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Leonetto Amadei, uno spirito gentile

Figura di primissimo piano del panorama giuridico italiano del secondo dopoguerra, l’avvocato versiliese Leonetto Amadei, in ogni frangente della sua vita intensa, seppe conciliare competenza professionale e sensibilità d’animo, ardente passione politica ed integerrima coerenza morale.

Nato a Seravezza (Lucca) il 7 agosto 1911, figlio di uno scultore e di una maestra elementare, il giovane Amadei rivelò fin da ragazzo una mente acuta e brillante negli studi, arricchita da un temperamento comprensivo e generoso. Diplomatosi al Liceo classico “Pellegrino Rossi” di Massa, si iscrisse quindi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa: bruciando le tappe, nel 1931 risultò a soli venti anni il più giovane laureato d’Italia nella sua sessione accademica.

Mentre cominciava la propria carriera di penalista frequentando come tirocinante lo studio dell’avvocato seravezzino Luigi Salvatori (1881-1946), già deputato socialista per la Versilia negli anni 1919-1920 e figura di elevatissimo spessore morale, aveva inizio per Leonetto un altro importantissimo capitolo della vita: quello del servizio militare, che avrebbe contribuito in maniera decisiva alla formazione del suo carattere carismatico e coscienzioso, coraggioso e leale, tenendolo impegnato, alla fine, per quasi quindici anni.

Richiamato una prima volta nel 1931, come allievo ufficiale ed ufficiale di prima nomina dovette in seguito affrontare numerosi periodi lontano da casa, sperimentando in prima persona gli effetti della politica estera aggressiva che il regime fascista veniva sempre più affilando: fra una pausa e l’altra, Leonetto faceva ritorno in Versilia e tirava avanti la formazione giuridica. Proprio nei mesi in cui studiava per diventare procuratore, conobbe Nora Cancogni, cugina del celebre scrittore e giornalista Manlio (1916-2015): i due si sposarono nel 1938.

1931: Leonetto Amadei, fresco di laurea in giurisprudenza all'Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva.

1931: Leonetto Amadei,  secondo in piedi da sinistra, fresco di laurea in giurisprudenza all’Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Mentre sviluppava una crescente sensibilità professionale in difesa degli umili e degli oppressi, Amadei dovette partire per la guerra: in un primo tempo, come capitano di artiglieria, fu destinato al comando di alcune batterie costiere del distretto militare della Spezia, dapprima sull’isola Palmaria, quindi a Lerici. Nell’aprile 1943, tuttavia, fu trasferito a Lero, nell’Egeo meridionale.

Al sopraggiungere dell’8 settembre, assieme a tutti gli altri militari italiani presenti sull’isola greca, Leonetto scelse di rispondere armi in pugno alle pressioni dei nazisti che intimavano la resa: nonostante i volantini tedeschi minacciassero di scatenare contro i ribelli una seconda Cefalonia, pur scontando una gravissima inferiorità di mezzi e materiali, Lero resistette per più di due mesi, fino al 18 novembre 1943. Alla fine, tuttavia, giunse la capitolazione, e, assieme ad essa, per Leonetto come per le migliaia di suoi commilitoni, la prigionia: per il coraggio e lo spirito combattivo dimostrato in battaglia, il giovane seravezzino fu comunque decorato di Medaglia d’Argento e di Bronzo al Valor Militare sul campo e ricevette un encomio solenne.

Arrestato dai tedeschi, condotto sulla terra ferma, Amadei fu caricato su un carro-bestiame diretto verso nord, che, dopo un trasferimento lungo e sfibrante attraverso i Balcani, lo portò allo Stammlager 328 di Siedlce, in Polonia. Anche nei mesi della prigionia, Leonetto avrebbe mantenuto un comportamento esemplare, pronto ad animare i compagni e a sostenerli nelle difficoltà, in attesa di tempi migliori. Di fronte alle continue lusinghe dei carcerieri, poi, disposti a liberarlo in cambio della sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, non esitò mai, confermando sempre con fierezza ed orgoglio il valore della propria scelta, compiuta nel nome della dignità umana e dell’onore nazionale. Ecco come avrebbe ricordato quei giorni, mettendo in relazione il sacrificio degli internati militari italiani e i contenuti della futura carta costituzionale democratica, nello scritto Internati e Costituzione del 1996:

«L’internamento ha infatti significato, traendo dalla miseria che lo accompagnava, la volontà di riscossa del nostro Paese, ricca di valori morali e politici, da ritrovarsi nel persistente rifiuto ad ogni collaborazione e nella tenacia nel sopportare ristrettezze di ogni genere, che si sarebbero fatte più opprimenti giorno per giorno. È così che la nostra Costituzione è una conquista di grande valore democratico, favorita dal coraggio degli italiani dei campi di concentra-mento.»

Dopo un altro, estenuante spostamento su treno, il 17 marzo 1944 Amadei fu tradotto nel campo di concentramento per ufficiali Oflag XB di Sandbostel, in Bassa Sassonia, dove ebbe modo d’incontrare personaggi eccellenti, oltre a numerosi compaesani. Nonostante il rigore della sorveglianza tedesca e le terribili condizioni ambientali in cui erano costretti a vivere, i prigionieri italiani non si dettero affatto per vinti, promuovendo numerose iniziative culturali clandestine. Adibita una baracca a cappella, infatti, dedicata a Maria Mater Captivorum (“Maria Madre dei Prigionieri”), vi tennero incontri e piccole esposizioni d’arte: addirittura, gli internati furono in grado di costruire una radio portatile e facilmente smontabile in caso di perquisizioni, la cosiddetta “Caterina”, con cui captare Radio Londra e sentirsi un po’ meno fuori dal mondo. Oltre a periodici incontri con ufficiali informati dei fatti per illustrare ai compagni la situazione politico-militare, come riferisce anche il giornalista ed umorista Giovannino Guerreschi (1908-1968), altro “prigioniero d’eccellenza” del lager, nel suo Diario clandestino, i deportati organizzarono la “Regia Università di Sandbostel”, in cui docenti di valore tenevano lezioni delle materie più diverse, per mantenere alto il morale dei compagni, superare lo sconforto e conservare un certo grado di dignità personale ed autostima: dietro la “Baracca Y”, l’onegliese Alessandro Natta (1918-2001) parlava di letteratura, mentre poco lontano il bresciano Guido Carli (1914-1993) disquisiva di economia e commercio. Incessante animatore della resistenza interiore contro i carcerieri, Leonetto intratteneva invece i compatrioti dietro la “Baracca X”, discutendo dei principi fondamentali della giurisprudenza e di diritto penale. Nel gennaio 1945, l’avvocato seravezzino dovette subire l’ennesimo trasferimento, stavolta nel vicino campo per ufficiali Oflag 83 di Wietzendorf, dove, nonostante gli espliciti divieti in tal senso della Convenzione di Ginevra, i prigionieri italiani furono obbligati a lavorare per conto del Reich: Leonetto, in particolare, fu spedito nei campi, sfruttato come manodopera gratuita presso alcune fattorie della zona.

Fu proprio nei mesi della prigionia che Amadei decise che, a Liberazione avvenuta e guerra finita, sarebbe entrato in politica, anche se non aveva ancora ben chiaro in quale partito. E la Liberazione arrivò, il 16 aprile 1945, per mano del XXX Corpo britannico del generale Brian Horrocks: prima di rivedere casa, ad ogni modo, il giurista versiliese dovette attendere fino all’agosto successivo.

Rientrato in Italia, Leonetto cominciò subito a muoversi per contribuire attivamente alla costruzione dell’Italia nuova, che voleva repubblicana, libera e democratica, generosa e pacifista, rinsaldata nei valori umanitari della Resistenza per i quali aveva tanto combattuto e sofferto nei mesi della prigionia. Considerandosi a tutti gli effetti un membro del movimento di Liberazione nazionale, entrò nell’ANPI ed in altre associazioni reducistiche dello stesso genere, sostenendone con passione le attività fino al resto dei suoi giorni. Iscrittosi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, forte di un’altissima reputazione popolare e di una notevole capacità oratoria, venne ripetutamente eletto consigliere comunale a Seravezza e Pietrasanta nelle prime amministrazioni postbelliche, divenendo perfino consigliere provinciale a Lucca.

L'avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’onore più grande, tuttavia, giunse per Amadei con le elezioni del 2 giugno 1946, quando, contestualmente al referendum istituzionale, si tenne il voto per l’Assemblea Costituente: con sua immensa gioia, Leonetto venne infatti eletto deputato socialista per la circoscrizione di Pisa, che, all’epoca, riuniva le province di Pisa, Livorno, Lucca e Massa-Carrara. Giunto a Roma, per via della sua specifica preparazione giuridica fu chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione, nota anche come “Commissione dei Settantacinque”, ovvero dell’organo che, all’interno della Costituente, aveva il particolare compito di redigere la nuova carta costituzionale: più nel dettaglio, Amadei partecipò attivamente ai lavori della Prima Sottocommissione, che, presieduta dall’avvocato democristiano Umberto Tupini (1889-1973), ebbe l’incarico di stendere la Parte prima del documento, riguardante i Diritti e Doveri dei cittadini. Per Leonetto, reduce dalla guerra e dalla prigionia, fu l’occasione per contribuire, con il proprio ingegno e le proprie energie, a condensare in articoli ampi ed autorevoli i principi che erano sempre stati alla guida della sua esistenza di avvocato, militare ed uomo civile, principi che da quel momento in avanti avrebbero dovuto ispirare ed innervare la quotidianità della comunità nazionale, valorizzandone le ricchezze fisiche e spirituali, armonizzandone le diversità e temperandone gli inevitabili conflitti: libertà personale, inviolabilità del domicilio e della corrispondenza, libertà di appartenenza religiosa e di manifestazione del pensiero, parità dei diritti nell’accesso alle cariche, libertà d’iniziativa economica, pur nel rispetto del bene comune, e carattere personale della responsabilità. Per Amadei, in altre parole, la Costituzione della Repubblica fu il risultato più alto di un’opera di ricostruzione morale del Paese, un’opera, con le sue parole, tratte ancora da Internati e Costituzione del 1996, di

«restituzione alla persona umana della dignità toltale dal nazifascismo: non dover essere un semplice numero, una cavia da esperimenti, ma l’uomo libero che opera, agisce con impegno di fedeltà alla coscienza della nostra gente che vuole non armi per avventure ma la serenità della pace.»

Cessato l’impegno alla Costituente, Leonetto, stimato per la cortesia personale e l’altissimo senso di responsabilità della propria funzione pubblica, circondato dall’affetto dei propri elettori, ebbe modo di proseguire la propria carriera politica entrando in Parlamento. Scelto come deputato socialista alle elezioni del 18 aprile 1948, già nel corso della prima legislatura (1948-1953) dette prova di una straordinaria sensibilità nel dar voce ai bisogni locali della propria circoscrizione, senza tuttavia dimenticare le proprie aspirazioni ad un’ampia ed equilibrata legislazione nazionale: spesso relatore di importanti richieste di autorizzazione a procedere e membro di numerose commissioni speciali, si batté per ottenere aiuti d’emergenza per alcuni comuni della Versilia e della Lunigiana devastati dalla guerra, si pronunciò sul disegno di legge sulla protezione della popolazione civile in caso di calamità ed intervenne di frequente sul tema dell’amministrazione della giustizia, presentando anche numerose mozioni su casi di denunciato arbitrio della polizia giudiziaria in indagini su gravi delitti.

