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Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.




Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.




La profuganza tra I e II guerra mondiale

Il Novecento, il secolo caratterizzato da due conflitti mondiali che, nell’arco di 30 anni, sconvolsero le nazioni e le popolazioni europee, fu anche il secolo della profuganza, dal momento che le guerre causarono importanti trasferimenti di civili che interessarono tutta l’Europa.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, infatti, si verificò un immane spostamento di popolazioni che furono costrette dai Trattati di pace e dalle conseguenti ridefinizioni dei confini ad abbandonare i propri territori, per reintegrarsi in altri paesi. Dal Confine orientale, dall’Istria in particolare, giunsero in Italia circa 300.000 esuli giuliano-dalmati che, tra il 1943 e la fine degli anni ’50, abbandonarono le località di origine per trovare accoglienza nel nostro paese.

 In fuga da Caporetto

In fuga da Caporetto

Non molti anni prima, al tempo della Grande Guerra, si era verificato un analogo allontanamento di uomini, ma soprattutto di donne e bambini, dai paesi che si trovavano lungo il confine nord-orientale, che separava il nostro Stato dall’Impero austro-ungarico. Vennero evacuati interi paesi posti in zona di guerra e le popolazioni furono spostate in Austria, se si trovavano a nord della linea di confine, o in Italia, se vivevano a sud.

La riflessione sulla profuganza e sull’esodo che hanno caratterizzato la I e la II Guerra mondiale apre uno spaccato sul dolore di un popolo costretto a provare sentimenti quali l’abbandono, lo spaesamento, il traumatico distacco da ciò che aveva caratterizzato fino a poco tempo prima il loro vivere quotidiano. Tale riflessione ci permette di cogliere analogie e differenze tra le due esperienze.

Le zone interessate dai due esodi sono in parte le stesse: è dal Confine orientale, in particolare dall’Istria, che a partire dal 1943 iniziò l’esodo dei giuliano-dalmati, mentre il I Conflitto mondiale, con la sua guerra di trincea combattuta lungo tutto il confine nord-orientale, coinvolse nella profuganza, oltre al Friuli, anche il Veneto e il Trentino.

Ciò che fece realmente la differenza, oltre ai numeri (più di 600.000 profughi quelli della I Guerra mondiale, circa 300.000 gli esuli della II), furono le motivazioni che portarono migliaia di persone in Italia come luogo.

Nel corso della Grande Guerra le evacuazioni dai territori interessati dal conflitto furono predisposte dalle autorità italiane e da quelle austriache per motivi legati alla sicurezza delle popolazioni, ma anche per la necessità di garantire ai comandi militari libertà d’azione, nonché per la diffidenza nei confronti dei civili. Se da parte italiana si temeva il lealismo degli abitanti della Venezia Giulia nei confronti della monarchia asburgica, da parte austriaca si temevano i sentimenti filoitaliani di buona parte della popolazione.

Profughe, loro malgrado, queste popolazioni furono indirizzate e accolte in molte città italiane, da cui ripartirono alla fine della guerra per ritornare nelle loro terre di origine.

Diverso l’esodo che si verificò, a partire dal 1943, dalle terre poste al Confine orientale.

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947 © Archivio Storico della Città di Torino

Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova a Torino, febbraio 1947
© Archivio Storico della Città di Torino

In questo caso la popolazione non dovette rispondere a nessun decreto di espulsione o a nessun piano di evacuazione che la costringesse a lasciare Pola, Trieste e le altre città dell’Istria. La guerra, in queste terre, generò violenze inaudite, nate e perpetrate all’interno delle stesse comunità in cui convivevano da anni italiani e slavi. Gli infoibamenti del 1943 e soprattutto quelli del 1945, dopo l’arrivo dell’esercito di Tito, caratterizzarono un periodo in cui venne applicata su vasta scala la pratica del terrore, volta a cancellare ogni traccia della presenza istituzionale italiana sul territorio.

Ebbero così inizio i primi esodi di massa da Fiume, a cui fece seguito l’esodo dei quasi 30.000 abitanti di Pola. Anche in questo caso la meta immediata degli esuli fu l’Italia, ma non sempre il loro inserimento nelle nuove realtà fu possibile da realizzarsi con la necessaria serenità, a causa anche delle condizioni materiali del nostro paese, devastato in ogni senso dal conflitto appena terminato.

