolo – si badi bene, non scioglierlo – che le legava ai partiti per sperimentare nuove forme di partecipazione alla sfera pubblica.

Accanto alle due organizzazioni di massa delle donne, un insieme di formazioni, dall’Azione cattolica alle Dame della Carità, dalla Croce Rossa alle Commissioni femminili di partiti.

 

ANNI CINQUANTA-SESSANTA

Nella Grosseto degli anni Cinquanta-Sessanta, il settore dell’assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli rimane terreno femminile (le motivazioni, legate ai ruoli tradizionali, sono facilmente comprensibili), ma in qualche misura questa primazia è lentamente scalzata dall’organizzazione statale degli aiuti, che a Grosseto è particolarmente efficace.

Gli spazi occupati dalle donne si allargano con l’espansione del lavoro extradomestico ma parallelamente si ridefiniscono – restringendosi – sul terreno del “pubblico”. Questo arretramento è evidente se si guarda a due fenomeni: la riduzione delle presenze femminili nelle Giunte e nei Consigli comunali, quando sarebbe stato lecito aspettarsi che al primo apprendistato politico seguisse un consolidamento dell’esperienza e dunque una sua espansione; la simultanea presenza di donne in più di una formazione, tant’è che nei partiti, nelle Istituzioni, nelle associazioni e nei sindacati si trovano sempre i nomi delle stesse poche, pochissime donne.

Se tra la seconda metà degli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta la trasformazione della realtà sociale aveva spinto le donne a ricercare un ruolo pubblico – che fosse in politica o nella società civile -, adesso i problemi delle migrazioni, dell’urbanizzazione, della ridefinizione dei rapporti economici e sociali nelle campagne, dell’apogeo e della crisi dell’industria mineraria, sembrano restringere le possibilità di una partecipazione effettiva nell’indirizzare i cambiamenti. Da qui un’uscita graduale di molte donne dagli spazi faticosamente conquistati.

Il caso dell’UDI è forse quello più emblematico: dai 38 circoli intorno alla metà degli anni Cinquanta (di cui 18 di “Amiche della miniera”) scivola lentamente ma progressivamente alla fine degli anni Sessanta in una profonda crisi di partecipazione, tant’è che si dovranno aspettare i primi anni Settanta per un ripresa effettiva delle attività con una vera e propria rifondazione dell’associazione.

Il tema del lavoro si afferma come terreno di lotta e rivendicazione femminile. Se la frequentazione di indirizzi scolastici tradizionalmente ritenuti alieni alle donne aprirà via via nuove possibilità di impiego e quindi di rivendicazione in termini di riconoscimento sociale e retributivo, gli anni Cinquanta si caratterizzano ancora per lotte sindacali a fianco degli uomini.

Simbolico e periodizzante sembra essere il 1954. A maggio lo scoppio della miniera di Ribolla travolge le vite di 43 minatori e crea una frattura insanabile nel movimento femminile che, organizzato nell’associazione “Le Amiche della miniera”, ha lottato a fianco dei mariti, fratelli, figli minatori contro la Montecatini. Il movimento si spezza sulla questione delle vedove dei minatori che accettano il risarcimento della Montecatini, cessando di essere parte civile nel processo. La scelta delle vedove fu valutata all’epoca come un tradimento, il fallimento di un intero paese, che dopo anni di lotte aveva perso l’opportunità di inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità.

Sempre nel 1954, ma ad ottobre, si organizza la conferenza delle donne assegnatarie della Maremma, volta alla preparazione del congresso nazionale a Foggia, che ha all’ordine del giorno la stesura della “Carta della donna assegnataria”. Per comprenderne le reali esigenze il sindacato coinvolge in questionari e inchieste le assegnatarie, che prendono mano a mano coscienza della necessità di muoversi unite per la rivendicazione dei loro diritti. Ne seguirà uno scontro con la dirigenza dell’Ente Maremma.

Iniziano a farsi strada negli anni Sessanta lotte che investono direttamente il lavoro femminile, con un forte coinvolgimento dell’UDI nelle battaglie per la regolamentazione del lavoro a domicilio, determinante perché integrativo del reddito familiare, ma anche suscettibile di forte sfruttamento.

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ANNI SETTANTA

 Gli anni Settanta soffrono della difficoltà di poter raffigurare in un quadro completo e coerente le mille sfaccettature della “stagione dei movimenti”. Una costellazione di organizzazioni attive nel territorio, da quelle ormai strutturate – come CIF e UDI, organizzazioni cattoliche, sindacali e partitiche – a quelle di nuova costituzione – Collettivo femminista, Collettivo di studentesse, Comitato permanente delle donne per il consultorio, gruppi dei movimenti extraparlamentari –, mette a dura prova il compito dello storico nel dipanare i fili delle iniziative e dell’impegno civile, sociale e politico femminile. Con rammarico abbiamo dovuto selezionare solo alcuni dei temi, tralasciandone altri, seppur importanti.