Apprezzato anche dalle formazioni politiche avversarie per l’equilibrio e la fermezza morale con cui svolgeva il proprio dovere, Amadei venne riconfermato nel suo seggio alle elezioni del 1953: nel corso della seconda legislatura (1953-1958), intervenne spesso in materia di lavoro e svecchiamento del codice di procedura penale, al tempo ancora contenente larghe sezioni di eredità fascista. Rieletto nel 1958, durante la terza legislatura (1958-1963), oltre a proseguire il proprio impegno in campo giudiziario, operò soprattutto in merito alla riforma della circolazione stradale e alla revisione delle regole dei concorsi per l’accesso alle cariche pubbliche. Parallelamente, proseguiva la sua attività professionale, proteggendo i soggetti più deboli e difendendo la causa della Resistenza in occasione dei numerosi processi che furono intentati contro i partigiani in vari parti d’Italia a partire dai primi anni ’50.

Il deputato socialista Leonetto Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all'Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968)  e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968).

Il deputato socialista Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all’Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968) e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968). (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Nel corso della quarta legislatura (1963-1968), l’attività parlamentare di Leonetto fu caratterizzata dalla presenza nella Commissione Affari costituzionali, nella Commissione Interni e nella Commissione giustizia, di cui, per breve tempo, fu anche presidente: fatto di particolare rilevanza, Amadei venne nominato sottosegretario di Stato all’Interno nei primi tre governi di Aldo Moro. Caratterizzato da una grande presenza di spirito e da un’oratoria efficace e convincente, l’avvocato versiliese, europeista convinto, fu protagonista di una carriera politica straordinariamente lunga e feconda: eletto ancora una volta nel turbolento 1968, nel corso della quinta legislatura (1968-1972) fu dapprima sottosegretario alla Giustizia del governo Rumor, quindi ancora deputato socialista – prima per il gruppo unificato PSI-PSDI, poi, dopo la nuova scissione del luglio 1969, di nuovo per il PSI – autorevole ed attivissimo, soprattutto in merito all’ordinamento della giustizia.

Riconfermato deputato con moltissimi voti anche alle consultazioni politiche del 1972, a poche settimane dall’inizio delle attività della sesta legislatura (1972-1976), grazie al suo eccellente curriculum di giurista e rappresentante popolare di specchiata onestà, fu candidato dal Parlamento a giudice della Corte Costituzionale: accettata la candidatura, Leonetto venne eletto il 27 giugno 1972 a Camere riunite, con ben 733 voti su 833 votanti. Nei successivi nove anni di durata del mandato (1972-1981), Amadei avrebbe partecipato a tutte le attività del prestigioso organo dello Stato, dapprima come giudice, quindi come vicepresidente, infine, negli ultimi due anni della carica, come presidente (1979-1981) della Corte: per Leonetto, si trattò dell’incarico più autorevole della vita, del coronamento più alto cui potesse aspirare per concludere la propria carriera di uomo politico al servizio del diritto e dell’umanità. Fu estensore di molte sentenze di rilevanza storica, fra cui la n. 204 del 1974, con cui il potere di concedere la liberazione condizionale ai condannati fu sottratto al ministro della giustizia ed affidato alla magistratura, e la n. 290 dello stesso anno, che, annullando l’art. 503 del codice penale Rocco, dichiarava la legittimità anche dello sciopero politico, purché non diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale o ad ostacolare il libero esercizio dei poteri in cui si esprime la sovranità popolare.

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L'esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Raggiunti i limiti di legge, nel 1981 Amadei lasciò la Corte Costituzionale e si ritirò a vita privata nella sua amata Versilia, anche se continuò a partecipare alle attività delle associazioni di cui era membro e a tenere appassionati interventi pubblici, in cui spronava i giovani ad assolvere con onestà le proprie funzioni nella società e a credere fermamente nei valori sanciti e protetti dalla Costituzione democratica. Rattristato osservatore degli scandali di Tangentopoli, non smise di credere nelle grandi potenzialità della politica vera, conservando fino all’ultimo quell’ottimismo autorevole e composto che l’aveva sempre contraddistinto, fin dagli anni della vita militare e della prigionia. Mirabile esempio di trasparenza solidale e coerenza morale, dapprima resistente nei lager nazisti in nome della libertà, della giustizia sociale e della dignità umana che già ne avevano ispirato la vocazione di avvocato, quindi estensore di tali diritti in Assemblea Costituente e infine vigile custode di quelle stesse conquiste in Corte Costituzionale, Leonetto Amadei si spense a Marina di Pietrasanta (Lucca) il 10 novembre 1997.

A due anni dalla sua morte, i familiari vollero omaggiarne la memoria istituendo, di comune accordo con l’amministrazione comunale di Seravezza e l’Università di Pisa, la Fondazione “Leonetto Amadei”, ente culturale «che ha come scopo principale la promozione dello studio, della ricerca e della conoscenza del diritto costituzionale»: oltre a progettare ed organizzare mostre e convegni, la Fondazione assegna borse di studio e contribuisce al finanziamento di corsi di dottorato di ricerca in diritto costituzionale.




“Non uscire prima dell’alba e non rincasare dopo l’Ave Maria”

Veduta di Colle alta

Solo a partire dagli anni ’80 una storiografia più attenta e consapevole ha iniziato ad occuparsi in maniera approfondita dell’internamento attuato dalla dittatura fascista nei confronti dei cittadini di stati nemici e di oppositori interni, sia compiendo finalmente un’analisi della sua specificità (ovvero non più solo in relazione al sistema concentrazionario nazista), sia inserendolo nella politica di repressione del regime. Oggi non mancano studi sui campi di internamento (che furono circa 50 in Italia, di cui 3 in Toscana), mentre meno analizzate sono le località (circa 600 in Italia e circa 50 in Toscana) dell’internamento: esso rimane comunque un fenomeno misconosciuto all’interno del complesso apparato repressivo del fascismo e stenta ad entrare nella memoria collettiva.

La ricerca effettuata presso l’archivio del Comune di Colle di Val d’Elsa, conservato presso la Biblioteca comunale, ha consentito di ricostruire le vicende dell’internamento – tra settembre 1941 e giugno 1943 – di 3 uomini e 7 donne: “sudditi di paesi nemici” (Betsy Margaret Armstrong, Gladys Violet Archbutt, Kathleen Campbell, Hilda Chapman, Joan Annie Rennie, Giorgio Bellotto), ebrei stranieri (Emil Ullmann, Ottilie Feder, Edzia Stecher), e italiani (Renzo Cabib).

Il primo adempimento cui, al loro arrivo, gli internati dovettero ottemperare fu la sottoscrizione del “Verbale delle prescrizioni”, contenente, tra gli altri, i seguenti obblighi e divieti: non tenere presso di sé documenti di identificazione, denaro oltre le cento lire, gioielli; non occuparsi di politica; non allontanarsi dall’abitato; non uscire prima dell’alba e non rincasare la sera dopo le 18; presentarsi tre volte al giorno presso il Comune o la caserma dei carabinieri; non avvicinare nessuno senza autorizzazione. Dall’analisi dei documenti si rimane colpiti dalla ripetitività e macchinosità di tutte le procedure amministrative che li riguardarono, anche di quelle concernenti problemi di ben scarso rilievo, che dovettero seguire la catena burocratica: Ministero dell’Interno (talvolta) → Questura o Prefettura → Comune → internato, catena che ovviamente valeva anche, alla rovescia, per le loro richieste.

Il primo e più traumatico aspetto dell’internamento fu il forzato sradicamento dal proprio ambiente familiare e dalla realtà di provenienza, la separazione da parenti e amici, cui si aggiunsero il soggiorno in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove fu proibito ogni contatto con gli abitanti, la possibilità di lasciare l’abitazione solo di giorno, il rito della presentazione alla stazione dei carabinieri più volte al giorno e a determinati orari, la censura sulla corrispondenza, recapitata al Podestà, che gliela consegnò solo dopo averla controllata. La trafila amministrativa sopra ricordata fu valida per tutto: richieste di trasferimento, ricongiungimenti familiari, sussidio (una volta accertato lo stato di indigenza), ricoveri in ospedale, visite e cure mediche, prelievi di somme dal deposito presso il Comune. Le richieste di uscire dal territorio comunale dovettero essere sottoposte a specifica autorizzazione: una volta ottenuta, fu consegnato il foglio di via obbligatorio e si dovettero presentare alla Questura o al comando dei carabinieri della località di destinazione. Al loro rientro a Colle di Val d’Elsa il Comune ne dette assicurazione alla Questura.

Gli internati ricevettero per il loro mantenimento un sussidio giornaliero, pari, nel 1940, a 6,50 lire per gli uomini e le donne senza famiglia, ma per il nucleo familiare alla moglie spettarono solo 1,10 lire e a ciascun figlio 0,55 lire; si aggiunse un contributo per le spese di affitto di lire 50 mensili: a una famiglia con figli la cifra non bastava neppure a vivere di solo pane. Le condizioni materiali della vita divennero il problema più importante da affrontare quotidianamente per gli internati privi di altre fonti di reddito o di un aiuto dalle autorità dei loro paesi di origine, per cui chi ebbe il sussidio avanzò anche la richiesta di poter svolgere un lavoro, non sempre accolta.

Le modalità dell’allontanamento da Colle di Val d’Elsa degli internati furono diverse. Archbutt fu trasferita a Siena nel gennaio 1942 e Campbell a San Casciano dei Bagni nell’aprile 1942; Stecher ebbe nel maggio 1942 il permesso di recarsi a Roma per delle cure e non rientrò più nella cittadina valdelsana; Armstrong, Chapman, Rennie furono autorizzate ad espatriare nel gennaio 1943; Bellotto, Cabib, Ullman, Feder furono trasferiti a San Giovanni d’Asso nel giugno 1943.

La copiosa documentazione presente nell’archivio insomma ci restituisce uno spaccato della quotidianità di queste persone, delle loro “vite di carta”, per riprendere il titolo del volume di Anna Pizzuti (Vite di carta. Storie di ebrei internati dal fascismo, Roma, Donzelli, 2010): anche per gli internati di Colle di Val d’Elsa può valere la riflessione dell’autrice: “non è tutta la loro storia, è la storia che i documenti ci presentano”.

* Il presente articolo è un’estrema sintesi di quello dal titolo Non avvicinare alcuno senza particolare autorizzazione. Le “vite di carta” degli internati civili a Colle di Val d’Elsa (1941-1943), apparso sulla “Miscellanea Storica della Valdelsa” (2015, fasc. 1-2, pp. 113-182). Si ringrazia il prof. Fabio Dei, Presidente della Società Storica della Valdelsa, per averne autorizzato la pubblicazione. 




Le donne della famiglia Castelli

È una consapevolezza diffusa, basata anche sulle ricerche e i dati ricavabili dai censimenti, che il livello di alfabetizzazione all’interno delle comunità ebraiche italiane sia stato sempre assai più significativo di quello presente nelle altre componenti della popolazione italiana. Essere in grado di leggere, scrivere e far di conto era una condizione preliminare per chiunque per poter accedere a un qualsiasi livello di emancipazione. Questo presupposto imprescindibile dentro la componente ebrea della popolazione era posseduto da tutti, dai maschi e dalle femmine, ma non era sufficiente affinché si aprissero, per le donne, percorsi di vita migliorativi.

Cercherò qui di seguito di illustrare questa mia convinzione attraverso una fonte particolare, quella di un deposito di lettere private assai significativa: si tratta dell’archivio privato della famiglia Castelli, oltre ottocento tra lettere e cartoline postali, consegnate all’Istoreco di Livorno da un’erede della famiglia che le aveva miracolosamente salvate. Su questo carteggio, insieme ad altre scritture private, alcune già pubblicate da tempo, e ad alcuni lavori storiografici sulle famiglie livornesi, sto lavorando da oltre un anno per estrapolarne una monografia. Grazie a tutto questo materiale sono venuta costruendo queste riflessioni che porgo all’attenzione del lettore.

