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“Abbasso la guerra!”

Quando, con l’ “impresa” dell’ottobre 1911, il governo Giolitti dà il via alla conquista della Libia, sono molte le voci che esprimono con forza l’opposizione delle donne.

Come per esempio aveva ricordato Maria Goja in un articolo di “Su comapgne!”  del 1911 (vedi materiali correlati), le “donne d’Italia” si erano già mobilitate in occasione della “guerra d’Africa”, il tentativo di conquista dell’Etiopia culminato nella disfatta di Adua del 1896. Nelle manifestazioni popolari contro il governo Crispi e per il ritiro delle truppe dall’Africa, infatti, è massiccia la presenza delle donne, che indirizzano anche petizioni e proteste al parlamento.

L’emergere del protagonismo delle donne in questi due tragici momenti dell’‘avventura’ coloniale italiana non sarebbe forse possibile, tuttavia, se non fosse preceduto da una storia di crescita di pensiero e azione per la pace che inizia già nella seconda metà dell’800 e proseguirà, pur tra differenziazioni e defezioni, fino alla Prima guerra mondiale.

La Guerra di Libia

È all’inizio della Guerra Italo-turca nel 1911, tuttavia, che si determina in campo femminile una netta spaccatura, e mentre tra le emancipazioniste e pacifiste prevale lo spirito ‘patriottico’, socialiste e anarchiche restano le sole a rappresentare una dura e coerente opposizione alla guerra.

Nella redazione de La Difesa delle lavoratrici, diretta da Anna Kuliscioff, che inizia le pubblicazioni nel gennaio 1912, confluiscono, tra le altre, le più attive e riconosciute militanti socialiste: Angelica Balabanoff, Giselda Brebbia, Carlotta Clerici, Rosa Genoni, Maria Giudice, Maria Goja, Linda Malnati, Margherita Sarfatti, Giuseppina Moro Landoni, Maria Perotti Bornaghi, Abigaille Zanetta.

La propaganda contro la guerra – che dalla fine del 1912 s’intreccia a quella contro l’incombente conflitto europeo – non solo occupa le prime pagine e quelle interne del giornale con editoriali, novelle antimilitariste, rubriche rivolte ai bambini, citazioni da Tolstoj e De Amicis, ma è portata tra le donne con comizi e “agitazioni”.

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L’anarchica toscana Leda Rafanelli

Nel campo libertario s’intensifica l’attività antimilitarista di Maria Rygier, mentre dalla “Palestra femminile” dell’Avvenire anarchico Priscilla Fontana e la figlia Jessa e da La Donna Libertaria Amelia Legati rivolgono accorati appelli “Alle madri” perché si mobilitino contro la guerra. Su Libertà la toscana Leda Rafanelli stigmatizza non solo il sopruso e l’arroganza dei conquistatori italiani contro “i liberi figli d’Africa”, ma anche “l’odio di razza” delle potenze europee nei confronti di tutti i popoli colonizzati.

La “Grande guerra”

All’inizio della guerra europea nell’agosto 1914 sulla prima pagina de La Difesa appare a caratteri cubitali il manifesto “Non vogliamo la guerra!” e da quel momento fino all’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 socialiste e anarchiche intensificano la propaganda e la mobilitazione delle donne nelle piazze.

Sui giornali, non solo di donne, si moltiplicano gli interventi: sull’Avanti!, oltre che su La Difesa, appaiono quotidianamente gli articoli della Balabanoff, di Rosa Genoni e Maria Giudice, ma anche di Leda Rafanelli. Su La Pace quelli di Fanny Dal Ry e sui giornali libertari quelli della Rafanelli e delle “irriducibili” Priscilla Fontana e Jessa Pieroni.

