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Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

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La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.




Il 1917 in Toscana

Il 1917 è stato un anno di svolta generale nella storia della prima guerra mondiale. Eventi eccezionali come la rivoluzione russa, l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti nel conflitto, la gravissima crisi alimentare e la rotta di Caporetto sottoposero a molteplici ansie e a notevoli sfide i “fronti interni”, intensificando il senso di stanchezza verso le condizioni sempre più dure imposte dallo stato di guerra.

L’Italia, come la Germania e la Russia, fu uno dei paesi maggiormente interessati dalla cosiddetta “crisi dei fronti interni”. Dopo quasi due anni di rassegnazione o di proteste sommesse, in tante aree del paese riesplosero tensioni che riportavano con il pensiero a due anni prima, ai momenti più caldi delle mobilitazioni che avevano preceduto il tardivo e osteggiato ingresso del Regno dei Savoia nel conflitto.

In tale contesto conflittuale, la Toscana è stata tradizionalmente percepita come un territorio assai coinvolto da quella nuova esplosione di agitazioni e proteste espressione del disagio popolare verso il conflitto. Una fama legata un po’ alla leggendaria notorietà di alcuni episodi, come la grande marcia per la pace delle donne della Valle del Bisenzio del luglio 1917 guidata da Teresa Meroni, in parte a quanto messo in luce dagli esiti di alcuni sporadici e specifici studi o ancora al vivo ricordo delle forti e spesso radicali proteste antinterventiste del periodo della neutralità che avevano agitato non poco i sonni delle autorità in tutta la regione. Questa impressione è ampiamente confermata adesso da una mappatura organica di quel ciclo di manifestazioni di rivolta, e delle variegate forme che esse assunsero, effettuata da un recente volume promosso dalla rete degli Istituti toscani della Resistenza e curato da Roberto Bianchi e da Andrea Ventura dal titolo Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali. Il testo affronta infatti il tema in maniera ampia, grazie a un complesso di saggi di vari autori dedicati alle diverse province della regione (da Massa Carrara a Lucca, da Pisa a Livorno, dall’area pratese e pistoiese alle zone rurali del territorio fiorentino, maremmano, aretino e senese).

La geografia delle proteste finì effettivamente per abbracciare l’intera regione, e per coinvolgere, dal punto di vista ambientale e socio-economico, aree urbane e medie cittadine, ma anche borghi di campagna e realtà rurali in cui forse per la prima volta risultarono scossi i consolidati equilibri della “pace sociale” garantita dal proverbiale regime mezzadrile. Lotte operaie in grossi centri urbani come Livorno si intrecciarono dunque con grandi e piccole mobilitazioni contadine come quelle ad esempio di aree tipicamente mezzadrili quali Greve o San Casciano nel Chianti.

Teresa Meroni, fine anni ’20.

Dal punto di vista della composizione sociale, la crescente conflittualità vide assai attivi le donne e i ragazzi, che come la storiografia sul primo conflitto mondiale ha largamente messo in luce furono un po’ ovunque i soggetti privilegiati delle mobilitazioni avvenute a conflitto in corso. Nella Toscana del 1917 tali soggetti diedero vita a un’estate particolarmente «incandescente» in tante realtà del contado pisano, dove grossi opifici artigianali che impiegavano numerose operaie coabitavano con la perdurante centralità del mondo agricolo, e per intensità e durata il fenomeno della protesta femminile investì in maniera significativa e con diversi episodi di mobilitazione anche diversi comuni interni e costieri della provincia di Massa-Carrara. Un’altra zona calda di forte attivismo delle donne in piazza contro la guerra furono il circondario pistoiese e quello immediatamente confinante del pratese che si segnalarono in particolare per la diffusione e il successo delle cosiddette “marce della pace” che si svolsero nel corso dell’estate. A ruota del particolare protagonismo di queste aree, il fenomeno non mancò però di di lambire contesti per tradizione ritenuti politicamente assai più quieti come la città di Lucca, dove a distinguersi furono le agitazioni delle numerose sigaraie della grande Manifattura tabacchi cittadina, o spaccati esemplari della placida Toscana rurale come appunto il Chianti fiorentino o località della profonda campagna senese. Queste agitazioni fortemente connotate in chiave di genere e generazionale, cominciate a inizio anno con petizioni e preghiere alle autorità, presero nel corso delle settimane la forma di presidi di fronte a palazzi ed uffici delle istituzioni e si radicalizzarono nei mesi a venire con veri e propri cortei e manifestazioni contrassegnati da grida ed espliciti slogan contro la guerra, spesso animati da centinaia di popolane e fanciulli e che giunsero in molti casi a infrangere con fare minaccioso l’ordine costituito e a scontrarsi apertamente con la forza pubblica. Arresti e processi colpirono numerose partecipanti a queste azioni e con particolare durezza alcune delle leader riconosciute delle proteste; esemplare in tal senso il destino di Teresa Meroni, la sindacalista milanese attiva da un paio di anni nel pratese e postasi a capo degli scioperi e delle marce nella Valle del Bisenzio che prontamente punita con diversi mesi di carcere e una cospicua multa fu poi internata in Garfagnana fino al termine della guerra.

Laddove vi erano numerosi, grazie al vasto operare del meccanismo degli esoneri per la presenza di fabbriche di interesse bellico dichiarate “ausiliarie”, anche gli operai maschi non si astennero altesì dal prendere sempre più parte col trascorrere dei mesi a episodi di protesta. Emblematico da questo pinto di vista il caso di una delle non molte realtà a forte industrializzazione della Toscana dell’epoca come quella livornese. Negli stabilimenti militarizzati del capoluogo o del polo siderurgico di Piombino si assiste infatti a un escalation di proteste culminate nella seconda metà dell’anno in grandi e massicci scioperi, pur vietati dal regime di guerra, e in eclatanti forme di rifiuto della propaganda patriottica e antidisfattista imposta dopo Caporetto; spicca in proposito il caso delle conferenze patriottiche inaugurate a fine anno in pompa magna nei grandi stabilimenti del proprio cantiere dai fratelli Orlando e sospese nel giro di un solo mese per l’ostinata, massiccia e “imbarazzante” diserzione opposta ad esse da parte delle maestranze operaie.

Per quanto concerne le caratteristiche e le forme della protesta antico e moderno si mescolarono, consueti bisogni e nuove idealità si sovrapposero. Così a deferenti istanze verso le autorità superiori e a tumulti spontanei per il pane, ad atti di ostruzionismo e di sabotaggio che attingevano al tradizionale repertorio della protesta popolare, si associarono sempre più pratiche d’azione più avanzate quali scioperi, cortei di protesta e altre agitazioni in cui non mancarono occasionalmente di fare capolino segnali o simboli di espresso carattere politico (di intonazione pacifista e rivoluzionaria), che contribuirono a un mutamento del clima generale con cui le autorità e la società in guerra furono chiamate a fare i conti.

Del resto a lungo la storiografia è stata incline a considerare le dimostrazioni contro la guerra del primo conflitto mondiale quali espressioni di protesta frutto di un’istintiva reazione popolare a un concreto disagio economico e sociale (l’assenza di mariti e fratelli, carichi di lavori insostenibili, il carovita, l’insufficienza dei sussidi). Rivolte per il pane a cui è stata fondamentalmente negata ogni valenza politica di fondo. In realtà nei grandi stabilimenti cantieristici e metallurgici di Livorno, ma anche fra le “fabbrichine” del pisano, o fra le lavoratrici del pratese dietro i comportamenti che segnavano una presa di distanza dallo sforzo di mobilitazione interna trame e movimenti – ma finanche gesti simbolici – di natura politica, come affiora da alcune delle pagine del libro, appaiono largamente riscontrabili. Sembra peraltro di osservare nel corso dei mesi un mutamento di tono dello stato della protesta in cui il semplice rifiuto della guerra quale aspirazione al ripristino del tradizionale ordine di cose si trasforma sempre più in richiesta ed esplicito desiderio di pace, percepita quale un orizzonte ideale nuovo e alternativo rispetto al presente.

Non un’effervescenza prodotta da uno stato di bisogno dunque, ma qualcosa di più profondo e radicato pare muoversi dietro il disagio e le tensioni. Un altro aspetto di parziale novità che pare affiorare dagli spunti offerti dalle ricerche di questa recente mappatura, rispetto alle consuete conclusioni della storiografia sulla protesta, è non a caso l’emergere di una scansione temporale variegata delle agitazioni che non sempre mostrano una ciclicità lineare nei diversi territori. Dopo il picco del 1917 infatti non dappertutto si registra un rapido riflusso della conflittualità fino alla scomparsa delle lotte e delle inquietudini dell’anno precedente, ma il fenomeno conflittuale non sempre si spegne e tenderà semmai a saldarsi con le agitazioni e le rivendicazioni dell’immediato dopoguerra e più avanti ancora del “biennio rosso”.

*Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.




Sant’Anna di Stazzema: il perché di una strage

Sulla strage di Sant’Anna di Stazzema, come su altre stragi, la memoria è ormai trasmessa in centinaia di testimonianze, a volte rilasciate a decenni dagli eventi. E’ necessario quindi un forte richiamo alla conoscenza storica, come elemento fondamentale di comprensione di quanto avvenuto e di formazione delle giovani generazioni. Partendo dalla domanda più importante: il perché della strage.

La strage di Sant’Anna si inquadra in quella particolare fase della situazione bellica che si apre con l’arretramento dell’esercito tedesco sulla così detta Linea Gotica. In zone di grande rilievo strategico, come i monti a ridosso della Versilia, le Alpi Apuane o la Lunigiana, la presenza di numerose formazioni partigiane, di diverso orientamento (dai garibaldini agli autonomi) rappresentava per i tedeschi un effettivo problema. A partire da luglio 1944 si segnala così una radicalizzazione dell’atteggiamento degli occupanti nei confronti della popolazione civile, accusata, a torto o a ragione, di proteggere la guerra partigiana.

Nella zona arrivò in quei giorni la XVI Divisione Panzer-Grenadier delle SS, comandata dal generale Simon, un fanatico nazista, formata di giovani militari, ma con un nucleo di ufficiali e sottufficiali fortemente ideologizzati e temprati da precedenti esperienze nel sistema concentrazionario nazista, o in operazioni belliche, comprensive di azioni di sterminio di ebrei e di civili, nella Polonia occupata.

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Case incendiate in località Vaccareccia

Il 12 agosto 1944, all’alba, salgono a Sant’Anna di Stazzema gli uomini del II Battaglione del 35° Reggimento. Secondo alcuni testimoni, fra di loro, in divisa tedesca, vi erano anche italiani, fascisti versiliesi che, per non farsi riconoscere, portavano un passamontagna, tuttavia il particolare, rilanciato anche da pubblicazioni recenti, deve essere ancora convincentemente provato sul piano storico. Altri militari, appartenenti ad altre formazioni tedesche, circondano l’area. Arrivati sul posto, tutti coloro che vengono trovati, con poche eccezioni, vengono massacrati: per lo più donne, bambini, anziani. La cifra ufficiale parla di 550 morti, in realtà il numero effettivo è minore, anche se non è stato ancora fatto un serio lavoro di ricerca per accertarlo. La memoria locale si è a lungo divisa sulle cause dell’eccidio: molte le accuse ai partigiani, per non aver difeso la comunità, nonostante rassicurazioni in tal senso date precedentemente.