Occorre precisare che nella stragrande maggioranza dei casi sono scritture e testimonianze femminili che permettono di delineare un quadro di genere sulla condizione della donna all’interno della comunità ebraica, ancora osservabile negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: soprattutto l’epistolario che raccoglie le lettere, in grande maggioranza indirizzate da Livorno ad Asmara, scritte nella quasi totalità dalla componente femminile della famiglia. Le mittenti sono la madre Emma De Rossi e le sorelle Anna, Ada, Ilda, che intrattengono con la sorella minore, Rita, trasferitasi in Eritrea, una corrispondenza quasi quotidiana per circa vent’anni. Le prime lettere sono del dicembre del 1937, le ultime sono degli anni Cinquanta.

L’autrice più interessante per questa riflessione è Ilda, per la cui biografia possiamo utilizzare anche quello che lei stessa scrisse in occasione di una pubblicazione promossa dal Comune di Livorno. In quel volume, Ebrei tra due censimenti, Ilda racconta che il padre di fronte al suo desiderio espresso di studiare Medicina, rispose:

La vecchia sinagoga di Livorno

La vecchia sinagoga di Livorno

“Per me le donne fanno meglio a stare a casa ad imparare a far le polpette ma, se vuoi studiare, studia. Io non ti aiuto. Se ci riesci, riesci, se non riesci, non riesci.”

La frase rievocata da Ilda Castelli può darsi che non sia stata espressa precisamente in questo modo. Del resto il ricordo si colloca alla fine degli anni Ottanta e la discussione con il padre Ilda l’aveva avuta nella prima metà degli anni Trenta. Curiosamente, ma non troppo però, ne troviamo conferma in alcune lettere dell’epistolario antecedenti un quarantennio la pubblicazione della Labronica. La memoria vicina a quella discussione ripete in modo quasi omogeneo quanto poi ricorda Ilda ormai avanti negli anni. Evidentemente fu una discussione che si fissò nella sua memoria e gli anni non furono sufficienti a scalfirla. È evidente dalla rievocazione come Ugo Castelli, il padre, ritenesse una scelta inutile, quasi uno spreco, mandare la figlia all’Università. Le figlie femmine, lui ne ha quattro (Anna, Ada, Ilda e Rita) devono imparare a diventare delle buone casalinghe, delle brave cuoche, delle buone madri. Egli non ritiene di avere tra i suoi doveri di padre, istruito e benestante, quello di aiutare le figlie ad emanciparsi attraverso una facoltà universitaria che avrebbe permesso loro autonomia economica e decisionale. Per chiarirsi meglio aggiunge che se la figlia Ilda ce la farà a laurearsi, a lui questo non interesserà alcunché. Avere una figlia laureata, giunta cioè all’apice dell’istruzione allora possibile, era più un fastidio da giustificare davanti agli altri che un motivo di orgoglio da rivendicare.

Eppure il milieu familiare avrebbe potuto aiutare. La famiglia Castelli è un nucleo medio-borghese, in cui sia il padre che il figlio primogenito Carlo, sono proprietari di farmacie cittadine. Anche il genero di Ugo, Aleardo Lattes, è coinvolto direttamente nella gestione di questa attività. Ai nostri occhi questo dovrebbe permettere una visione più aperta nell’educazione delle figlie. Tuttavia la scelta che Ugo Castelli cercherà di ribadire con tutte e quattro le figlie, sarà quella di mantenersi nel solco delle consuetudini, delle tradizioni accettate e praticate anche da famiglie più abbienti della sua. Tradizioni che prevedono, come nella maggior parte dei borghesi del tempo, anche non ebrei, una divisone dei ruoli rigida e invalicabile. I maschi a lavorare per mantenere il ménage domestico, le donne ad accudire la casa, sorvegliare la servitù, occuparsi dei figli. Quella di Ugo è una famiglia che riserva alle donne un’educazione che si colloca pienamente nel solco delle tradizioni ebraiche, comuni sia alle ragazze figlie della piccola e media borghesia, che a quelle delle grandi famiglie imprenditoriali. Queste dovevano frequentare le scuole, magari anche le superiori, imparare una lingua straniera, per lo più il francese ma non solo, e se ne avevano l’estro anche un po’ di musica. Ma l’accesso agli studi universitari e professionalizzanti non era contemplato. Spesso poi l’insegnamento non era acquisito dentro un percorso regolare di studi perché si preferiva il precettore privato o l’iscrizione a scuole private. A Livorno ne erano attive due, gestite da ebrei, laiche ed aperte anche alle altre confessioni: la scuola dei coniugi Coen e la scuola delle sorelle Garcin. Per i più abbienti poi c’era la possibilità di utilizzare le lezioni private di Rodolfo Mondolfi, dantista di valore e padre di Umberto, primo sindaco socialista di Livorno, così come per le lingue chi ne aveva le possibilità poteva usufruire della rete di relazioni familiari e amicali con l’estero, oltre che di istitutrici private. Una volta però entrate nell’età adulta, e dopo aver preso marito, tutte dovevano dedicarsi alla casa, a partire dalla madre Emma fino ad arrivare alla figlia più piccola, Rita, sposata e residente in Africa.

La nostra Ilda si ribella a questo destino e ce la farà a trovare la sua collocazione, collocazione molto lontana per certi aspetti dalla tradizione. Essa incarna un personaggio di grande interesse storiografico poiché racchiude in sé molte delle contraddizioni che riguardano le donne ebree del secolo passato. La sua forte personalità e il suo forte dinamismo le permetteranno, pur in contrasto con il vecchio padre, di frequentare Medicina a Pisa con successo (l’anno della sua laurea furono solo due le donne laureate), e di specializzarsi in Pediatria divenendo la prima donna pediatra di Livorno; e quando, dopo la promulgazione delle leggi razziali, un altro pediatra, ebreo pure lui, Roberto Funaro, sceglierà di partire subito per gli USA senza aspettare che la situazione divenga drammatica, Ilda Castelli avrà la possibilità di avere tutta la sua numerosa e ricca clientela.

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Riproduzione di una lettera di Ilda Castelli, in Archivio privato di Lydia Levi.

Ma Ilda diventa una pediatra apprezzata anche nel nucleo familiare. Lo dimostrano le lettere ricche di prescrizioni mediche che invia alla sorella lontana e madre di tre bambini piccoli. Ilda è la più emancipata tra le quattro sorelle, l’unica che guida l’auto e che si muove tra la città di Livorno e quella di Pisa e dintorni per tenere conferenze sulla puericultura a nome del Fascio pisano al quale appartiene, ed è sempre intenta a scrivere pezzi entusiasti della guerra d’Africa sui giornali. Eppure quando deve suggerire qualcosa alla sorella più giovane riguardo il suo ruolo di moglie, le suggerisce di “assecondare il maritino, tenere in ordine la casa, farsi trovare sempre in ordine, civettuola” e via di seguito. Come si coniuga da una parte la donna medico che con pochi fronzoli impartisce ordini sicuri e terapie e sconsiglia di ascoltare qualsiasi suggerimento che non provenga da una fonte autorevole e professionale, con queste indicazioni così bamboleggianti che sembrano così poco confacenti con la sua personalità? L’impressione che se ne ricava è quella di una emancipazione a metà. La sua incapacità di assumere atteggiamenti più autonomi, meno conformisti, nei confronti del ruolo della moglie all’interno del gruppo familiare e sociale di appartenenza può essere compreso, a mio parere, come una reazione quasi di paura rispetto al salto in avanti compiuto, salto tutto consumato nella dimensione pubblica, ma non solo. Ilda si trova a suo agio dentro le liturgie del regime come gran parte della sua famiglia, e la maggioranza degli ebrei del tempo. Ci si trova così a suo agio che sposa un fascista molto convinto, ma anche cattolico. E sicuramente per questo Ilda si era in seguito convertita alla religione del marito, al quale, a suo giudizio, occorre che la donna porti sempre obbedienza. Con lo stesso spirito Ilda diventa nel secondo dopoguerra una delle più accese protagoniste della Democrazia Cristiana più clericale e anticomunista. Colpisce molto che questa donna fuori dal comune nella dimensione pubblica, nella dimensione privata riproponga per intero, e senza incrinature, gli stereotipi della sua generazione. Io penso che il suo percorso sia anche la testimonianza di come sia difficile, irto e contraddittorio ribellarsi ed emanciparsi dall’autorità del padre-patriarca. Accade, e la vicenda di Ilda ne dà testimonianza, che talvolta persino quelle donne che pure ci sono riuscite, abbiano poi mantenuto forme di subordinazione all’autorità sia paterna che maritale tipica della tradizione. Solo verso la fine della vita, raccontano i parenti, Ilda ormai vedova ritorna alla religione dei padri, e su di essa comporrà anche un libro. Di sicuro il suo è un personaggio interessantissimo perché interno totalmente a tutta la tragedia del secolo scorso, perché dinamico e reattivo su molti fronti e ligio e obbediente alla religione del “capofamiglia” per altri.

Foto 1Ilda rimane il personaggio meno classificabile all’interno di questa numerosa famiglia. Famiglia che aveva già conosciuto un matrimonio misto, quello del primogenito Carlo, e che aveva già visto la conversione della giovane nipote Elena al cattolicesimo e il suo successivo matrimonio. Questi comportamenti, le lettere ne danno estesa testimonianza, avevano provocato dolori e tensioni ma alla fine erano stati tutti faticosamente metabolizzativ. All’interno di questo gruppo familiare, il padre Ugo esercita il potere tramite anche l’organizzazione di matrimoni combinati, pratica ancora molto frequente negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, come del resto era stato il suo con la giovane Emma De Rossi.

Ma il carteggio a mia disposizione fa intravedere anche altre storie di donne, a cominciare proprio dalla madre Emma che proviene da una grande famiglia alto-borghese imparentata con Benjamin Disraeli e che è la prima autrice dell’epistolario. È una donna severa, asciutta, controllata e con una precisa condivisone della ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia. Anche se è lei, nei fatti, a tenere unita la trama di questi rapporti con la giovane figlia lontana, ogni qualvolta che si presentano delle discussioni più spinose e argomenti più delicati da trattare, fa un passo indietro e cede la penna al marito-padre. Ugo, padre e nonno amorevolissimo quando si tratta di aggiungere i “salutoni” in fondo alle lettere per Asmara, diviene, quando affronta argomenti più difficili, l’autorità indiscussa.  Come tale usa un linguaggio chiaro, senza nessun infingimento retorico, e più che cercare di dialogare con la figlia lontana, impartisce ordini e disposizioni che non si devono discutere.

Poi ci sono le altre sorelle: Anna e Ada. Entrambe più anziane, mogli e madri. Entrambe parlano il francese e Ada sa anche suonare il pianoforte. I loro argomenti, anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, sono incentrati sulla casa, la famiglia, le ricette, i vestiti, i figli: insomma la vita quotidiana. Probabilmente le aiuta a sostenersi a vicenda dentro una tragedia imprevista e terribile dalla quale però tutti riescono, sia per fortuna, sia per relazioni, che per ragioni di classe, a uscire indenni e a ritrovarsi, a guerra finita, ancora tutti in piedi. Delle due Ada è quella meno presente, perché convive con i genitori insieme al suo nucleo familiare e per lei in qualche modo, scrive la madre. Invece Anna, moglie di Giorgio Orefice, anche lei madre di Gastone e Vittorio, gioca un altro ruolo. Spesso vive nella casa dei vecchi genitori ma spesso è anche via. Suo marito, Giorgio, è un antifascista perseguitato anche prima delle leggi razziali che cercherà la sua via di fuga in Francia. Pare dal tono delle sue missive la più solare, quella con più risorse per far fronte alle difficoltà, anche se poi le idee che si prospettano non avranno mai buon esito. Da un piccolo numero di lettere da Anna a Rita (da Livorno ad Asmara) si capisce che Anna aveva partorito l’idea, per raggranellare un po’ di denaro, di mettere su un commercio di abiti e biancheria confezionati in Italia da rivendere alle ricche signore italiane di Asmara. L’idea forse poteva anche essere buona ma le difficoltà erano troppe e così tutto naufragò in un niente di fatto. L’aspetto più interessante, dentro questa riflessione, è che si comprende come di questa idea siano stati tenuti all’oscuro proprio i maschi di casa. Prima si vedrà se funziona. Questa è la tipica strategia di difesa femminile: ricorrere al silenzio, anche all’inganno, pur di far marciare una propria idea – perché se venisse manifestata alla luce del sole, sarebbe eliminata sul nascere.