Nei loro ripetuti appelli, tuttavia, si avverte un crescente pessimismo sulla volontà di tutte le donne di opporsi alla guerra. È in questo momento, infatti, che l’idea della “guerra giusta” – la “guerra di difesa” – crea quelle divisioni che rompono la linea unitaria all’interno del fronte sia socialista, sia anarchico. Margherita Sarfatti prima e Giselda Brebbia poi, e come loro Maria Rygier, seguono Mussolini (espulso dal PSI) e la linea editoriale del Popolo d’Italia.

La grande maggioranza delle socialiste, tuttavia, continua a riconoscersi nelle posizioni di Clara Zetkin, che a dicembre lancia un nuovo appello alle donne di tutti i paesi, e dell’Internazionale femminile socialista, la cui vicenda di questi anni è tra l’altro molto significativa per quanto riguarda la specificità dell’opposizione delle donne alla guerra. Dopo la dissoluzione della Seconda Internazionale in seguito alla votazione dei crediti di guerra da parte dei maggiori partiti socialisti nel 1914 e a partire dal convegno di Berna del marzo 1915, infatti, l’Internazionale Femminile assume le caratteristiche di movimento autonomo. La rete di donne socialiste sia dei paesi belligeranti che di quelli neutrali si autoconvoca ed agisce indipendentemente dalle posizioni e direttive dei rispettivi partiti nazionali. Spesso in contrasto con questi, mantenendo la fedeltà all’internazionalismo tradita dai compagni.

In campo anarchico, contro il tradimento di Maria Rygier ed altri, Leda Rafanelli ribadisce in articoli sui giornali libertari e sull’Avanti!, oltre che nell’opuscolo Abbasso la guerra!, l’opposizione della maggioranza degli anarchici sia alla guerra coloniale che a quella contro altri popoli europei. Nella Giacomelli, a sua volta, si rivolge con un manifesto a tutte le donne perché dimostrino contro il conflitto.

Benché in generale resti incontestabile il fatto che – come nel resto d’Europa – il nazionalismo nelle donne fu più forte (e soprattutto più visibile) del pacifismo, anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia, dunque, permane tra le socialiste e le libertarie una maggioranza di ‘resistenti’.

Mentre su L’Avanti! continuano ad uscire (pur con tagli sempre più pesanti della censura) interventi della Balabanoff, di Leda Rafanelli, Rosa Genoni, La Difesa delle Lavoratrici, nonostante le divisioni interne, mantiene viva l’informazione sulle iniziative per la pace delle donne anche degli altri paesi. All’attività internazionale della Balabanoff  (tra gli organizzatori della conferenza dei partiti socialisti di Zimmerwald nel 1915) si affianca quella delle altre militanti, come l’organizzazione di leghe di resistenza femminile e della protesta  delle donne torinesi da parte di Maria Giudice e il lavoro nelle scuole e nel campo dell’educazione di Linda Malnati, Carlotta Clerici e Abigaille Zanetta. Rosa Genoni, fondatrice dell’associazione Pro Humanitate e delegata al Congresso Internazionale dell’Aja del maggio 1915, promosso dalla statunitense Jane Addams, sarà poi rappresentante italiana della Women’s International League for Peace and Freedom che da questo ha origine.

L’opposizione delle donne italiane, dunque, resta viva attraverso e oltre la guerra. E tra le altre saranno proprio alcune delle ‘veterane’ – come Maria Giudice e Giuseppina Moro Landoni, arrestata la prima e internata la seconda nel 1916, Abigaille Zanetta, arrestata nel 1918 – a rappresentarne la continuità e a scrivere altri capitoli di storia del protagonismo delle donne anche durante la resistenza al fascismo.