L’eccidio di Sant’Anna si inserisce all’interno di un ciclo operativo di “lotta alle bande” che inizia ai primi di agosto, colpendo con violenze e stragi vari territori del pisano, continua in Versilia, investe quindi, dopo Sant’Anna di Stazzema, le Apuane, per poi proseguire, al di là dell’Appennino, nella “grande” operazione di Monte Sole, contro le popolazioni di tre comuni, Marzabotto, Grizzana e Monzuno, nella quale dal 29 settembre al 5 ottobre, furono uccise circa 770 persone. In questo contesto operativo, la strage di Sant’Anna di Stazzema riacquista il suo tragico significato: si tratta di operazioni sulla carta rivolte contro i partigiani, che si configurano in realtà come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da “bonificare”, a priori considerati “partigiani”, il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage.

Girotondo bambini piazza chiesa rid 400 a tagliatoMa proprio questo carattere programmatico, considerato provato dal Tribunale Militare di La Spezia nel 2005 (con sentenza confermata in Cassazione), è stato messo in discussione dalla Procura di Stoccarda (Baden-Württemberg) che nell’ottobre 2012 ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale a carico delle SS indagate (alcune delle quali condannate all’ergastolo in maniera definitiva in Italia). Il procuratore tedesco ha ritenuto che non si potesse provare il carattere predeterminato dello sterminio dei civili, che invece i giudici di La Spezia hanno argomentato nella loro sentenza, accogliendo l’impostazione del procuratore italiano Marco de Paolis che, recependo anche l’esito delle più recenti approfondite indagini storiografiche, ha sostenuto che “la partecipazione con un significativo incarico di comando alle operazioni militari che determinarono come effetto finale il massacro di centinaia di persone civili non belligeranti, integra gli estremi di un consapevole concorso alla realizzazione del reato”. Secondo la procura di Stoccarda, invece, questa pianificazione della strage non può essere provata e, nella affermata impossibilità di individuare, a distanza di quasi settanta anni, il ruolo avuto da ciascuno dei singoli imputati, ne ha richiesto il non rinvio a giudizio. Attualmente è ancora pendente il ricorso di Enrico Pieri, uno dei sopravvissuti, presso la Corte d’Appello di Karlsruhe, contro tale archiviazione (confermata invece dalla Procura generale dello Stato).

Il carattere e la consistenza delle argomentazioni riportate nel provvedimento di archiviazione lasciano più che perplessi proprio sul terreno della ricostruzione storica, e dimostrano come in questi casi di giustizia tardiva solo la ricerca storiografica, condotta ovviamente con onestà e rispetto della verità fattuale che è possibile definire in base alla documentazione disponibile, possa sostituirsi ad una verità giudiziaria sempre più difficile da ottenersi, a settanta anni dal massacro.




Gli eroi maledetti. I goumiers e la liberazione del territorio senese (giugno-luglio 1944)

Il 15 giugno 1944, in una calura soffocante, le avanguardie del Corps expéditionnaire français superavano il fiume Paglia entrando nel territorio senese e sferrando l’attacco contro i caposaldi che i tedeschi avevano predisposto per rallentarne l’avanzata.

Gli attaccanti erano gli stessi soldati che, un mese prima grazie a una brillante azione nella valle del Liri, avevano messo in crisi la linea Gustav. Adesso era stata affidata loro una zona secondaria, incuneata tra la direttrice tirrenica, affidata alla V Armata americana, e quella adriatica di competenza dell’VIII Armata britannica. Del resto il fronte senese, povero di ampie vallate, di comode vie di comunicazione e prevalentemente accidentato, permetteva di sfruttare nel migliore dei modi le caratteristiche della fanteria leggera francese che si era rivelata particolarmente abile nelle aree montane.

Il corpo di spedizione transalpino era composto da quattro grandi unità, la I Divisione Francia libera, comandata da Diego Brosset, forte di 15.491 uomini di cui 9.012 europei e il resto di altre nazionalità; la II Divisione di fanteria marocchina, comandata da André Dody, composta da 13.895 uomini di cui 6.578 europei e il resto africani; la III Divisione di fanteria algerina (quella che liberò Siena), comandata da Joseph Goislard De Montsabert e composta da 13.189 effettivi di cui 6.353 europei e 6.835 africani; la IV Divisione marocchina da montagna, comandata da Françoise Sevez, e composta da 19.252 uomini di cui 6.545 europei e 12.707 africani.

Oltre a queste unità, costitutite nel Magreb liberato a partire dal 1943, ben armate e addestrate[1], si aggiungeva una riserva di 29.431 elementi, circa metà europei e metà africani e infine i Goums, in tutto 7.833 uomini, di cui solo 645 europei, comandati dal generale Augustin Guillaume[2].

Furono proprio questi ultimi a rimanere particolarmente impressi nell’immaginario della popolazione senese, sia per il proprio, indubbio, valore sul campo di battaglia che per una serie di violenze contro i civili.

Il termine goumier deriva dalla francesizzazione del sostantivo arabo qawm che significa tribù, gruppo sociale[3]; tali truppe erano infatti inquadrate in compagnie chiamate goums forti di duecento uomini ciascuna; tre o quattro di tali reparti formavano un tabor[4] (reggimento).

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, "Attenti a dove sparate.", Siena, Betti editore, 2018

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, “Attenti a dove sparate.”, Siena, Betti editore, 2018

Questi gruppi erano sorti nel Marocco francese come milizia territoriale nel 1908 e avrebbero servito il Governo di Parigi fino al 1956 (anno d’indipendenza del Marocco, Paese da cui provenivano la maggioranza dei militi); ogni goum era composto (a parte gli ufficiali, tutti francesi[5]) da nativi della regione montuosa dell’Atlante e si differenziava dalle altre truppe coloniali regolari (gli spahis -la cavalleria- e i tirailleurs -la fanteria-), in quanto contribuiva a formare un corpo di fanteria leggera i cui membri erano legati spesso da vincoli di parentela e venivano reclutati direttamente dal comandante di ogni singolo reparto, ragion per cui si veniva a creare uno strettissimo rapporto con quest’ultimo.

Ogni goum era formato da tre plotoni di fanteria, uno di cavalleria (che, quando era impegnato fuori dall’Africa, si trasformava, di sovente, in fanteria), uno di mitragliatrici, uno di mortai e uno di mulattieri per il trasporto dell’equipaggiamento.

L’insegna dei goumiers era la koumya, ossia il pugnale ricurvo dei berberi e la loro divisa era composta da una lunga veste  in lana grezza a strisce (la djellaba), il turbante ed i sandali ai piedi (questi ultimi sostituiti, in seguito, da antiquati elmetti di tipo brodie e da scarponi d’ordinanza).

I goumier avevano avuto il loro battesimo del fuoco nella Seconda guerra mondiale operando con successo in Tunisia contro i tedeschi e gli italiani, in seguito erano stati impiegati in Sicilia, in Corsica e sul fronte di Cassino per poi arrivare in Toscana sempre agli ordini di Augustin Guillaume[6].

E furono proprio costoro che buona parte della popolazione senese vide, dopo la partenza dei tedeschi, invece dei tanto sospirati americani con le loro sigarette e la cioccolata.

Purtroppo, in molti casi, il primo impatto non fu dei migliori. Nonostante una serie di brillanti successi tattici come l’aggiramento di Montalcino o il superamento del fiume Merse presso il ponte a Macereto le violenze non mancarono. Non si ebbero episodi  diffusi e generalizzati come quelli di  Esperia o Ausonia ma il bilancio fu lo stesso pesantissimo.

Alcuni partigiani della formazione Spartaco Lavagnini riferirono che nella sola cittadina di Abbadia San Salvatore le truppe francesi violentarono sessanta donne, nonché alcuni uomini, senza tener conto dell’età delle vittime; vennero inoltre operati  numerosi saccheggi. Le proteste inoltrate dagli stessi partigiani agli ufficiali transalpini non sortirono alcun effetto.

Gli stupri perpetrati dagli uomini del Corps  expéditionnaire continuarono a San Quirico d’Orcia, Casciano di Murlo, Murlo, Casole d’Elsa, Monteriggioni, Colle val d’Elsa, Poggibonsi (Pian dei Campi)[7] e  Monticiano[8] tuttavia non è facile quantificare il fenomeno per via dello stillicidio di fatti isolati spesso non denunciati dalle vittime a causa della vergogna.

A un certo punto i comandanti americani chiesero ai colleghi francesi di contrastare le violenze delle proprie truppe contro la popolazione locale.

Il generale Guilluame reagì  in modo ufficiale, seppur minimizzandole, ammettendo le violenze che venivano tuttavia attribuite non tanto ai reparti combattenti quanto agli addetti ai servizi di retroguardia[9]. Ufficiosamente però si cominciarono a prendere provvedimenti drastici. A Casal di Pari, in seguito a un certo numero di stupri, cinque goumiers vennero colti in fragrante, fucilati ed i corpi esposti nella piazza del paese dietro ordine dello stesso Guillaume[10].

Nonostante l’esempio la scia di violenze continuò e si ha notizia di ufficiali francesi che procedettero a punizioni cruente ed esecuzioni sommarie[11]. Gli alleati completarono la liberazione del territorio senese nella seconda metà del luglio 1944 e pochi giorni dopo l’intero Corps expéditionnaire français venne richiamato nelle retrovie per partecipare allo sbarco in Provenza che avvenne il 15 agosto dello stesso anno.

[1] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire française en Italie 1943-1944, Paris, Histoire e collections, 2003, p. 9 e ss.

[2] Il bilancio delle perdite francesi nel corso della campagna d’Italia fu particolarmente sanguinoso: il Corps

expeditionnaire, tra morti, feriti e dispersi, perse quasi il 30% dei propri effettivi.

Cfr. BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena. Storia e immagini delle operazioni militari, Siena, Nuova Immagine, p.108-113.

[3] Cfr. www.cnrtl.fr/definition/goumier.

[4] Parola di origine turca che significa battaglione. Cfr. www.cnrtl.fr/definition/tabor.

[5] Per quanto riguarda i ranghi dei sottufficiali o dei graduati con competenze speciali (autisti, capi mitraglieri e così via),

all’interno di reparti costituiti esclusivamente o quasi da africani, come i goums, l’esercito francese si serviva dei

cosiddetti troncs de figuier e dei pieds noirs, ossia i discendenti di francesi stabilitisi in Marocco (i primi) o in Algeria (i

secondi); costoro parlavano infatti l’arabo. GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 33.

[6] Cfr https://goumier.jimdo.com/histoire-des-goumiers/

[7] LUCCIOLI M. – SABATINI D., La ciociara e le altre. Il Corpo di Spedizione Francese in Italia, Roma, ed. Tusculum,

1998, pp. 88 e ss.

[8] MARTINELLI A., Monticiano Racconta. Testimonianze raccolte e trascritte da Alda Martinelli, Siena, Cantagalli,

2010, p.54.

[9] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p.44.

[10] L’episodio è narrato nel giornale di marcia del capitano Henri Tartaroli del 2° reggimento d’artiglieria coloniale in

GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 44-45;  Alessandro Orlandini e Giorgio Venturini, parlando del

medesimo fatto, fanno riferimento ad una sola donna violentata da sei goumiers che vennero  fucilati; cfr ORLANDINI

  1. – VENTURINI G., I giudici e la Resistenza dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani: il caso

Siena, Milano, La pietra, 1983, p.14-15.

[11] BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena …, op.cit., p. 84 in nota 5.




Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione

A partire dai primi di settembre del 1943, i dirigenti del Partito d’Azione fiorentino, allo scopo di dotare la nascente organizzazione resistenziale cittadina di un adeguato strumento di informazione e di intelligence militare, disposero la creazione di un servizio clandestino di radiocomunicazioni sotto la sigla Co.Ra, abbreviazione di Commissione Radio. Come ebbe a ricordare successivamente uno dei suoi proponenti, il servizio – in linea peraltro con quanto di analogo stavano facendo altrove altri gruppi del partito – oltre a ricercare un ponte radio col quartier generale alleato ad Algeri rispondeva all’intento di collegare più «organicamente la resistenza armata in Italia»[1], mettendo meglio in comunicazione tra loro i principali centri clandestini operanti in territorio occupato e i comandi delle nascenti formazioni partigiane. Quest’ultimo aspetto nel contesto fiorentino implicava creare un più diretto coordinamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), nel quale gli azionisti detenevano un ruolo chiave, e le bande operanti in provincia. In tal senso, ai responsabili il costituendo servizio radiocomunicazioni del Partito d’Azione fiorentino, vennero sottoposti sin da subito due obiettivi in particolare:

1) [creare] Collegamenti con i centri radio del Partito nell’Alta Italia per facilitare l’attività politica e militare clandestina e dare la possibilità di comunicare via Svizzera con Algeri o direttamente col Comando militare dell’Italia liberata per l’invio di notizie militari e per la richiesta di armamento ed approvvigionamento delle bande partigiane.

2) Collegare le bande stesse col Comando militare di Firenze.[2]

A capo del comitato tecnico del nascente servizio furono poste le figure del capitano dell’aeronautica Italo Piccagli, del fisico Carlo Ballario e dello studente di ingegneria Luigi Morandi, nessuna delle tre formalmente iscritte al partito, ma già impegnate a sostegno del movimento clandestino antifascista cittadino.

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Il capitano Italo Piccagli (ISRT, Fondo Italo Piccagli e Ruth, fasc. 2)

Italo Piccagli, classe 1909, dopo una prima formazione militare ricevuta presso l’Accademia Navale di Livorno, era passato all’Aeronautica, dove si era presto distinto in azioni militari (ottenne la medaglia d’argento al valor militare per un’azione di salvataggio in mare che gli costò una cronica malattia polmonare) e per gli studi nel campo dell’ottica, della meteorologia e della navigazione aerea. Militare in servizio permanente, nel 1943 dirigeva a Firenze il Gabinetto di Navigazione Aerea e di Meteorologia della Scuola di Guerra Aerea delle Cascine. Di sentimenti antifascisti, benché senza mai aderire formalmente ad alcun partito, dopo l’8 settembre 1943 Piccagli si era avvicinato al movimento clandestino. Lasciata di conseguenza la Scuola delle Cascine era riuscito a mettere in salvo presso l’Istituto di Fisica di Arcetri il materiale tecnico-scientifico del Gabinetto da lui diretto e sottratto casse di munizioni e materiale radio vario[3]. Di radio Co.Ra Piccagli divenne una delle figure chiave grazie alle sue conoscenze in campo aeronautico e alla sua personale rete di contatti in campo militare che gli permisero di organizzare un efficiente servizio di informazioni.

Oltre a Piccagli, con ruolo di consulente tecnico e scientifico, fu posto nel comitato Co.Ra Carlo Ballario, classe 1915, assistente di Fisica all’Università di Firenze e poi di Bologna. A lui, nella seconda metà del settembre 1943, gli azionisti Giovanni Turziani e Carlo Furno avevano chiesto di interessarsi per il partito del problema delle comunicazioni radio con l’Alta Italia, ragion per cui Ballario era entrato in contatto ai primi di ottobre con Piccagli. A questi due venne ad affiancarsi anche Luigi Morandi, giovane studente di ingegneria classe 1920, il quale accettò di buon grado di porre a servizio le sue pregresse conoscenze tecniche già note al Ballario e oramai «decuplicate da lunga esperienza»[4]. In effetti, appassionato sin da giovane di radio-trasmittenti grazie all’attività del padre (un esperto radiotecnico e proprietario di un negozio radio) Morandi, dopo alcune esperienze lavorative prima in un’azienda radio milanese (la Geloso) e poi a Bologna presso il reparto ricerche della Ducati, nel 1941 era stato chiamato sotto le armi e dislocato in Albania con compiti di radio-operatore, venendo poi destinato nel 1942 col grado di sottotenente al 7° Reggimento Genio Radiotelegrafisti di Firenze[5]. Piccagli, Ballario e Morandi poterono costituire così nel seno del servizio Co.Ra «un’équipe di grandissimo valore scientifico e tecnico»[6].

Il primo tentativo di stabilire un contatto radio con altri centri dell’Alta Italia da parte del gruppo Co.Ra si ebbe con l’acquisto a Bologna di una ricetrasmittente (denominata «la bolognina») della potenza di circa 60 watt che fu consegnata a Firenze a Carlo Lodovico Ragghianti per tramite di Antonio Rinaldi e Paolo Bassani (fratello dello scrittore Giorgio Bassani e impiegato del laboratorio nel quale l’apparato era stato costruito) e occultata a cura di Enzo Tardini “Doria”. Numerose difficoltà tecniche, tra cui la mancanza dei quarzi stabilizzatori di frequenza e l’approntamento delle basi di trasmissione con l’installazione di antenne sufficientemente potenti, vanificarono però i tentativi del gruppo di stabilire in tempi rapidi un collegamento costante con Milano. A poco valse in tal senso anche un viaggio informativo lì compiuto da Morandi. Si dovette attendere il marzo del 1944 perché il gruppo riuscisse a far funzionare adeguatamente l’apparato radio, entrando in contatti continuativi con i centri radio clandestini di Milano, Genova e Bologna. A quella data, tuttavia, il progetto originario di una rete di comunicazioni interna che collegasse i principali centri dirigenti della Resistenza italiana aveva perso di rilevanza. Ciò, anche a causa dello smantellamento a opera del Sicherheitsdienst tedesco dell’Organizzazione radio “Otto”, la missione dello Special Operation Executive britannico organizzata dal medico genovese Ottorino Balduzzi alla quale, col tramite del radiotelegrafista della Marina Giuseppe Cirillo, aveva fatto riferimento il sistema informativo organizzato da Ferruccio Parri per il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e che aveva offerto inizialmente un appoggio per una rete di comunicazioni interna alla Resistenza italiana [7].

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Carlo Ballario (ISRT, fondo Carlo Ballario, ins. 25)

Nel frattempo, anche il secondo proposito originario del servizio Co.Ra., di creare cioè un collegamento tra le bande armate toscane e i vertici militari del CTLN, si era scontrato con difficoltà di natura tecnica. Mentre infatti sin dai mesi finali del 1943 erano state costruite e testate con la supervisione di Ballario e Morandi piccole radio da campo alimentate a pile che avrebbero dovuto essere distribuite alle bande, la difficoltà di collegarsi con queste ultime e la mancanza di personale radiotelegrafista ritardò l’avvio delle prime sperimentazioni, le quali, d’altro canto, una volta iniziate non ebbero l’effetto sperato[8]. Fu anche per questo, che l’attività del gruppo Co.Ra a partire dalla primavera del 1944 si orientò prevalentemente a ricercare un collegamento diretto con gli Alleati, così anche da rendersi autonoma dall’appoggio sin lì fornito da altre missioni radio cui il Partito d’Azione fiorentino era dovuto ricorrere in precedenza, sia per l’ottenimento di informazioni che per la richiesta di supporto militare. In tal senso, già nel febbraio 1944 l’organizzazione azionista fiorentina era riuscita a ottenere dagli Alleati un aviolancio su Monte Giovi tramite la missione radio “Rutland”di Domenico Azzari, agente dello Special Operation Executive paracadutato al confine tra Lunigiana e Lucchesia, il quale, dopo essersi unito alla banda partigiana di Angiolino Marini “Diavolo Nero”, si trovò a gestire e smistare dalle Apuane diversi aviolanci alleati a favore di varie formazioni toscane. In quel caso, per il partito azionista fiorentino i contatti con la missione Azzari erano stati tenuti tramite accordi stabiliti tra la partigiana viareggina Vera Vassalle e la staffetta fiorentina Maria Luigia Guaita – responsabile del servizio di falsificazione documenti del Partito d’Azione fiorentino che lavorava in stretta collaborazione col gruppo Co.Ra – e il lancio, raccolto su Monte Giovi a cura di Max Boris, aveva avuto buon esito[9]. Più o meno negli stessi mesi anche il maggiore dell’aeronautica Giuseppe Cusumano in relazione col gruppo azionista fiorentino era stato inserito in una missione alleata incaricata di rilevare le fortificazioni sul tratto occidentale della Gotica e di trasmetterne via radio le informazioni ad Algeri[10].

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Attestato di Partigiano Combattente di Carlo Ballario (ISRT, Fondo Carlo Ballario, ins. 22)

L’occasione per dotare il gruppo Co.Ra dell’equipaggiamento necessario a contattare autonomamente i comandi alleati giunse per mezzo della figura dell’avvocato Enrico Bocci, un antifascista di lungo corso, amico fraterno dei fratelli Rosselli, già membro in passato del Circolo di Cultura Salvemini di Firenze e collaboratore assieme a Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Nello Traquandi di «Italia Libera» e del «Non Mollare». Alla fine di gennaio 1944 Bocci era stato messo in comunicazione tramite il signor Oscar Fontanella con l’ufficiale Nicola Pasqualin, capo di una missione alleata sbarcata nei paraggi di Porto Corsini, sulle coste adriatiche, e giunta a Firenze per stabilire un ponte radio tra il movimento resistente e il comando alleato. Le presentazioni tra Bocci e Pasqualin erano state fatte nello studio dell’industriale Vasco Petrelli, personalità in contatto con esponenti del movimento clandestino comunista, cui sovente passava informazioni. Il Pasqualin, in possesso del cifrario per le trasmissioni, assieme al radiotelegrafista Renato Levi – un ebreo sfuggito alle persecuzioni razziali e conosciuto col soprannome di «Pomero» o «Rossino» – furono affidati così alle cure del Bocci. Quest’ultimo, chiamato il Ballario per affidargli la riparazione della ricetrasmittente in dotazione della missione alleata danneggiatasi durante lo sbarco, sì unì di fatto col gruppo di Piccagli nella direzione del servizio Co.Ra. La ricetrasmittente messa a disposizione dal Pasqualin fu portata in un primo tempo nello studio dello stesso Bocci, al piano terra di via Ricasoli n. 26, dalla sua segretaria Gilda Larocca, preziosa collaboratrice del servizio clandestino. La prima trasmissione, tuttavia, venne effettuata nei locali della Casa Editrice Bemporad, in via dei Pucci, messi a disposizione da Renato Giuntini, amico di Bocci. Come primo tentativo fu deciso di trasmettere al centro radio alleato di Bari-Monopoli il messaggio convenzionale L’Arno scorre a Firenze il quale, a prova dell’avvenuto contatto, venne poi ritrasmesso in chiaro dagli Alleati sulla frequenza di Radio Bari.

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Luigi Morandi (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Stabilito un contatto oltre le linee, l’attività del gruppo Co.Ra, oltre a richiedere l’intervento alleato in operazioni di appoggio alle bande partigiane o l’invio di armamenti e rifornimenti a mezzo aviolanci, si indirizzò prevalentemente nella raccolta e trasmissione agli Alleati di informazioni riguardanti le linee difensive appenniniche, i presidi e i depositi tedeschi, il traffico merce diretto in Germania, i movimenti ferroviari e lo spostamento delle truppe germaniche, così da rendere possibile adeguate contromisure. Le informazioni provenivano dalla rete d’intelligence del partito o altrimenti erano raccolte tramite i più vari canali dai collaboratori del servizio. La stessa moglie di Bocci, Mitzi, d’origini austriache, approfittava della sua madre lingua per carpire eventuali notizie che ufficiai tedeschi inavvertitamente potevano lasciar trapelare nel corso dei ricevimenti organizzati dall’industriale Vasco Petrelli e ai quali i coniugi Bocci erano spesso invitati[11].