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Il volume-intervista di Catia Sonetti a Gastone Orefice

Sempre dall’epistolario in nostro possesso scopriamo che, tra le due, sarà proprio Rita la minore, a lavorare e a guadagnare per sé e per la famiglia. Prima in Africa con l’arrivo degli inglesi e poi grazie alla sua conoscenza della lingua, dopo la guerra, tornata a Livorno, con gli Americani. Anna invece rimarrà tutta la vita moglie e madre. Ma dopo la liberazione e la fine della guerra il quadro cambia per tutti e quella diventa un’altra storia.

Eppure queste donne passeranno tra i drammi della guerra e della persecuzione incolumi adottando varie strategie di sopravvivenza. La più anziana, la vecchia madre Emma, racconta in un diario che poi il nipote Gastone contribuirà a rendere pubblico, le peripezie degli ultimi mesi. È un testo interessante che messo a confronto con i testi delle lettere fa emergere con chiarezza come la prosa epistolare sia una prosa familiare, più sciolta, più colloquiale, mentre il diario scritto con l’intenzione di lasciare una testimonianza per i nipoti e per i posteri in genere, è più strutturato, propone scelte lessicali più meditate e dà maggiore spazio al tema della religiosità ebraica e delle tradizioni, così minacciate in un contesto di fuga.

A nessuna di loro capitò quello che accadde a un’altra Emma, omonima della nostra, Emma Castelli (sorella di Ugo e moglie di Salomone Giulio Belforte) che negli anni della Grande Guerra fu strappata alle sue occupazioni domestiche e si dovette occupare a tutto tondo dell’azienda di famiglia, sia della cartoleria che della casa editrice. Il figlio Gino racconterà che “se fino ad allora era stata del tutto ignara di ogni attività commerciale, seppe assumere con energia le redini dell’azienda, sì da conservare soldi fino al ritorno dei figli. E fino all’estremo delle sue forze non volle più abbandonare il lavoro e ne fece, insieme all’affetto per la famiglia, lo scopo della sua vita.” (M. Luzzati, 1990). In sostanza da donna risoluta qual era si rifiutò di essere di nuovo relegata alle faccende domestiche riuscendo a trasformare quello che le si era prospettato come dovere in un diritto a cui non volle più rinunciare. Furono però poche le donne ebree alle quali capitò quest’occasione. Peccato.




Quando i mezzadri “sognarono” di diventare padroni della più grande fattoria del pratese…

Verso la metà del secolo scorso, contrariamente a quanto si è soliti pensare, l’agricoltura aveva ancora un peso non trascurabile a Prato e nei comuni vicini: le famiglie coloniche erano più di mille (nel Pratese una famiglia colonica era all’epoca formata in media da una diecina di persone: si parla quindi di circa diecimila addetti all’agricoltura) e nella zona esistevano alcune grandi fattorie nelle quali lavorava un consistente numero di mezzadri (le fattorie più importanti erano quelle del Mulinaccio e di Spranger qui in Val di Bisenzio, di Gonfienti e della Rugea nel territorio del comune di Prato, di Capezzana e di Artimino nel territorio del comune di Carmignano e del Parugiano nel territorio del comune di Montemurlo).
Le condizioni dei lavoratori agricoli erano però estremamente critiche. Nella primavera del 1953 La guida, il settimanale della Zona del PCI di Prato, pubblicò un’interessantissima inchiesta, realizzata da Gino Melani, segretario della Confederterra locale, sulle condizioni di vita e di lavoro dei mezzadri nelle campagne pratesi. Essa rivelava che i guadagni giornalieri dei contadini erano bassissimi (spesso insufficienti a far fronte ai bisogni della vita), che le condizioni delle abitazioni erano spaventose (basti pensare che talora nei giorni di pioggia era necessario mettere sui letti ombrelli e catinelle per impedire che l’acqua li bagnasse filtrando dal tetto), che la meccanizzazione era ancora insufficiente (in molti casi le macchine continuavano ad essere le braccia dei contadini), che il prezzo dei concimi chimici era elevatissimo (a causa del monopolio esercitato dalla Montecatini) e via di questo passo.
Stando così le cose, è facile comprendere perché il tratto più caratteristico dell’agricoltura locale fosse la commistione tra fabbrica e campagna: il fatto era che l’alto costo della vita costringeva chi lavorava nei campi ad integrare i proventi derivanti dall’agricoltura con quelli che provenivano da varie prestazioni di lavoro nell’industria (lo squilibrio fra redditi agricoli e redditi industriali, calcolato in termini monetari, arrivava a rapporti medi di 1 a 3,7 per unità di lavoro).
La fabbrica esercitava il suo fascino soprattutto sui giovani, che ambivano ad un lavoro meno massacrante e più redditizio di quello dei contadini, ad una vita più libera, a maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.
La tendenza all’abbandono delle campagne – in assenza di una politica volta a favorire davvero la formazione della piccola proprietà contadina con una seria riforma agraria ed a sostenerla poi adeguatamente sul piano tecnico e finanziario – assunse nel giro di alcuni anni un andamento a valanga, determinando il collasso del secolare istituto della mezzadria. Tutto ciò fu sanzionato sul piano giuridico nel 1964 da una legge che vietò il contratto di mezzadria, trasformandolo in contratto d’affitto.
È in questo quadro che si situa la vicenda della Cooperativa agricola del Mulinaccio, una vicenda complessa, che cercheremo di riassumere in estrema sintesi per tirare poi delle conclusioni.

Alla fine della seconda guerra mondiale, con una storia di più di quattro secoli alle spalle, la fattoria del Mulinaccio era la più grande del Pratese. In quel torno di tempo essa contava ben trentasei poderi per un totale di diverse centinaia di ettari di estensione (all’incirca la metà del territorio dell’attuale comune di Vaiano) e nella sua orbita si muovevano quasi trecento persone (i mezzadri erano più di duecentocinquanta).
Il proprietario, Ferdinando Vaj, era morto nel 1941 e, non avendo figli, aveva lasciato tutti i suoi beni, fattoria compresa, al Cottolengo di Torino o, se il Cottolengo avesse rinunciato, all’Istituto San Niccolò di Prato. Gli eredi designati erano tenuti a creare una casa di riposo. La contessa Caterina Guicciardini, moglie di Ferdinando, figurava nel testamento come usufruttuaria.
La fattoria aveva però seri problemi di ordine finanziario. La guerra aveva infatti causato al Mulinaccio danni gravissimi (a cominciare da quelli, mai rimborsati, arrecati al patrimonio zootecnico dalle razzie dei tedeschi), la fattoria di Luicciana, portata in dote dalla contessa, era in passivo e, nel 1946-47, l’applicazione del “lodo De Gasperi” – il quale prevedeva fra l’altro che i concedenti risarcissero i mezzadri per i danni subìti nel periodo bellico – aveva comportato per l’amministrazione un esborso superiore a due milioni dell’epoca, costringendola ad indebitarsi e rendendo drammatica una situazione già precaria.
La crisi della fattoria precipitò con la morte della contessa Caterina, avvenuta nel 1956. Gli eredi designati (il Cottolengo di Torino e l’Istituto San Niccolò di Prato, come si è detto) rinunciarono all’eredità a causa della condizione fortemente deficitaria dell’azienda e dell’obbligo, cui avrebbero dovuto sottostare, di costruire una casa di riposo. Gli eredi legittimi (cioè i parenti della contessa) fecero altrettanto e l’eredità, non essendo stata assegnata a nessuno, fu dichiarata eredità giacente.
In questo modo al Mulinaccio si produssero le condizioni ideali per l’accesso alla terra da parte dei contadini, alcuni dei quali pensarono di dar vita ad una cooperativa per rilevare la proprietà della fattoria.
Nel 1959 essi ebbero un colloquio col curatore, l’avvocato Manlio Maglioni, del foro di Firenze, il quale disse loro che l’azienda era effettivamente in vendita e che l’amministrazione avrebbe valutato con piacere eventuali proposte avanzate dai mezzadri.
Fidandosi della parola del curatore, i contadini lavorarono di buona lena alla realizzazione del loro progetto: la Cooperativa agricola Mulinaccio venne costituita a Vaiano il 28 aprile 1962 con rogito del notaio Lapo Lapi. I soci fondatori erano dodici. Il mezzadro del podere Il Frullino, Marino Mengoni, fu scelto come presidente.
I mezzadri formularono subito una proposta di acquisto. Essi richiedevano dodici poderi (l’idea di acquistare l’intera fattoria era stata abbandonata in seguito al ripensamento di alcuni coloni), al prezzo di stima di circa trentotto milioni. Erano inoltre interessati all’acquisto della villa, valutata nove milioni.
La proposta di acquisto comportava dunque un esborso di quarantasette milioni di lire. Nel valutarne la fattibilità, bisogna considerare che i contadini non erano tenuti al rispetto dei vincoli che gravavano sugli eredi testamentari (cioè non avevano l’obbligo di costruire la casa di riposo), che il bestiame in conto capitale era già loro per metà e che quasi tutti i potenziali acquirenti risultavano creditori dell’azienda. In complesso non si trattava dunque di un piano irrealistico, anche se il suo successo poteva essere pienamente garantito solo dalla concessione di un finanziamento per l’acquisto da parte dello stato o di un altro ente pubblico.
Nell’autunno del 1962 si ebbe però un colpo di scena: il 27 settembre il curatore (che con ogni verosimiglianza era il terminale di forze e di interessi privati ostili all’acquisto della fattoria da parte dei contadini) convocò all’improvviso la gara d’asta per il 29, ed a stento i rappresentanti della Cooperativa riuscirono ad ottenere dal magistrato competente un rinvio al 30 ottobre.
Nelle settimane che seguirono i mezzadri moltiplicarono gli sforzi per trovare un finanziamento, ma senza successo. Solo il comune di Vaiano, di cui era allora sindaco il comunista Fiorenzo Fiondi, si dimostrò sensibile nei confronti dei contadini: l’8 ottobre il consiglio comunale, rilevata l’importanza che i terreni del Mulinaccio avevano per la collettività (nell’intenzione dell’amministrazione vi dovevano infatti sorgere infrastrutture di primaria importanza, case popolari e così via), deliberò infatti di autorizzare il sindaco a presentare domanda d’acquisto dell’eredità giacente insieme con la Cooperativa, contraendo a tal fine un mutuo passivo.
Con questo voto il Comune di Vaiano si schierò dalla parte dei mezzadri, assumendo dei precisi impegni di carattere finanziario, ma il 9 novembre la giunta provinciale amministrativa ordinò il rinvio della deliberazione comunale perché, a suo parere, in tale atto non erano stati né sufficientemente chiariti i motivi per i quali il comune era interessato all’acquisto né indicati i riferimenti necessari per poter valutare se il comune stesso era in grado di far fronte alla spesa mediante la contrattazione di un mutuo. Il Comune di Vaiano rinunciò ad inoltrare le controdeduzioni entro i sessanta giorni previsti dalla legge, dato che l’asta si sarebbe comunque svolta prima che fosse possibile conoscere l’esito del ricorso.
La Cooperativa era ormai tagliata fuori dai giochi, e non stupisce che essa decidesse di non presentarsi neppure all’asta indetta il 3 dicembre, vinta facilmente dagli industriali pratesi Befani e Franchi che si aggiudicarono la fattoria per duecentonovanta milioni dell’epoca. I nuovi proprietari non erano affatto interessati al rilancio dell’azienda: essi non si recarono nemmeno a conoscere i mezzadri e cominciarono subito a vendere i poderi in maniera indiscriminata. Per la vecchia, gloriosa, fattoria fu la fine.
Gli interessi speculativi prevalsero dunque su quelli dei contadini. In questo senso la vicenda della Cooperativa agricola del Mulinaccio può dirsi una vicenda esemplare: come, sul piano generale, mancò la volontà di realizzare un’organica riforma agraria, così, nel caso specifico, mancò la volontà di ascoltare davvero le ragioni dei mezzadri e di dare loro un aiuto concreto.
La Cooperativa continuò ad esistere come cooperativa di servizi agricoli fino al 2003, quando ne venne decretato lo scioglimento senza nomina di commissario liquidatore.
Quello dei contadini del Mulinaccio si rivelò dunque un sogno. Eppure proprio l’essersi impegnati senza riserve per realizzare quel sogno dà un particolare valore alla loro testimonianza. Nel 1962 i contadini del Mulinaccio erano sì dei vinti, ma appartenevano ad una specie particolarissima di vinti: quelli a cui la storia non darà mai torto.