Un filo rosso congiunge la I e la II Guerra mondiale, attraverso questo fenomeno della profuganza/esodo.

Fu con la Grande guerra, infatti, che città come Gorizia, Trieste, Fiume e tutta l’Istria entrarono a far parte del Regno d’Italia e con esse una pluralità di popoli, lingue, culture e religioni. Fu il fascismo che, con la sua politica deslavizzante e fortemente nazionalizzatrice, approfondì la frattura tra l’elemento slavo e quello italiano. Fu la seconda guerra mondiale, con il gioco delle varie ingerenze politiche che si svolse a fine guerra sulla zona del Confine orientale, che portò agli estremi una ormai insanabile frattura che causò, come risposta alla politica slava decisamente anti-italiana, l’esodo di migliaia di italiani che abbandonarono le loro terre e tutti i loro beni per affermare la propria italianità.

Pochi di questi esuli tornarono nelle loro terre, loro italiani non potevano e non volevano riconoscersi nella Jugoslavia di Tito che, così come il fascismo nei confronti degli slavi anni prima, aveva fatto propria una politica di intolleranza nei confronti dell’elemento italiano.

Profughi, dunque, quelli della I Guerra mondiale, costretti da decisioni militari a lasciare le loro terre a cui fecero poi ritorno.

Esuli quelli della II Guerra mondiale, liberi di rimanere nelle terre di origine a costo della privazione della loro italianità e che per scelta esercitarono il diritto di opzione. Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva infatti il ricorso al diritto di opzione: optare significò scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significò di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significò in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo, per non tornare più nelle loro terre.




CONFINI DIFFICILI

«Il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale…» come recita il titolo della legge istitutiva del marzo 2004, fa parte di quel calendario civile della nostra Repubblica che ormai si è consolidato all’interno dell’insegnamento della storia contemporanea nella scuola, calendario che nel suo insieme, si pensi anche al “Giorno della memoria”, racchiude in sé temi e problemi sia di carattere storiografico che di didattica della storia.

La rete degli istituti storici della resistenza non si è sottratta all’impegno che l’istituzione del Giorno del Ricordo richiedeva e tutt’ora richiede in termini di ricerca storica, di approfondimento dei canoni interpretativi e di mediazione didattica. Di conseguenza,un approccio alle vicende del Confine orientale non celebrativo ma la costruzione di una tappa di conoscenza che, depurata dall’insidiosa tendenza all’assolutizzazione di chiavi emotive e a semplificatorie focalizzazioni chiuse in ambiti cronologici ristretti, si avvalga di modelli esegetici e di ricostruzioni storiche di lungo periodo dove le drammatiche e dolorose vicende delle foibe e degli esodi siano inserite in un contesto di storia dell’Europa, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Non è un caso se, nell’ottobre dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge, si svolgeva a Torino un Corso di formazione per insegnanti e formatori sulla Storia della Frontiera Orientale, promosso dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia con l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste e con l’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Torino, primo momento di messa a punto e di verifica di un approccio di lungo periodo come si evince dal titolo del volume che ha raccolto gli atti di quell’evento (Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009). Ma il Confine orientale come laboratorio per la storia del Novecento con tutte quelle implicazioni sulla formazione dei docenti e di didattica sul campo che lo strumento laboratorio comporta, non può essere compreso senza far riferimento al lavoro pionieristico dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia che ben prima del 2004 si è impegnato sul terreno della promozione della ricerca, dell’attività editoriale nonché del rapporto con la scuola coniugando sul proprio territorio il nesso tra memoria, conoscenza storica e i luoghi che ne contengono le tracce (si veda il sito http://www.irsml.eu/ e per completezza dell’informazione anche il sito dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine: http://www.ifsml.it/blog2/ ).

La condivisione di iniziative e di contenuti, tratto peculiare della rete degli istituti, è stato il presupposto che ha generato l’impegno dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana su queste tematiche, impegno stimolato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea che nella nostra regione ha svolto un ruolo di apripista con un viaggio di studio ‘intorno al confine orientale’ nel 2009, preceduto da un intenso lavoro di preparazione iniziato nel 2005 (cfr.:Luciana Rocchi, La nostra storia e la storia degli altri: viaggio intorno al Confine Orientale, in Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Torino, Edizioni SEB 27, 2012).