 




Parlare di Norma, settant’anni dopo

Può stupire che siano occorsi settant’anni prima del tentativo di ricostruire compiutamente un episodio eclatante, come l’ uccisione di una donna medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, il 23 giugno 1944 a Massa Marittima, alla vigilia della Liberazione. Ma non più di tanto, in ragione di un contesto complicato da capire e narrare, e di una lotta resistenziale tra le più aspre del territorio.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

Era una giovane donna di ventitre anni Norma Parenti, nata a Monterotondo Marittimo, presso Massa Marittima. Fu “prelevata” dalla trattoria di famiglia insieme alla madre, trascinata via, lei sola trattenuta e barbaramente uccisa. L’arresto fu opera di soldati tedeschi, le sevizie e l’uccisione videro con certezza la partecipazione di fascisti. Le ragioni dell’arresto e della condanna a morte: l’aiuto offerto alle bande partigiane, l’audacia, percepita come sfrontata provocazione dalle autorità della Repubblica Sociale.

Ma non è stata scritta una biografia di Norma, né quando si cominciarono a scrivere storie di Resistenza, meno che mai quando le ondate revisioniste tesero a ribaltare stereotipi, sminuirla o reinterpretarla. Il primo e a lungo unico testo pubblico in memoria di Norma è un opuscolo dell’UDI, in cui è “giovane sposa e madre”, “avviata al suo doloroso calvario”. La richiesta della medaglia d’oro al valor militare indirizzata al Ministro della guerra il 12 gennaio 1945 dalla “Commissione dell’UDI per la Guerra” e le carte allegate danno conto di un impegno forte dell’UDI, del Partito Comunista massetano e del Comune fino a quella data. C’è tra i documenti una scarna relazione del comandante della banda Camicia rossa, Mario Chirici; null’altro finora è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione Nazionale.

Di Norma in un intenso, breve richiamo parla Wanda Parracciani, staffetta sull’Amiata, fra le fondatrici dell’UDI, alla Conferenza organizzativa del PCI a Grosseto nell’agosto del 1944. Quella di Wanda è una relazione tutta politica sul ruolo delle donne nella ricostruzione; della loro Resistenza parla per legittimarne il ruolo in tempo di pace, perché, sostiene, “la donna non intende fermarsi a quello che ha fatto in circostanze eccezionali”. Norma è definita martire, eroina e “compagna”. In realtà è il marito a comparire nei documenti “rappresentante del P.C.I. nella Commissione epurazione” di Massa Marittima.

Frammenti della vicenda e qualche tratto della personalità si leggono negli anni Settanta, nel volume Donne e Resistenza in Toscana e nello studio di Marcella Vignali Clero e Resistenza nella Provincia di Grosseto. Si devono attendere i Duemila per trovare nella letteratura locale dati, testimonianze, ma non un organico studio. È così che si arriva a un risveglio di interesse nei dintorni di un appuntamento imposto dal calendario civile: il settantesimo. Il 2014 è l’anno della pubblicazione di un volume di testimonianze inedite, della produzione di un documentario, di due spettacoli teatrali. Si racconta del fortunoso ritrovamento di una scatola di fotografie di Norma, ora in mostra nel Palazzo del Comune, fonti per gli scritti e le rappresentazioni.

Un progetto in attesa di essere realizzato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea e dal Comune di Massa Marittima – Norma e le altre – pone domande su questa e altre figure femminili, per scavare nel tessuto della cultura civile e politica locale. Qui la tradizione mazziniana si era radicata nell’Ottocento con esiti importanti: un forte partito repubblicano, la nascita precoce del movimento sindacale, una presenza che attraversa un secolo di quella particolarissima cultura operaia, patrimonio dei lavoratori delle miniere. Ma Massa Marittima è anche luogo di lacerazioni forti: allo scontro consumatosi tra fascismo e antifascismo si sommerà già durante la Resistenza e nel dopoguerra il conflitto tra le due anime dell’antifascismo, la repubblicana e la comunista. Le donne danno prova di una maturità politica che le inserisce nella vita dei partiti e nelle istituzioni: consigliere, assessori nel tempo della ricostruzione. Ma anche testimoni dolenti e vittime di lutti – enorme quello della strage di Niccioleta, seguito da un processo che squassò le famiglie del villaggio minerario, ma con echi profondi nella stessa vicinissima Massa Marittima. Furono condannati non gli esecutori del massacro degli 83 minatori e i responsabili tedeschi della strategia del terrore, ma i fascisti, accusati di aver sollecitato e indirizzato i carnefici. Testimonianze raccolte in tempi diversi restituiscono una narrazione toccante, che disegna il clima di quello che doveva essere il tempo del superamento delle devastazioni della guerra totale, mentre più che altrove ne conservava profonde ferite.