Gli anni Settanta sono il decennio dell’espansione del dibattito sulle forme di gestione sociale: dall’istituzione dei nidi alla necessità di qualificazione del personale, dall’avvio sperimentale del decentramento attraverso i Consigli di quartiere all’istituzione del Consultorio comunale. L’introduzione degli organi collegiali nella scuola, inoltre, contribuisce a far concentrare l’attenzione sui temi dell’educazione. Perdono di vigore le battaglie per il lavoro; i temi caldi – che vedranno l’agire femminile in parte su fronti opposti, in parte in battaglie comuni – diventano sessualità, contraccezione, maternità consapevole, gestione degli asili nido, preparazione psicopedagogica al parto, consultorio, nuovo diritto di famiglia.

La ripresa delle attività del CIF, che dal finire degli anni Sessanta vive una breve stagione di “riflusso”, si ha con il congresso provinciale del 1974; è un sacerdote, Don Franco Cencioni, a guidare il “rilancio” dell’associazione, che si confronterà sempre più spesso con temi delicati: il nuovo diritto di famiglia, le implicazioni rispetto ai ruoli tradizionali di uomini e donne; la necessità di ridefinire quei ruoli secondo la visione cristiana; i consultori e la loro gestione; la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, prima, e il referendum per l’abolizione della 194, poi.

L’UDI, invece, si ricostituisce nel 1971 dopo alcuni anni di inattività. La modernità di pensiero di Miranda Salvadori – che sarà il vero trait d’union tra la “vecchia UDI” e i gruppi femministi che nasceranno nella seconda metà degli anni Settanta – e l’arrivo a Grosseto di Maria Giovanna Zanini – forte di esperienze progressiste in altre parti d’Italia–, nonché l’ingresso di un corposo gruppo di giovani nell’UDI fanno riprendere vigore all’associazione. È dell’ottobre del 1971 un’assemblea dell’UDI su un tema qui inedito: la regolamentazione delle nascite, frutto degli incontri di un gruppo di donne, che dalla condivisione di esperienze di vita passò rapidamente alla rivendicazione politica. E Grosseto si caratterizza rispetto al panorama nazionale per una stagione di grande ascolto da parte delle Amministrazioni, che raccolgono le sollecitazioni delle donne di sinistra e di quelle cattoliche, soprattutto in tema di consultori e asili nido, tanto da arrivare all’istituzione di un Centro pre-matrimoniale e matrimoniale presso gli ambulatori comunali già nell’aprile 1973, due anni prima della legge dello Stato, e quattro rispetto alla legge regionale di istituzione dei Consultori.

Nel febbraio 1976, in dissenso con la linea nazionale dell’associazione, le giovani escono dall’UDI per creare il Collettivo femminista, che di fatto, però, non taglierà mai il cordone ombelicale che lo lega alla madre, in virtù sia della partecipazione ad entrambi i gruppi di Maria Giovanna Zanini e Miranda Salvadori, sia di un terreno di rivendicazioni comuni. Quando, nel gennaio 1977, si costituisce il Comitato permanente delle donne per il Consultorio (il centro prematrimoniale è infatti stato chiuso in breve tempo), entrano a farne parte UDI e Collettivo. La battaglia per la riapertura del consultorio è portata avanti con grande impegno anche dalle donne cattoliche.

La produzione di volantini e documenti, firmati ora UDI, ora Collettivo femminista, ora Collettivo studentesse, ora Comitato permanente delle donne per il Consultorio, oppure a doppia o triplice firma è abbondantissima. Cambiano i nomi dei gruppi ma molto spesso sono composti dalle stesse persone. Non mancano documenti che portano la firma congiunta di UDI e CIF. La rivendicazione unitaria ha un suo primo esito con l’apertura del nuovo Consultorio nel novembre 1978.

Nei collettivi, soprattutto in quello femminista grossetano, si sperimentano il separatismo, la pratica dell’autocoscienza, il selfhelp; si inizia a riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale del paradigma dell’uguaglianza in favore della valorizzazione della differenza; “il personale è politico” diventa parola d’ordine.

Nella seconda metà degli anni Settanta, la battaglia per la riapertura del Consultorio cede il passo alla mobilitazione per l’applicazione della legge sull’interruzione di gravidanza, prima, e al movimento in difesa della 194, poi. Sono su fronti opposti donne di sinistra e cattoliche. La documentazione riguardante l’attività delle prime è più corposa e comprende numerosi documenti conservati nell’archivio personale di Maria Palombo, protagonista di una delle vicende di cronaca più dibattute in tema di aborto, episodio che ebbe una grossa eco anche a livello nazionale e portò alla manifestazione del 17 dicembre 1977, la più grande di sole donne mai vista a Grosseto.

Le cattoliche, fatta eccezione per le frange dei cattolici del dissenso, si compattano, come è naturale aspettarsi, contro la liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza.