Sul piano militare uno dei successi più eclatanti conseguiti dal servizio Co.Ra fu, nel maggio 1944, la raccolta e l’invio al comando alleato di circostanziate informazioni inerenti lo spostamento della divisione Herman Goering da Firenze verso il fronte meridionale, comunicazione che permise all’aviazione alleata di intercettare nel grossetano il grosso della formazione, provocandole perdite sostanziose[12].

Le modalità con le quali avvenivano le trasmissioni da parte del gruppo erano grossomodo le seguenti:

Di tutte le informazioni che Bocci e Piccagli sceglievano, setacciavano, vagliavano, venivano poi fatti tanti fogliolini – i chiari – che venivano portati, dalla Gilda [Larocca], per la traduzione in codice, dal Pasqualin. Questi era l’unico che avesse il cifrario. Stava in via Tornabuoni. E di lì i bigliettini ripartivano per la casa dove in quel giorno era installata la radio e dove il R.T. [radiotelegrafista] li trasmetteva all’VIII Armata. Ogni volta, in cifrato, al R.T. veniva trasmessa dagli Alleati l’ora della trasmissione successiva. Decifrato il messaggio (mai dal R.T. che non conosceva il codice) si preparavano le notizie «tradotte» per l’ora stabilita. C’era però sempre un appuntamento di emergenza se, per una ragione qualsiasi, nell’ora pattuita la trasmissione non avesse potuto aver luogo.[13]

Per quanto riguardava invece gli accurati rilievi topografici connessi  a obiettivi militari sensibili che il gruppo otteneva dal servizio informazione del partito, essi venivano riportati dettagliatamente su carte in scala variabile cedute dietro sollecitazione di Piccagli dal colonnello Lari dell’Istituto Geografico Militare e ordinate nella ricca cartoteca dell’archivio Co.Ra a cura di Ballario e con l’assistenza di Piccagli e di Lodovico De Renzis-Sonnino, dal cui palazzo familiare di via del Prato venivano talvolta effettuate le trasmissioni radio e ove erano altresì confezionate da Piccagli le copie microfilmate delle stesse carte[14].

Quella di via del Prato non era che una delle molteplici basi logistiche del servizio da cui erano dirette le comunicazioni radio, le quali, per regola generale di sicurezza, oltre ad essere sempre brevi per non dare il tempo ai radiogoniometri tedeschi di intercettare la fonte, non dovevano partire mai due volte di seguito dallo stesso luogo. Le principali basi di trasmissione del gruppo, oltre allo studio del Bocci – per la verità poco adatto allo scopo – furono: l’abitazione di questo a Ponte a Mensola; la casa di Piccagli in via Repetti; la già citata casa editrice Bemporad; l’Istituto Fotocromatico Italiano in via La Farina di proprietà di Vincenzo Balocchi, un parente di Bocci; l’abitazione del medico e professore Piero Pieraccini in via Salvestrina e la clinica ove questi operava in Viale Mazzini; l’abitazione in viale Michelangelo di Gianni Banti, un compagno di Bocci dei tempi del «Non Mollare»; alcuni quartieri presi in affitto in viale Corsica e in via Brunetto Latini; la centrale Rifredi della Società Elettrica Valdarno; l’Istituto di Fisica di Arcetri e la già citata abitazione del De Renzis.

Ai primi di maggio del 1944, con l’aumento dell’attività e dell’organico del gruppo (entro il quale fecero ingresso in particolare Luciano Tamburini, come informatore militare, Guido Focacci, come responsabile dei campi di lancio alleati, e Gianfranco Gilardini), si rese necessaria la ricerca di un’ulteriore sede da cui trasmettere. Tramite la mediazione del Tamburini si riuscì a ottenere dal conte Carlo Cotta, vicino al Partito d’Azione, un appartamento situato al terzo e ultimo piano di un palazzo posto al civico 12 di Piazza d’Azeglio che fu regolarmente affittato a nome del Gilardini[15]. Si trattava di un ampio appartamento ammobiliato, dai cui quartieri di servizio, posti nelle soffitte, potevano essere effettuate con relativa sicurezza le trasmissioni, sempre affidate al «Pomero». Quest’ultimo, però, tendenzialmente restio per ragioni di prudenza ad accondiscendere a sessioni radio ripetute e continuative, con l’aumentare del ritmo delle trasmissioni in vista del progressivo avvicinarsi del fronte di guerra alla Toscana, lasciò che fosse Luigi Morandi a sostituirlo come radiooperatore.

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Enrico Bocci (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Tra la fine di maggio e i primi di giugno l’attività del servizio crebbe in effetti di intensità. Una missione aviolanciata alleata di dodici paracadutisti (missione “Nicky”) che avrebbero dovuto integrare la precedente missione di Pasqualin fu organizzata dal gruppo Co.Ra in collaborazione col maggiore Mario Martini (Capitano Niccolai) comandante delle forze partigiane della provincia di Prato. Il lancio avvenne con successo la sera del 2 giugno ai Faggi di Javello nelle vicinanze del monte Calvana. Cinque dei paracadutati vennero avviati a Firenze e qui alloggiati per interesse di Bocci in alcuni appartamenti di via Tripoli e XXVII Aprile. In conseguenza della liberazione di Roma del 4 giugno e dello sbarco alleato in Normandia del 6, un’importante riunione dei componenti il gruppo venne inoltre convocata per il giorno 7 nella nuova sede di Piazza d’Azeglio allo scopo di trasmettere le informazioni di ordine militare inerenti lo stato delle forze tedesche e l’entità delle formazioni partigiane che il comando alleato aveva richiesto con un questionario cifrato appositamente radiotrasmesso. Tra i convenuti all’incontro – in numero superiore al consueto, data la circostanza – vi erano Bocci, Piccagli, Morandi, Focacci, Gilardini, Tamburini, la segretaria Larocca e anche Carlo Campolmi, responsabile militare del Partito d’Azione. Erano assenti invece Ballario, recatosi ad assistere la moglie ricoverata in ospedale per una setticemia, e Maria Luigia Guaita, partita lo stesso giorno per una missione di collegamento col gruppo viareggino di Radio “Rosa”[16]. Tra i convenuti alla riunione, Tamburini dopo un certo tempo se ne andò, seguito da Piccagli in ragione di un abboccamento già fissato in precedenza. Verso l’ora di cena, circa, tre uomini in borghese e armati si presentarono alla porta dell’appartamento nel quale fecero irruzione, seguiti nell’immediato da SS e fascisti del reparto di Mario Carità. Tutti gli adunati, senza che potessero reagire, furono fermati e fatti allineare su di una parete. Luigi Morandi, intento già a trasmettere dai locali della soffitta, non si accorse in tempo dell’irruzione. Sorpreso e disarmato, approfittando di una distrazione riuscì comunque a impossessarsi fulmineamente dell’arma di un tedesco uccidendolo, prima di venir fatto segno di una raffica di mitra sparata da un commilitone. Trasportato successivamente presso l’ospedale di via Giusti sarebbe deceduto tre giorni dopo a causa delle ferite riportare. Gli altri componenti del gruppo, percossi e malmenati, furono condotti in arresto presso i locali di Villa Triste, sede della polizia tedesca (Sicherheitsdienst) e del Reparto Servizi Speciali della 92° Legione della MVSN al comando di Mario Carità. Tra gli arrestati, oltre ai presenti alla riunione, cadde anche Piccagli, il quale, rientrando dall’abboccamento venne fermato da un milite lasciato a presidio della sede di Piazza d’Azeglio e trasportato con gli altri a Villa Triste[17].

Tra l’8 e il 9 giugno, le forze di polizia nazifasciste riuscirono a catturare anche quattro dei cinque paracadutisti della missione “Nicky”, ma non Pasqualin e «Pomero», i quali riuscirono a salvarsi. Negli stessi giorni, con l’intento di arrestarlo, tedeschi e fascisti si recarono a Montemurlo presso l’abitazione del capitano Mario Martini (che aveva collaborato all’aviolancio dei dodici agenti paracadutati ai Faggi di Javello), il quale però riuscì fortunosamente a sottrarsi alla cattura ma non a evitare l’arresto del figlio quattordicenne, Marcello, condotto a Villa Triste e successivamente deportato a Mauthausen. Stessa sorte toccò anche a Ruth Weidenreich, moglie di Piccagli e anch’essa attivamente impegnata nel movimento di Liberazione fiorentino. Ebrea tedesca, Ruth fu infatti arrestata dopo la retata del 7 giugno e quindi tradotta a Villa Triste, dove ebbe la possibilità di rivedere per l’ultima volta il marito, prima di essere deportata ad Auschwitz. Tutti gli arrestati del gruppo Co.Ra, nessuno escluso, a Villa Triste subirono per giorni incessanti interrogatori e brutali torture, i cui particolari raccapriccianti emersero nel corso dei procedimenti giudiziari cui nel dopoguerra furono sottoposti i membri della banda Carità presso le Corti straordinarie di Bologna e Lucca. I più martoriati, in tal senso, furono certamente Bocci e Piccagli, che con coraggio si assunsero tutta la responsabilità dell’attività di radio Co.Ra nel tentativo di scagionare i propri compagni. Oltre alle sevizie della tortura entrambi condivisero la stessa tragica sorte. Il 12 giugno, Piccagli venne infatti trasportato assieme ai quattro paracadutisti della missione “Nicky” (Fiorenzo Franco, Pietro Ghergo, Dante Romagnoli e Ferdinando Panerai) a Cercina, sulle pendici di Monte Morello, e qui fucilato sulle sponde del torrente Terzolle assieme ai primi, ad Anna Maria Enriquez Agnoletti (attivista cristiano sociale e sorella dell’azionista Enzo prelevata poco prima dalle carceri di Santa Verdiana) e a un partigiano cecoslovacco. L’agonia di Enrico Bocci in mano ai suoi carnefici si protrasse invece fino al 18 giugno, giorno in cui venne probabilmente finito a Villa Triste o altrimenti fucilato nei dintorni di Firenze, benché il suo corpo non fu mai ritrovato. I rimanenti del gruppo (Gilda Larocca, Ruth Weidenreich, Carlo Campolmi, Guido Focacci, Gianfranco Gilardini, Marcello Martini) dopo le torture subite vennero trasferiti a Fossoli di Carpi e da qui deportati in Germania: alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il viaggio, gli altri fecero ritorno a casa solo a guerra finita.

Nonostante il duro colpo inflitto all’organizzazione Co.Ra dalla retata del 7 giugno – la cui portata aprì molti dubbi e sospetti sulla possibile delazione di una spia infiltratasi entro l’organizzazione clandestina del Partito d’Azione[18] – il servizio non cessò comunque di esistere e l’attività di radiocomunicazioni riprese con sorprendente rapidità. L’ufficiale Pasqualin, sfuggito alla cattura e rifugiatosi per qualche tempo in provincia di Arezzo, fatto ritorno a Firenze con «Pomero» attorno al 20 di giugno riprese subito i contatti col movimento clandestino incontrandosi con Carlo Lodovico Ragghianti, Presidente del CTLN. A quest’ultimo venne consegnato un apparecchio ricetrasmittente occultato dal «Pomero» prima della fuga che consentì di riprendere le trasmissioni, affidate stavolta al nuovo telegrafista indicato da Ragghianti: il capitano del Genio Giuseppe Campolmi “Spartaco”. Quest’ultimo, dopo diversi tentativi andati a vuoto, riuscì a stabilire un nuovo ponte radio col centro alleato di Bari-Monopoli trasmettendo dalla soffitta della clinica privata di via della Robbia, messa a disposizione dal dottor Bruno Gherardi. Al nuovo servizio radio Co.Ra coadiuvarono anche Ludovico De Renzis-Sonnino, il giovane studente d’ingegneria Lorenzo Rigutini – chiamato a collaborare alla rete informativa dal Ballario sin dalla fine di giugno[19] – e Adriano Milani Comparetti, membro delle squadre d’assalto del Partito d’Azione, fratello di don Lorenzo Milani e in seguito tra i più famosi neuropsichiatri infantili italiani[20]. Tra le sedi clandestine che ospitarono la rinnovata attività di trasmissione vi furono i locali della Società di cremazione al Mercato Nuovo, una soffitta in via del Pratellino, l’Istituto del Rinascimento in Palazzo Strozzi, la Villa Vittoria e l’abitazione dei Rigutini a Bellosguardo[21]. Con l’avvio dell’emergenza ai primi di luglio del 1944 e il distacco della rete elettrica cittadina, la possibilità di utilizzare gli apparati ricetrasmittenti venne garantita dall’impiego di alcuni accumulatori in dotazione della facoltà di Chimica messi a disposizione dal professor Giovanni Speroni per tramite di Carlo Ballario[22]. A questo modo, le trasmissioni del servizio Co.Ra poterono proseguire, di fatto spingendosi sino alle fasi imminenti la liberazione della città, l’11 agosto.