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Norma Parenti con il marito, Mario Pratelli, s.d.

È stata scritta la storia della strage della Niccioleta e tuttora si continua a scavare. Della Resistenza, con una certa continuità si è parlato, anche polemicamente, e si è scritto. Su Norma il tempo dei silenzi è stato più lungo delle fasi di memoria. La distanza ha accresciuto la difficoltà di raggiungere un’interpretazione. Rigida e ferma nel suo essersi schierata a fianco delle bande partigiane e contro i fascisti e i loro alleati occupanti, quanto indefinibile rispetto alle categorie delle appartenenze politiche. Cattolica fervente, moglie di un comunista, sempre presente dove c’era da aiutare, nutrire, nascondere, convincere gli indecisi a raggiungere le bande alla macchia, seppellire morti partigiani. Scrisse Marcella Vignali che Norma era attiva nel Circolo Giovanna d’Arco dell’Azione Cattolica, distribuiva volantini con la falce e il martello e dopo la Liberazione “una delle più belle e attendibili testimonianze sulla personalità di Norma” fu offerta al Teatro Mazzini dal Vescovo di Massa Marittima.

La memoria recente di una massetana, bambina all’epoca, trasmette il pensiero della madre: “era un po’ impulsiva, la sua era una scelta dettata da una vitalità estrema, non una scelta politica”. Il suo racconto dei giorni dell’uccisione, del ritrovamento del cadavere e del funerale, raccolti dalla madre e dalle altre tocca i contorni umani: la disobbedienza di Norma al divieto di dare sepoltura al corpo del partigiano Guido Radi evoca l’archetipo femminile della legge del cuore – il sacrificio di Antigone. Tuttavia quella pietas è al confine tra pubblico e privato: la trasgressione all’ordine imposto dal potere nazifascista invia un messaggio che è anche politico a chi assiste al suo gesto.

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Norma Parenti con un bambino, probabilmente il figlio Alberto, s.d.

Così, dall’incerta definizione delle ragioni dell’agire di Norma emerge uno dei nodi più difficili da sciogliere per la Resistenza, sempre, a maggior ragione per la Resistenza femminile: la scelta. Gli scatti che la ritraggono descrivono una ragazza vivace, forse trasgressiva, certo molto bella. La retorica della “sposa e madre” e di una “eroina del secondo Risorgimento” – il linguaggio delle prime celebrazioni – si confonde con un’immagine di modernità che vediamo oggi, ma in tutta evidenza era presente anche allora. Forse è stato così che, passato il momento della compassione e dell’esaltazione del sacrificio necessario per la rinascita politica del paese, non è stato facile per nessuna delle parti assumersi, dandole una appartenenza, la memoria di Norma. C’è poi l’atrocità di quell’uccisione, delle sevizie che il corpo rivelò. La domanda sulla scelta di Norma è insieme domanda sulla scelta di lei come vittima, capro espiatorio, il più adatto a imporre uno sfregio tanto profondo da essere insopportabile a una città che aveva espresso un’opposizione tenacissima al nazifascismo: una ragione in più per spiegare la difficoltà a cimentarsi con una ricostruzione storica puntuale.

Finora, è l’intuito dell’artista – la regista e attrice Irene Paoletti – quello che forse ha saputo meglio restituire il clima cupo di terrore che fu preludio dell’orribile morte di Norma e la rabbiosa e meditata offesa con cui, ormai alla vigilia della rotta, il fascismo volle imprimere un marchio duraturo sulla città. È un caso, non unico, in cui l’arte aiuta la storia.




