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“Una indifferenza in politica non è concepibile”

Con le riconquistate libertà il popolo torna infine ad avere il diritto di esprimersi, di denunciare le vere cause delle proprie sofferenze e di suggerire quei rimedi tendenti a migliorare una situazione oltremodo grave”. Come sottolineano queste parole scritte su “La Martinella” del 10 settembre 1944, numero unico dei socialisti senesi, che nel titolo si richiamano al loro periodico pubblicato fra il 1896 e il 1915, la ripresa e la diffusione legale, di una stampa libera e democratica è uno dei segni dell’avvento di una nuova fase nella storia del paese, ancora segnato dalle rovine lasciate dalla guerra e dal regime fascista, ma pronto ad aprirsi alle speranze connesse alla liberazione.

Il biennio 1944-’46 costituisce una fase cruciale negli snodi delle vicende nazionali, un momento di peculiare impegno e sfida per le forze politiche e per le rinate istituzioni per ricostruire non solo materialmente il Paese, ma anche moralmente e civilmente stabilendo i principi democratici su cui fondare la convivenza civile, una rinnovata concezione di cittadinanza.
Proprio i giornali sono così una fonte significativa per cogliere il difficile processo con cui le diverse forze politiche cercano di comunicare e diffondere regole e principi di una convivenza civile, provano a operare i primi passi di una “rieducazione” alla democrazia degli italiani. Si tratta di un processo dialettico complesso e dagli esiti incerti, tra questa volontà e le strategie con cui ogni singolo partito cerca di affermare se stesso nel consenso popolare. Tuttavia, pur di fronte alle rovine lasciate dal fascismo e dalla guerra, in un contesto di nuove emergenze, aggravate da un clima di diffusa abitudine alla violenza e all’illegalità e dalle alle tragiche eredità e consuetudini del “fare politica” sotto il fascismo, le forze antifasciste seppero esprimere un linguaggio comune, un medesimo impegno per educare gli italiani alla democrazia, fondato sul valore della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, la sottolineatura dell’importanza del voto, il rifiuto della violenza, l’invito al rispetto della legalità, il riconoscimento del valore identitario della Resistenza.

La Toscana mostra in questi anni un tessuto particolarmente favorevole alla costruzione di una nuova identità democratica e nazionale che trova espressione nell’opera del Comitato Toscano di Liberazione nazionale (CTLN) che aveva guidato la Resistenza e la Liberazione di Firenze, delle tante giunte dei CLN locali, nei partiti, nelle nascenti strutture del sindacato e dell’associazionismo, come emerge dalla lettura di una stampa particolarmente ricca e varia che, dopo la fine della guerra nella primavera del ’45, pur nella pluralità delle linee espresse, mostra sulle proprie pagine un’attenzione costante all’educazione democratica dei cittadini.
Su periodico azionista “Non mollare” del 2 novembre del ’45, Tristano Codignola scrive infatti: serve “un metodo di educazione di lento travaglio, di ripensamento e rifacimento di molti dei nostri istituti e caratteri fondamentali di popolo, di ricostruzione degli spiriti e delle cose. […] Questa strada è quella, come dicevo dianzi, della rivoluzione democratica, della ricostruzione, anzi della costruzione degli istituti della democrazia in un paese – e per questo è una rivoluzione – che democratico non fu mai”. Il fiorentino “L’azione comunista” dichiara: “i comunisti vogliono oggi che si realizzino le condizioni elementari della democrazia italiana e vorranno domani lavorare per il progresso costante di questa democrazia” (28 ottobre 1945). Il periodico della DC fiorentina “Il popolo libero” indica come compito principale “educare il nostro popolo a pensare ed acquisire con ciò consapevolezza dei propri doveri e diritti” (16 novembre ’45). Nel “dovere della partecipazione politica e dell’interesse alla cosa pubblica”, dietro cui coglie l’antica lezione mazziniana, “La Voce del Popolo” periodico della sezione del Pri fiorentino individua l’unico strumento per migliorare le coscienze individuali ed affrontare e risolvere la miseria e le distruzioni che attanagliano il paese (10 marzo 1946).

La legittimazione della prassi elettorale è una componente essenziale del processo di concreta educazione alla democrazia che questi periodici portano avanti, un punto comune, e non scontato, in cui tutti si riconoscono. Si legge sul giornale della DC fiorentina “Il popolo libero”: “Quello che urge quindi è proprio questa rieducazione del popolo, questo interessarlo ai problemi politici, questa preparazione alla sua partecipazione elettorale. Bisogna convincerlo che il voto non è da considerarsi come un diritto più o meno rinunciabile ma come un dovere. […] Perché una indifferenza in politica non è concepibile” (5 ottobre 1945); “La Difesa”, periodico socialista, sottolinea le difficoltà dopo il Ventennio fascista: “da oltre un ventennio in Italia non si facevano più le libere consultazioni popolari, qualche generazione d’Italiani non conosce neppure i vari sistemi elettorali ed alcuni ignorano perfino l’importanza e l’alto significato che in questo momento assume da parte del cittadino l’esercizio del voto. Questa pratica di uno dei più importanti diritti che competono ai cittadini della democrazia era stata nel ventennio fascista, non solo soppressa, ma addirittura resa impopolare.” (6 febbraio 1946). Anche la stampa liberale esalta il ritorno al voto: “torna il giorno in cui potremo tornare alle urne, rivestiti dalla nostra dignità, ed introdurre una scheda che sarà soltanto l’espressione delle nostre libere convinzioni” (“L’Ombrone“, 24 gennaio’46). Per i comunisti il momento elettorale segna il compimento del processo iniziato con la lotta di liberazione dal nazifascismo: “Il popolo italiano ingaggiò la lotta contro il fascismo non solo per distruggere tutte quelle brutture che aveva generato e per cancellare l’onta della schiavitù, ma per risorgere a nuova vita, […e] duramente combattendo, ha vinto la prima fase della lotta – quella armata- ma non ha ancora vinto quella legale.” (“L’azione comunista” 6 aprile 1946). In numerosi articoli, i periodici di tutti i partiti dal liberale “La provincia”, al “Popolo libero” democristiano, a quelli socialisti, si dilungano in accurate spiegazioni delle modalità del voto, descrivendo con certosina precisione tutti i passaggi che l’elettore deve fare dall’ingresso nel seggio elettorale all’inserimento delle schede nelle urne, con la riconsegna delle matite copiative, certo in primo luogo per evitare errori che possano compromettere il voto alle proprie liste (“Popolo libero”, 6 febbraio ’46), ma allo stesso tempo diffondendo e consolidando fra la popolazione le prassi e i riti del meccanismo elettorale dopo ventennale assenza.

Quest’opera di educazione alla convivenza e di definizione di una nuova cittadinanza fondata sui principi democratici è importante perché non si limita al solo momento elettorale, ma è parte di un impegno a consolidare le basi delle nuove istituzioni e della convivenza ristabilita mostrando l’importanza dei partiti e l’opera delle amministrazioni locali per il processo della ricostruzione e per la vita della comunità, così si sottolinea che “Funzione dei partiti è quella di destare i dormienti, di chiamarli alla lotta politica, interessarli ai problemi sociali, è quella di dar loro coscienza e volontà di cittadini” (“La Nazione del Popolo” suppl. a cura PSIUP del 1 luglio ’45).
Infine, in questa fase, nel contesto toscano non si può non notare che, pur con accenti diversi da parte dei vari partiti, la Resistenza è l’elemento di comune legittimazione, tanto che, per esempio, il periodico fiorentino della DC dichiara che “i CLN hanno scritto nella storia d’Italia una pagina che non dovrà essere rinnegata” (“Il popolo libero” 5 ottobre ’45) tanto da divenire fattore costitutivo dell’identità regionale, nonostante la durezza della contrapposizione politica ed ideologica che si innesta rapidamente con l’incipiente “guerra fredda” e l’azione di delegittimazione svolta dalle forze qualunquiste già nella seconda metà del ’45, e il riferimento ideale che conferisce senso e prospettiva allo stesso processo di educazione alla democrazia, quale sistema di valori su cui fondare la ricostruzione del Paese.