[1] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», «La Nazione», 11 agosto 1979, p. 3.

[2] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze (d’ora n poi ISRT), fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; l’originale manoscritto di Carlo Ballario della relazione è in: ivi, inserti 31-36. La relazione di Ballario è citata parzialmente anche in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci. Una vita per la libertà, G. Barbera Editore, Firenze 1969, p. 61.

[3] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, Relazione sull’attività svolta dal Capitano Italo Piccagli, Firenze 20 agosto 1944; Italo Piccagli: una scelta di libertà, a cura del Comitato regionale toscano per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione, Parretti, Firenze 1974.

[4] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; ivi, ins. 31, appunto manoscritto di Ballario.

[5] Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano. Appunti per una storia di libertà, La Nuova Europa Editrice, Firenze 1984, pp. 31-33.

[6] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio e le altre due stazioni radio, Giuntina, Firenze 1985, p. 46.

[7] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit. Sull’Organizzazione “Otto”, cfr. Peter Tompkins, L’Altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 151-152.

[8] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione;

[9] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci, cit., p. 80. Sulla missione Azzari cfr. Maurizio Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 48-49. Sul lancio procurato su Monte Giovi cfr. Max Boris, Al tempo del fascismo e della guerra. racconto della vita mia e altrui, a cura di Simone Neri Serneri, Polistampa, Firenze 2006, pp. 56-61.

[10] Testimonianza di Giuseppe Cusmano citata in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., p. 64.

[11] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 50.

[12] Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 155-157; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 59-60; Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano, cit., pp. 41-43.

[13] L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., pp. 82-83.

[14] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 52.

[15] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, p. 1.

[16] Maria Luisa Guaita, Storie di un anno grande. Settembre 1943-agosto 944, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1975, pp. 56-58.

[17] Per una ricostruzione dell’irruzione e degli arresti, oltre alla bibliografia citata nelle note precedenti, si veda anche: ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, pp. 5 e sgg.

[18] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra,, Partito d’Azione, Sezione di Firenze, Servizio Informazioni, Indagine intesa ad accertare come le SS abbiano scoperto la radio clandestina di Piazza d’Azeglio n. 12..

[19] Ivi, fondo Carlo Ballario, inserto 23, Relazione sull’attività Cora di Lorenzo Rigutini.

[20] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.

[21] Ibidem. Per il riferimento delle trasmissioni effettuate presso l’abitazione dei Rigutini, cfr. Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S Stefano, Diario di Beatrice Rigutini, a cura di Silvia Rigutini.

[22] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 97-98.




Un inedito contributo dei Tre Carabinieri di Fiesole “all’armamento (…) delle formazioni partigiane”

Un importante documento inedito nell’archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea ci aiuta a comprendere alcuni dettagli chiave su un evento celebre, legato alla Resistenza in Toscana: la storia dei Carabinieri di Fiesole. Tra il luglio e l’agosto del 1944, negli ultimi mesi dell’occupazione, mentre le truppe tedesche stavano preparando la ritirata verso nord, i carabinieri di stanza a Fiesole misero costantemente a rischio la propria vita, aiutando i partigiani impegnati contro le brutali forze occupanti.[i]

Tutti i carabinieri che risultavano allora attivi nella caserma erano anche iscritti alla Brigata “V” del Corpo Volontario della Liberà, Divisione Giustizia e Libertà: il comandante, Vice Brigidiere Giuseppe Amico, l’appuntato Francesco Naclerio, e i giovani carabinieri Alberto La Rocca, Vittorio Marandola e Fulvio Sbarretti. Il 6 agosto Amico venne deportato dai tedeschi ma riuscì a fuggire e a far recapitare ai suoi quattro colleghi rimasti in caserma l’ordine di lasciare il presidio, di spostarsi a Firenze e partecipare alla liberazione. La sera dell’11 agosto Naclerio, La Rocca, Marandola e Sbarretti misero in atto la prima parte del piano ma, rimasti bloccati a Fiesole, ormai isolata, dovettero nascondersi. I tedeschi, trovando vuota la locale caserma, minacciarono di uccidere dieci civili già preventivamente trattenuti se i carabinieri non si fossero consegnati. Informati dell’imminente pericolo per gli ostaggi, i quattro militari decisero di presentarsi. Al più anziano furono inflitte pesanti minacce, risparmiata la vita e imposta la ripresa del servizio. Il destino dei tre giovani, La Rocca, Marandola e Sbarretti, è descritto nella motivazione per il conferimento della medaglia d’oro al valor militare, conferita nel 1946. Ciascuno

veniva informato che il comando germanico aveva deciso di fucilare dieci ostaggi nel caso egli non si fosse presentato al comando stesso entro poche ore. Pienamente consapevole della sorte che lo attendeva, serenamente e senza titubanze la subiva perché dieci innocenti avessero salva la vita. Poco dopo affrontava con stoicismo il plotone d’esecuzione tedesco”.

Il documento indica anche che i Tre Carabinieri parteciparono “con grave rischio personale, all’attività del fronte clandestino. Dettagli ancor più approfonditi su tali attività appaiono in un rapporto informativo su ciascuno degli eroi, redatto da Vittorio Sorani, comandante della Brigata “V”: “con i suoi colleghi della stazione di Fiesole collaborò alla sottrazione di armi e munizioni (…), all’armamento e al vettovagliamento delle formazioni partigiane a nord di Fiesole”.[ii] Proprio su questo “armamento” esistono ulteriori informazioni, che consentono di formulare nuove ipotesi.

La storia dei Tre Carabinieri è nota soprattutto grazie a un libro del Generale Arnaldo Ferrara, pubblicato dall’Arma dei Carabinieri nel 1976,[iii] ed è stata ripetuta, spesso testualmente, praticamente in tutti i testi successivi. Sebbene si basasse sull’ampia documentazione contenuta nell’archivio storico dell’Arma, in particolare i verbali degli interrogatori dei testimoni redatti tra il 1944 e il 1945, sorprendentemente il volume del 1976 non fa alcun riferimento all’appuntato Naclerio.[iv] Evidentemente Ferrara decise di concentrarsi sui tre eroi che avevano ricevuto le medaglie d’oro. Tuttavia, la figura del “quarto carabiniere”, rimasta praticamente sconosciuta, è stata trattata in altri studi pubblicati successivamente dall’Arma.[v] Una fonte importante, evidentemente non consultata da Ferrara, si trova nell’archivio del Comitato di Liberazione Nazionale di Fiesole, presso l’ISRT. Un inventario dettagliato del 2014 dedica un capitolo all’inchiesta su Luigi Oretti, il segretario comunale di Fiesole durante l’occupazione tedesca accusato, tra l’altro, di non aver evitato la fucilazione dei Tre Carabinieri.[vi] Il verbale della riunione del 15 febbraio 1945, convocata per discutere accuse anonime rivolte a Oretti, riassume le deposizioni di alcuni protagonisti degli eventi dell’11-12 agosto 1944.[vii] Oltre a dimostrare l’innocenza di Oretti, il documento fornisce molti dettagli nuovi sulla storia dei carabinieri di Fiesole. Per esempio Raffaello Nieri, ragioniere comunale durante l’occupazione, spiegava le circostanze in cui il tenente Hans Hiesserich, comandante delle forze tedesche a Fiesole, aveva scoperto la fuga dei carabinieri:

il comandante suddetto aveva ordinato la raccolta di un certo numero di secchi, badili ecc. Dando incombenza di questo al segretario, che avrebbe dovuto trasmettere quest’ordine alle forze di polizia italiane; queste sarebbero andate nelle case mentre i soldati tedeschi li avrebbero accompagnati (…) Mancando i carabinieri, si mandarono dei civili (…) Alla sera il comandante infuriato constatò la assenza dei carabinieri e domandò dove erano (…) il comandante diede ordine di ritrovare i carabinieri entro due ore pena la fucilazione degli ostaggi”.

Anche Oretti riportava la notizia della minaccia e della raccolta degli oggetti in metallo,[viii] e aggiungeva di essersi recato “dal vescovo e qui mons. Luigi Turini affermò di sapere dove si trovavano”. Infatti nel verbale che riguarda quest’ultimo si legge:

Mi consta, avrebbe detto il comandante, che i carabinieri hanno abbandonato la caserma; o stasera prima delle 9 ritornano o faccio fucilare gli ostaggi.[ix] Mons. Turini aveva saputo da alcune donne che i carabinieri in borghese stavano tra la Misericordia e i cunicoli del Teatro romano, destando timori di rappresaglie nelle persone abitanti quella zona. Per consiglio del vescovo andò con l’Oretti ad esporre il dilemma ai carabinieri e trovò prima l’appuntato che chiamò anche gli altri. Mons. Turini li consigliò a vestirsi e presentarsi, persuaso che non ci sarebbe state altre conseguenze che doversi mettere a disposizione dei tedeschi per i servizi di polizia. Andò quindi con la signora Marchi [ l’interprete] dal comandante a riferire che i carabinieri non erano affatto fuggiti.

Come vedremo, poiché era il solo ad avere con sé la divisa, l’appuntato Naclerio fu l’unico carabiniere a presentarsi immediatamente dal Tenente Hiesserich. Assumono particolare importanza i ricordi di Isabella Marchi, che allora faceva da interprete, in quanto con tutta probabilità era l’unica persona, presente in quel momento presso il quartier generale nazista, in grado di capire sia l’italiano sia il tedesco. La testimone descrisse il tentativo di Naclerio di giustificare l’assenza dei suoi commilitoni, fornendo un altro dettaglio importante:

L’appuntato spiegò che i carabinieri, non venendo più pagati dal mese di giugno, si ritenevano liberi da impegni; per questo non si erano più presentati al servizio. Il tenente aggiunse che d’ora innanzi i carabinieri sarebbero stati alle sue dipendenze (…) l’atteggiamento del segretario come di tutti all’uscita da quel colloquio fu come se fosse chiarita favorevolmente la situazione dei carabinieri già detenuti, con un senso generale di sollievo. Al mattino dopo incontrò il segretario sconvolto che le diede la notizia della avvenuta fucilazione. La signora aveva una certa confidenza con un soldato tedesco e a quello domandò che cos’era successo e questi disse che disgraziatamente si erano trovate le armi. Nulla però trapelò durante il colloquio che già fossero scoperte le armi”.

Su questo ritrovamento, il resoconto del ragionier Nieri include ulteriori informazioni inedite. Mentre Oretti e Turini cercavano i carabinieri nei pressi della Misericordia,

I tedeschi stessi dapprima fecero ricerca dei carabinieri alla caserma (…) Mentre tutti erano al primo piano si presentarono i tre carabinieri in borghese per prendere le divise, forse ignorando la presenza dei tedeschi. Questi domandarono dove fossero le armi, e quelli ne indicarono il nascondiglio (uno stanzino nel giardino). Qui furono costretti a caricarsi le armi, e sotto scorta armata a portarle alla villa Martini”.