Sul finire degli anni Settanta un nuovo fronte di rivendicazione: la ricerca di uno spazio per le donne. Nasce da questa esigenza l’occupazione nel novembre 1978 da parte del Collettivo Femminista grossetano dell’ex orfanotrofio maschile “G. Garibaldi”, luogo scelto per diventare sede di un centro di aggregazione di tutte le donne, a prescindere dall’orientamento o dall’appartenenza politica, dopo il suo passaggio al Comune di Grosseto. L’idea si concretizzerà nel 1986, non senza aspri confronti e matasse burocratiche da sbrogliare, con l’affidamento da parte del Comune di Grosseto dei locali dell’ex Garibaldi al Centro Donna, associazione costituitasi formalmente l’8 marzo 1986, che vanta quindi una trentennale esperienza.

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La realizzazione della mostra non sarebbe stata possibile senza le opportunità di ricerca e studio che nel corso degli anni sono state portate avanti, e che hanno permesso un profondo scavo negli archivi del territorio provinciale grossetano:

  • la ricerca sulla storia delle donne grossetane tra anni Quaranta e Ottanta portata avanti da Luciana Rocchi dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (ISGREC) – avviata nel 1999 su impulso della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto, presieduta da Gloria Faragli – che ha portato a due pubblicazioni: L. Rocchi, S. Ulivieri (a cura di), Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci 2004; L. Rocchi, C. Pieraccini, B. Solari, S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Fonti per una storia delle donne grossetane tra gli anni quaranta e ottanta, Efffigi 2004.
  • il riordino dell’Archivio di proprietà del Centro Donna, finanziato dal Centro Donna e curato da A. Apreda, F. Putrino, B. Solari nel 2005-2006.
  • la ricerca dell’Isgrec sull’Associazione “Le Amiche della Miniera” di Ribolla, finanziata dal Comune di Roccastrada, che ha portato alla pubblicazione di B. Solari, Presenze femminili. Le amiche della miniera da Ribolla, Effigi 2007.
  • il lavoro di ricerca condotto dall’Isgrec sul fondo fotografico dei F.lli Gori, che ha portato alla pubblicazione del volume di M. Baragli, Professione fotografi. L’archivio dei fratelli Gori, Isgrec, Grosseto, 2008.
  • il riordino dell’archivio della Federazione provinciale del PCI/PDS/DS, finanziato dall’associazione La Quercia, portato avanti da F. Putrino e V. Entani.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Le donne della famiglia Castelli

È una consapevolezza diffusa, basata anche sulle ricerche e i dati ricavabili dai censimenti, che il livello di alfabetizzazione all’interno delle comunità ebraiche italiane sia stato sempre assai più significativo di quello presente nelle altre componenti della popolazione italiana. Essere in grado di leggere, scrivere e far di conto era una condizione preliminare per chiunque per poter accedere a un qualsiasi livello di emancipazione. Questo presupposto imprescindibile dentro la componente ebrea della popolazione era posseduto da tutti, dai maschi e dalle femmine, ma non era sufficiente affinché si aprissero, per le donne, percorsi di vita migliorativi.

Cercherò qui di seguito di illustrare questa mia convinzione attraverso una fonte particolare, quella di un deposito di lettere private assai significativa: si tratta dell’archivio privato della famiglia Castelli, oltre ottocento tra lettere e cartoline postali, consegnate all’Istoreco di Livorno da un’erede della famiglia che le aveva miracolosamente salvate. Su questo carteggio, insieme ad altre scritture private, alcune già pubblicate da tempo, e ad alcuni lavori storiografici sulle famiglie livornesi, sto lavorando da oltre un anno per estrapolarne una monografia. Grazie a tutto questo materiale sono venuta costruendo queste riflessioni che porgo all’attenzione del lettore.

Occorre precisare che nella stragrande maggioranza dei casi sono scritture e testimonianze femminili che permettono di delineare un quadro di genere sulla condizione della donna all’interno della comunità ebraica, ancora osservabile negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: soprattutto l’epistolario che raccoglie le lettere, in grande maggioranza indirizzate da Livorno ad Asmara, scritte nella quasi totalità dalla componente femminile della famiglia. Le mittenti sono la madre Emma De Rossi e le sorelle Anna, Ada, Ilda, che intrattengono con la sorella minore, Rita, trasferitasi in Eritrea, una corrispondenza quasi quotidiana per circa vent’anni. Le prime lettere sono del dicembre del 1937, le ultime sono degli anni Cinquanta.

L’autrice più interessante per questa riflessione è Ilda, per la cui biografia possiamo utilizzare anche quello che lei stessa scrisse in occasione di una pubblicazione promossa dal Comune di Livorno. In quel volume, Ebrei tra due censimenti, Ilda racconta che il padre di fronte al suo desiderio espresso di studiare Medicina, rispose:

La vecchia sinagoga di Livorno

La vecchia sinagoga di Livorno

“Per me le donne fanno meglio a stare a casa ad imparare a far le polpette ma, se vuoi studiare, studia. Io non ti aiuto. Se ci riesci, riesci, se non riesci, non riesci.”