Il Progetto Confini difficili. Storia e memorie del ‘900. Da Trieste a Sarajevo – partito, per la prima volta, nell’anno scolastico 2011-2012, proseguito negli anni successivi e tuttora in corso – non può essere compreso se non si tiene conto dell’esperienza maturata e del patrimonio comune prodotti dalla rete degli istituti attraverso una molteplicità di iniziative, di progetti, di strumenti didattici in circa un decennio e nasce dall’incontro tra l’ISRT e l’associazione culturale “pAssaggi di Storia” con lo scopo di proporre un percorso tematico e didattico per gli insegnanti delle scuole superiori del territorio fiorentino e toscano sulla storia e le memorie di alcuni confini difficili del secolo scorso per sostenere una cultura di pace e di dialogo. Si articola in un ciclo di lezioni, di cui per comprenderne l’importanza si elencano i titoli delle lezioni previste per marzo, aprile, maggio 2015: Balcani, stratificazioni storiche: lingue, religioni, nazioni; Proposte didattiche oltre i confini identitari aestovest; La seconda guerra mondiale tra Italia e Jugoslavia; La questione nazionale nella Jugoslavia socialista 1945–1991; Le guerre jugoslave 1991-1995, e in un viaggio-studio come riflessione e approfondimento della storia del territorio che va da Trieste a Sarajevo con particolare accento sulla questione delle memorie divise presenti nelle narrazioni del ‘900. Il prossimo viaggio, nel settembre 2015, toccherà, i seguenti luoghi: Gonars, Gorizia, Basovizza (Friuli Venezia Giulia); Lubiana (Slovenia); Jasenovac-Donja Gradina (Croazia e Bosnia Erzegovina); Prijedor, Kozara, Sarajevo (Bosnia Erzegovina).

La possibilità di conoscere direttamente i partner in Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina rappresenta un’opportunità per l’ISRT intenzionato ad allargare le collaborazioni anche a livello internazionale e per le scuole coinvolte interessate a conoscere queste realtà; quindi entra in gioco anche una valenza di scambio e cooperazione internazionale tra istituti di ricerca e associazioni che si occupano di storia e memorie.

Dopo il viaggio è previsto un convegno storico-didattico – si riportano i temi oggetto di quelli degli anni passati: Gli esodi forzati di popolazione in Europa centrale e in alto Adriatico alla metà del XX secolo (2012); Confini, identità, violenze in alto Adriatico e nei Balcani nel lungo XX secolo (2013); Nazioni in guerra, guerra in Europa. Da Sarajevo a Sarajevo: tra alto Adriatico e Balcani occidentali 1914-2014 (2014); L’alto Adriatico tra guerra e pace nel Novecento europeo (2015), destinato alla scuole e aperto alla cittadinanza. che rappresenta l’occasione per i docenti partecipanti al progetto di riportare, attraverso i materiali raccolti e rielaborati, le proprie riflessioni sulle tematiche affrontate e con il coinvolgimento attivo degli studenti delle proprie classi. L’incontro si caratterizza, infatti, non solo per la presenza di storici specialistici di queste tematiche che approfondiscono ulteriormente i temi già affrontati nel ciclo di lezioni ma per la presentazione dei lavori da parte degli studenti stessi ed è anche occasione per informare e coinvolgere nel progetto altri insegnanti.




Le agitazioni mezzadrili “bianche” del 1919 in Val di Pesa e il “Patto di S. Casciano”

Tornati dalla guerra, avevamo domandato per noi e per le nostre famiglie, alcune modificazioni al vigente contratto di Mezzadria, che senza alterarlo nelle sue linee fondamentali, erano richieste per togliere alcune ingiustizie e per riconoscere un po’ le nostre maggiori fatiche. Era sperabile che i proprietari accettassero. Invece, (…) hanno dimostrato, con indugi, con negative, con ostruzionismi, di non volere accontentarci (…). Di fronte a questo contegno, i contadini hanno dovuto prendere delle decisioni radicali per ottenere il loro intento. [«La Libertà», 14 settembre 1919]

Così, in un manifesto del 12 settembre 1919, il consiglio direttivo dell’Unione Mezzadri di San Casciano Val di Pesa proclamava l’agitazione fra i coloni dell’omonimo mandamento in segno di protesta per la mancata risposta dei proprietari alle richieste di modifica del patto colonico loro avanzate. Al pari di quanto stava accadendo a partire dall’estate del 1919 nel resto della provincia fiorentina, anche i mezzadri della Val di Pesa, scossi dalle profonde trasformazioni che sul piano sociale, economico e mentale l’esperienza bellica aveva loro suscitato, avevano iniziato una serrata mobilitazione sindacale allo scopo di migliorare le proprie condizioni contrattuali di lavoro e di vita che la guerra aveva sicuramente peggiorato.