Probiviri per gli operai pratesi

Il terzo Collegio dei probiviri per le industrie tessili con sede in Prato fu istituito sulla carta nel 1898, ma si costituì realmente soltanto nel 1900: si trattava di un organismo paritetico, cioè formato da un egual numero di rappresentanti degli operai e degli industriali (inizialmente dieci in tutto, poi venti), la cui giurisdizione comprendeva il territorio del comune di Prato (in seguito essa venne estesa anche al territorio dei comuni di Vernio e di Cantagallo, venendo così a coprire l’intera Val di Bisenzio).

L’istituzione del terzo Collegio ebbe luogo all’interno di una fase di espansione dell’economia cittadina, favorita dalla svolta protezionistica del 1887, e di crescita del movimento operaio, quando la città era già stata più volte teatro di scioperi e di agitazioni (il primo sciopero di un certo rilievo si era verificato nel 1891 al Fabbricone).

In un momento in cui la tensione sociale si acuiva, l’istituzione del Collegio dei probiviri fu accolta con un certo favore tanto dai lavoratori quanto dagli industriali (nel 1897 erano sorte la Camera del lavoro e l’Associazione industriale e commerciale dell’arte della lana, anticipazione dell’Unione fra gli industriali pratesi, ed entrambe guardavano con simpatia all’arbitrato come strumento per appianare le controversie di lavoro).

Gli operai vedevano nei collegi un mezzo per contrastare lo strapotere padronale all’interno delle fabbriche, gli imprenditori scorgevano nell’istituto probivirale la possibilità di ridurre la conflittualità sindacale, tramite l’accoglimento di alcune richieste di singoli operai (non degli operai come classe), e, molto probabilmente, accarezzavano anche la speranza di poterlo utilizzare per dividere i lavoratori staccandoli dal sindacato: questa idea era stata esplicitamente formulata da un politico conservatore come Sidney Sonnino nel 1892, nel corso del dibattito parlamentare che aveva portato all’approvazione della legge istitutiva dei collegi, entrata in vigore l’anno successivo.

Di particolare interesse è l’analisi del complesso delle sentenze emanate dal Collegio dei probiviri per le industrie tessili fra il 1902 ed il 1914, cioè in un periodo che viene in pratica a coincidere con l’età giolittiana.

La scelta è motivata dal fatto che l’età giolittiana fu, per così dire, il periodo d’oro dell’istituto probivirale. Giolitti era infatti consapevole che il movimento operaio non poteva essere affrontato soltanto con la repressione, e che la via da seguire era quella del confronto politico col Partito socialista e con le organizzazioni sindacali. Il suo intento era insomma quello di realizzare “un programma di difesa delle istituzioni borghesi fondato su una accentuazione del carattere liberale dello Stato” [Massimo L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea dalla Restaurazione all’eurocomunismo, Torino, Loescher, 1976, p. 454]: è evidente che, nell’ambito di tale disegno, anche ai collegi dei probiviri poteva essere attribuito un ruolo non secondario.

L’esperimento giolittiano andò però a cozzare contro la svolta in senso rivoluzionario dei socialisti dopo la guerra di Libia, contro l’agitazione antidemocratica dei nazionalisti e contro l’accresciuto peso dei cattolici nella vita politica. Il suo esaurirsi coincise con la fine della prospettiva riformista che Giolitti aveva incarnato e, quindi, anche dell’esperienza probivirale, che a tale prospettiva era chiaramente legata: le novità normative intervenute durante la grande guerra incisero profondamente sul funzionamento dei collegi, chiudendone definitivamente la stagione.

Nel periodo preso in esame la giuria del terzo Collegio dei probiviri pronunciò 82 sentenze definitive, che posero fine a controversie originate, il più delle volte, dal licenziamento del lavoratore. Nella stragrande maggioranza dei casi (76 su 82 pari al 92,68%) l’attore fu dunque l’operaio. La cosa non deve stupire più di tanto, ove si pensi alla frequenza con cui la parte datoriale ricorreva all’arma del licenziamento ed alle dure condizioni di lavoro che esistevano negli stabilimenti.

Le ditte che più spesso vennero convenute furono il Fabbricone, la Ditta Alceste Cangioli e la Ditta A. e G. di Beniamino Forti, vale a dire le due ditte più importanti della città (il Fabbricone e la «Forti») più una ditta di rilevanti dimensioni (Cangioli): ciò a causa dell’organizzazione del lavoro vigente all’interno delle fabbriche più grandi ed al fatto che in esse la gestione dei rapporti con i dipendenti era più problematica che nelle aziende medio-piccole.

Nel corso della sua attività la giuria del terzo Collegio ebbe modo di fissare alcuni importanti principi, in primo luogo in materia di licenziamenti: con le sue pronunce essa limitò infatti la facoltà del padronato di ricorrere al licenziamento in tronco (ammissibile solo in alcuni casi, chiaramente indicati, mentre in tutti gli altri il licenziamento del lavoratore era possibile solo se veniva pronunciata la formula di rito, dato il preavviso voluto dalla consuetudine e rispettato l’obbligo di motivazione, fermo restando che i motivi addotti dovevano essere poi riconosciuti validi dai probiviri).

Interessanti sono anche altre sentenze, come ad esempio quella che richiamò le singole ditte al rispetto degli impegni assunti verso gli operai dall’organizzazione di parte datoriale a nome di tutti i soci, quella che riconobbe il diritto dei cottimisti a domicilio, molto numerosi nella Prato dell’epoca, di rivolgersi ai probiviri, quella che sancì la prevalenza della consuetudine (in genere favorevole all’operaio) sui regolamenti di fabbrica e così via.

La giurisprudenza probivirale fu invece piuttosto oscillante in ordine al tema, di fondamentale importanza, della salute dei lavoratori: il Collegio, infatti, dopo aver condannato nel 1904 il Fabbricone a risarcire un operaio che era stato costretto a tornare al lavoro quando le sue condizioni fisiche non glielo permettevano, si smentì parzialmente con tre pronunce risalenti al 1908, nelle quali dimostrò scarsa sensibilità verso le ragioni dei lavoratori.

Se si prende in considerazione l’esito delle cause, le pronunce della giuria sembrano abbastanza equilibrate, sia pure con una prevalenza di quelle a favore dei datori di lavoro, che risultarono essere la parte vittoriosa in 45 casi (pari al 54,88%), mentre gli operai ebbero la meglio in 37 casi (pari al 45,12%).

Ma ciò che più importa sottolineare è che la speranza di contenere la lotta di classe attraverso l’istituto dei probiviri si rivelò del tutto infondata: il terzo Collegio operò infatti in una fase storica durante la quale il movimento dei lavoratori conobbe un forte sviluppo ed il numero degli scioperi, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, andò aumentando, a riprova del fatto che solo la classe operaia, con le sue lotte (cioè con vertenze collettive e non individuali), può difendere ed allargare i propri diritti.

Dopo la fine della prima guerra mondiale la tensione sociale raggiunse il culmine e la borghesia, deposta ogni illusione conciliativa, non esitò a puntare sul fascismo per conservare i suoi privilegi.