Quella sera, aggiungeva Oretti, “il comandante lo rimandò a chiamare e gli fece veder le armi trovate, fucili [e] bombe a mano, dicendo che quelle armi erano state preparate contro di loro”. Secondo una fonte anonima ma ben informata, nella caserma “vennero rintracciati 7-8 moschetti, circa 40 bombe a mano e vari proiettili”.[x] Come venne a sapere poco dopo l’interprete, signora Marchi, sarebbe stato proprio il ritrovamento delle armi a far infuriare il comandante. Normalmente le granate non facevano parte della dotazione ordinaria dei carabinieri. Forse, invece, tali bombe risalivano a un’operazione compiuta poco prima dai partigiani a Fiesole. Nella sua “Relazione sull’attività svolta dalla Banda Partigiana Fiesole”, scritta il 13/4/1945, il comandante Luigi Fossi riportava laconicamente: “Il 5 luglio 1944, una squadra di circa 15 uomini disarmò il presidio repubblicano di Poggio Sereno facendo bottino di 20 moschetti, 2 casse di bombe a mano, diversi caricatori”.[xi] Maggiori dettagli su tale audace operazione appaiono in un “Ricordo” che Riccardo Fossi, figlio del comandante, ha recentemente donato all’ISRT. Tale fonte, tuttavia, non chiarisce quale itinerario avessero poi seguito le granate dopo l’operazione. Dato che non vennero usate per altre azioni a Fiesole, sembra plausibile che quelle nascoste nello stanzino del giardino possano coincidere con le granate trafugate al presidio repubblicano il 5 luglio. Se così fosse, quando decisero di presentarsi ai tedeschi il 12 agosto, i quattro carabinieri erano consci di aver occultato materiale altamente compromettente il giorno prima. Monsignor Turini era persuaso che, per i carabinieri, “non ci sarebbero state altre conseguenze che doversi mettere a disposizione dei tedeschi per i servizi di polizia”. Ovviamente l’uomo di Chiesa non sapeva delle bombe a mano nascoste nella caserma. I miliari, viceversa, avevano ben presente i rischi che correvano; mutuando una frase dalla formula della motivazione della medaglia d’oro, ciascuno era “consapevole della sorte che lo attendeva”.

Rimane però un dubbio: perché i carabinieri avrebbero nascosto armi e bombe, se non avevano intenzione di tornare alla caserma? Da un lato non sarebbe stato difficile manomettere questo materiale, per assicurarsi che non potesse essere usato dai tedeschi. Dall’altro sappiamo sia da Sorani sia da altre fonti che in quel periodo i Carabinieri di Fiesole stavano contribuendo “all’armamento e al vettovagliamento delle formazioni partigiane a nord di Fiesole”. Sappiamo inoltre, grazie al verbale di uno degli interrogatori condotti dai Carabinieri, che il 12 agosto 1944 i tedeschi riuscirono ad accedere alla caserma chiusa passando dalla casa di Teresa Belli, la quale abitava dietro l’angolo. La Belli spiegava:

(…) Il Ragioniere Nieri, accompagnato da due tedeschi armati suonò al campanello della mia casa, sita in via Massicini n. 6. Andai ad aprire ed il rag. mi domandò se le finestre della mia abitazione affacciassero sul giardino della caserma dei carabinieri. Risposi negativamente, ma uno dei tedeschi intervenne e chiese di vedere. Allora l’accompagnai ad una delle finestre che dà su un cortiletto, adiacente alla caserma e separato da questa da un muro relativamente basso, facilmente sorpassabile. I tedeschi visto ciò, chiesero di scendere e arrivarono così nel cortile.[xii]

Poiché da lì i tedeschi entrarono facilmente nel giardino della caserma, è certamente possibile che i partigiani potessero o solessero accedervi in modo simile. Ancor oggi vari fiesolani ricordano che i carabinieri lasciavano nel proprio giardino armi a disposizione dei partigiani. Sulla base di tali informazioni e osservazioni, è possibile formulare una nuova ipotesi: forse i carabinieri vollero lasciare fucili e granate nel giardino, in modo che potessero essere recuperati dai loro “colleghi”, i partigiani di Fiesole. L’ipotesi ci riporta alla testimonianza del soldato tedesco confidente dell’interprete, Signora Marchi, secondo il quale il ritrovamento delle armi era stato il motivo della fucilazione dei tre giovani militari. Non sappiamo quanto fosse ben informata o attendibile la fonte ma, se lo fosse, la coraggiosa scelta dei Carabinieri di Fiesole prima di custodire e poi rendere accessibili le armi trafugate potrebbe aver avuto tragiche conseguenze.

[i] Per un resoconto accurato dei Tre Carabinieri di Fiesole, cfr. le schede di F. Fusi sul sito web Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, a cura di P. Pezzino, http://www.straginazifasciste.it.

[ii] Per una riproduzione dei tre documenti cfr. L’archivio del comitato di liberazione nazionale di Fiesole. Inventario, a cura di M. Bonsanti, Edizioni Polistampa, Firenze 2014, pp. 127, 128, 129 (ISRT, ACLNF, Partigiani, fasc. 2, sfac.5).

[iii] A. Ferrara, Carabinieri martiri di Fiesole, Il Carabiniere, Roma 1976.

[iv] I documenti più importanti di questa serie verranno pubblicati nel sito web della mostra “Marcello Guasti, Giovanni Michelucci e il Monumento ai Tre Carabinieri”, Fiesole, Museo Archeologico (17 febbraio – 30 settembre 2019), e sul sito del Museo stesso.

[v] A. Castellano, Carabinieri martiri di Fiesole, “Le Fiamme d’Argento” 42, nn. 8-9 (agosto-settembre 1998), p. 5; J. K. Nelson, Il Carabiniere Francesco Naclerio: superstite di Fiesole, “Notizario Storico dell’Arma dei Carabinieri”, a. III, 4 (2018), pp. 4-12.

[vi] L’inventario, cit., pp. 95-97.

[vii] Ibid, p. 96, ISRT, ACLNF, Inchiesta su Luigi Oretti, fasc. 2, sfasc. 4; cfr. anche p. 97, per le accuse anonime.

[viii] “La requisizione di circa 80 pezzi tra catinelle e brocchetti di metallo,” è menzionata anche nell’anonima “Relazione sulla situazione di Fiesole durante l’invasione teutonica (4 agosto – 1 settembre 1944),”Guerra e lotta di liberazione a Fiesole e nel suo territorio, a cura di S. Nannucci, Studio GE9, Firenze1985, 47. Il documento non è stato rintracciato.

[ix] Silvio Boninsegni, che fece da interprete alla conversazione tra Hesserlich e Oretti, ricordava come il comandante disse al segretario “che se non si fossero trovati i carabinieri sarbbero stati fucilati gli ostaggi”. Ferrara, invece, senza citare tali fonti, scrisse di Hesserlich: “Sembra che le sue parole siano state: ‘O saranno fucilati gli ostaggi civili, o saranno fucilati i carabinieri’”.

[x] Guerra e lotta, cit., 47.

[xi] Idem, p. 26. Il documento si trova nell’archivio dell’ISRT. Nel suo verbale del 27 settembre 1944, Oretti raccontava del comandante tedesco: “mi mostrò 8 o 10 moschetti, una cinquantina di bombe a mano e numerosi caricatori dicendomi: ‘so bene a che cosa servivano queste armi; come a Firenze, sarebbero state distribuite per tirare alle nostre spalle’”; Nelson, cit., 10.

[xii] Roma, Archivio storico dell’Arma dei Carabinieri, filza 749.6, cartella 318, protocollo 318/6 (1944), allegato 2: Processo verbale di interrogatior di Belli Teresa, 16 ottobre 1944.




La 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” e la battaglia di Cetica (29 giugno 1944)

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Aligi Barducci “Potente”, comandante militare della Brigata “Lanciotto”

Il 24 maggio del 1944, dalla fusione dei raggruppamenti partigiani “Checcucci”, “Romanelli”, “Lanciotto” e “Fabbroni”, si costituiva formalmente la 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi[1]. La nuova formazione, intitolata al nome di “Lanciotto Ballerini”, leggendario comandante partigiano caduto nel gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti della “Muti”, accorpava le quattro preesistenti formazioni che nei mesi precedenti avevano operato tra Monte Morello, Monte Giovi, il Mugello e l’appennino tosco-romagnolo. Dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona, molte di queste bande erano riparate di nuovo su Monte Giovi, tra Mugello e Valdisieve, dove potevano contare sul riparo e l’estesa solidarietà della popolazione locale. L’idea di accorpare queste bande ponendole sotto un comando unificato – un’ipotesi già discussa nella prima metà di aprile nel corso di un incontro avvenuto tra i capi della resistenza mugellana nella fabbrica Stefanini di Borgo San Lorenzo – presupponeva però l’abbandono di Monte Giovi, non adatto al concentramento di una nuova grande unità partigiana, per trasferirsi in un’area più idonea, individuata dopo qualche discussione nel massiccio del Pratomagno[2]. Il 23 maggio, un gruppo di circa duecento partigiani guidati da Aligi Barducci “Potente” – già membro della banda di Alfredo Bini, poi raggruppamento “Romanelli”, e al quale era stato affidato unanimemente il compito di organizzazione militare della nuova formazione – lasciava Monte Giovi diretto sul Pratomagno, dove già alcuni partigiani guidati dallo stesso Bini e da Giulio Bruschi “Berto” erano stati inviati per predisporre il terreno.

Qualche giorno dopo l’arrivo di Potente in Pratomagno la formazione ebbe il riconoscimento ufficiale da parte della Delegazione toscana del comando delle Brigate Garibaldi[3]. I quattro raggruppamenti originari divennero le quattro compagnie costitutive: la “Checcucci” ne fu la I con Bruno Bertini “Brunetto” comandante militare e “Cecco” commissario politico, la “Fabbroni” la II con Lazio Cosseri comandante e Vasco Palazzeschi “Mara” commissario, la “Romanelli” la III con “Bini” comandante e “Zio” commissario e, infine, la “Lanciotto” la IV con Renzo Ballerini comandante e Pietro Corsinovi “Pietrino” commissario. Il comando militare della brigata fu affidato invece a “Potente”, cui si affiancarono Giulio Bruschi “Berto” commissario politico e Rindo Scorsipa “Mongolo” Capo di Stato Maggiore. La dislocazione sul Pratomagno della formazione vide le quattro compagnie schierarsi sul massiccio a copertura dei versanti del Casentino e del Valdarno secondo il seguente schema: la prima compagnia tra la Consuma e Strada in Casentino, la seconda tra Strada e Poppi, la terza tra Castelfranco e Reggello e la quarta tra Reggello e la Consuma[4]. Il comando della Brigata venne invece installato ben nascosto, tra i faggeti posti al margine di una radura tra l’Uomo di Sasso e il Varco di Gastra, in quota al rilievo.

L’arrivo della Lanciotto diede così luogo sul massiccio a un’alta concentrazione partigiana, considerato peraltro che nel settore più meridionale agivano altre formazioni autonome come la “Mameli” e “La Teppa”, nonché il gruppo di paracadutisti inglesi operanti dietro le linee nemiche del “Long Range Desert Group”, mentre tra il Casentino e il Pratomagno aretino erano attestai anche i partigiani della 23° Brigata Garibaldi “Pio Borri”[5].