“Donne e Guerra”: un progetto didattico nelle scuole del Valdarno

Negli anni Novanta la scuola italiana aprì la programmazione di Storia al Novecento e, rinnovando l’interesse per le vicende più recenti e l’importanza della ricerca a partire dai testimoni, scelse di farlo partendo dalla storia famigliare, locale per facilitare la comprensione del contesto globale. A questo periodo risale “Donne e guerra”, lavoro di ricerca che nasce da un progetto del Ministero chiamato appunto “Novencento”.

La scuola secondaria di primo grado di Matassino (Figline Valdarno- Firenze) divenne sede di un “Laboratorio storico-ambientale” coordinato da Gabriele Olmi che aveva come scopo la formazione degli insegnanti e l’avvio di progetti, come il nostro “Donne e guerra” degl’anni scolastici 1997/98 e 1998/99 che fu diretto da Carla Mugnai con la collaborazione di Mario Mantovani. Si tratta di una raccolta di testimonianze che gli alunni hanno recuperato dalle proprie nonne con la metodologia dell’intervista.

Le domande rivolte sono state:

  • Cosa ti ricordi della guerra?
  • Ti ricordi di qualche episodio particolare?
  • Come trascorrevi la giornata?
  • Cosa mangiavi e come te lo procuravi?
  • Facevi mai festa? Dove, quando, racconta …
  • Quali erano i luoghi di ritrovo?
  • Dove vi rifugiavate quando c’erano i bombardamenti?
  • Ti ricordi di un episodio del rifugio?
  • Come avevate le notizie e da chi?
  • Cosa ti ricordi dei tedeschi?
  • E degli americani?
  • Hai mai sentito parlare di episodi di maltrattamenti nei confronti delle donne?
  • Conosci episodi nei quali sono state protagoniste le donne?
  • Hai mai aiutato, dato ospitalità a qualcuno in difficoltà?

I risultati del lavoro furono organizzati secondo la provenienza geografica delle testimoni e pubblicate, assieme a delle foto d’epoca sul portale www.valdarnoscuola.net

Gli alunni interessati dal progetto furono:

  • Scuola Media di Incisa Valdarno: Classe 2°A e 3°C
  • Scuola Media di Matassino (Figline Valdarno): Classe 2°H, 2°I, 3°G, 3°H, 3°I
  • Scuola Elementare di Cascia (Reggello): Classe 5° A
  • Scuola Elementare di Vaggio (Reggello): Classe 5° A

Il lavoro fu organizzato e coordinato dagli insegnanti: Sonia Cirri, Gianna Ermini, Cristina Fontanella,  Monica Giuliani, Leontina Mascagni, Sandra Mazzoni,  Anna Mori, Carla Mugnai, Enrica Mugnai e  Ivana Righi.

“Donne e guerra” confluì nel 2009 nel Centro Documentazione Donna di Figline Valdarno grazie all’attenzione della professoressa Mazzoni e rifluisce ora in ToscanaNovecento per tornare alla sua vocazione originaria: rotella del grande ingranaggio della Storia.




Determinate e coraggiose: le donne versiliesi, vere protagoniste dello sfollamento

Quando le ordinanze di sfollamento colpirono la Versilia, nell’estate del 1944, le condizioni di vita della popolazione civile subirono un brusco peggioramento.

Fin dall’autunno del ’43, le autorità della RSI, desiderose di ricostituire un forte esercito nazionale, avevano avviato coscrizioni sempre più «totalitarie»: questa minaccia, sommata a quella imprevedibile dei rastrellamenti nazisti, consigliava ai maschi in età di leva di rimanere il più possibile nascosti, senza dare nell’occhio. Così, mentre per gli uomini le possibilità di movimento si restringevano ogni giorno di più, le donne, oltre a svolgere gli incarichi loro affidati dalla “tradizione”, dovettero accollarsi tutta una serie di incombenze nuove e gravose, solitamente “di competenza” maschile, come il rapporto con le autorità, il procacciamento del cibo e la difesa della famiglia in situazioni di pericolo.