Israele “Lele” Bemporad

I Bemporad erano una famiglia di ebrei toscani assai numerosa. Il ramo guidato da Riccardo si trasferì da Firenze a Pistoia a cavallo tra l’800 e il ‘900. Riccardo era il quarto di un gruppo di 6 tra fratelli e sorelle, e il nome di sua sorella minore, Italia, nata nel 1888, testimonia di per sé l’afflato patriottico e il grado di integrazione che la famiglia aveva raggiunto nel Paese. Benestanti, dediti al commercio dei tessuti e proprietari di una residenza di campagna con un attiguo appezzamento di terra dato a mezzadria nei pressi di Serravalle Pistoiese, fu per iniziativa del capofamiglia che venne eretta in quell’epoca, ancorché in stile medievale come suggerivano certi gusti del tempo, la Torre Bemporad, un edificio ben noto ai pistoiesi e che ancora oggi fa mostra di sé in pieno centro storico, all’ingresso di via del Can Bianco.

famiglia bemporad inizi 900_israele e  il quinto da destra in altoRiccardo Bemporad e sua moglie Ines Franco ebbero a loro volta 7 figli e figlie, di cui Israele era il sesto. Il motivo della scelta del nome resta a tutt’oggi ignoto, mancando anche nella memoria familiare informazioni che ci possano far comprendere se tale scelta fu dovuta a motivi prettamente religiosi o in omaggio al movimento sionista, anche se questa eventualità appare più remota dato che nessun discendente della famiglia è mai diventato un attivo sionista e nessuno ha scelto di compiere l’Aliyah, ovvero di trasferirsi a vivere in Israele. Tuttavia la scelta dei nomi di Riccardo e Ines rivela il permanere di un’identificazione patriottica – la terza figlia fu chiamata Margherita, come la regina – nonché l’apprezzamento per i nomi antichi o legati al medioriente, dato che le due primogenite furono chiamate rispettivamente Cesarina ed Egizia.

Nato il 27 giugno 1914, Israele condusse una tranquilla infanzia in città e fu poi avviato agli studi classici, dapprima presso il Liceo Forteguerri di Pistoia, per poi conseguire il diploma nel 1936 presso il Liceo Galilei di Pisa, dove si era trasferito presso Aldo Dello Strologo, che aveva sposato sua sorella Egizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Pisa, dove comunicò, come era obbligatorio fare, la propria presenza ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF) ed alla coorte autonoma universitaria della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). A Pisa Israele sostenne due esami di diritto romano e uno di diritto privato, per poi inoltrare domanda di trasferimento a Firenze nel novembre del 1937.
Ricominciando a frequentare Pistoia, nella primavera-estate del 1938 conobbe quella che sarebbe diventata la sua compagna per la vita, Dina Fontana, una ragazza di umilissime origini, figlia di emigrati provenienti dall’Emilia e di religione cattolica. Il fidanzamento tra i due giovani fu osteggiato dai genitori di Israele. Giocavano tanto la differenza religiosa che la marcata diversità di estrazione sociale.

Ma problemi ben più gravi erano in agguato.
Nello stesso periodo, infatti, il Fascismo si lanciava nella campagna antisemita, con la pubblicazione il 14 luglio del ’38 del Manifesto della razza, a cui seguirono nel settembre le Leggi razziali. La famiglia Bemporad veniva regolarmente censita con le altre 62 famiglie di ebrei della provincia di Pistoia. Nonostante le leggi proibissero le unioni “miste” tra gli italiani e gli “appartenenti alla razza ebraica”, ed introducessero gravi restrizioni nel campo dell’istruzione, fino all’espulsione, Israele perseverò tanto nel suo legame con Dina quanto nel suo impegno universitario. Il 3 novembre del 1938 fece formale domanda per essere iscritto al terzo anno della Facoltà di legge, costretto a dichiarare, in calce alla richiesta, che «Il sottoscritto è di razza ebraica e professa la religione ebraica, lui e la famiglia». Da quel momento sui verbali degli esami sostenuti, per i quali doveva fare richiesta di ammissione al Rettore, iniziò ad apparire la dizione di «studente di razza ebraica». Frattanto le maglie intorno agli ebrei si stringevano.
israele bemporad e dina fontanaNel febbraio del 1939 fu cancellato dalle liste di leva e sul certificato anagrafico appariva, di nuovo, il timbro con la dizione «di razza ebraica», mentre la famiglia iniziava a sfaldarsi, con suo fratello minore Roberto che riusciva a emigrare a New York, approdando ad Ellis Island. La carriera universitaria di Israele diventava sempre più precaria, fino al suo epilogo, sulle cui motivazioni la scheda nominativa della facoltà di Giurisprudenza non lascia dubbi, «Troncati gli studi perché di razza ebraica». Il legame con Dina invece reggeva, e diventava sempre più saldo. Un grande coraggio animava anche questa donna, che giovanissima – era nata nel 1919, aveva appena venti anni – continuò caparbiamente a coltivare il suo amore per Israele, nonostante il Fascismo, le discriminazioni, le persecuzioni, le differenze religiose e sociali, l’ostilità familiare.

Costretti a vivere in sordina, silenziosamente, gli ebrei pistoiesi condussero una vita appartata e impaurita, di cui sappiamo ben poco, fino all’8 settembre del 1943. Con l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale Italiana i membri della famiglia si frammentarono ulteriormente per la Toscana, e si nascosero. I Bemporad pistoiesi trovarono riparo in montagna, nell’area di Cireglio, anche con l’aiuto dell’avvocato pistoiese Bianchi. I rapporti tra Israele e Dina entrarono in clandestinità, mentre la caccia agli ebrei era aperta. Nel pistoiese ne vennero arrestati 88, quasi tutti sfollati da altre zone o di passaggio, mentre il fratello di Riccardo, e zio di Israele, Amedeo, veniva inghiottito dalla Shoah. Arrestato e deportato da Firenze, non fece mai ritorno.

Lele_primo da sinistra_in via abbi pazienza a Pistoia il girono della LiberazioneÉ in questo clima che Israele matura la scelta resistenziale, a cui partecipa anche suo nipote, Giancarlo Piperno, che diventerà un medico di fama mondiale. Stanco di nascondersi, e determinato a costruirsi la propria via d’uscita, il 17 giugno del 1944 entra a far parte delle brigate Garibaldi nella formazione Ubaldo Fantacci. Dina aiuta come può, portando viveri con la propria bicicletta. L’attività partigiana di “Lele”, il nomignolo con cui tutti l’avevano sempre chiamato e che adesso diventa il suo nome di battaglia da partigiano, si racchiude nell’arco dell’estate del 1944, ma è intensa. Matura un orientamento socialista e a quanto sembra cura dei contatti con Radio Londra. Alla fine parteciperà attivamente alla Liberazione di Pistoia l’8 settembre del 1944, immortalato anche nelle storiche foto della Liberazione in alcune vie a due passi da quella che diventerà poi la sua casa, insieme alle sorelle Cecchi, e si guadagna in questi mesi la qualifica di partigiano combattente.