Dai primi di giugno e a partire soprattutto dalla liberazione di Roma, il rapido avanzare del fronte di guerra spinge le diverse formazioni lì attestate ad accelerare l’organizzazione e il loro consolidamento, intensificando l’attività militare e di disturbo nei riguardi delle unità tedesche presenti nell’area. Per impedire che il Pratomagno possa divenire «un luogo di rifugio e di sosta per i nazifascisti in ritirata o, peggio ancora, un caposaldo di resistenza atto a contrastare l’offensiva alleata» in direzione di Firenze, il comando della “Lanciotto” decide di portare alcune squadre della I e II compagnia a Cetica, considerata la «porta d’accesso al Prato Magno»[6]. Nel paese, «un agglomerato di case in pietra» ai piedi del massiccio dove termina la carrozzabile proveniente dal Casentino, si installano in pianta stabile e nello stupore della popolazione locale gli uomini della Lanciotto: «la gente di Cetica» – avrebbe poi scritto nelle sue memorie Fernando Gattini “Lupo”, allora membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia – «sapeva che queste montagne ospitavano un gran numero di partigiani, ma non pensava che un giorno ci saremmo accasermati proprio in paese, come fossimo forze regolari. Perciò, nel vederci arrivare in massa, spavaldi e sicuri del fatto nostro, non hanno nascosto la propria meraviglia e una certa apprensione»[7].

Lazio Berto Mara

Da sinistra a destra: Lazio Cosseri, Giulio Bruschi “Berto” e Vasco Palazzeschi “Mara” sul Pratomagno

Durante tutta la loro permanenza a Cetica si sviluppa con gli abitanti un profondo rapporto di solidarietà, non nuovo in un’area, quella del Pratomagno, dove gli uomini della “Lanciotto”, forti di un controllo del territorio e delle vie di comunicazione apparentemente incontrastato, instaurano secondo alcuni una sorta di «piccola repubblica» partigiana, intervenendo in soccorso e a protezione della popolazione locale[8]. Il 24 giugno, la II compagnia guidata da Lazio Cosseri assalta in località Quorle, non distante da Cetica, il magazzino di un commerciante speculatore asportandovi circa 120 quintali di zucchero che la formazione subito distribuisce agli abitanti di Cetica, Montemignaio, Strada[9]. Sopratutto a Cetica, il rapporto tra partigiani e abitanti è secondo Gattini solidale:

Non c’è famiglia che non si dia da fare per noi, per rappezzare il nostro precario abbigliamento, per confezionare fazzoletti rossi con il nome della formazione ricamato a mano, per farci mangiare in casa, insieme a loro. Gli abitanti del paese vivono con noi un mese di intensa comunione ideale e pratica, contribuendo come pochi altri alla lotta contro il fascismo. Purtroppo, come è accaduto ad altri, pagheranno duramente la loro generosità.[10]

L’attività partigiana nella zona è infatti in rapida ascesa dai primi di giugno con attacchi mirati che si susseguono a danno di tedeschi e fascisti e che contribuiscono a innalzare il livello di tensione. Le azioni di disturbo dirette in particolare dagli uomini della “Lanciotto” sullo snodo viario della Consuma mettono a repentaglio i collegamenti tedeschi tra Valdarno e Casentino. A queste vanno poi sommandosi la cattura e il sequestro a danno degli occupanti di uomini e mezzi. Il 23 giugno, sempre effettivi della II compagnia della “Lanciotto” riescono a catturare  un colonnello e un capitano tedeschi, fermati in auto in compagnia della loro interprete, Fiorenza, una nobildonna fiorentina che li ha ospitati nella propria villetta di Rifiglio, presso Strada. Durante il trasporto dei prigionieri, però, l’alto ufficiale era riuscito a liberarsi e ad avere la meglio su “Giorgio”, il partigiano russo che lo scortava, salvo poi venir ucciso dai partigiani per evitarne la fuga[11]. L’azione aveva creato seri problemi al comando della Brigata, facendo temere una immediata  reazione tedesca[12]. Stando al parere del parroco di Strada don Bozzo, un’incursione analoga compiuta il 26 nei pressi di Strada e conclusasi con il fermo e la requisizione di un’auto della Todt sarebbe stata alla base dell’attacco tedesco a Cetica del 29 giugno[13]. In realtà, anche dopo questo episodio, altri scontri tra unità della “Lanciotto” e reparti tedeschi erano continuati a susseguirsi fino al 29. Il 27, ad esempio, la compagnia di Lazio Cosseri aveva attaccato le postazioni tedesche a Strada «paese abbandonato dai tedeschi due giorni prima e in questo frattempo occupato dai partigiani per un’intera notte»[14], innescando così per rappresaglia la presa in ostaggio di una quarantina di civili, più tardi rilasciati[15]. Ma a quella data il comando della 10° Armata tedesca era già in allarme per la cattura, avvenuta il 26 tra Arezzo e Anghiari a opera dei partigiani della 23° Brigata “Pio Borri”, del colonnello von Gablenz responsabile del Koruck 594 (il comando preposto alla sicurezza delle retrovie), circostanza questa che di fatto determina da lì in poi un sensibile inasprimento tra Pratomagno, Valdarno e Val di Chiana della repressione tedesca contro civili e partigiani. Dal 27 gli uomini del 2° Battaglione del 3° Reggimento Brandenburg avviano infatti un massiccio rastrellamento tra Montemignaio e Cetica[16]. All’alba del 29 giugno (lo stesso giorno in cui in Val di Chiana unità della Herman Goering danno avvio alle operazioni di rastrellamento sfociate tragicamente nei massacri di Civitella, Cornia e S. Pancrazio) i reparti del Brandenburg giungono a Cetica. Allora – è riassunto nel diario della Brigata,

  le vedette del 1° dis.[taccamento] della 2° [compagnia] segnalano spostamento di uomini vestiti in borghese ed armati provenienti da Strada e diretti a Cetica. Erano tedeschi, frammisti con italiani, travestiti da partigiani, che volevano distruggere il centro di resistenza partigiana. La 2° ingaggia battaglia con tedeschi potentemente armati. La 2° è dislocata a S. Maria di Cetica, a Calognole, ed al Mulino, dove due partigiani rimangono feriti. I tedeschi vista la resistenza opposta chiamano in aiuto i mortai; mentre la 1° giunge di rinforzo schierandosi sul ciglione della conca di Cetica. I tedeschi cominciano a subire le prime perdite; però ricevono rinforzi, ma i partigiani rinforzata dalla 4° cp. Continuano il combattimento sebbene vi siano delle perdite tra i nostri. Il nemico posto di fronte a serie difficoltà prese le donne ed i borghesi e gli fece marciare davanti, cosa questa che costrinse i partigiani di desistere dal fuoco, e di ripiegare di poco. I tedeschi giunti in Cetica, si trattengono un’ora circa e danno fuoco a tutte le abitazioni, fucilano prima tre innocenti borghesi. Tentarono fra tanto di raggiungere il mulino per distruggerlo, per toglierci la possibilità di macinare il grano, ma ciò gli fu vietato, poiché si riprese il combattimento. Quando i tedeschi ripiegarono su Strada, i partigiani, osservando le loro mosse, li precedettero, e fra Rifiglio e Pagliericcio tesero loro una imboscata che costò ai tedeschi gravi perdite.[17]

Lupo e Mara

Luglio 1944. Sulla sinistra: Fernando Gattini “Lupo”, membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia della Brigata “Lanciotto” impegnato il 29 giugno nella battaglia di Cetica

Il conflitto tra i due contendenti è piuttosto duro e assume la forma di un vero e proprio scontro frontale, inconsueto per chi come i partigiani della “Lanciotto” è abituato a operare con attacchi a sorpresa, come è nella pratica della guerriglia. Se l’imparità di fuoco è evidente, gli uomini di “Potente” dimostrano però d’aver conseguito un grado di preparazione e di organizzazione militare non trascurabile, considerata la recente costituzione della Brigata e l’endemica mancanza di armamenti, alla quale gli attesi aviolanci alleati previsti in quelle settimane sul Pratomagno non hanno per il momento saputo porre riparo. L’effetto sorpresa ricercato dai tedeschi con lo stratagemma dei soldati camuffati da partigiani è infatti prevenuto dalle sentinelle della “Lanciotto” presenti lungo la via d’accesso al paese che riescono tempestivamente ad avvisare a Cetica il comando di compagnia e sul Passo di Gastra quello di Brigata. Nel poco tempo a disposizione si cerca di porre al riparo i civili mentre i tre distaccamenti delle due compagnie presenti a Cetica vengono disposti a semicerchio a monte dell’abitato. Solo lo scudo che i tedeschi si fanno dei civili rastrellati durante il loro avvicinamento attenua il potenziale di fuoco dei partigiani, i quali, ben nascosti «fra le macchie, dietro le capanne» al limitare del paese, «si mordono le mani» perché costretti a sparare «a raffiche irregolari» per non colpire gli ostaggi, assistendo quindi semi-impotenti all’incendio del paese da parte degli occupanti[18]. Riescono tuttavia a circoscrivere l’azione degli assalitori, cercando di impegnarli verso altre direzioni e ponendo in salvo così il prezioso mulino di Cetica. L’abitato principale, tuttavia, è ridotto in macerie e alla fine della giornata si contano 13 civili (tutti uomini) uccisi dai tedeschi tra quanti erano stati presi in ostaggio. Un prezzo certamente alto, ma – hanno ragione di credere gli uomini della “Lanciotto” – ben diverso da quanto sarebbe potuto accadere in conseguenza di un ipotetico sganciamento delle compagnie partigiane: «a Cetica», avrebbe scritto più tardi Lazio Cosseri, «non accadde quello che di solito accadeva quando i tedeschi entravano come belve in un paese inerme, radunando donne, vecchi, bambini che trucidavano senza pietà». Ciò in questo caso non si verificò «perché i partigiani non abbandonarono mai il paese»[19]. Fu proprio all’iniziativa personale di Lazio, particolarmente scosso dal brutale colpo inflitto a Cetica dai tedeschi, che allora si dovette un’estemporanea e ardita controffensiva lanciata verso gli assalitori. Alla sera del 29, postosi alla guida di una quindicina di compagni divisi in due squadre, il comandante della II compagnia si diresse rapidamente sulla strada di Pagliericcio tra Cetica e Montemignaio lungo la quale dopo l’azione stavano ritirandosi i tedeschi . Qui Lazio riuscì a tendere un’imboscata a un gruppo in ripiegamento provocando – stando ai resoconti partigiani – l’uccisione di più di 50 soldati e portando a questo modo – sempre secondo le relazioni ufficiali partigiane – il numero complessivo dei caduti nelle file nemiche a 65[20]. In realtà, il bilancio delle perdite, rispetto alle soventi poco attendibili ricostruzioni ex post, fu probabilmente più attenuato, da entrambe le parti. Le fonti tedesche infatti al termine dell’operazione del 29 giugno registrano la morte di soli 2 soldati del battaglione Brandenburg e il ferimento di altri 5 a fronte dell’uccisione di ben 45 «banditi»[21]. Solo 10 invece i caduti accertati nelle file della “Lanciotto” secondo i rapporti della Brigata[22].