Nonostante le ordinanze nazifasciste, che prevedevano l’evacuazione delle popolazioni civili verso l’Emilia, i versiliesi erano ben determinati a non abbandonare le proprie terre, per ragioni sia pratiche che affettive: correndo i rischi più gravi, cercarono rifugio nei recessi più remoti delle Apuane, presso amici, parenti, più spesso in alloggi di fortuna.

Nel corso dell’estate del ’44, con l’economia paralizzata e gli esercizi commerciali chiusi, abolite anche le già scarse razioni delle tessere annonarie di Mussolini, il problema alimentare si fece ogni giorno più pressante, fino a trasformarsi nel principale incubo degli sfollati. Ancora una volta, sfidando i gendarmi tedeschi e gli aerei alleati, spesso percorrendo a piedi distanze impensabili – giunsero perfino in Garfagnana e nel Parmense -, furono le donne ad effettuare frequenti ritorni alle proprietà abbandonate, tentando di reperire quel poco di frutta o verdura per i figli e i mariti lasciati in montagna, sempre che la fame dei soldati nazisti, dei partigiani, o, più di frequente, di altri sfollati nelle medesime condizioni, avesse risparmiato qualcosa.

Così per esempio fu per la famiglia di Mariella Barsottini, che nel 1944 aveva sette anni. Assieme ai genitori e al fratello più grande, Mario, abitava nel paesino di Strettoia, nel comune di Pietrasanta (Lu), un borgo agricolo posto proprio a ridosso delle alture dominanti la piana versiliese, in un’area di grande rilevanza strategica per i piani di fortificazione militare dell’Orgnizzazione Todt. Quando furono raggiunti dall’ordine di evacuazione, i Barsottini scelsero di dirigersi verso sud, per «andare incontro agli americani». Dopo una breve sosta nel paese di Valdicastello (Pietrasanta, Lu), in quei giorni vero e proprio crocevia per tutti gli sfollati versiliesi, la famiglia decise di seguire il consiglio di diversi compaesani e di puntare su Marina di Pisa (Pi), considerata una cittadina sufficientemente lontana dai pericoli della Linea Gotica. Nelle settimane successive, nonostante la grande distanza dal paese d’origine, la madre di Mariella, Rina, donna coraggiosa e intraprendente, pur di riuscire a recuperare qualcosa da mangiare per figli e marito, non esitò a tornare periodicamente ai propri terreni, sfidando i posti di blocco e correndo i mille pericoli del passaggio del fronte.

Ecco come Mariella rievoca oggi il ruolo delle donne nei duri mesi dello sfollamento:

Una cosa bella che facevano le donne, perché per gli uomini era troppo pericoloso, era quella di cercar di ritornare a Strettoia per prendere qualcosa da mangiare, perché là avevano lasciato tante cose, tutto! E allora, c’era chi cercava di riprendere la patata, chi recuperava il vino, l’olio, però, sempre col rischio di essere ammazzati. Anche la mia mamma lo fece, da Marina di Pisa. Due volte.

in viaggio verso la garfagnanana in cerca di ciboNei lunghi mesi dello sfollamento, poi, particolarmente complesso si rivelò il procacciamento del sale, genere indispensabile alla dieta, divenuto introvabile sul mercato già dalla primavera del ’44: agli sfollati versiliesi, non rimase altra scelta che ricavarlo dall’acqua di mare. In vista dell’avanzata alleata, tuttavia, l’Organizzazione Todt aveva provveduto a minare l’intera fascia costiera versiliese, lasciando sgombero dagli ordigni soltanto un unico, stretto corridoio di spiaggia presso la foce del fiume Versilia, vicino alle fortificazioni del Cinquale. Data la rilevanza strategica dell’area, il posto pullulava di soldati tedeschi: nessun uomo si sarebbe mai sognato di andarci. Nei mesi dello sfollamento, infatti, proprio in questo punto si snodava ogni giorno una lunga coda di donne composte e silenziose, in attesa del proprio turno per poter raccogliere in una secchia qualche litro d’acqua di mare. Una volta portatala ai monti, se fossero riuscite a passare indenni gli sbarramenti germanici, l’avrebbero fatta bollire o evaporare in un lattone, ricavandone, forse, un preziosissimo pugno di sale grezzo.