La canzone popolare non morirà

Alcuni anni fa ebbi modo di intervistare Caterina Bueno (1943-2007) per Azione sindacale, il periodico della CGIL di Prato. Per realizzare l’intervista avevo, al massimo, dieci giorni. Ci misi più di tre mesi (Caterina non era facilmente contenibile nello schema domanda/risposta), però nacque un’amicizia. L’intervista uscì nel numero del 1° maggio 1992. La ripubblico oggi su ToscanaNovecento come affettuoso omaggio ad una donna di eccezionale intelligenza e sensibilità che ho avuto la fortuna di conoscere.

Esiste anche in Italia una musica indipendente da quella “ufficiale”: è la musica popolare che si suona con strumenti, scale e modi diversi.
Caterina Bueno è una delle massime esponenti di questo genere musicale che ha fatto conoscere anche all’estero. Interprete e ricercatrice appassionata di canti popolari, ha girato in lungo ed in largo la Toscana raccogliendo dalla viva voce di contadini e di operai centinaia di ore di registrazione: il suo repertorio spazia dalle melodie medievali ai canti del dopoguerra, e la sua nastroteca costituisce un patrimonio di grande valore culturale.
Con Caterina abbiamo avuto un interessante colloquio. Ne proponiamo il testo ai lettori.

Qual è, a tuo avviso, la definizione più corretta di canzone popolare? Quali sono gli elementi che la caratterizzano (e che permettono di separarla nettamente da certa paccottiglia folcloristica), quali ne sono i contenuti?

La canzone popolare è innanzitutto l’espressione di un modo di concepire l’esistenza ed il mondo, è l’espressione di una cultura che si è sviluppata in maniera autonoma rispetto alla cultura egemone. E questo è un punto da tenere ben fermo se si vuole distinguere la vera canzone popolare dal cosiddetto “folk”, un termine che io non amo perché molto spesso è sinonimo di insincerità e di edulcorazione. Poi è essenziale il modo in cui la musica viene tramandata ed utilizzata: le canzoni popolari si tramandano di regola oralmente e non devono essere mercificate, trasformate in prodotti di consumo. Quanto ai contenuti della canzone popolare, essi sono estremamente vari: la canzone popolare, infatti, è stata in pratica, diciamo fino all’epoca della grande guerra, il giornale degli analfabeti, l’unica fonte di informazione per migliaia di persone sparse in tutta la Penisola. Molto spesso il suo contenuto è legato ad avvenimenti politico-sociali di carattere locale o nazionale, ma accanto a questo filone, che è poi quello della protesta e della lotta, ve ne sono molti altri, per esempio quello dei canti di lavoro (basti pensare ai canti della mietitura) o quello di carattere intimistico che comprende svariati motivi, fra i quali spiccano alcune bellissime ninnenanne, nel contempo semplici e poetiche.

Come è avvenuto il tuo incontro con la musica popolare?

È avvenuto nell’ambiente in cui sono cresciuta, un ambiente che mi permetteva di essere in contatto con il mondo contadino. Essendo di origini spagnole, quindi “straniera” fra i miei compagni di scuola, ero molto affascinata da quelle sfumature della lingua che allora permettevano al bambino di un quartiere di riconoscere quello di un altro. Il mio primo incontro fu dunque col dialetto, anzi con la lingua toscana, poi nacque in me un interesse specifico per la musica popolare: i primi motivi li ho ascoltati dalla voce della mia tata, una balia asciutta mugellana che sapeva cantare da donna e da uomo.

La tua attività di cantante si fonda su un lungo lavoro di ricerca sul campo. Quali sono gli strumenti culturali indispensabili perché tale lavoro risulti proficuo?

Certamente bisogna essere mossi da una reale curiosità ed avere le idee ben chiare sull’oggetto della ricerca, sui motivi che è interessante (e possibile) rintracciare. A questo scopo io ho lavorato a lungo in biblioteca, sulle raccolte di canti popolari conservate in Marucelliana, per costruire gli itinerari delle mie indagini, ma soprattutto mi sono basata sul sentito dire. Poi mi sono procurata un registratore ed ho cominciato a setacciare le nostre campagne. All’inizio questo lavoro di ricerca è stato tutt’altro che facile: c’era da vincere la mia timidezza e la comprensibile ritrosia delle persone alle quali chiedevo di cantare, specialmente delle donne. Spesso mi sono fatta presentare dal sindaco di questo o di quel comune, altre volte ho dovuto inventare dei pretesti per giustificare le mie richieste. Ma, a parte queste difficoltà, il lavoro che ho svolto è stato proficuo, sia perché ho trovato molte canzoni sia perché ho potuto conoscere delle realtà talora insospettabili, della gente che spesso aveva storie lunghe e difficili alle spalle. E questo è stato per me un grande arricchimento interiore.

I canti popolari sono una testimonianza estremamente significativa della concezione della vita delle classi subalterne. Sarebbe quindi molto interessante sapere, ad esempio, quale immagine essi danno del lavoro, della religione, del potere…

Il lavoro è sentito come un peso, perché gli operai ed i contadini sanno di lavorare per il profitto altrui. Nei canti di lotta c’è una precisa consapevolezza della natura classista della società, consapevolezza che non è evidentemente frutto di studi, ma di vita vissuta. Molto significativo è in questo senso un contrasto (che ho raccolto a Vingone) dove una contadina dice ad una marchesina queste precise parole: “Se le sue vesti valgono un tesoro / se vive in festa tra cavalli e cani / quel che mangia o consuma, o mia signora / gli è il prodotto di noi che si lavora”. Qui non c’è ombra di timore reverenziale: c’è la coscienza di essere sfruttati e c’è il coraggio di manifestare apertamente il proprio pensiero. Quanto alla religione, ciò che balza subito agli occhi è il fatto che nella campagna toscana una religiosità popolare radicata convive con un forte spirito anticlericale: Cristo è dalla parte dei poveri, i suoi rappresentanti no. Ai preti viene rimproverato di predicare la rassegnazione e di tradire lo spirito del Vangelo. Un altro punto da sottolineare è l’umanizzazione dei santi, della Madonna e di Cristo stesso. La Toscana è insomma molto più laica delle regioni vicine, segnatamente dell’Umbria. Il potere, infine, viene identificato con lo stato, e quest’ultimo è visto come un’entità lontana ed ostile che si fa viva con la povera gente solo quando si tratta di spremerla o di mandarla a morire in guerra. Qualcuno parlerà di pessimismo, dirà che la canzone popolare dà un’immagine tragica della vita, ma a chi parla così sfugge il fatto che la canzone popolare non fa altro che riflettere delle esperienze di vita e che queste esperienze di vita sono state spesso realmente tragiche.

Tra le tue canzoni più famose vi sono gli stornelli di Italia bella mostrati gentile ed il rispetto intitolato Maremma. Puoi parlarci di questi due brani?

Gli stornelli di Italia bella li ho raccolti nel Casentino, a Stia e nel castello di Porciano. La loro origine va ricercata nelle tensioni innescate dall’emigrazione di fine secolo, un fenomeno che interessò in una certa misura anche la Toscana. A Stia una fabbrica molto importante per il paese era entrata in crisi ed aveva dovuto chiudere. Alla chiusura seguirono i licenziamenti e l’esodo verso l’America. Nacquero così questi stornelli che si segnalano per spontaneità, per assenza di retorica. Il rispetto cui accennavi è invece legato alle migrazioni stagionali verso la Maremma ed è di incerta datazione. Forse risale all’Ottocento e si deve alla poetessa pastora Beatrice del Pian degli Ontani, una ragazza della montagna pistoiese che, nel giorno dello sposalizio, fu colta da uno stato di esaltazione e cominciò ad improvvisare dei bellissimi versi. Chissà, forse aveva bevuto un bicchiere di troppo. Sta di fatto che lei, analfabeta, ci ha lasciato delle cose straordinarie che le diedero una grande notorietà, tant’è vero che ricevette la visita di personaggi illustri dell’epoca, fra cui Giuseppe Giusti e Niccolò Tommaseo. Ma la persona a lei più vicina fu la moglie del conte Cini di San Marcello Pistoiese, Francesca Alexander. Entrambe erano infatti molto religiose.

Nella tua carriera è stata certamente molto importante la partecipazione agli spettacoli Bella ciao (presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel ’64, con la regia di Filippo Crivelli) e Ci ragiono e canto (rappresentato per la prima volta nel ’66 al Teatro Carignano di Torino, con la regia di Dario Fo). Che cosa volevano comunicare al pubblico questi spettacoli?

Ambedue si proponevano, in sostanza, di ricordare e di difendere il patrimonio politico e culturale delle classi popolari diffondendolo fra la gente, ed avevano alle spalle un lavoro di preparazione molto serio, anche da parte dei vari interpreti. Per Bella ciao fu utilizzato in parte il materiale impiegato per uno spettacolo che avevo presentato nel ’63 alla Casa del popolo Andrea del Sarto, qui a Firenze. Lo spettacolo (cui presero parte anche due grandi attori oggi scomparsi, Giorgio Naddi e Roberto Vezzosi) si chiamava Sottostoria d’Italia e, partendo dall’Unità, arrivava fino all’epoca di De Gasperi. Si trattava di un mélange di canzoni e di brani teatrali cui si accompagnavano notizie ricavate dai giornali. Ci ragiono e canto aveva dentro di sé una ricerca ancora più vasta e, rispetto a Bella ciao, era caratterizzato da un maggior approfondimento musicale e gestuale.

Si sa che Luigi Tenco aveva l’intenzione di incidere un disco di canti popolari. Francesco De Gregori è stato tuo chitarrista e ti ha dedicato una delle canzoni dell’album Titanic. Ciò induce a pensare che la musica popolare abbia contribuito al formarsi di una coscienza politica nell’ambito della canzone d’autore italiana. Qual è la tua opinione a questo riguardo?