La frase rievocata da Ilda Castelli può darsi che non sia stata espressa precisamente in questo modo. Del resto il ricordo si colloca alla fine degli anni Ottanta e la discussione con il padre Ilda l’aveva avuta nella prima metà degli anni Trenta. Curiosamente, ma non troppo però, ne troviamo conferma in alcune lettere dell’epistolario antecedenti un quarantennio la pubblicazione della Labronica. La memoria vicina a quella discussione ripete in modo quasi omogeneo quanto poi ricorda Ilda ormai avanti negli anni. Evidentemente fu una discussione che si fissò nella sua memoria e gli anni non furono sufficienti a scalfirla. È evidente dalla rievocazione come Ugo Castelli, il padre, ritenesse una scelta inutile, quasi uno spreco, mandare la figlia all’Università. Le figlie femmine, lui ne ha quattro (Anna, Ada, Ilda e Rita) devono imparare a diventare delle buone casalinghe, delle brave cuoche, delle buone madri. Egli non ritiene di avere tra i suoi doveri di padre, istruito e benestante, quello di aiutare le figlie ad emanciparsi attraverso una facoltà universitaria che avrebbe permesso loro autonomia economica e decisionale. Per chiarirsi meglio aggiunge che se la figlia Ilda ce la farà a laurearsi, a lui questo non interesserà alcunché. Avere una figlia laureata, giunta cioè all’apice dell’istruzione allora possibile, era più un fastidio da giustificare davanti agli altri che un motivo di orgoglio da rivendicare.

Eppure il milieu familiare avrebbe potuto aiutare. La famiglia Castelli è un nucleo medio-borghese, in cui sia il padre che il figlio primogenito Carlo, sono proprietari di farmacie cittadine. Anche il genero di Ugo, Aleardo Lattes, è coinvolto direttamente nella gestione di questa attività. Ai nostri occhi questo dovrebbe permettere una visione più aperta nell’educazione delle figlie. Tuttavia la scelta che Ugo Castelli cercherà di ribadire con tutte e quattro le figlie, sarà quella di mantenersi nel solco delle consuetudini, delle tradizioni accettate e praticate anche da famiglie più abbienti della sua. Tradizioni che prevedono, come nella maggior parte dei borghesi del tempo, anche non ebrei, una divisone dei ruoli rigida e invalicabile. I maschi a lavorare per mantenere il ménage domestico, le donne ad accudire la casa, sorvegliare la servitù, occuparsi dei figli. Quella di Ugo è una famiglia che riserva alle donne un’educazione che si colloca pienamente nel solco delle tradizioni ebraiche, comuni sia alle ragazze figlie della piccola e media borghesia, che a quelle delle grandi famiglie imprenditoriali. Queste dovevano frequentare le scuole, magari anche le superiori, imparare una lingua straniera, per lo più il francese ma non solo, e se ne avevano l’estro anche un po’ di musica. Ma l’accesso agli studi universitari e professionalizzanti non era contemplato. Spesso poi l’insegnamento non era acquisito dentro un percorso regolare di studi perché si preferiva il precettore privato o l’iscrizione a scuole private. A Livorno ne erano attive due, gestite da ebrei, laiche ed aperte anche alle altre confessioni: la scuola dei coniugi Coen e la scuola delle sorelle Garcin. Per i più abbienti poi c’era la possibilità di utilizzare le lezioni private di Rodolfo Mondolfi, dantista di valore e padre di Umberto, primo sindaco socialista di Livorno, così come per le lingue chi ne aveva le possibilità poteva usufruire della rete di relazioni familiari e amicali con l’estero, oltre che di istitutrici private. Una volta però entrate nell’età adulta, e dopo aver preso marito, tutte dovevano dedicarsi alla casa, a partire dalla madre Emma fino ad arrivare alla figlia più piccola, Rita, sposata e residente in Africa.

La nostra Ilda si ribella a questo destino e ce la farà a trovare la sua collocazione, collocazione molto lontana per certi aspetti dalla tradizione. Essa incarna un personaggio di grande interesse storiografico poiché racchiude in sé molte delle contraddizioni che riguardano le donne ebree del secolo passato. La sua forte personalità e il suo forte dinamismo le permetteranno, pur in contrasto con il vecchio padre, di frequentare Medicina a Pisa con successo (l’anno della sua laurea furono solo due le donne laureate), e di specializzarsi in Pediatria divenendo la prima donna pediatra di Livorno; e quando, dopo la promulgazione delle leggi razziali, un altro pediatra, ebreo pure lui, Roberto Funaro, sceglierà di partire subito per gli USA senza aspettare che la situazione divenga drammatica, Ilda Castelli avrà la possibilità di avere tutta la sua numerosa e ricca clientela.

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Riproduzione di una lettera di Ilda Castelli, in Archivio privato di Lydia Levi.