All’uscita dal primo conflitto mondiale, infatti, il mondo mezzadrile toscano, oltre che colpito dalle rilevanti perdite umane conseguenti alla chiamata alle armi dei contadini, era stato seriamente affetto dalle ripercussioni negative dell’economia di guerra. Se l’aumento generale dei prezzi sul mercato agricolo era sembrato portare alcuni vantaggi nei redditi dei mezzadri, questo miglioramento in realtà era parso più nominale che reale: al termine della guerra l’aumento del prezzo delle derrate prodotte dai contadini si mantenne infatti inferiore a quello dei beni che essi erano costretti ad acquistare (carne, filati, carburanti ecc), mentre gli effetti dell’aumento del prezzo del bestiame e del vino andarono a vantaggio esclusivo della classe padronale e proprietaria, già beneficiata dal buon andamento generale del mercato e dall’aumento del valore fondiario. Dopo la guerra, a rendere ancor più negative le condizioni economiche dei contadini toscani e più profondo lo squilibrio esistente tra capitale e lavoro contribuì anche il carattere capestro degli stessi contratti mezzadrili, dovuto in particolare alla sopravvivenza di clausole angariche (i cosiddetti “patti accessori” che addossavano alla manodopera contadina il costo e l’esecuzione di alcuni lavori nei campi) nonché dai non rari abusi compiuti dalla proprietà nella ripartizione delle percentuali di prodotto spettanti al mezzadro; abusi e vincoli spesso inaspritisi negli anni del conflitto e che adesso divenivano oggetto critico delle rivendicazioni contadine. E in effetti, almeno in una prima fase, anziché verso una radicale revisione del contratto colonico tout court, il movimento contadino puntò più alla modifica di alcune clausole coloniche in direzione dell’attenuazione o dell’abolizione integrale dei patti accessori e a favore di una più equa ripartizione delle spese di gestione dei fondi tra capitale e lavoro.

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L’aratura (Archivio “La Porticciola – S. Casciano)

Protagoniste di questa prima fase di agitazione in tutta la provincia di Firenze furono le organizzazioni cattoliche che si mobilitarono persino con qualche margine di anticipo sulla loro controparte socialista delle leghe rosse. Nell’alveo di una tendenza a federarsi in organismi sovralocali, anche le unioni e le leghe contadine cattoliche del fiorentino diedero vita ad un organo unitario: il 1° giugno 1919 a termine di un’assemblea tenutasi a Sesto Fiorentino si costituì infatti la Federazione Mezzadri e Piccoli Affittuari di Firenze, di ispirazione cattolica. Presieduta dal colono Felice Bacci, la Federazione risultò strettamente legata al Partito Popolare Italiano e alle sue strutture fiorentine, come segnala in particolare l’attività che vi svolse in qualità di consulente legale l’avvocato, poi deputato, Mario Augusto Martini, già presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, tra i fondatori e primo presidente della sezione fiorentina del partito, nonché referente della questione mezzadrile per l’intero movimento. Nell’estate del 1919, dopo che agitazioni di contadini si erano sollevate in alcuni comuni della provincia, fu appunto la Federazione Mezzadri che per prima cercò di porsi alla guida del movimento. Falliti i primi tentativi di interessare alle richieste di riforma del patto mezzadrile i singoli proprietari, la Federazione si rivolse alla neocostituita Associazione Agraria Toscana, organo di categoria degli agrari, intavolando con questa a partire dal 22 luglio 1919 una serie di colloqui attorno alla discussione di un memoriale contenente le principali richieste di parte colonica. I colloqui tra le due rappresentanze si protrassero sino al 7 agosto 1919, giorno nel quale fu raggiunto un accordo anche sugli ultimi due articoli maggiormente discussi, riguardanti l’indennità sulla solforazione e la frangitura delle olive. Il concordato così siglato, detto “Concordato di Firenze” composto di 19 articoli stabiliva tra l’altro: l’abolizione dei tanto invisi patti accessori (“e in genere di ogni prestazione di opera gratuita a favore del proprietario”, art. 8), la divisione a metà tra padrone e contadino delle spese per gli anticrittogamici e le solforazioni eseguite, il carico totale spettante al proprietario delle spese di frangitura e di trebbiatura a macchina e la definizione di un prezzo per tutte le opere prestate dal colono al proprietario “sia fuori del podere, sia, per scopi non derivanti dall’obbligo del contratto, nel podere” (art.12). Infine, all’articolo 1, si sanciva da parte padronale il “riconoscimento della Federazione Provinciale Mezzadri e Piccoli Affittuari e Unioni aggregate come rappresentanti della classe colonica da esse organizzata e riconosciuta”. Salutato con soddisfazione da parte della Federazione Mezzadri, il concordato di Firenze fu però presto disatteso dalla stessa Agraria che, poco dopo la ratifica, cominciò ad avanzare alla controparte nuove richieste e obiezioni, in modo tale che l’accordo fu di fatto inapplicato.