La musica popolare ha certamente svolto una funzione di codesto genere. I cantautori intendevano infatti svecchiare la canzone italiana e, da questo punto di vista, i canti popolari hanno offerto loro una molteplicità di spunti musicali e contenutistici. Per quanto riguarda Francesco, credo che la familiarità con i temi popolari gli sia stata molto utile per acquistare quell’immediatezza di espressione che oggi tutti gli riconoscono. Si potrebbero fare i nomi di Jannacci, di Gaber, di Paoli, di De André, per arrivare fino a Gianna Nannini, che sulla musica popolare sta preparando la sua tesi di laurea.

La nostra canzone d’autore si è ispirata in larga parte alla chanson à texte francese. Che cosa ne pensi di artisti come Jacques Brel, Georges Brassens e Léo Ferré?

Penso che abbiano contribuito al rinnovamento della società francese e che abbiano cantato l’amore in maniera poetica e personale. E penso anche che queste cose siano tutt’altro che facili. Brassens, in particolare, era molto sensibile alla canzone popolare mediterranea. In una delle sue poesie (Supplique pour être enterré à la plage de Sète) ricorda la villanella, il fandango, la tarantella, la sardana e ciò è indice di un interesse sincero e di una ricerca non superficiale. Peccato che autori come quelli che ricordavi siano praticamente sconosciuti in Italia. C’è un problema di lingua, certo, però non si può fare a meno di osservare che questo problema esiste anche per l’inglese e che mentre le cose meno belle ed interessanti hanno sempre un pubblico pronto ad ascoltarle, le altre, quelle più valide, un pubblico se lo devono faticosamente costruire. Senza contare le responsabilità dei discografici, che promuovono in genere le canzoni più insulse e volgari.

La musica popolare italiana affonda le sue radici nella società contadina. Ma i movimenti migratori dell’epoca del boom hanno sconvolto in pochi anni strutture sociali secolari, inurbando con violenza le masse rurali. A questo fenomeno è seguita la nascita di una musica popolare nelle borgate e nelle periferie delle grandi città?

Secondo alcuni studiosi, senz’altro sì. Io però credo che (pur essendo emerso qualcosa di valido nelle grandi metropoli industriali nel campo della canzone di protesta) sia ancora troppo presto per esprimere dei giudizi. Il maturare di una reale capacità espressiva da parte di gruppi sociali sradicati dalla loro terra è un processo che richiede tempi lunghi. Bisogna superare la smania dell’integrazione che porta a nascondere la propria cultura, poi bisogna socializzare con persone che hanno le stesse origini e gli stessi problemi per rendersi conto del contrasto esistente col mondo in cui si è stati proiettati. E solo a questo punto si può acquisire quella capacità espressiva di cui parlavo. Le cose, quindi, non sono tanto semplici.

Quali sono oggi i filoni più interessanti e le prospettive della nostra musica popolare?

I filoni più interessanti sono senza dubbio quelli che stanno scomparendo, che rischiano di andar perduti per sempre: il ricercatore ne è attratto perché vuole impedire che ciò accada ed è felice quando riesce a raggiungere questo scopo. Quanto alle prospettive, tutto dipende dal modo in cui verrà utilizzato il materiale disponibile, dalla capacità di rendere una certa atmosfera e di suscitare un’emozione in chi ascolta. Lavorare su del materiale nuovo ed originale non è facile, questo è sicuro, ma la canzone popolare esiste da sempre e non è quindi il caso di recitarle il de profundis: non credo che vorrà morire proprio ora.




La “Caffettiera del Chianti”

La storia della Tramvia del Chianti ha origine negli anni di Firenze capitale. Il problema dei trasporti pubblici divenne di primo piano per la città, centro di nuove e importanti attività. Il servizio di trasporto pubblico svolto con gli omnibus, grosse carrozze pubbliche a cavalli che circolavano su rotaie metalliche, conducendo i passeggeri dalle porte della città fino al capolinea di Piazza della Signoria e viceversa si rilevò inadeguato con il trasferimento della corte, del governo, del parlamento, di funzionari prima residenti a Torino. Nel 1873 il Consiglio comunale nominò una commissione per studiare i problemi, dei collegamenti tra le varie zone. La soluzione migliore venne individuata nell’introduzione di una linea tramviaria, costituita da carrozze che circolavano su rotaie metalliche, trainate da cavalli. Negli anni Ottanta dell’Ottocento fu approvato l’uso del vapore al posto dei cavalli introdotto, a partire dal 23 novembre del 1879, nella linea Firenze- Prato. La tramvia ebbe un successo immediato, tanto che il Comune approvò il progetto di congiungere a Firenze, tramite tram, le località del circondario, la cui popolazione dipendeva sempre più dal capoluogo per le attività amministrative, economiche e commerciali. La Société Générale des Tramways, una delle più importanti imprese belghe operanti nel settore, richiese un nuovo capitolato al Comune per le linee extraurbane. Tra il 1881 e il 1892 furono così realizzate la linea tramviaria dei Viali, e quelle per Rovezzano, Bagno a Ripoli, Sesto Fiorentino, Ponte di Mezzo e Settignano. Nel 1884 i Tramways Florentins, dai fiorentini nominata “la belga”, ragione sociale dell’impresa facente capo alla Société Générale des Tramways, acquistarono le linee di Prato, Poggio a Caiano e Cascine. La diffusione di questo nuovo mezzo di trasporto suscitò nella cittadinanza reazioni molto contrastanti, suscitando nello stesso tempo paure e speranze, sollevando tematiche ancora attuali. In particolare l’ambizioso progetto per la realizzazione delle due linee per Fiesole e per il Chianti promosso da Emanuele Orazio Fenzi, figlio del famoso banchiere fiorentino e costruttore della Leopolda, pose l’imprenditore di fronte a diverse difficoltà.
«Da Firenze a S. Casciano: esiste fino dal decorso 1891 una linea di tram costruita dalla Società dei Tramvia del Chianti e dei Colli Fiorentini. Da Firenze le partenze del tram di S. Casciano avvengono da Piazza della Signoria e dal Piazzale della Porta Romana…». Viene così descritta nel volume Il Comune di San Casciano del 1892 del Carocci la linea che collegò Firenze con San Casciano e Greve in Chianti dal 1891 al 1935.
Alla fine dell’Ottocento, il territorio di San Casciano si presentava suddiviso in quattro frazioni principali: San Casciano, Mercatale, la Romola e San Pancrazio. La popolazione ammontava complessivamente a circa 11.000 abitanti nel 1861, aumentando progressivamente fino ad arrivare a poco più di 15.000 abitanti nei censimenti del 1911 e del 1921. L’economia di questo territorio ruotava intorno all’agricoltura, al commercio del bestiame, alla produzione del vino e dell’olio. I collegamenti tra Firenze e Siena erano affidati alle diligenze e nel 1887 fu accolto con favore il progetto di congiungere il Chianti con Firenze attraverso una linea tramviaria che prevedeva il servizio trasporto merci. La linea fu strumento di miglioramento economico e sociale per la comunità. Pochi mesi dopo l’inaugurazione del tratto Firenze-San Casciano, Francesco Stianti, trasferì la sua tipografia e casa editrice in una bottega in Piazza dell’Orologio, con una piccola succursale in un locale al primo piano in Borgo Sarchiani. Nel 1898 la famiglia Antinori costruì le cantine di San Casciano in Val di Pesa

Emanuele Orazio Fenzi, rappresentante la “Ditta Bancaria Emanuele Orazio Fenzi e C.” di Firenze, su Progetto dell’ing. Giuseppe Lenci, presentò domanda al Comune di San Casciano per «l’attivazione di una tramvia a trazione meccanica tra Firenze e San Casciano». L’adunanza del Consiglio comunale, in data 22 marzo del 1887, stanziò 110.000 lire in favore della società fiorentina per la realizzazione dell’opera. Nell’aprile 1887 la ditta Fenzi e C. presentò la domanda di concessione al Municipio di Firenze e al Consiglio Provinciale di Firenze:
«Questa linea muoverebbe necessariamente dalla Stazione Merci del Campo di Marte, e provvisoriamente da quella di Porta alla Croce, ed attraversando il territorio comunale di Firenze giungerebbe sulla Via Provinciale Senese nel luogo detto <le due strade> o <il Gelsomino> proseguendo quindi sulla detta Via fino al Ponte detto <dei Falciani> dove si biforcherebbe facendo capo, sempre percorrendo la Via Provinciale a S. Casciano da una parte e a Greve dall’altra».
La concessione a Province e Comuni per la costruzione e l’esercizio delle tranvie, concesse poi all’industria privata, era accordata dal Governo per Decreto Reale. Prima del definitivo decreto, furono vivaci le discussioni sull’opportunità della costruzione della tramvia del Chianti. Il progetto difatti si rivelò il più ardito e imponente del regno in quanto si sviluppava per 42 chilometri e prevedeva opere e infrastrutture ingenti: l’apertura di una nuova strada nella valle del Gelsomino, la ricostruzione del ponte San Nicolò e di nuovi ponti a Testi e Rimaggio, il consolidamento e la ricostruzione di opere a Mulino del Diavolo, a Ponte degli Scopeti, al Ponte dei Falciani, alla Colombaia, alla Casellina, al ponte San Angelo sulla Greve. Il preventivo di massima era di Lire 1.632.000.
Le discussioni sull’opportunità della costruzione della linea tramviaria del Chianti coinvolsero i maggiori protagonisti della vita politica toscana fra il 1887 e il 1888. Le linee tramviarie del Chianti e di Fiesole, attraversando zone residenziali o di rilevante interesse artistico e paesaggistico, posero agli amministratori problemi di varia natura, non ultima l’esigenza di confrontarsi anche con un primo embrionale concetto di tutela dell’ambiente. Giuseppe Poggi fu uno dei maggiori detrattori della tramvia del Chianti. Nella memoria diretta alle autorità cittadine fiorentine scriveva l’ingegnere:
«Una tramvia destinata a portare da Firenze al Chianti, e viceversa, mercanzie, bestiami, passeggeri, operai […] sarà utile, ma non sarà conveniente al Viale dei Colli, quale si è voluto che fosse e quale ne piace che sia. Il passeggio dei cittadini e dei forestieri perde le migliori attrattive, e l’opera viene necessariamente a subire alterazioni in quelle che sono le parti costitutive della sua bellezza».
Alla memoria del Poggi fece seguito la riposta di Emanuele Fenzi:
«non si può seriamente classificare come passeggiata pubblica tutto il tratto di Viale dalla Barriera di S.Niccolò fino al Piazzale Michelangiolo, lungo nientemeno che m. 2200. Non ci si trova mai anima viva e il Municipio lo sa, e per le annaffiature non vi spende mai un soldo, e in fatto di illuminazione vi si vede collocato un lume a petrolio a 500 metri. … Par poi proprio un gran male se qualche forestiero, andando a visitare il Viale dei Colli, vedrà per un momento passare un treno di fiaschi di buon vino del Chianti?»
Angiolo Pucci, Sovrintendente ai Pubblici Giardini e Passeggi, paventava danni agli alberi, ai marciapiedi e alle panchine del viale e ancora Giuseppe Poggi che, perso il primo assalto, sposò la causa ambientalista con queste parole:
«Le emanazioni del vapore noceranno certamente alle piante prossime alla rotaia e a lungo andare intristiranno anche le più discoste; e così il passeggio, lieto di ombre e di riposi, diverrà una strada come tutte le altre.»
Emanuele Fenzi, invocò a sostegno della tesi contraria la sua pluriennale esperienza di membro della Regia Società Toscana di Orticoltura:
«Fra i 250 platani o pochi più che si trovano piantati fra le cure e S.Gervasio sai tu quale è di gran lunga il più grosso, il più alto, il più forzuto, il più bello di tutti? Precisamente quello sotto al quale sta ferma (nota bene) per almeno 15 minuti ogni ora la locomotiva del tram di San Domenico».
Una serie di clausole del Comune di Firenze per alleviare le proteste, l’appoggio determinante al progetto di Sidney Sonnino e la netta presa di posizione di Ubaldino Peruzzi a favore della realizzazione della linea, chiusero le discussioni. Il 23 marzo 1888 la Provincia di Firenze approvò la concessione per la costruzione della Tramvia del Chianti. Il 12 maggio 1888 la giunta comunale di San Casciano, deliberò il contributo finale, destinato alla realizzazione dell’opera, in 140.000 lire. Il 18 dicembre 1888 il Decreto Ministeriale dava l’autorizzazione alla Ditta Emanuele Fenzi e C. a costruire ed esercitare con trazione a vapore una tranvia dalla stazione Ferroviaria di Firenze-Porta alla Croce a Greve e a San Casciano in base al progetto dell’Ingegnere Giuseppe Lenci. Decreto del Ministero dei trasporti, 18 dicembre 1888.
foto 3bLa linea fu inaugurata per tronchi successivi tra il 1890 e il 1893. Il tratto di San Casciano fu aperto il 24 maggio del 1891. L’inaugurazione fu una grande giornata di festa per tutto il paese alla presenza delle massime autorità, come racconta il periodico dell’ epoca “Il Chianti” il 31 maggio 1891:
«Per la nostra collina, su per una linea tortuosa serpeggia la vaporiera; saluta col suo fischio lungo, ripetuto dalle convalli, il bel paese che siede sulla cima del monte, ed a lui reca le più belle speranze di un lieto avvenire. Il nostro vecchio castello, a cui neppure sulle ali del vento, potea giungere il fischio della locomotiva, oggi esulta, perché, così bello, così ameno, non meritava di rimaner per sempre sconosciuto. Il 21 maggio è per noi epoca memoranda, in cui l’Illustre Cav. E. Fenzi, raggiunto il suo ideale, univa alla bella Firenze il nostro paese [… ] Alle 10, al teatro Niccolini, vennero estratti alcuni premi a vantaggio dei componenti la Società Operaia e Fratellanza Militare […] la banda suonò l’inno reale, e, mentre il popolo applaudiva al Cav. Emaule Orazio Fenzi ad alla di Lui famiglia, furono presentati mazzi sceltissimi di fiori alla Signora Cristina Fenzi, accompagnata dall’Onorevole Sidney Sonnino, a cui pure non mancarono i mille complimenti dei mille amici che lo amano e lo stimano. I nostri ospiti, ricevuti dagli assessori Levantini e Giunti, si recarono al palazzo municipale, dove vennero salutati dal Sindaco signor Antonio Sandrucci e da molti consiglieri e indi si recarono alla Società Operaia, alla Fratellanza Militare ed ebbero sempre festosa e cordiale accoglienza. Alle 6 ebbe luogo la corsa, dopo fu estratta la tombola, e la banda della Romola, durante questo trattenimento, prestò lodevolissimo servizio. Sull’imbrunire la folla si riversò tutta in piazza dell’Esposizione per assistere ai fuochi preparati dall’abile pirotecnico Tazzi di Calenzano. L’illuminazione del paese riuscì molto bella, e non poteva essere altrimenti, perché preparata dal rinomato Fantappiè. La banda locale, diretta dal distinto Maestro Giovan Battista Frosali, terminò la festa con svariati concerti e fu applauditissima. La famiglia Fenzi e l’Onorevole Sonnino tornarono alla villa entusiasmati per l’accoglienza ricevuta e soddisfatti della festa così.»