Dopo la Liberazione “Lele” riprese le fila spezzate della sua vita, che nel frattempo si erano arricchite. Nel 1945 nasceva la sua prima figlia, Miriam, fuori dal matrimonio perché le leggi razziali ancora in vigore lo impedivano – lui e Dina riusciranno a sposarsi solo nel 1947 –, una circostanza malvista nell’Italia del tempo. Nello stesso anno chiese di essere riammesso a Giurisprudenza, ma dovrà presto abbandonare gli studi per i sopraggiunti nuovi impegni familiari. Nel 1948 nasceva Sara, seguita poi da Laura. Sempre in questo periodo si impegnava nel partito socialista, per un periodo, e poi nell’ANPI, a cui rimarrà sempre iscritto, e nel sostegno ai lavoratori della cooperativa di trasporti SACA. “Lele” resterà sempre a vivere a Pistoia con la propria famiglia, dapprima fa il negoziante, poi apre il “bar dello studente”, punto di ritrovo per generazioni di giovani pistoiesi, senza clamori, ma con la grande dignità di chi si è ripreso tanto la città che la cittadinanza.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




La Grande Guerra lontano dal fronte. Mobilitazione e assistenza civile in una provincia toscana

Per tutto il periodo della neutralità italiana la provincia di Pisa era stata attraversata da numerose proteste e sia nel capoluogo che nelle campagne non erano mancate manifestazioni di segno antimilitarista, sfociate non di rado in episodi di violenza verso gli interventisti. A una decina di giorni dall’ingresso ufficiale in guerra, il prefetto di Pisa, scrivendo a Antonio Salandra, descriveva tuttavia in termini rassicuranti la realtà di un territorio guardato ancora con preoccupazione. Alla fine di maggio del 1915 la partenza delle truppe era stata infatti salutata ovunque da cortei e da dimostrazioni di giubilo e, stando alle sue stesse parole, «la mobilitazione non fu turbata da alcun incidente» e le «manifestazioni contrarie alla guerra […] furono tutte anteriori alla dichiarazione di guerra e non si rinnovarono dopo».

Ma accanto a queste espressioni simboliche di solidarietà verso l’esercito combattente, si infittirono fin da subito anche una serie di attività ben più tangibili. Nel processo di mobilitazione a sostegno dello sforzo bellico un ruolo di primo piano fu giocato da un tessuto di comitati e organizzazioni in parte riconvertiti alle esigenze imposte dagli eventi ma in larga parte costituitisi ad hoc. Fra le iniziative di nuovo conio, alcune avevano in realtà già preso campo fin dalle settimane precedenti alla rottura della neutralità. In linea con quanto accaduto in diversi centri della penisola, ciò vale soprattutto per la formazione di appositi Comitati di preparazione e mobilitazione civile destinati a svolgere un ruolo di spicco in relazione a diversi ambiti di intervento.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale dell'Amministrazione Civile, b. 36.

Francobolli del Comitato di Assistenza Civile di Volterra in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale dell’Amministrazione Civile, b. 36.

Tali organismi furono chiamati a svolgere un’azione integratrice dei compiti del governo e degli enti locali, acquisendo un grande peso nel tessuto sociale delle città durante il conflitto. La spinta iniziale alla loro costituzione fu quella di preparare e organizzare i cittadini non soggetti a obblighi militari a garantire la continuazione di tutta una serie di attività nei pubblici servizi e nel campo dell’assistenza in caso di eventuali vuoti da colmare per effetto dello stato di guerra. I Comitati furono poi chiamati a un compito unificante per cercare di raccogliere attorno a sé, con propositi di coordinamento, le altre realtà assistenziali già operanti, prevenendo eventuali dissidi ed evitando gli effetti negativi della dispersione di mezzi ed energie negli aiuti propagandando allo stesso tempo un’immagine di profonda unità e compattezza della nazione impegnata nel sostenere i suoi soldati. L’unanimismo politico, da cui risultano attraversati i loro messaggi e appelli, divenne in effetti uno dei motivi più qualificanti della loro retorica.

Con una tempistica rapida rispetto alla dinamica generale del paese, il primo Comitato di preparazione e mobilitazione civile della provincia sorse a Pisa il 22 marzo 1915 nella sala del Consiglio comunale; la riunione istitutiva fu tuttavia solo il punto di arrivo di un percorso avviato da settimane da un apposito gruppo di cittadini promosso dal professore di chimica agraria Italo Giglioli, sostenitore nei suoi studi di una politica estera fortemente colonialista e fautore di posizioni accesamente nazionaliste, nonché dall’attivismo dell’industriale Giacomo Pontecorvo che, attraverso alcune conferenze, cercò di propagandare le ragioni del movimento a favore della mobilitazione civile raccogliendo al contempo i primi fondi a sostegno dell’iniziativa che il 26 marzo fu presentata alla cittadinanza con un grande manifesto pubblicato.

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Italo Giglioli (Archivio fotografico Unipi)

Nato come un’associazione di privati, il Comitato ricevette fin dagli esordi un occhio di riguardo da parte delle istituzioni locali, esemplificato dalla presidenza onoraria al sindaco Vittorio Frascani e dalla fissazione della sua sede nel palazzo municipale. A infondergli poi una maggiore ufficialità sarebbe venuta in agosto la decisione di trasformarsi in ente morale, al pari di quanto fatto in seguito da altri comitati del territorio, avvalendosi della facoltà del riconoscimento giuridico ammesso da una specifica legge del 25 luglio. Se un po’ ovunque la mobilitazione civile fu una delle principali forme di manifestazione dell’interventismo delle classi dirigenti, che nella gestione dello stato di guerra videro pure un’occasione inaspettata di controllo di mezzi e risorse utile a ribadirne il ruolo di egemonia sociale messo in dubbio dalle crescenti spinte dal basso, ciò che parve connotare il caso del capoluogo fu però la funzione direttiva riconosciuta in essa al mondo universitario, con la larga presenza tanto delle autorità accademiche quanto degli studenti più accesamente interventisti. Un protagonismo che tendeva a rispecchiare la mobilitazione del periodo della neutralità, localmente imperniata su un Ateneo che, in virtù delle sue benemerenze risorgimentali, aveva costituito il nerbo cittadino della campagna per l’intervento. Agli universitari si affiancarono le autorità cittadine, e, ancor più che le casate di origine nobiliare, l’élite borghese locale (ossia agiati appartenenti alle professioni liberali e al mondo degli affari e dell’industria), in cui un ruolo di spicco fu rivestito dalle famiglie della comunità ebraica pisana (i Pontecorvo, i Supino, i Nissim, i Pardo Rooques, i Di Nola), il cui  impegno fattivo per il Comitato ne certificò l’intensa partecipazione allo sforzo patriottico.

Nelle aree della provincia il profilo sociale dei comitati assunse invece un tratto più notabilare, e a egemonizzarlo furono effettivamente gli uomini e le famiglie tradizionalmente più illustri dei ceti dirigenti locali. A testimoniare infatti un livello di penetrazione diffuso, e a certificare il grado di coinvolgimento dell’intero paese entro le maglie dello sforzo bellico, il movimento a favore della mobilitazione civile giunse in maniera capillare fin nelle aree più remote dello stesso territorio pisano. Secondo una dinamica in cui a modalità in prevalenza spontanee si unirono rilevanti spinte dall’alto, come quella venuta a inizio giugno da una specifica adunanza di numerosi sindaci della provincia, fra aprile e la fine del mese sia i comuni maggiori, come Volterra o Pontedera, che le realtà meno popolose del vasto contado pisano, come la piccola Orciano Pisano, non mancarono di un proprio attivo comitato.

Frontespizio dell'opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

Frontespizio dell’opuscolo Comitato Pisano di preparazione e mobilitazione civile. Comitato femminile per la patria, Pisa, Tip. Municipale, 1915.