Le donne dovettero infine affrontare il difficile compito della protezione dei familiari in caso di rastrellamenti nazisti. Sui villaggi della montagna versiliese, le SS piombavano all’improvviso, rivoltando ogni centimetro degli alloggi, in cerca di uomini e ragazzi da portar via. In un clima di puro terrore, spesso con figli e mariti nascosti in soffitta o appena sotto le assi del pavimento, ancora una volta stava alle donne riuscire a dissuadere i soldati dal compiere ricerche più approfondite, ricorrendo a tutti i diversivi e le doti mimiche del caso, pur di riuscire a salvare le vite dei propri cari. Naturalmente, gli sforzi potevano benissimo risultare vani, e costare anche la vita.

Maria Antonia Quadrelli, nel 1944, aveva tredici anni. Quando giunse l’ordine di sfollamento, dovette abbandonare la sua abitazione delle Prade (Seravezza, Lu), e sfollare, assieme alla madre, alla zia e ai suoi cinque fratelli, nel villaggio montano di San Carlo Po, all’epoca nel comune di Apuania. Ancora oggi, l’anziana signora ricorda bene le drammatiche incursioni notturne delle SS, che penetravano con la forza nelle case in cerca di uomini da rastrellare (la sua vivida testimonianza è consultabile fra i “Materiali collegati”).

A buon diritto, dunque, è lecito affermare che le vere protagoniste dello sfollamento in Versilia furono le donne, che si rivelarono infatti scaltre e coraggiose, ben determinate ad “agire nel mondo” per difendere la vita e la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie comunità.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 




Le donne di Ribolla negli anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta si aprirono nel villaggio minerario di Ribolla in un clima di aperta ostilità tra la Società Montecatini, proprietaria della miniera, e gli operai. Una lunga vertenza nel 1951, “lo sciopero dei 5 mesi ”, pur concludendosi con una sconfitta del movimento operaio grossetano ne rappresentò al contempo uno degli episodi più gloriosi, nel quale si inserì sorprendentemente una variabile a lungo trascurata dalla storiografia: il movimento femminile, timido dapprima, imponente poi, tanto da riuscire a tenere il passo di quello sindacale e politico. Molte donne, infatti, già nelle prime fasi dello “sciopero dei 5 mesi ” si erano organizzate – non solo a Ribolla – per sostenere la lotta di padri, fratelli, figli, mariti, fino a costituirsi nell’associazione “Le amiche della miniera”, il 2 giugno 1951. Sul numero delle iscritte si hanno dati precisi solo per il 1951: 328  nel solo comune di Roccastrada, per un totale di 1184 in tutti paesi minerari della provincia.

Comizio di una rappresentante de "Le amiche dei minatori" (anni Cinquanta)

Comizio di una rappresentante de “Le amiche dei minatori” (anni Cinquanta)

Erano “amiche della miniera” anche le operaie, impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Sia alle donne che partecipavano agli scioperi al fianco degli uomini, sia alle operaie che rimanevano al loro posto per “doveri di cura”, si potrebbe avere la tentazione di estendere la categoria interpretativa del maternage di massa (A. Bravo, 1991), usata in un primo momento per spiegare la partecipazione della donne alla Resistenza: donne che si fecero “pubblicamente” madri dei giovani in pericolo dopo lo sbandamento dell’8 settembre, prima, e dei partigiani, poi.