Venuto meno questo tentativo di contrattazione collettiva, la vertenza contadina ridiscese sul piano locale, nel tentativo di raggiungere con gli agrari accordi validi a livello municipale o mandamentale. Fu in questa fase che l’agitazione mezzadrile in Val di Pesa si distinse per portata e organizzazione. Si trattava di un’area a tradizionale vocazione rurale caratterizzata dalla generale preponderanza della manodopera mezzadrile ma anche dalla diffusa presenza di una grande possidenza terriera: a titolo d’esempio, nell’immediato primo dopoguerra nel comune di S. Casciano si potevano contare 971 famiglie contadine, delle quali 839 erano famiglie di mezzadri, a fronte di 117 famiglie di camporaioli e di 15 coltivatori diretti. Per di più, la gran parte di queste famiglie mezzadrili dipendevano dai grandi sistemi di fattoria locali: basti pensare che i 20 principali proprietari terrieri del comune (tra i quali le grandi famiglie nobiliari dei Corsini, Antinori, Mazzei, Ganucci Cancellieri, Serristori ecc) avevano alle loro dipendenze 512 famiglie mezzadrili delle 839 esistenti nel comune negli stessi anni. Una sensibile presenza mezzadrile, dunque, ma anche un significativo peso della classe padronale caratterizzavano queste campagne.

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Giovanni Chiostri rappresentante dei possidenti agrari della Val di Pesa (da “Il Giornale d’Italia” 12 novembre 1919)

Come nel resto della provincia, anche nella Val di Pesa e nel mandamento di San Casciano, la mobilitazione dei mezzadri a partire dall’estate del 1919 era stata portata avanti dal movimento delle leghe bianche legate al neonato Partito Popolare Italiano. Anche qui, in verità, in un primo tempo era stata percorsa la strada dell’accordo individuale tra contadini e padroni, senza successo. Il 16 luglio, ad esempio, intervenendo ad un’adunanza di un centinaio di mezzadri a Montagnana Val di Pesa, Enrico Frascatani, segretario della Federazione dei Mezzadri fiorentina, aveva spiegato che se sin lì l’agitazione nell’area era “abortita” lo si doveva appunto al fatto che le richieste ai padronati erano state presentate “dai singoli contadini disorganizzati e…disorientati”. Adesso, beneficiando delle nuove strutture del movimento cattolico, l’agitazione era in grado di darsi un’organizzazione più formale. A San Casciano, non a caso, la locale Unione Mezzadri nacque per iniziativa diretta della neonata sezione locale del Partito Popolare Italiano e in particolare grazie all’attività svolta in essa da Primo Calamandrei, un negoziante di “fantasie floreali” già consigliere comunale. Il 27 luglio la direzione del partito organizzò una prima riunione tra tutti i mezzadri del comune nella quale presero parola il colono Antonio Bazzani e il segretario della Federazione Mazzadri, Frascatani. All’occasione, fu letto, discusso e approvato il memoriale che in quei giorni la Federazione stava discutendo con l’Agraria; dopodiché allo scopo di costituire la locale Unione Mezzadri fu nominata una commissione composta da 15 coloni rappresentanti le principali frazioni del comune. L’Unione Comunale Mezzadri di San Casciano si costituì formalmente nell’adunanza successiva del 3 agosto, eleggendo i propri organismi nelle persone di Antonio Bazzani (Presidente), Corti Leopoldo (Vice Presidente), Secci Sestilio (Segretario), Alessandro Crociani (Cassiere). Dopo la mancata applicazione del Concordato di Firenze siglato il 7 agosto tra Federazione e Agraria, come detto la battaglia per l’accettazione del nuovo patto in tutta la provincia passò sul piano municipale. L’Unione Mezzadrile di San Casciano, preso contatto con alcuni proprietari del comune, convocò un’adunanza generale dei mezzadri per il 31 agosto alla quale intervennero Mario Augusto Martini e di nuovo Enrico Frascatani. Constatata però l’assenza dei proprietari del comune precedentemente invitati, fu approvato un ordine del giorno col quale si fissava al 5 settembre il termine ultimo perché questi facessero pervenire per iscritto la loro adesione alle richieste. Da parte padronale non vi furono però risposte, tanto che una successiva adunanza dei mezzadri sancascianesi fu convocata il 7 settembre, con la partecipazione dei soliti Martini e Frascatani e del deputato cattolico Tommaso Brunelli. Constatata ancora una volta l’assenza dei rappresentanti della controparte padronale, si decise a decorrere dall’11 settembre di iniziare l’agitazione fra i coloni come protesta per la mancata risposta dei proprietari.