La gran parte dei loro fondi vennero da fonti diverse, in varia misura legate alla solidarietà; della somma di 73.842,21 lire raccolta ad esempio nei primi mesi di guerra dal Comitato pisano più della metà giunse da sottoscrizioni occasionali, un restante 40% da contributi regolari mensili e 4.880,55 da soldi provenienti da varie iniziative. Per quanto minoritaria quest’ultima forma di finanziamento ebbe una sua notevole valenza perché raccolta tramite una serie di iniziative che consentivano di abbinare all’attività assistenziale anche quella di propaganda, offrendo all’opera di mobilitazione una visibilità esterna in chiave di forte intonazione patriottica attraverso serate pubbliche in teatri e cinematografi cittadini o con la vendita di oggetti di consumo di larga circolazione (medagliette, distintivi o cartoline). Se passiamo dal piano delle entrate a quello delle uscite, le attività da essi svolte finirono per concentrarsi in primo luogo nella concessione di sussidi in denaro a favore delle famiglie più bisognose dei richiamati, destinata peraltro a crescere esponenzialmente fino a occupare stabilmente i due terzi della spesa complessiva. Le famiglie sovvenzionate, a dispetto di oltre  tremila richieste, si attestarono nella sola Pisa a un migliaio, per un esborso di oltre 9.000 lire mensili e con un’obbligata riduzione degli importi. In tale quadro non restavano molte risorse da destinare ad altri ambiti dell’«assistenza civile». Fra i campi di intervento che meritano di essere segnalati vi è tuttavia quello assai importante, per la necessità di attivarsi in sostituzione della dimensione famigliare, dell’assistenza ai figli minori dei richiamati e in cui l’azione principale divenne la gestione dei servizi ricreativi, con la realizzazione di molti ricreatori divenuti un po’ ovunque la seconda voce di uscita dei comitati dopo i sussidi. Altri compiti non irrilevanti furono infine la gestione degli uffici notizie, la confezione degli indumenti militari e, perlomeno nei principali centri, quello dell’assistenza ai soldati degenti negli ospedali e ai profughi.

Ma la citata esplosione dei sussidi e la crescita di di tali compiti resero sempre più evidente col trascorrere dei mesi l’insufficienza delle energie locali, e soprattutto, a dispetto delle attese e delle retoriche solidaristiche che la accompagnavano, della beneficenza privata. Ciò costrinse sempre più tanti comitati a rivolgersi alle istituzioni, e soprattutto al governo, anche perché l’aumento costante del numero dei richiamati produceva un paradosso: se le iniziative assistenziali venivano private delle oblazioni occasionali e in particolare di quelle mensili di molti partenti, le nuove chiamate sotto le armi accrescevano le richieste di intervento di famiglie private del rispettivo capofamiglia. Nel 1917, l’anno più nero della guerra europea, nel quadro dello scambio continuo fra spontaneismo di base e sollecitazioni governative realizzatosi in precedenza, le attività di sostegno al fronte interno dovettero confidare sempre più nell’aiuto di un soggetto erogante come lo Stato, che peraltro già gestiva una propria onerosa politica di sussidi ai richiamati.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La quantità di uomini al fronte, le molteplici necessità di una guerra moderna e la natura di molti dei compiti affidati ai comitati, che rimandavano a tradizionali lavori di cura, fecero infine dell’elemento femminile un altro soggetto decisivo del fenomeno della mobilitazione civile.  Diverse donne legate alle classi dirigenti e ai notabilati locali, al pari dei rispettivi mariti, ebbero parte attiva nelle vicende della patria in armi, giocando un ruolo rilevante nelle iniziative di sostegno al fronte interno. Appositi comitati femminili sorsero in diverse realtà, come nel caso del comitato Pro-Patria sorto già alla metà di febbraio del 1915 a Pisa per impulso di 23 promotrici quale emanazione del Consiglio nazionale delle donne, espressione di un associazionismo liberale mobilitatosi con grande anticipo all’immediato scoppio della guerra europea. Esso agì in strettissima collaborazione operativa e finanziaria con il Comitato pisano fungendo in sostanza da sua sezione femminile, mentre in alcune realtà figure di donne notabili giunsero persino a presiedere il locale Comitato, come avvenne ad esempio nel caso della piccola comunità di Lajatico per la nobildonna Enrichetta Brenno Gotti Lega.

* Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.




1965: la chiusura al traffico del centro storico di Siena

Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, a Siena si registrò una disordinata espansione edilizia, che vide la costruzione di palazzi persino a ridosso delle mura medioevali.
All’epoca il concetto di tutela era concentrato sui monumenti, le opere d’arte, i palazzi storici. Non ci si preoccupava, invece, dell’ambiente complessivo, di tutto quel tessuto di vie e vicoli, che venivano direttamente dal Medio evo, in alcuni casi dal Rinascimento.

Per frenare le costruzioni, che nascevano un po’ dappertutto in seguito all’inurbamento dalle campagne, e che cominciavano anche a minacciare le “valli verdi” del centro storico, in particolare la valle delle fonti di Follonica, nel 1956 fu affidata la redazione del piano regolatore comunale a Luigi Piccinato, urbanista noto a livello internazionale, insieme a Piero Bottoni di Milano e Aldo Luchini di Siena.

Luigi Piccinato

Luigi Piccinato

Il piano Piccinato stabilì di non edificare nel centro storico, sviluppando la periferia a nord, dove sarebbe anche stato costruito il nuovo ospedale. Per fare posto alle automobili in espansione, il piano Piccinato prevedeva due strade di circonvallazione fra piazza del Sale e Santo Spirito e fra San Domenico e il Duomo all’interno delle mura, da ottenere con lo sventramento dei palazzi esistenti.

La diffusione dell’auto aveva infatti condizionato persino il pensiero di illustri urbanisti, che cercavano di trovare soluzioni tali da consentire il transito e la sosta dei veicoli a motore, di cui non si era pienamente compresa la potenziale enorme crescita.
Con l’avanzata della motorizzazione di massa, la situazione divenne rapidamente insostenibile a partire proprio da Siena, che come poche altre città italiane aveva conservato il tessuto medioevale di vicoli e stradine.

Nel luglio 1962, il sindaco Ugo Bartalini vietò la sosta e la circolazione nell’anello superiore di piazza del Campo, oltre a limitare la circolazione dei bus turistici. Si trattava del primo provvedimento concreto preso per contenere il traffico.

Il problema delle automobili nei centri storici non era soltanto di Siena o dell’Italia, ma riguardava tutta l’Europa.
Nel novembre 1963 fu pubblicato il volume Traffic in Towns. A study of the long term problems of traffic in urban areas. Si trattava di uno studio condotto per conto del Ministero dei Trasporti inglese, che faceva una chiara analisi della problematica.

La penetrazione e la circolazione nelle città sarebbero diventate sempre più faticose e la congestione stradale avrebbe reso pericolosa la vita dei pedoni, di conseguenza l’ambiente urbano sarebbe divenuto sempre più invivibile, man mano che avanzava la motorizzazione di massa. Si doveva perciò eliminare il traffico di attraversamento nei centri storici, consentendo una circolazione limitata a livello locale.
L’Associazione Italia Nostra – fondata nel 1955 – decise di studiare il problema, affidando nel ’64 la redazione di una memoria all’arch. Achille Neri, il cui studio, intitolato Alcune proposte di sistemazione del traffico nel centro storico di Siena, venne stampato e inviato alle istituzioni.
Lo studio prevedeva la riconversione degli ambienti cittadini alla circolazione pedonale, recuperando il silenzio in città e garantendo una maggiore sicurezza per chi si spostava a piedi. Occorreva però una drastica scelta sul numero, sul tipo e sulla velocità dei veicoli ammessi nel centro, nonché una precisa scelta degli itinerari del traffico e delle strade esclusivamente destinate ai pedoni.

Fazio Fabbrini

Fazio Fabbrini

La giunta guidata dal sindaco Fazio Fabbrini, con Augusto Mazzini assessore all’Urbanistica e Bruno Guerri assessore alla polizia municipale, decise di intervenire. Il progetto per la nuova disciplina della circolazione nel centro cittadino si basava su due principi cardine:
1. creare una zona centrale riservata alla circolazione pedonale, in Banchi di Sotto, Banchi di Sopra, via di Città e via Montanini, con le vie limitrofe confluenti;
2. abolire lo scorrimento dei veicoli nel centro storico, creando anelli di circolazione separati: uno a nord da porta Camollia a piazza Indipendenza e uno a sud fra le Porte Pispini, Romana, Tufi e San Marco, con limite alle Logge del Papa, dove cominciava l’area interdetta ai veicoli.