Ma Ilda diventa una pediatra apprezzata anche nel nucleo familiare. Lo dimostrano le lettere ricche di prescrizioni mediche che invia alla sorella lontana e madre di tre bambini piccoli. Ilda è la più emancipata tra le quattro sorelle, l’unica che guida l’auto e che si muove tra la città di Livorno e quella di Pisa e dintorni per tenere conferenze sulla puericultura a nome del Fascio pisano al quale appartiene, ed è sempre intenta a scrivere pezzi entusiasti della guerra d’Africa sui giornali. Eppure quando deve suggerire qualcosa alla sorella più giovane riguardo il suo ruolo di moglie, le suggerisce di “assecondare il maritino, tenere in ordine la casa, farsi trovare sempre in ordine, civettuola” e via di seguito. Come si coniuga da una parte la donna medico che con pochi fronzoli impartisce ordini sicuri e terapie e sconsiglia di ascoltare qualsiasi suggerimento che non provenga da una fonte autorevole e professionale, con queste indicazioni così bamboleggianti che sembrano così poco confacenti con la sua personalità? L’impressione che se ne ricava è quella di una emancipazione a metà. La sua incapacità di assumere atteggiamenti più autonomi, meno conformisti, nei confronti del ruolo della moglie all’interno del gruppo familiare e sociale di appartenenza può essere compreso, a mio parere, come una reazione quasi di paura rispetto al salto in avanti compiuto, salto tutto consumato nella dimensione pubblica, ma non solo. Ilda si trova a suo agio dentro le liturgie del regime come gran parte della sua famiglia, e la maggioranza degli ebrei del tempo. Ci si trova così a suo agio che sposa un fascista molto convinto, ma anche cattolico. E sicuramente per questo Ilda si era in seguito convertita alla religione del marito, al quale, a suo giudizio, occorre che la donna porti sempre obbedienza. Con lo stesso spirito Ilda diventa nel secondo dopoguerra una delle più accese protagoniste della Democrazia Cristiana più clericale e anticomunista. Colpisce molto che questa donna fuori dal comune nella dimensione pubblica, nella dimensione privata riproponga per intero, e senza incrinature, gli stereotipi della sua generazione. Io penso che il suo percorso sia anche la testimonianza di come sia difficile, irto e contraddittorio ribellarsi ed emanciparsi dall’autorità del padre-patriarca. Accade, e la vicenda di Ilda ne dà testimonianza, che talvolta persino quelle donne che pure ci sono riuscite, abbiano poi mantenuto forme di subordinazione all’autorità sia paterna che maritale tipica della tradizione. Solo verso la fine della vita, raccontano i parenti, Ilda ormai vedova ritorna alla religione dei padri, e su di essa comporrà anche un libro. Di sicuro il suo è un personaggio interessantissimo perché interno totalmente a tutta la tragedia del secolo scorso, perché dinamico e reattivo su molti fronti e ligio e obbediente alla religione del “capofamiglia” per altri.

Foto 1Ilda rimane il personaggio meno classificabile all’interno di questa numerosa famiglia. Famiglia che aveva già conosciuto un matrimonio misto, quello del primogenito Carlo, e che aveva già visto la conversione della giovane nipote Elena al cattolicesimo e il suo successivo matrimonio. Questi comportamenti, le lettere ne danno estesa testimonianza, avevano provocato dolori e tensioni ma alla fine erano stati tutti faticosamente metabolizzativ. All’interno di questo gruppo familiare, il padre Ugo esercita il potere tramite anche l’organizzazione di matrimoni combinati, pratica ancora molto frequente negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, come del resto era stato il suo con la giovane Emma De Rossi.

Ma il carteggio a mia disposizione fa intravedere anche altre storie di donne, a cominciare proprio dalla madre Emma che proviene da una grande famiglia alto-borghese imparentata con Benjamin Disraeli e che è la prima autrice dell’epistolario. È una donna severa, asciutta, controllata e con una precisa condivisone della ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia. Anche se è lei, nei fatti, a tenere unita la trama di questi rapporti con la giovane figlia lontana, ogni qualvolta che si presentano delle discussioni più spinose e argomenti più delicati da trattare, fa un passo indietro e cede la penna al marito-padre. Ugo, padre e nonno amorevolissimo quando si tratta di aggiungere i “salutoni” in fondo alle lettere per Asmara, diviene, quando affronta argomenti più difficili, l’autorità indiscussa.  Come tale usa un linguaggio chiaro, senza nessun infingimento retorico, e più che cercare di dialogare con la figlia lontana, impartisce ordini e disposizioni che non si devono discutere.