Dopo l’inaugurazione di questo tratto l’attività commerciale e bancaria di Fenzi risentì della crisi economica europea degli anni 1889-90 e si aggravò al punto che il Banco Fenzi fallì alla fine del 1891. Nel 1896 la società belga, Société Générale des Tramways, acquisì la società della tramvia del Chianti e dei Colli Fiorentini, che con il fallimento del banco Fenzi era stata ceduta a Ferdinando Cesaroni. Il 26 luglio 1899 si iniziò ad elettrificare la linea; il primo tratto in cui venne eliminata la trazione a vapore fu quello da Porta alla Croce al Gelsomino. In seguito la nuova trazione fu estesa fino a Tavarnuzze, raggiunta il 16 settembre 1907.

La tramvia del Chianti, che da Firenze a Greve in Chianti transitava per 6.887 metri su strade comunali, per 23.594 metri su strade provinciali e per 5.766 metri in sede propria. La diramazione per San Casciano in Val di Pesa transitava per 3.388 metri su strade provinciali e per 1.002 metri in sede propria con una pendenza contenuta sempre entro il 60 per mille. Da Firenze a San Casciano correvano mediamente 28 corse, mentre nel tratto opposto le corse erano 24. Il capolinea principale era in piazza Beccaria, allora conosciuta come porta alla Croce; sempre da piazza Beccaria iniziava la diramazione per la stazione ferroviaria del Campo di Marte ad uso esclusivo dei convogli merci, mentre i passeggeri dovevano compiere il tragitto a piedi. Lasciato il capolinea principale la tramvia si dirigeva verso l’Arno. La prima fermata era nell’allora piazza della Zecca Vecchia (la zona oggi compresa tra piazza Piave e lungarno Pecori-Giraldi) da cui ripartiva per poi attraversare il fiume sul nuovo ponte in ferro di San Niccolò. Passato il ponte, nell’attuale piazza Francesco Ferrucci, si trovava la Barriera daziaria di San Niccolò che la tramvia superava sulla destra attraverso un valico fatto nella cinta muraria. Da qui in poi la tramvia percorreva il Viale dei Colli: da viale Michelangelo fino al piazzale, poi il viale Galileo fino al piazzale Galileo, quindi la tramvia svoltava a sinistra per viale Torricelli fino all’incrocio con il viale del Poggio Imperiale dove si ricongiungeva con il tronco iniziato al piazzale di porta Romana (secondo capolinea fiorentino). Poi la tramvia percorreva via del Gelsomino, una via costruita appositamente per il servizio tranviario dove era situata la stazione omonima. La linea proseguiva poi lungo la via Romana, attuale via Senese, attraversando il borgo delle Due Strade fino al bivio con via di Malavolta dove era il confine con l’allora comune del Galluzzo e dove si trovava un’altra barriera daziaria; superata la barriera la tramvia proseguiva attraversando il Galluzzo, sfiorando la Certosa, attraversando i Bottai e il bivio per Le Rose, dopodiché entrava a Tavarnuzze dove si trovava un’altra stazione. I convogli passavano in località Mulino del Diavolo, poi in località ponte degli Scopeti e quindi nella piana formata dal fiume Greve. Infine raggiungeva i Falciani dove aveva sede una stazione dotata di deposito di materiali e dove era posta una biforcazione: rimanendo sul binario principale proseguiva per Greve in Chianti mentre con l’altro ramo raggiungeva San Casciano in Val di Pesa.
I treni merci avevano l’obbligo di circolare solo di notte e su carri chiusi con l’obbligo di un solo carro merci per convoglio. Venne imposto alla tramvia di avere due capolinea: uno a Porta alla Croce ed uno a Porta Romana. Gli orari del servizio dovevano essere divisi in invernali ed estivi ed essere approvati dalla Prefettura. Fu imposto l’obbligo di collocare i binari al centro della carreggiata dei viali per permettere il pubblico passeggio ed il transito delle carrozze. La linea doveva essere dotata di un servizio telegrafico ed in seguito del servizio telefonico, poi installato per volontà della società esercente; ogni carro doveva avere un vano riservato al servizio postale. Lungo la linea le distanze progressive dovevano essere segnalate mediante segnali posti ogni 500 e ogni 1000 metri ed inoltre, per il tratto in sede propria, venne chiesto di far sorvegliare la linea da due guardiani i quali avevano l’obbligo di abitare nelle località servite. Infine il comune di Firenze si riservò il diritto di concedere più autorizzazioni per l’uso della linea anche ad altri concessionari, ma riconoscendo un rimborso spese per la manutenzione che rimaneva a carico del costruttore.

Foto 2Sono gli scrittori dell’epoca a lasciare i passi più significativi per la memoria storica del trenino. I macchiaioli della letteratura popolare tratteggiarono con pennellate più di memoria che di vero realismo i loro personaggi, i loro quadri di vita popolare nella San Casciano dell’epoca: «Alla punta estrema del paese si San Casciano in Val di Pesa, un colle amenissimo circondato da uno scenario di montagne superbe e punteggiato da volle splendide, là proprio dove le ultime case finiscono, e comincia a snodarsi la ripida via maestra ferrata da una linea di tranvai, c’è un caffè piccino piccino, ma sempre affollato di gente che arriva. Costì, in un bel pomeriggio, mi pare di settembre, il signor Aurelio Frattigiani sostò un momento, invitato da alcuni amici a sorbire una bibita, prima di montare su carrozzone che stava per partire… Sonò la campanella del tranvai, il signor Aurelio bevve in fretta, si congedò, e salì su una vettura. Contemporaneamente un altro carrozzone infilava il binario doppio, e si fermava, mentre il convoglio partente scompariva con un cigolio di freni tremendo. Gli avventori si fecero sulla porta del caffeuccio; alle finestre comparve qualche testa tra i vasi di basilico; un monello sgambettò, cantando. Dal tranvai scesero quattro persone solamente, lasciando delusi gli spettatori, per i quali gli arrivi e le partenze costituivano il lecito ed economico divertimento della giornata: un frate, una contadina, con un ragazzo e un fagotto più grande del ragazzo, e la guardia comunale Ferdinando Paolieri» (Novelle toscane , Il fico, 1914).

Già ad inizio 900 la linea tramviaria del Chianti necessitava di maggiori manutenzione, tanto che i comuni di San Casciano e Greve in Chianti erano stati costretti alle vie legali contro il gestore. I biglietti aumentavano, gli orari non venivano rispettati e le condizioni della linea peggioravano causando numerosi incidenti come riporta la cronaca de “Il Chianti”. La prima guerra mondiale aggravò la situazione ed ebbe conseguenze gravissime sulla società belga e sulla qualità del servizio. Ci fu un’enorme crescita del costo delle materie prime: carbone, energia elettrica, e materiale rotabile. I disservizi erano dovuti anche all’uso della lignite del Valdarno al posto del carbone, impiegato per scopi bellici, e al poco personale, richiamato in guerra. Alla fine della guerra la situazione economica della Società dei Tramways era disperata e tutti gli interventi migliorativi vennero rimandati a data futura.
Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, la SITA era riuscita a ottenere, in via sperimentale, di esercitare un servizio sulla linea Firenze-Siena passando per Greve. Nel 1917 la SITA iniziò a svolgere delle regolari corse di autobus sulle linee Firenze-Siena e Firenze-Volterra con passaggio per San Casciano in Val di Pesa via Falciani. Con l’autobus, San Casciano in Val di Pesa veniva collegato con il centro di Firenze in circa trentacinque-quaranta minuti. Nel ‘21 l’obbligo di cambiare a Tavarnuzze a causa del diverso sistema di trazione (da elettrico a vapore e viceversa) allungò i tempi di percorrenza: da Greve in Chianti a Porta Romana si impiegavano circa due ore (1 ora e mezza da San Casciano in Val di Pesa). Per tutelare la tramvia, l’Ispettorato delle Ferrovie-Tramvie di Firenze impose alla SITA di far passare i suoi autobus non più dai Falciani, ma dalla via Volterrana, con un allungamento dei tempi enorme. Questa decisione causò un lungo contenzioso tra l’amministrazione comunale di San Casciano in Val di Pesa e l’Ispettorato. Tale situazione durava ancora nel 1928, quando il Podestà di San Casciano in Val di Pesa, il generale Michele Polito, inviò un accorato appello al Ministero:
«Il servizio SITA per il tratto Firenze-Falciani-San Casciano, supplisce modestamente alla tanto reclamata deficienza del servizio tranviario. E’ lecito oggi dunque che un paese come San Casciano, che dista da Firenze appena 16 km, pieno di vita agricola e commerciale, debba contentarsi di tre sole partenze del tram al giorno, eseguite con due vecchie carrozze e qualche volta con una sola, mista, per servizio merci viaggiatori? …La variante apportata all’itinerario dei servizi automobilistici nel tratto San Casciano-Firenze e viceversa, e il disservizio tranviario hanno messo questa regione nelle condizioni di doversi porre a paragone di un paese qualunque nei riguardi dei mezzi di comunicazione: prova evidente ne sono l’orario deficiente ed impossibile delle partenze del tram ed il vizioso itinerario del servizio automobilistico col quale si impiegano spesso due ore per raggiungere la città, mentre 30 minuti dovrebbero essere più che sufficienti».