Lapide Cetica partigiani

Cippo in memoria dei caduti partigiani durante la battaglia di etica del 29 giugno 1944 (www.pietredellamemoria.it)

Ad ogni modo, quella che fu da lì ricordata come la “battaglia” di Cetica, seppur difficile da descriversi come un completo successo partigiano, ebbe tuttavia grande rilievo ai fini dell’ulteriore sforzo di organizzazione della Brigata “Lanciotto” in vista delle più decisive prove cui sarebbe andata incontro successivamente, quando, col progressivo avvicinamento tra luglio e agosto del fronte di guerra alla linea dell’Arno, la formazione, col concorso delle altre Brigate e sotto il comando di “Potente”, si costituì in Divisione “Arno” contribuendo in modo capitale alla liberazione di Firenze. Qualche giorno dopo gli scontri di Cetica, infatti, in una riunione convocata da “Potente” al valico di Gastra tra tutti i comandanti e i commissari politici di compagnia della Brigata, si provvide alla ricostruzione dei fatti del 29 giugno e, ai fini di un utile ammaestramento per il futuro, a una disamina critica dei limiti e delle manchevolezze di quell’azione. Per quanto l’urto frontale dell’attacco tedesco non era riuscito a scompaginare completamente le forze della “Lanciotto” attestate a Cetica, che anzi erano state in grado di riorganizzarsi in breve tempo contrattaccando tempestivamente, diversi limiti erano emersi nel coordinamento tra i comandi delle diverse compagnie e a causa dell’eccessiva improvvisazione di alcuni di questi. In tal senso, emblematica era stata l’azione a sorpresa intrapresa dalla II compagnia di Lazio su decisione personale di quest’ultimo e in completo disaccordo col suo commissario “Mara”. Il dibattito sulle presunte responsabilità dei singoli o dei comandi si fece a tratti polemico, stando che diversi tra i convenuti erano convinti che «con le forze presenti a Cetica sarebbe stato possibile non solo resistere ai tedeschi, ma assestare un duro colpo al nemico e impedire o almeno limitare i danni al paese»[23]. Anche per questo, a riparazione delle supposte omissioni e manchevolezze, si decise di stanziare subito 100.000 lire distogliendole dalle casse della Brigata in favore dei sinistrati di Cetica e di distribuire loro quanto era rimasto in riserva in termini di alimenti e indumenti. Sulle responsabilità militari, spettò invece a “Potente” dire la parola definitiva, auspicando per l’avvenire un ulteriore potenziamento dei collegamenti tra i comandi e facendo osservare «con paterna dolcezza» a Lazio le imprudenze da lui commesse «nel predisporre lo schieramento senza curare la difesa alle spalle» lanciandosi all’attacco in un momento inopportuno[24].

Dalla condivisa consapevolezza degli errori commessi a Cetica per difetto d’organizzazione o eccessiva avventatezza – non diversamente da quanto nelle stesse settimane avveniva di analogo sui Monti Scalari entro la neocostituita 22° bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia” a conclusione del sofferto esame dei limiti tattici e organizzativi scontati nel corso della “battaglia” di Pian d’Albero[25] – si presentava anche per la “Lanciotto” un’utile, seppur travagliata, occasione per riconsiderare alcuni aspetti operativi e strutturali che erano stato decisi, spesso in modo precario e poco organico, nel corso di un rapido e accidentato processo costitutivo tipico di una grande formazione partigiana in via di sviluppo. In sostanza, il successo che la Divisione “Arno” di Potente avrebbe in seguito ottenuto nei difficili frangenti della battaglia di Firenze richiese il superamento dei limiti che, come nel caso di Cetica,  avevano caratterizzato al pari di altre Brigate le prime fasi di vita e attività  della “Lanciotto”.

[1] La data del 24 maggio è indicata come atto fondativo della brigata nella relazione ufficiale della stessa (cfr. ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, relazione generale della XXII Brigata Lanciotto). Altre testimonianze fanno risalire invece l’atto ufficiale di costituzione della formazione all’8 giugno e a una riunione tenutasi all’Uomo di Sasso, sul Pratomagno, tra tutti i comandanti militari e politici dei raggruppamenti (ivi, b. 3, Relazione di Alessandro Pieri “Stella” presentata all’ANPI provinciale di Firenze nel maggio 1945, p. 17 e V. Palazzeschi, Mara. Dall’antifascismo alla Resistenza con la 22° Brigata “Lanciotto”, La Pietra, Milano 1986, p. 66).

[2] Giuseppe Maggi “Beppe” in Più in là. Ventitré partigiani sulla lotta nel Mugello, a cura del Circolo La Comune del Mugello e del Centro di documentazione di Firenze, La Pietra, Milano 1975, p. 47; L. Tagliaferri, Monte Giovi nella Resistenza, in AA.VV., Monte Giovi: se son rose fioriranno…Mugello e Valdisieve dal fascismo alla Liberazione, Edizioni Polistampa, Firenze 2012, p. 411.

[3] G. ed E. Varlecchi, Potente. Aligi Barducci, comandante della Divisione Garibaldi “Arno”, a cura di M. Augusta e S. Timpanaro, Libreria Feltrinelli, Firenze 1975, p. 85.

[4] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”.

[5] G. Verni, Appunti per una storia della Resistenza nell’aretino, in I. Tognarini (a cura di), Guerra di stermino e Resistenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, ESI, Napoli 1990, pp. 98-173 (in particolare pp. 142 e sgg.); A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957; C. Biscarini, Soldati nell’ombra. 1944. Operazioni speciali nelle province di Siena, Arezzo, Livorno, Grosseto, La Spezia, Effigi, Arcidosso (GR) 2011.

[6] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 72.

[7] F. Gattini, Le nostre giornate, La Pietra, Milano 1980, pp. 113-114.

[8] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 73.

[9] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 24 maggio 1944.

[10] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 115.

[11] L. Cosseri (a cura di), Lazio. Ribelle tra i ribelli, Aska, Firenze, 2004, pp. 185-187.

[12] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 122.

[13] Per l’episodio cfr. ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 26 giugno 1944. Per il giudizio di Bozzo cfr. G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue. Dal diario personale del tempo d’emergenza nell’alto Casentino, Libreria Salesiana Firenze, 1946, p. 44.

[14] ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 27 giugno 1944.

[15] G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue, cit., pp. 12-20.

[16] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 118-119.

[17] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[18] ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, dattiloscritto, p. 4.

[19] L. Cosseri (a cura di), Lazio, cit., p. 191.

[20] Ivi, p. 192; ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[21] Bundesarchiv-Militärarchiv, Friburg, RH 2/663, Ic-Meldung, 30 giugno 1944.

[22] 12 caduti e 23 feriti sarebbero le perdite partigiane secondo il già citato diario della Brigata. Altre fonti interne indicano invece 10 caduti e 6 feriti, cfr. ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, cit., p. 5; G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., pp. 204-205.

[23] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 129.

[24] G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., p. 234.

[25] M. Barucci, Sulla strada per Firenze. La Brigata Sinigaglia e la strage di Pian d’Albero 20 giugno 1944, Pacini editore, Pisa 2018, pp. 150-152.




Dispersi sì, dimenticati mai.

Ricostruire le vicende del Piroscafo Oria e dei soldati italiani che vi morirono durante la seconda guerra mondiale. È di prossima pubblicazione un’inedita ricerca sulle vicende del Piroscafo Oria, partito da Rodi e affondato il 12 febbraio 1944 presso l’isola di Patroklos in Grecia con oltre 4000 soldati italiani destinati alla deportazione in Germania. A firma di Luisa Ciardi, Michele Ghirardelli e Matteo Grasso, il libro, frutto di un progetto regionale che vede dal 2013 la collaborazione di più enti e istituzioni (Fondazione CDSE, Regione Toscana, Istituto storico per la Resistenza di Pistoia e la Rete dei Parenti delle Vittime del Piroscafo Oria) pone ulteriori sviluppi nella ricostruzione storica e nella ricerca dei singoli caduti del naufragio.

Il progetto nel corso degli anni si è arricchito di nuovi tasselli che hanno portato il Comune di Monsummano Terme a strutturare una collaborazione che portasse le vicende dell’Oria nelle scuole, attraverso progetti didattici, e all’attenzione della cittadinanza, grazie agli studi storici e all’intitolazione di un giardino. Questa fase è incominciata nel 2016, quando il monsummanese Renato Mazzei, nipote del disperso Righetto Pierattini, è entrato in contatto con Elena Sinimberghi, assessore alla cultura di Monsummano Terme; l’incontro ha poi trovato compimento fra il 2017 e il 2019 nell’ambito di un progetto triennale di ricerca.

Righetto Pierattini era un giovane di 21 anni quando, dopo l’Armistizio del settembre 1943, fu fatto prigioniero dalle forze naziste, rifiutando in seguito l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana. Un atto di Resistenza e di fedeltà ai propri ideali: da un lato un giuramento fatto al Re d’Italia, dall’altro un’avversione verso il nuovo regime fascista. Fece parte della schiera di internati militari italiani, ma non riuscì a giungere in un campo di concentramento nazista: trovò la morte all’interno di una nave – appunto, il Piroscafo Oria – che lo stava trasferendo sulle coste greche per la deportazione in Germania.

Partendo da questo episodio, la ricerca ha dato vita ad un volume a più mani, curato dal docente universitario Michele Ghirardelli (nipote del disperso Ugo Moretto, fra i fautori delle prime ricerche sull’argomento una decina di anni fa e fra i sostenitori della nascita della Rete dei parenti delle vittime dell’Oria), dalla storica Luisa Ciardi (Fondazione CDSE, coordinatrice del primo progetto regionale sull’Oria) e dal sottoscritto (direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e autore delle indagini sui dispersi nella provincia pistoiese).

Nell’introduzione, Luisa Ciardi traccia un bilancio del percorso che in questi anni ha coinvolto l’Oria, partendo dalla sua memoria collettiva e giungendo al riconoscimento pubblico. La prima ricerca è affidata a Ghirardelli che si sofferma su alcuni aspetti fondamentali, nei quali fornisce un quadro storico molto approfondito e passa in rassegna la bibliografia sulla vicenda. Il suo testo non si limita a considerazioni di carattere generale e a pure riflessioni storiografiche, ha il merito di entrare nel dettaglio delle singole memorie e di intrecciare microstoria e macrostoria.

La seconda parte della ricerca interessa i caduti pistoiesi ed è strutturata su tre livelli, secondo il metodo scientifico dell’incrocio fra fonti diverse: archivistica, orale e bibliografica. Partendo dall’indagine a cura della Fondazione CDSE iniziata nel 2013, ho ripreso i nominativi riconducibili alla Provincia di Pistoia e li ho confrontati prima con i fogli matricolari conservati all’Archivio di Stato di Firenze, dove è possibile consultare le carriere militari dei soldati, poi con gli atti di nascita e di morte registrati presso gli archivi comunali. Solamente in una seconda fase e con queste informazioni in possesso, sono riuscito a rintracciare i familiari. Alcuni di loro erano già a conoscenza dell’Oria ed erano entrati a far parte della Rete delle famiglie dei dispersi. Altri, invece, non avevano avuto informazioni sufficienti riguardo il proprio caro, né in passato né di recente: le dichiarazioni di irreperibilità, quando arrivarono, nel caso pistoiese furono emesse fra il 1946 e il 1953, quindi con un ritardo minimo di due anni e massimo di nove rispetto alla tragedia, dati che confermano la tendenza nazionale. Vennero tutti liquidati dal distretto militare di Pistoia con la dichiarazione di irreperibilità e una frase rituale generica e ripetitiva che non rendeva giustizia alle loro storie: “Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze della cattura e al comportamento tenuto durante la prigionia di guerra”.

Il contatto con i parenti ha permesso di attingere a un’ampia parte di patrimonio documentario, costituito da fotografie, lettere dal fronte, documenti e oggetti personali. In questa maniera la memoria privata delle singole persone si lega indissolubilmente –e contribuisce- alla grande storia dell’Oria. L’indagine locale ha una caratteristica determinante che può essere punto di forza: nonostante temi, fonti e metodi restino sostanzialmente quelli della storia generale, essa vive di ricerca, più che di letteratura, e perlustra fondi archivistici inediti e talvolta sconosciuti, come quelli comunali e familiari.

Sono state così ricostruite le biografie militari di 16 pistoiesi dispersi nella tragedia, corredate di lettere, immagini e testimonianze che andranno ad arricchire i caduti già rintracciati dalla grande famiglia dell’Oria.