Poi ci sono le altre sorelle: Anna e Ada. Entrambe più anziane, mogli e madri. Entrambe parlano il francese e Ada sa anche suonare il pianoforte. I loro argomenti, anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, sono incentrati sulla casa, la famiglia, le ricette, i vestiti, i figli: insomma la vita quotidiana. Probabilmente le aiuta a sostenersi a vicenda dentro una tragedia imprevista e terribile dalla quale però tutti riescono, sia per fortuna, sia per relazioni, che per ragioni di classe, a uscire indenni e a ritrovarsi, a guerra finita, ancora tutti in piedi. Delle due Ada è quella meno presente, perché convive con i genitori insieme al suo nucleo familiare e per lei in qualche modo, scrive la madre. Invece Anna, moglie di Giorgio Orefice, anche lei madre di Gastone e Vittorio, gioca un altro ruolo. Spesso vive nella casa dei vecchi genitori ma spesso è anche via. Suo marito, Giorgio, è un antifascista perseguitato anche prima delle leggi razziali che cercherà la sua via di fuga in Francia. Pare dal tono delle sue missive la più solare, quella con più risorse per far fronte alle difficoltà, anche se poi le idee che si prospettano non avranno mai buon esito. Da un piccolo numero di lettere da Anna a Rita (da Livorno ad Asmara) si capisce che Anna aveva partorito l’idea, per raggranellare un po’ di denaro, di mettere su un commercio di abiti e biancheria confezionati in Italia da rivendere alle ricche signore italiane di Asmara. L’idea forse poteva anche essere buona ma le difficoltà erano troppe e così tutto naufragò in un niente di fatto. L’aspetto più interessante, dentro questa riflessione, è che si comprende come di questa idea siano stati tenuti all’oscuro proprio i maschi di casa. Prima si vedrà se funziona. Questa è la tipica strategia di difesa femminile: ricorrere al silenzio, anche all’inganno, pur di far marciare una propria idea – perché se venisse manifestata alla luce del sole, sarebbe eliminata sul nascere.

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Il volume-intervista di Catia Sonetti a Gastone Orefice

Sempre dall’epistolario in nostro possesso scopriamo che, tra le due, sarà proprio Rita la minore, a lavorare e a guadagnare per sé e per la famiglia. Prima in Africa con l’arrivo degli inglesi e poi grazie alla sua conoscenza della lingua, dopo la guerra, tornata a Livorno, con gli Americani. Anna invece rimarrà tutta la vita moglie e madre. Ma dopo la liberazione e la fine della guerra il quadro cambia per tutti e quella diventa un’altra storia.

Eppure queste donne passeranno tra i drammi della guerra e della persecuzione incolumi adottando varie strategie di sopravvivenza. La più anziana, la vecchia madre Emma, racconta in un diario che poi il nipote Gastone contribuirà a rendere pubblico, le peripezie degli ultimi mesi. È un testo interessante che messo a confronto con i testi delle lettere fa emergere con chiarezza come la prosa epistolare sia una prosa familiare, più sciolta, più colloquiale, mentre il diario scritto con l’intenzione di lasciare una testimonianza per i nipoti e per i posteri in genere, è più strutturato, propone scelte lessicali più meditate e dà maggiore spazio al tema della religiosità ebraica e delle tradizioni, così minacciate in un contesto di fuga.

A nessuna di loro capitò quello che accadde a un’altra Emma, omonima della nostra, Emma Castelli (sorella di Ugo e moglie di Salomone Giulio Belforte) che negli anni della Grande Guerra fu strappata alle sue occupazioni domestiche e si dovette occupare a tutto tondo dell’azienda di famiglia, sia della cartoleria che della casa editrice. Il figlio Gino racconterà che “se fino ad allora era stata del tutto ignara di ogni attività commerciale, seppe assumere con energia le redini dell’azienda, sì da conservare soldi fino al ritorno dei figli. E fino all’estremo delle sue forze non volle più abbandonare il lavoro e ne fece, insieme all’affetto per la famiglia, lo scopo della sua vita.” (M. Luzzati, 1990). In sostanza da donna risoluta qual era si rifiutò di essere di nuovo relegata alle faccende domestiche riuscendo a trasformare quello che le si era prospettato come dovere in un diritto a cui non volle più rinunciare. Furono però poche le donne ebree alle quali capitò quest’occasione. Peccato.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.




“Sognavo una vita romantica e felice”

Quale effetto un conflitto esercita sulla psiche infantile? Quali le conseguenze, i traumi, le ricadute successive?
Queste domande, così frequenti nei reportage che di recente si sono soffermati sulle “infanzie rubate” dalle guerre, sono poco presenti nei saggi di storia sociale sulla seconda guerra mondiale. Ma uno studio sull’argomento, oltre ad aiutare a comprendere le sofferenze dell’oggi, servirebbe anche a cogliere i nessi tra quel vissuto e i successivi eventi della Prima Repubblica. Lungi dal colmare questa lacuna, questo contributo vuole gettare una luce su un argomento – la memoria infantile della Resistenza – tanto più importante quanto necessario da ricordare in una regione – la Toscana – dove il numero di vittime è stato inferiore alla sola Emilia.

Innanzitutto: quali fonti usare? La più parte delle testimonianze è stata raccolta anni dopo la guerra, quando non solo il tempo trascorso aveva affievolito il ricordo, ma quando i bambini di allora si erano ormai trasformati in adulti con il proprio vissuto e con altre esperienze alle spalle. Mediata già in tempo di pace dagli adulti, la voce infantile diventa perciò più flebile nei tempi convulsi di guerra. Gli appunti che il quattordicenne aretino Almo Fanciullini raccoglie sistematicamente tra l’8 settembre e la liberazione di Arezzo appaiono quindi come una particolare eccezione.