Nel 1932 fu annunciata la chiusura della linea tramviaria. Nel 1934 la società avvio il fallimento ed il 25 aprile 1935 venne deliberata la soppressione del servizio. Dopo la cessazione del servizio negli anni 30 il personale venne riassorbito dalle tramvie fiorentine, gli impianti smantellati, le rotaie divelte per farne dono alla Patria. Una delle vecchie motrici terminò la propria attività nelle cave di Carrara, adibita al trasporto del marmo. Per quasi cinquant’anni la vecchia stazione a strisce bianche e marroni continuò però a segnare il paesaggio urbano di San Casciano. Solo il 6 dicembre del 1983 iniziò la demolizione della Stazione in Piazza Zannoni che ancora oggi, per i sancascianesi, resta “Piazza della Stazione”.

Sara Gremoli è laureata in Storia contemporanea presso l’università di Firenze e presidente dell’associazione culturale Sgabuzzini storici, con sede a San Casciano in val di Pesa.

L’associazione Sgabuzzini Storici, con sede a San Casciano in Val di Pesa si occupa di promozione culturale e organizzazione di eventi. In particolare l’associazione promuove la valorizzazione del patrimonio documentale e la diffusione della memoria storico-culturale del Chianti attraverso l’organizzazione di conferenze, mostre, letture e spettacoli teatrali in collaborazione con le associazioni del territorio.

Le ricerche sulla Tramvia del Chianti curate dall’Associazione in collaborazione con Gruppo “La Porticciola” e del loro prezioso archivio fotografico si sono concretizzate nella realizzazione di una mostra foto–documentaria. Documenti, testimonianze raccolte, periodici dell’epoca, e fotografie sono state fonte d’ispirazione per lo spettacolo teatrale La Caffettiera del Chianti, parole, immagini e musica per ripercorrere la storia della Tramvia del Chianti, andato in scena al Teatro Comunale Niccolini di San Casciano in Val di Pesa, drammaturgia e regia di Tiziana Giuliani.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.




“Caterina la Santa”. Il film “fascista” che non vide mai la luce

Nelle ultime settimane del 1934, poco tempo dopo il suo approdo alla Direzione generale della cinematografia fascista, Luigi  Freddi, scrisse a Galeazzo Ciano, allora sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, prospettandogli la realizzazione di un nuovo film. «Il tema per un film su Caterina la Santa, – spiegava Freddi – […] è enormemente suggestivo. Si è in piena atmosfera di italianità, di poesia, di sacrificio, di passione, di fede. Un soggetto cinematografico di tal natura porterebbe sullo schermo un magnifico materiale, universalmente ammirato (Siena e tutta la pittura religiosa dei primitivi italiani) ed esprimerebbe sentimenti di alta portata spirituale, oltre a mettere in particolare rilievo la coscienza di italianità professata dalla Santa e ad elevare il sentimento della massa in un’atmosfera di bontà e di volontà». Freddi completava il quadro, aggiungendo dettagli tesi a esaltare col film il patrimonio artistico italiano e il ruolo di Siena come custode d’arte. «Alle opere d’arte figurative dei primitivi (di cui la Pinacoteca di Siena può fornire gli spunti più impensati e commoventi) – scriveva il “gerarca di celluloide” – dovrebbe essere unito, quale commento fonico, il patrimonio dell’arte musicale della nostra Rinascenza, tipica creazione della nostra razza che dal canto gregoriano si umanizza attraverso il Palestrina per giungere poi alle melodie inarrivabili del Carissimi, fornendo quindi tutti gli elementi intimi e poetici necessari ad un commento musicale adeguato».

patrona giovani

Immaginetta devozionale di Santa Caterina, patrona delle Giovani italiane (foto tratta da www.biagiogamba.it)

Tra i molti risvolti della Conciliazione del 1929 tra l’Italia fascista e la Santa Sede, tra i meno conosciuti c’è probabilmente il processo che portò all’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Un processo composito, articolato in momenti di osmosi, ma anche di competizioni e concorrenze tra le forme di costruzione degli apparati simbolici e rituali di cattolici e fascisti. L’idea di una santità italiana, già comparsa nel cattolicesimo liberale di metà Ottocento, aveva trovato nel periodo fascista l’humus più adatto per proliferare, sull’onda lunga del suo rilancio col nazionalismo di inizio Novecento. Forte di potenti gruppi di pressione Caterina da Siena occupò il posto più alto nella gerarchia della santità nazionale nell’Italia fascista, insieme a Francesco d’Assisi e Giovanni Bosco. Non a caso per Francesco e Caterina, la parabola di santi nazionali per eccellenza doveva suggellarsi con la proclamazione a patroni d’Italia nel giugno 1939. In questo quadro non stupisce che proprio su queste tre figure si fossero concentrati fino a quel momento i più reiterati progetti di narrazione agiografica a mezzo cinema. Ma se per il santo assisiate, col film Frate Francesco di Giulio Antamoro uscito nel 1927, e per il santo di Valdocco, portato sugli schermi da Goffredo Alessandrini col Don Bosco del 1935, i progetti cinematografici trovarono uno sbocco, per la santa senese le idee di trasposizione sul grande schermo si fermarono alle battute iniziali.

Eppure Luigi Freddi, che più di tutti lavorò ad una fascistizzazione del cinema, aveva puntato molto sull’operazione agiografica legata alla santa di Fontebranda. Nelle sue intenzioni il progetto si prestava a convalidare esplicitamente l’abbraccio della cinematografia fascista con il mondo cattolico avviatosi col suo arrivo alla testa della Direzione generale per il cinema. Freddi del resto non aveva nascosto agli emissari pontifici la volontà di inserire i cattolici nel suo piano di “rivoluzione” della cinematografia di regime, incardinato su un nuovo slancio per una produzione che fosse «prettamente italiana e profondamente morale». Ai suoi occhi, santa Caterina – come rivela nelle sue memorie postbelliche – rappresentava il modello perfetto per inaugurare il nuovo corso. La svolta del Concordato aveva d’altra parte fornito anche al culto di santa Caterina – fino ad allora legato a doppio filo al papato – l’occasione per diventare un culto nazionale, di cui il fascismo fosse non solo spettatore, ma promotore attivo.

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

L’iniziativa di Freddi si inseriva in un solco già ben avviato: nel febbraio 1930 l’anniversario della Conciliazione era stata occasione per l’Ordine domenicano e per la Corporazione dei caterinati di rinvigorire la campagna per la proclamazione di Caterina patrona d’Italia, processo che avrebbe avuto un nuovo impulso in occasione dell’Anno Santo straordinario del 1933 quando a questo scopo la Società di Studi Cateriniani si fece promotrice di un voto della città di Siena. Freddi provò a dare ali al suo progetto coinvolgendo Piero Misciattelli che nella città del Palio era stato tra i promotori più ferventi di una cattedra di Studi cateriniani all’Università locale e tra i primi a intravedere le potenzialità nazionaliste del misticismo cateriniano.

Ma il vero salto di qualità culturale dell’operazione doveva essere il coinvolgimento del poliedrico intellettuale fiorentino Giovanni Papini, che, dopo la Grande Guerra, con la sua fertile penna era divenuto uno degli alfieri più intransigenti del progetto ierocratico di restaurazione della societas christiana. Come molti della sua generazione, il dirigente fascista era rimasto impressionato dalla “giravolta” di Papini consumatasi nell’arco di un decennio. L’autore blasfemo delle Memorie d’Iddio (1911), divenuto il convertito di grande successo editoriale della Storia di Cristo (1921), agli occhi di Freddi aveva il giusto profilo per partorire la sceneggiatura perfetta che ponesse il sigillo all’«italianità» della santa di Fontebranda e che, nel contempo, potesse divenire simbolica rappresentazione dell’abbraccio cattolico-fascista. Pur se Papini non rimase estraneo al fascino dell’“ideologia italiana” adottata e promossa dal fascismo, è difficile credere che si prestasse a sposare in pieno un progetto con connotati così smaccatamente ideologici. Motivi politici che influirono probabilmente anche sul fallimento definitivo dell’operazione del film su Santa Caterina nella sua fase di decollo: il primo interlocutorio contatto preso da Freddi nel novembre 1934 con Ruffo della Scaletta e Corazzin, i rappresentanti meno filofascisti dell’Ecer e della Lux Christiana —  i due enti cinematografici cattolici al centro allora di una complessa operazione di restyling  — non avrebbe avuto alcun seguito.

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

È certo però che l’idea della pellicola sulla Senese, tramite la «Minerva Film», nei mesi successivi passò nelle mani del grande regista del realismo francese Julien Duvivier, perdendo sempre più i contenuti ideologici con cui era stata battezzata, ma senza mai trovare uno sbocco produttivo. Papini continuò a rivedere il soggetto almeno fino al 1937, avendo modo di parlarne in diverse occasioni attraverso interviste concesse a giornali e riviste. In esse l’intellettuale toccava i temi al centro del delicato dibattito sulla rappresentabilità dei soggetti religiosi, tutti interni alla cultura cattolica. «Un film che abbia a protagonista santa Caterina da Siena – dichiarò Papini, nel febbraio 1937, all’intervistatore de “L’Osservatore Romano della Domenica” – non può essere concepito come uno dei moderni film di fantasia e d’avventura. La ragione d’essere della Vergine senese è la santità, e per conseguenza, ogni spettacolo che intenda rappresentare la sua vita, deve in qualche modo ricordare e arieggiare una sacra rappresentazione».

Solo nel dopoguerra l’idea di trasporre la vita della santa senese poté trovare una concretizzazione. Niente a che vedere però con le raffinate elaborazioni culturali e artistiche che avevano accompagnato i progetti Duvivier-Papini. A raccogliere il testimone fu infatti il regista Oreste Palella che in ben due film prodotti a distanza di circa dieci anni, non riuscì ad incontrare i favori di critica e pubblico. Se Caterina da Siena del 1947 fu apertamente mal giudicato dalla rivista «Intermezzo» («A certi argomenti – così la recensione – e a certi personaggi bisognerebbe accostarsi con maggiore preparazione, con mezzi meno limitati ed anche con una buona dose di rispetto. […] a vedere il film si ha l’impressione che ad un certo momento sia sorta la necessità di condurlo rapidamente a termine, bene o male»), non miglior sorte toccò a Io Caterina del 1956 stroncato senza mezzi termini dalle Segnalazioni Cinematografiche, elaborate dal Centro cattolico cinematografico che era una diretta emanazione dell’Azione cattolica italiana: «E’ un film di modesta fattura, semplicistico nel suo svolgimento, interpretato con scarsa convinzione. Ambientazione di maniera».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.