Il 6 luglio 1965 fu emanata l’ordinanza del sindaco n. 148, intitolata Norme particolari di circolazione nel centro cittadino, in vigore dall’11 luglio, con la quale veniva creata una zona interdetta alla circolazione.
Si trattava di un provvedimento innovativo a livello internazionale, che avrebbe fatto scuola in Italia e all’estero, ma che i più non capirono.
Le porte di molti negozi si chiusero per protesta, le auto percorsero in corteo le vie cittadine, occuparono Piazza del Campo, Piazza del Mercato; i clacson suonarono per ore e ore e il telefono del Comune squillò ininterrottamente, con invettive e minacce. L’Ordine dei Medici, l’Automobile Club e il museo dell’Opera Metropolitana, insieme ad alcuni privati cittadini, promossero persino un ricorso gerarchico al ministro dei Lavori Pubblici contro l’ordinanza del sindaco, che dovette giustificare più volte il provvedimento emesso.

“Mi colpì in particolare in quei primi giorni – ha scritto Fabbrini in un libro di memorie – la presenza nelle vie chiuse di moltissime carrozzine con i neonati che le giovani mamme, spesso in coppia con i mariti, quasi a voler sfidare gli oppositori, portavano a spasso per Banchi di Sopra; i capannelli di persone che conversavano liberamente senza essere costrette ad addossarsi alle mura per evitare di essere investite e il ritorno di odori che erano stati soffocati dai fumi di scarico”.
La crisi dell’Amministrazione comunale, che portò alle dimissioni del sindaco nel maggio 1966, con l’arrivo del commissario prefettizio, determinò una “marcia indietro” e il traffico di attraversamento venne parzialmente riaperto a partire dal settembre ’66.

Roberto Barzanti

Roberto Barzanti

La chiusura del centro con la creazione dell’isola pedonale non venne però messa in discussione e anzi negli anni successivi iniziò l’estensione dell’isola stessa.
Nell’agosto 1972, dopo la lunga parentesi del commissario prefettizio, il sindaco Roberto Barzanti aumentò la zona chiusa, vietando l’ingresso alla città dall’area di San Domenico, e riprendendo un percorso che con successivi provvedimenti è arrivato fino ai giorni nostri.
Negli anni ’80 e ’90 fu istituita la ZTL su quasi tutto il resto del centro storico, diviso in settori di circolazione e di sosta riservati ai soli residenti. Ai residenti, gli unici autorizzati a parcheggiare in centro, fu chiesto un bollino di 50.000 lire al mese da destinare all’incremento del trasporto pubblico, una cifra molto alta. Anche in questo caso, si trattò di un esperimento innovativo a livello nazionale.
Fu inoltre iniziata la costruzione di parcheggi scambiatori in periferia, creando una rete di minibus.

Dal 1990, dopo diversi anni di chiusura del centro storico agli autobus, il Comune di Siena, in accordo con la società di trasporto Train, introdusse nel cuore della città un minibus denominato “Pollicino” per consentire l’accesso alle anguste vie cittadine, a partire da parcheggi scambiatori, dove avrebbe posteggiato l’auto chi veniva da fuori.
Tutti gli sviluppi successivi sono stati permessi da quel primo provvedimento coraggioso del 1965, che aveva limitato la circolazione nel cuore della città, introducendo con un atto pratico una sorta di “principio filosofico” nell’urbanistica: anziché demolire i palazzi per fare posto alle automobili, limitare la circolazione e sosta delle auto al fine di preservare l’ambiente storico.

Nelle parole di Luigi Piccinato, il famoso progettista del piano regolatore del 1956, si trova l’espressione dell’importanza di quanto fatto a Siena. In un’intervista rilasciata a Roberto Barzanti nel marzo 1983, a distanza di quasi 30 anni dall’elaborazione del piano, affermava: “L’adozione del provvedimento che fece pedonale la parte più cospicua del centro storico – poi, a quel che ne so, variamente corretto e ampliato – è stata una delle grandi conquiste di Siena. Tutta l’Italia oggi non solo la imita, ma la studia. Fu un atto che ha contribuito a salvare la struttura organica – sottolineo questa parola – di tanti altri centri urbani”.




L’Unione Donne Italiane e La Proletaria alla fine della Seconda Guerra Mondiale

La Proletaria, una cooperativa che oggi è estesa su quattro regioni col nome di Unicoop Tirreno, venne costituita il 26 febbraio 1945, pochi mesi dopo la Liberazione di Piombino. La sua fondazione ricevette un forte impulso dal CLN locale e dai partiti di sinistra, in accordo con le linee guida nazionali che vedevano nella costituzione di cooperative un mezzo per superare le privazioni dell’immediato dopoguerra. Per questi motivi, un gruppo di 30 operai dell’ILVA (l’azienda siderurgica piombinese) dette vita a La Proletaria, riattivando in accordo con i vertici dell’azienda, lo spaccio aziendale.

Tra i 30 soci fondatori della cooperativa non era presente nessuna donna. Nelle settimane successive però le le donne iniziarono a comparire: al 2 marzo del 1945 erano poco più di 800 i soci e tra loro si registrò la presenza delle prime 10 donne. Lo stesso Statuto ammetteva come soci solamente operai, impiegati ed altri lavoratori di mestieri eminentemente maschili. Eppure le donne c’erano, nascoste dalla presenza maschile, tuttavia importanti: le lavoratrici erano in maggioranza rispetto agli uomini, anche se in ruoli di “manovalanza” (erano commesse, banconiere o cassiere), le massaie facevano la spesa per la famiglia.

Convegno delle donne alla Tolla, aprile 1951 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Convegno delle donne alla Tolla, aprile 1951 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Il Consiglio di Amministrazione della cooperativa, però, almeno per i primi mesi, restò interamente formato da uomini. La mancata presenza femminile si ebbe fino alla fine degli anni quaranta – e in alcuni casi anche ben oltre – anche in altre piccole cooperative di consumo della zona: questi dati sicuramente fanno pensare ad un’impronta decisamente maschile nella costituzione e nella gestione di sodalizi in cui le donne erano però le principali attrici.

L’Unione Donne Italiane (UDI), alla fine della guerra, si impegnò in tutte quelle attività che toccavano da vicino le donne, prima fra tutte quella del sostentamento alimentare della famiglia e del controllo della qualità e dei prezzi delle merci. Questo, e il legame con i vari CLN, portarono alle sinergie con il mondo cooperativo. Sin dal 1944 l’UDI condusse una campagna di tesseramento delle proprie socie; nel 1946, in ritardo rispetto alle iniziative dell’UDI, fu creato il Comitato Nazionale delle Cooperatrici all’interno della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue. L’Unione, in quei primi mesi del dopoguerra, premeva affinché anche all’interno dei consigli di amministrazione delle cooperative di consumo fossero ammesse delle donne. Non bisogna poi  dimenticare il legame che l’organizzazione femminile aveva con il PCI e con la lotta di Liberazione, i quali vedevano nella cooperazione un mezzo per risollevare l’economia in momenti difficili: in questo senso l’UDI rappresentò sia uno strumento di emancipazione e di crescita personale per molte donne sia un organismo integrato nella struttura del Partito Comunista che era utilizzato per ampliare il consenso (ma va detto che era anche un modo per le masse di partecipare alla vita pubblica).