Tracciare alcune linee comuni nelle esperienze belliche di bambini e adolescenti toscani è però possibile. La prima è l’avvento della precarietà, di luoghi e di persone. Il conflitto, prima colto vagamente dalle conversazioni degli adulti, irrompe con il primo bombardamento o la carestia. «Anche se si sentiva parlare di guerra» ricorda Feralda Giovannetti di San Martino ad Empoli, dove nel ’43 frequentava la seconda elementare «per la giovane età, non ci rendevamo conto di quello che poteva essere. Cominciammo ad accorgercene quando iniziò la carestia dei viveri». «Sognavo una vita romantica e felice: gli orrori della guerra mondiale mi distolsero da questi sogni» scrive ad esempio Anna Taiuti, che dopo il bombardamento di Milano sfollò dai nonni in Toscana.
Alla devastazione dei luoghi familiari succede spesso lo sfollamento in campagna per i cittadini o, per chi vi abitava, l’arrivo di nuove persone – spesso più colte, più ricche o semplicemente più informate sugli ultimi avvenimenti – rivoluzionava la routine quotidiana, apriva nuovi orizzonti. La novità è ad esempio sottolineata da Luciana Franceschini, nata nel 1935 nelle campagne del pistoiese: «ricordo molto bene gli sfollati perché … vedevo gente nuova … per me era tutto una sorpresa e anche un divertimento quando mi invitavano a giocare».

La crescita precoce che la guerra induce nei bambini e negli adolescenti è però il tratto che maggiormente accomuna queste testimonianze. Il processo è però difforme, e varia a seconda della classe sociale di provenienza. È la fine precoce dell’infanzia per i bambini delle classi popolari, che, mentre gli adulti si asserragliano in casa per sfuggire ai rastrellamenti, lavorano nei campi e nelle officine, svolgono commissioni, girano armati. «[Noi ragazzini] andavamo a prendere il grano perché i contadini avevano paura dei tedeschi… Noi eravamo piccoli e avevamo più possibilità di stare allo scoperto» riporta Sergio Capecchi, nato a Cantagrillo (Serravalle P.se) nel 1930. Ed è invece una scoperta della libertà per i giovani delle classi sociali superiori, che, grazie alle preoccupazioni di genitori altrimenti indotti a una stretta sorveglianza, si scoprono liberi di gestire il proprio tempo. «Eppure» riassume infatti Isabella Dauphinè, sfollata da Firenze, «ricordo quel lontano 1943 come un anno veramente straordinario. Là in campagna eravamo molti ragazzi:… e ci sentivamo veramente liberi, perché le donne adulte presenti… piene di ansie e preoccupazioni, avevano ben altro da fare che occuparsi di noi».

Articolo pubblicato nel luglio 2016.




Contro la guerra e la povertà

Nel pistoiese l’opposizione popolare alla guerra prima del maggio 1915 fu forte, anche qui più nelle aree rurali che nel centro urbano. L’onda della protesta sociale era iniziata a montare già nella primavera del 1914, con due manifestazioni in occasione del 1° maggio promosse rispettivamente dai socialisti e dai sindacalisti anarchici dell’USI (i secondi subirono anche alcuni arresti) fino alla Settimana rossa, nel giugno del ’14, con uno sciopero generale cittadino, lievi scontri intorno alla stazione – con il danneggiamento dei binari nella zona della Vergine – e parecchi arresti. Durante lo sciopero si tenne un comizio dove intervennero i socialisti Taddeoli e Cipulat, gli anarchici Eschini e Lombardelli e Agostini per i repubblicani. I manifestanti si recarono anche in corteo alla Sottoprefettura dove chiesero il rilascio di alcuni arrestati nei giorni precedenti per la diffusione di materiali antimilitaristi.

Come nel resto d’Italia quindi, lo scoppio della prima guerra mondiale andò a inserirsi all’interno di uno scenario già teso, caratterizzato da un inasprirsi della protesta popolare contro le cattive condizioni di vita. Queste circostanze contribuirono a radicalizzare il locale partito socialista, nel quale alcune componenti progressivamente si spostarono su motivazioni sempre più classiste e su argomentazioni di “guerra alla guerra” molto vicine a quelle sostenute in quel momento dai sindacalisti rivoluzionari e dagli anarchici. L’area di Lamporecchio, in particolare, era divenuta la prima zona “rossa” del circondario, con l’elezione a sindaco di Idalberto Targioni nel 1914, come risultato della sua intensa attività di propagandista e organizzatore degli anni precedenti, e il Consiglio comunale si era pronunciato per la neutralità assoluta già nell’agosto.