calamandrei primo 20.7.1874 - 17.2.1954

Primo Calamandrei, leader del PPI a San Casciano e promotore dell’agitazione mezzadrile nell’estate del 1919 (Archivio “La Porticciola” – S. Casciano)

Il 12 settembre, a sciopero iniziato, tutti i coloni del comune si riunirono presso il teatro Niccolini di San Casciano dove ancora Martini e Frascatani presero la parola. Considerata la tensione di quella seduta, dovuta in parte all’elevato numero degli intervenuti (circa 3.000) in parte ai reiterati silenzi degli agrari, non sorprende che venisse votato dall’assemblea un ordine del giorno piuttosto radicale col quale, rilevato che “il contegno del ceto proprietario offende e conduce a rendere impossibili nel frattempo i rapporti sociali del contratto di mezzadria”, si decideva di sospendere provvisoriamente la validità del contratto mezzadrile finché non fosse stato raggiunto un accordo. Quindi si stabiliva che a partire dal 14 settembre le famiglie coloniche avrebbero prestato la loro opera nei rispettivi poderi “a salario”, pagabile in contanti settimanalmente (15 lire al giorno per gli uomini, 10 per le donne) e secondo un orario di lavoro giornaliero di 8 ore (dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18). A fronte di simili richieste e con il proseguire nei giorni seguenti di altre manifestazioni coloniche, i proprietari acconsentirono a una trattativa con l’Unione Mezzadri di S. Casciano.

Tra il 17 e il 18 settembre alla presenza del Prefetto di Firenze De Fabritiis e con la partecipazione dell’avvocato Giovanni Chiostri, consigliere provinciale per il mandamento di San Casciano e anch’esso grande possidente, si incontrarono così la Commissione dei proprietari sancascianesi (composta dal commerciante Guido Ciappi, dal conte Lorenzo Guicciardini, dal marchese Emanuele Corsini, dall’avvocato Ganucci Cancellieri, dal dottor Gino Ciofi, dai signori Zanobini e Squilloni e dal dottor Burroni) e quella dei contadini (composta da Felice Bacci, Enrico Frascani, Mario Augusto Martini per la Federazione Mezzadri, da Antonio Bazzani Presidente dell’Unione Mezzadri di San Casciano e dai coloni Vittorio Camiciotti, Liberato Giachi, Olinto Galanti, Raffaello Nardini, Luigi Callaioli, Fortunato Pecciolini, Matteuzzi). Dall’incontro uscì un concordato di 17 punti noto col nome di “Patto di San Casciano” (vedi in “documenti dalle fonti”). Si trattava di un testo che riprendeva espressamente il contenuto del concordato di Firenze al quale si richiamava negli articoli riguardanti l’abolizione dei patti accessori, la divisione a metà delle spese per gli anticrittogamici e il carico di quelle di frangitura e di trebbiatura sul proprietario. Unica differenza sostanziale risultava l’omissione del contenuto dell’articolo primo del concordato di Firenze che sanciva da parte padronale il formale riconoscimento della Federazione dei Mezzadri come rappresentante della classe colonica. Era questo il punto attorno al quale si erano concentrate le principali resistenze dei proprietari e a causa del quale forse lo stesso concordato di Firenze non era stato applicato da parte padronale. Al principio della contrattazione collettiva sostenuto dalla Federazione Mezzadri, i proprietari e l’Agraria contrapponevano infatti il diritto alla contrattazione individuale con ciascun colono. In effetti, anche durante l’agitazione dei mezzadri sancascianesi, i proprietari del comune avevano ripetutamente cercato di aggirare i propositi di risoluzione collettiva dello sciopero tentando di accordarsi con i propri coloni. Ciononostante, alla fine, il 20 settembre 1919 l’avvocato Giovanni Chiostri in rappresentanza dei proprietari del mandamento di San Casciano ed Enrico Frascatani per la Federazione Mezzadri firmarono il testo del Patto di San Casciano. L’avvenimento venne festeggiato nuovamente con una grande manifestazione pubblica al Teatro Niccolini di San Casciano nel corso della quale parlarono Felice Bacci, Mario Augusto Martini ed Enrico Frascatani.