Proprio in questo modo iniziò il legame tra l’UDI e la nuova cooperativa nata a Piombino. Alla fine di aprile del 1945 l’Unione Donne di Piombino inviò una lettera al Consiglio di Amministrazione de La Proletaria perché una loro rappresentante venisse a far parte del Consiglio. Questo dette subito parere favorevole, a patto che le rappresentanti UDI fornissero un contributo attivo alla cooperativa: tale contributo si basava sull’immagine della donna di massaia e di prima fruitrice dei prodotti di consumo di una cooperativa. Questo fu il primo importante passo per far uscire le donne dall’ombra in cui lavoravano e fruivano della cooperativa alla sua fondazione. Da questo punto in avanti le donne ebbero il modo di ritagliarsi uno spazio sempre più definito e crearsi un ruolo sempre più complesso e sfaccettato.

Il legame dell’UDI con la Proletaria è testimoniato anche dal fatto che i primi fondi fotografici conservati presso l’Archivio Storico di Unicoop Tirreno che ritraggono delle figure femminili sono proprio dell’Unione. Il collegamento tra i fondatori con il mondo dell’associazionismo femminile e con i suoi temi di attenzione e stimolo al lavoro femminile certo fu molto importante per la partecipazione delle donne.

Dalla parte delle donne raccolta  firme contro la  violenza sessuale 1988 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Dalla parte delle donne raccolta firme contro la violenza sessuale 1988 (Archivio Storico Unicoop Tirreno)

Tuttavia, nei primi tempi è d’uopo registrare un certo grado di paternalismo dei consiglieri uomini della Proletaria nei confronti delle loro colleghe. Un paternalismo che sembrava non voler riconoscere il peso delle donne nella cooperativa: basti pensare che nei verbali delle riunioni del Cda si leggeva, dopo il nome e cognome dei consiglieri, un laconico “e le rappresentanti dell’UDI”, senza che ne fosse indicato il nome. Di contro le donne dell’UDI si stavano ritagliando un ruolo sempre più preciso all’interno della cooperativa: nei primi mesi le consigliere si dedicavano alla distribuzione del latte tra la popolazione affamata del dopoguerra (questa era una iniziativa in cui l’UDI di Piombino si stava impegnando); le rappresentanti dell’UDI si occupavano di tutte le questioni che interessavano alle donne che facevano la spesa negli spacci della cooperativa (la biancheria, il pesce, il metodo di pagamento) intervenendo nei dibatti del Cda, pur senza diritto di voto.

Via via che i mesi e gli anni passavano le donne presero in mano il settore sociale della cooperativa: si occupavano della promozione e organizzazione di attività sociali, culturali o ricreative (spesso insieme all’UDI di Piombino o nazionale) e della gestione dei comitati di spaccio. La presenza dell’UDI era molto importante per la cooperativa perché, al pari della Lega della Cooperative e mutue, concorreva a dare, attraverso la partecipazione a convegni nazionali, una dimensione più  ampia alla cooperativa e alle donne consigliere, un’opportunità di formazione e di emancipazione dai ristretti ambiti della provincia.

In ultima analisi il ruolo dell’UDI fu fondamentale per la Proletaria: attraverso la sua iniziativa si offrì ad alcune militanti un’occasione di crescita personale e sociale, mentre, pur con molti limiti e distinguo vista ancora la predominanza maschile nei ruoli chiave, si dette alla cooperativa un’impronta femminile.




Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice

Della lunga vita (Pistoia, 1880-Genova,1971) di Leda Rafanelli, dedita fin dalla prima giovinezza non solo alla militanza nel movimento anarchico, ma anche all’attività di pubblicista e scrittrice, è impossibile dare in poco spazio una sintesi sia pure estrema. Ci si limiterà, qui, a concentrare l’attenzione sul periodo della sua formazione giovanile, in cui già si incontrano realizzati esempi della sua vulcanica poliedricità.

Leda si stabilisce a Firenze nei primissimi anni del ‘900, secondo la ‘vulgata’ (trasmessa dalla maggioranza di suoi biografi e critici) dopo essere rientrata da un soggiorno in Egitto, dove si sarebbe convertita contemporaneamente all’anarchismo e alla fede musulmana. Peraltro non vi è certezza che tale soggiorno sia effettivamente avvenuto e tanto meno che ad Alessandria d’Egitto la giovane Leda abbia avuto contatti con l’ambiente anarchico de “La Baracca Rossa” fondata da Enrico Pea. Se Leda rimase sempre molto sul vago a proposito di quel viaggio, fu lo studioso Pier Carlo Masini, a lungo suo amico, ad accreditare tale narrativa (si vedano: Iréos e Djali, in Luigi Fabbri, Studi e documenti sull’anarchismo tra Otto e Novecento, Pisa, BFS edizioni, 2005 e l’introduzione a Una donna e Mussolini, Milano, Rizzoli, 1946). Lo stesso Masini riporta la descrizione fatta da Leda (nell’inedito Pensieri del 1897) del proprio incontro, che sarebbe avvenuto in questa circostanza, con Luigi Polli.

Quello che invece è certo è che Leda incontrerà (nuovamente o per la prima volta) Luigi Polli, che sposerà nel 1902, nell’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze. In questo stesso contesto Leda incontra e stringe amicizia con gli “ultimi internazionalisti” (‘reduci’ della Prima Internazionale antiautoritaria) Giuseppe Scarlatti, Francesco Pezzi e la sua compagna Luisa Minguzzi, fondatrice della prima sezione femminile dell’Internazionale.

untitledA Firenze Leda, la cui scolarizzazione si era fermata alla seconda elementare, lavora come tipografa e pubblica il suo primo opuscolo “di propaganda”, Alle madri italiane (1901) con la Libreria editrice G. Nerbini. Qui Leda si riferisce ancora a se stessa come “socialista” e rivolge alle madri il messaggio di “noi socialisti”, propugnando l’idea seppure non del rifiuto totale della religione da parte delle madri credenti, di una religione spogliata dalle sovrastrutture ecclesiastiche.

Nel 1903 inizia la lunga e intensa collaborazione (che durerà fino al 1906) di Leda a «La Pace», il quindicinale antimilitarista di Genova diretto da Ezio Bartalini, giovane socialista dissidente. In quello stesso anno suoi versi e bozzetti in prosa che hanno per oggetto le ingiustizie della società e la persecuzione nei confronti degli anarchici, appaiono su «L’Agitazione», “periodico socialista anarchico” pubblicato a Roma. Dal 1904 in poi la sua firma è frequente su vari altri giornali: «Il Libertario» di La Spezia (dove molti degli articoli appaiono a firma del “Comitato pro-vittime politiche”, costituito nel 1904 insieme a Scarlatti e ai coniugi Pezzi), «La Voce della donna», «L’Allarme», «Il Grido della folla», «L’Aurora», «Energia»: periodico dei giovani socialisti, «La Donna socialista», «In Marcia», «La Protesta umana».

Lo stile giornalistico di Leda si distingue fin da ora per la sua versatilità: i temi che le stanno più a cuore, in particolare quelli dell’antimilitarismo e della lotta per la giustizia e la libertà, vengono affrontati non solo in articoli polemici, ma anche attraverso l’uso di versi e ‘bozzetti’.

Sempre degli anni fiorentini è l’incontro di Leda con importanti esponenti libertari: nel dicembre 1905, al convegno dei sindacalisti rivoluzionari di Bologna a cui partecipano Leda e Luigi Polli, sono presenti, tra gli altri, Luigi Fabbri, Oberdan Gigli, Armando Borghi e Pietro Gori. E del credito che Leda ormai godeva in campo libertario fa fede il fatto che proprio lei firma la prefazione allo scritto di Borghi del 1907, Il nostro e l’altrui individualismo.

È del 1906, poi, la fondazione da parte di Leda e di Luigi Polli (con la collaborazione di Scarlatti) del giornale «La Blouse», realizzato “da autentici lavoratori del braccio” per i “tipi Rafanelli-Polli”.