Dal gennaio del 1915 la corrente di opposizione intransigente alla guerra divenne maggioritaria nel socialismo pistoiese, e le manifestazioni andarono intensificandosi. A Candeglia fu indetta un’assemblea per illustrare i disagi che la guerra avrebbe provocato, a cui partecipò numerosa la popolazione delle campagne circostanti, mentre a Lamporecchio circa 300 disoccupati scendevano in piazza al grido di “pane e lavoro”. Con l’avvicinarsi dell’ingresso nel conflitto, la situazione non si normalizzò. Tra aprile e maggio furono indetti comizi e manifestazioni a Casalguidi, Spazzavento, Candeglia e ancora a Lamporecchio, con la partecipazione di centinaia di persone. Il 1° maggio nel capoluogo si teneva un comizio, seguito da iniziative dello stesso tenore a Bonelle, Spazzavento e nel quartiere di Porta Lucchese. Nei giorni immediatamente a ridosso della dichiarazione di guerra, il livello della conflittualità si innalzò. A Pistoia ci furono scontri alla stazione ferroviaria contro la partenza dei richiamati alle armi, a cui non furono estranei alcuni dei soldati dei reggimenti che dovevano partire. La tensione e l’opposizione popolare rimasero forti nei mesi successivi, nonostante il bavaglio imposto alla stampa di opposizione e l’ambigua posizione ufficiale dei socialisti, attestatisi intorno al “né aderire né sabotare”, che frenò le componenti più radicali del socialismo pistoiese. Sempre nella zona di Lamporecchio una manifestazione si trasformò in rivolta con l’occupazione del paese per alcune ore, durante le quali avvenerò atti di ostilità verso i facoltosi del luogo. Furono arrestate 5 persone, condannate poi a pene severe. In diverse circostanze il movimento popolare superò e radicalizzò le parole d’ordine iniziali degli organizzatori delle proteste, soprattutto nel mondo rurale, che vedeva come una vera e propria sciagura il conflitto, e che si caratterizzò per una massiccia partecipazione della componente femminile.
Furono infatti sempre le donne a riaccendere il fuoco della protesta nelle campagne.

Fino al 1916-’17 nel pistoiese regnò la calma, ma i giovani socialisti, radicalizzati rispetto al loro stesso partito, ed un innovativo movimento di socialiste, ripresero la propaganda contro la guerra e le pessime condizioni di vita, aggravatesi durante il conflitto. Fu lanciata la parola d’ordine del rifiuto del sussidio per protestare contro l’assenza degli uomini e dei figli. L’attività di propaganda funzionò a tal punto da riuscire a penetrare anche nelle zone tradizionalmente cattoliche, dove probabilmente l’ostilità popolare all’inutile strage, come l’aveva definita lo stesso Papa, non doveva essere minore. Nel gennaio 1917 la protesta, a guida femminile, esplose. A Larciano le donne rifiutarono il sussidio e dettero vita a una manifestazione antimilitarista, seguita da altre due manifestazioni analoghe a Quarrata. Anche in occasione della giornata internazionale dell’8 marzo, si tenne una manifestazione nel capoluogo, legata più a motivi economici. Nella piana cominciarono a svolgersi delle “marce della pace”. Da Tobbiana il 26 giugno 400 donne partirono verso Pistoia per chiedere la pace e rifiutare il sussidio (5 arrestate e 5 denunciate). A Montale il 5 luglio, in 300 cercarono di bloccare il servizio ferroviario e chiesero la fine della guerra, mentre il giorno dopo un’altra manifestazione per la pace, 300 le partecipanti, assumeva toni più minacciosi, con le dimostranti armate di bastoni (18 arrestati, 14 donne e 4 uomini). Sempre il 6 luglio donne di Agliana, Pistoia e frazioni dei due comuni si riunirono insieme e in circa 300 tentarono di arrivare a Pistoia, bloccate dai Carabinieri. A Gello si svolse una manifestazione di circa 400 donne, a Ramini un centinaio di donne costrinsero la maestra a sospendere le lezioni (18 denunciate) ed a Casalguidi avvenne un’altra manifestazione in favore della pace. Le aree erano quelle a diffusa presenza mezzadrile, con centri all’epoca piccolissimi, dove il movimento sindacale dei lavoratori della terra aveva iniziato ad apparire negli anni precedenti. La provenienza sociale legata al lavoro agricolo è testimoniata in un caso dal comportamento delle donne di Vinacciano. Una cinquantina di loro si recò da un proprietario terriero, evidentemente identificato tout court come parte di quello Stato così lontano e opprimente, chiedendo di far cessare il lavoro nei campi dei prigionieri di guerra (alla solidarietà internazionale qui forse si unì il problema pratico che questa era manodopera non pagata che toglieva lavoro ai braccianti) e di adoperarsi per far ritornare gli uomini dal fronte (7 denunciate).

Queste pratiche di opposizione e di conflittualità politico-sociale, difficili da seguire ma nondimeno concrete, lungi dall’essere episodi isolati, si inseriscono dunque all’interno di un malessere di lungo periodo, acuito dalla guerra, che avrebbe poi fornito le basi all’ondata di agitazioni del biennio rosso, con i moti del caroviveri, l’occupazione delle fabbriche e le agitazioni nelle campagne, sconfitto soltanto dalla reazione armata guidata dallo squadrismo fascista tra il 1921 e il ’22.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.

Articolo pubblicato nel giugno del 2016.