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Le Amiche dei minatori di Ribolla, invitate al primo convegno nazionale della FILIE (Pesaro, 23-26 ottobre 1952), portano in dono la bandiera della pace. È riconoscibile Finisia Fratiglioni sulla destra

Lo stereotipo della protezione degli uomini determinata da un naturale istinto materno e da una scelta morale più intuita che meditata è stato messo da tempo in discussione (Anna Rossi Doria, 1994), con la messa a fuoco del passaggio «dalla compassione alla solidarietà e dalla solidarietà all’impegno politico in prima persona» nella scelta delle donne di prendere parte al movimento di Liberazione. Anche nella scelta delle “amiche della miniera” di lottare a fianco dei propri uomini questo passaggio è evidente, soprattutto se si pone lo sguardo sugli spazi di autonomia che queste donne seppero prendersi all’interno del più ampio movimento sindacale e politico.

Il 4 maggio 1954 uno scoppio di grisou causò la morte di 43 operai della miniera di Ribolla. Appena dopo il disastro e nei giorni seguenti, le donne dell’associazione si mobilitarono per sostenere i familiari delle vittime.

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4 maggio 1954: la notizia del disastro si è diffusa in paese. Le donne accorrono alla miniera

La colpa morale della Montecatini per lo stato di grave mancanza di sicurezza in miniera, denunciato a più riprese nei mesi precedenti, aspettava solo di essere sancita giudizialmente ma le prime incertezze sulla ricostruzione tecnica del disastro e lo spostamento a Firenze dell’istruttoria, permisero alla Montecatini di dispiegare un’ampia opera di persuasione per convincere con lauti risarcimenti le famiglie dei minatori morti a ritirare le procure per la costituzione di parte civile nel processo.

La sentenza di assoluzione dei dirigenti della Montecatini fu dovuta, oltre che alla discordanza tra le varie perizie, anche alla mancata comparizione della parte civile davanti ai giudici, punto decisamente a favore della difesa; anche le ultime 5 famiglie firmatarie delle procure, infatti, non si presentarono al processo di Verona, nell’ottobre 1958.

La vicenda del ritiro delle procure segnò una spaccatura profondissima all’interno della comunità di Ribolla: da una parte, chi dopo anni di lotte voleva inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità; dall’altra, le “vedove”, ree – si diceva – di aver tradito le aspettative di un intero paese lasciandosi “comprare” dalla Società. In realtà, come mostra un recente studio (Adolfo Turbanti, 2005), il ritiro delle ultime procure fu con tutta probabilità avallato dal PCI e dal Sindacato, resisi ormai conto di quale sarebbe stato l’esito del processo e preoccupati che le famiglie ricevessero almeno una giusta riparazione economica.

Il giudizio sulle vedove si è nel corso del tempo attenuato; nella percezione comune oggi esse appaiono come il soggetto che dovette farsi carico della sopravvivenza della famiglia. A rivelarsi, a distanza di anni, sono la debolezza della loro condizione sociale e, a un’analisi più attenta, lo sforzo e l’estrema difficoltà di tenere insieme il nuovo – la scoperta della dimensione politica – e la rilevanza dei compiti di cura e degli affetti. Si è detto di come la categoria del maternage di massa non spieghi fino in fondo la scelta delle donne di lottare al fianco dei minatori; paradossalmente, però, fu proprio la maternità tout court a riportare l’azione di queste donne negli argini del domestico, fuori dall’arena pubblica.

La lenta smobilitazione della miniera, fino alla chiusura definitiva  nel 1959, e l’emigrazione in cerca di lavoro di molte famiglie determinarono la graduale perdita di vigore dell’associazione femminile: in definitiva lo scoppio del grisou ridefinì l’identità politica e sociale del villaggio, distruggendo simbolicamente i riferimenti culturali e il terreno di valori comuni sul quale il movimento femminile si era radicato ed era cresciuto. Nato intorno alla miniera, intorno ad essa si spense.