L’attività di collaborazione e fondazione di giornali non la porta a trascurare la scrittura di opuscoli di propaganda, come pure quella di racconti e romanzi: il 1907 è un anno di intensa produzione di pamphlet, stampati inizialmente dalla “Tipografia Ugo Polli” e poi dalla “Libreria editrice Rafanelli-Polli”. Di tale prolificità e varietà di generi dà conto il lungo elenco che si trova al fondo A l’Eva schiava di scritti precedenti “e che possono essere ordinati della stessa autrice”. Si tratta di: Un sogno d’amore; Le memorie di un prete; La caserma … scuola della nazione (dal diario di un soldato); Amando e combattendo; La bastarda del principe; Contro la scuola; Dal ‘Dio’ alla libertà; Società presente e società avvenire.

Nei pamphlet del 1907 è ormai chiaro il passaggio all’ideologia anarchica, dichiarata con orgoglio nell’enfatizzato “noi libertari”, insieme ad un accentuarsi dell’antimilitarismo e della critica della religione, con l’appello alle madri per richiamarle al loro dovere di educare i figli agli ideali di giustizia e libertà.

Il lungo e fecondo periodo fiorentino, insieme al matrimonio e sodalizio con Luigi Polli, si avviano a conclusione quando Leda incontra Giuseppe Monanni, un anarchico aretino che si era trasferito a Firenze nel 1907 e qui aveva fondato la rivista «Vir». A metà del 1908 la coppia si trasferisce a Milano dove inizia la collaborazione a «La Protesta umana» edita da Ettore Molinari e Nella Giacomelli.

A Milano inizia il successivo lunghissimo e sempre intensissimo capitolo della vita, militanza e attività di giornalista e scrittrice di Leda. E se dall’attività politica Leda si ritirerà progressivamente a partire dal 1919, quella di scrittrice prosegue invece fin quasi all’ultimo della sua lunga vita che si conclude a 91 anni, nel 1971, a Genova.




Le stragi naziste in Toscana

Come è noto, durante la campagna d’Italia gli Alleati raccolsero le prove dei crimini di guerra compiuti dall’esercito tedesco nella penisola, con l’intenzione, all’inizio, di celebrare una sorta di “Norimberga italiana”. Una opzione ben presto accantonata, per ragioni di politica internazionale – la Guerra Fredda abbisognava di una solerte rinascita della Repubblica Federale Tedesca – che vennero ad intrecciarsi con l’interesse tutto italiano di evitare una punizione per i “nostri” criminali di guerra.

Il lavoro istruttorio era stato comunque imponente. Molte delle inchieste dello Special Investigation Branch inglese e della sezione del War Crimes Branch statunitense riguardarono la Toscana e le sue comunità martiri, colpite ripetutamente, soprattutto nell’estate 1944: uno degli allegati al rapporto German Reprisals for Partisan Activity in Italy, inviato a Londra alla fine del 1945, è una cartina (doc. 1) sulla quale sono evidenziate molte località della nostra regione che ebbero a fare i conti con la violenza tedesca.

Questi materiali, assieme ad altri, analoghi, raccolte da diverse autorità italiane (Carabinieri, Comitati di Liberazione Nazionale, ecc.), sono rimasti, come è noto, conservati per decenni negli archivi stranieri e nel cosiddetto “armadio della vergogna” (doc. 2 e 3), ma hanno poi rappresentato la base delle ricerche sulle stragi naziste che, dalla metà degli anni novanta del Novecento, hanno alimentato una feconda stagione storiografica, che si è accompagnata ad alcuni procedimenti penali, riaperti presso le Procure Militari  In attesa di un censimento nazionale delle stragi, al quale sta lavorando un gruppo di ricerca nazionale, per il progetto, finanziato dal governo tedesco come forma di riparazione, Atlante delle stragi nazifasciste, il quadro toscano è comunque già piuttosto chiaro.

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Civili costretti dalla Luftwaffe ad abbandonare le proprie abitazioni (C. Gentile, La Wehrmacht in Italia)

 

Si contano almeno 200 episodi, ed oltre 3600 vittime. Le prime stragi colpiscono nel settembre 1943 (Pistoia, in piazza San Lorenzo, e all’Isola d’Elba), e, dopo i rastrellamenti della “settimana di sangue” dell’aprile 1944 (nei quali avviene per esempio la strage di Vallucciole, 13 aprile, 107 vittime), la violenza diventa quotidiana nell’estate 1944, come strumento di gestione della ritirata, di pressione sulla popolazione civile e sui partigiani, di controllo del territorio e delle aree strategiche, a partire dalla Linea Gotica. Mommio (5 maggio, 22 vittime) e Forno di Massa (13 giugno, 60 vittime), la Niccioleta (13 giugno, 83 vittime) e Guardistallo (25 giugno, 47 vittime), Civitella della Chiana (29 giugno, 204 vittime) l’area di Cavriglia (4 luglio, 173 vittime) e San Polo di Arezzo (14 luglio, 48 vittime), le rappresaglie di Orenaccio di Loro Ciufenna (6 luglio, 32 vittime), Crespino sul Lamone (17-18 luglio, 44 vittime), e Empoli (24 luglio, 29 vittime), e ancora la Romagna sopra Molina di Quosa (7-11 agosto, 72 vittime) e Sant’Anna di Stazzema (12 agosto, oltre 500 vittime), e Bardine San Terenzo (19 agosto, 158 vittime) e Vinca (24 agosto, 171 vittime), preceduta il giorno prima dal Padule di Fucecchio (173 vittime), per finire con le due stragi di Massa (10 settembre, 37 vittime, e 16 settembre, alle Fosse del Frigido, 147 vittime).

Un po’ tutte le formazioni tedesche che combattono in Toscana si macchiano di crimini di guerra, rispondendo con solerzia agli ordini che ricevono dal Feldmaresciallo Kesselring che, proprio attorno alla metà di giugno, definiscono un meccanismo repressivo che autorizza le truppe sul campo ad usare la violenza sulla popolazione civile. Una violenza che così, in queste settimane, parla il linguaggio della rappresaglia o del rastrellamento per rispondere alle azioni partigiane o “bonificare” le aree ove i patrioti operano con maggior efficacia, ma colpisce anche nel corso della ritirata o in zone rese proibite da ordini di sfollamento obbligatorio, subito dietro il fronte, come in tutta l’area di Pisa (il 2 agosto per esempio nel quartiere San Biagio, in seguito a una delazione, si eliminano alcune famiglie rifugiate nella canonica e in alcune abitazioni limitrofe, doc 4 e 5). La repressione si appunta anche contro le forme di resistenza civile, come avviene per esempio dentro la Certosa di Farneta di Lucca, dove nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944 gli uomini della “Reichsführer-SS” del generale Max Simon rastrellano oltre 100 persone, tra le quali i certosini del monastero (alcuni dei quali di nazionalità svizzera, e da questo prenderanno le mosse le indagini del dopoguerra, doc. 6 e 7), rei di aver dato rifugio nei mesi precedenti a varie tipologie di ricercati (ebrei, partigiani, antifascisti, renitenti, ecc.).

Una durissima guerra ai civili, insomma, all’interno della quale emerge il comportamento di alcuni reparti speciali – la già citata divisione di Simon, la “Hermann Göring” – che interpretano il sistema degli ordini in modo più radicale, e inscenano una vera e propria guerra di sterminio ai danni di alcune comunità, come avviene a Sant’Anna, Bardine e Vinca, e oltre: qui la logica repressiva non è più solo quella della punizione, magari esemplare, ma quella della eliminazione di intere comunità. La guerra ai civili si fa così ideologica, razziale, più simile a quella combattuta sul fronte orientale, e costringe la Toscana a pagare un dazio altissimo, prima della Liberazione.