Benché poi di fatto disatteso, anche a seguito dell’ulteriore evoluzione che l’agitazione mezzadrile assunse in tutta la provincia nel corso dell’anno successivo, il Patto di San Casciano avrebbe avuto ciononostante sensibili ripercussioni. Sul piano municipale anzitutto, esso rilanciò il peso del nascente movimento cattolico e del PPI, il quale a San Casciano, in occasione delle elezioni amministrative del 1920, ottenne la maggioranza ed espresse a sindaco del comune Primo Calamandrei, l’iniziatore dell’organizzazione cattolica contadina locale. In secondo luogo, sul piano delle rivendicazioni coloniche, il patto di San Casciano, benché in sostanza riproponesse il contenuto del concordato fiorentino del precedente agosto, in quanto scaturito da uno sciopero assunse una valenza di portata provinciale nella prima fase del movimento di riforma dei contratti colonici. Di fatto, come più tardi avrebbe ricordato lo stesso Mario Augusto Martini nel suo Le agitazioni dei mezzadri in provincia di Firenze (1921), il testo del patto di San Casciano formò la base di tutti gli altri concordati locali che in molti comuni della provincia fiorentina furono conclusi dall’organizzazione bianca nell’autunno del 1919, i quali, salvo poche eccezioni, ad esso si rifecero sostanzialmente.




13 aprile 1921: l’assassinio di Carlo Cammeo, segretario della Federazione socialista di Pisa

A Porta Nuova, in via Contessa Matilde sull’edificio della Circoscrizione n. 6, è posta una lapide che porta il seguente testo:

“Per sicaria mano fascista / cadeva assassinato / il 13 aprile 1921 / Carlo Cammeo / glorificando col sangue / la santità della scuola / e la sua fede nell’idea socialista / la giunta municipale di Pisa / all’alba della libertà / interpretando i sentimenti della cittadinanza”.

L’edificio in cui è murata la lapide è l’ex scuola dove insegnava Carlo Salomone Cammeo (nato a Tripoli il 6 maggio 1897) e dove fu assassinato. La via che oggi dall’incrocio di Porta Nuova si congiunge a Piazza Manin è dedicata al militante socialista e, dove è sepolto Cammeo – ebreo e ateo –, sul monumento funebre è incisa una falce e martello su di un libro aperto, caso unico per il cimitero israelitico. A parte la strada, la lapide e la tomba con i suoi simboli, oggi a Pisa resta ben poca cosa della memoria di Cammeo. All’epoca dei fatti il suo nome però era ben conosciuto e nonostante la giovane età aveva alle spalle già un discreto curriculum vitae, tanto da ricoprire ruoli importanti ai vertici del Partito socialista. La sua tragica morte segnò una svolta nella storia politica e sociale della città della torre pendente, che fu contrassegnata negli anni seguenti dall’affermarsi della violenza fascista e statale contro il movimento dei lavoratori e le sue organizzazioni politiche.

La guerra civile scatenata dai fascisti, con la complicità di buona parte delle forze dell’ordine dello Stato liberale, fu una risposta politica e militare alle lotte del “Biennio rosso” (1919-1920). Il primo dopoguerra fu caratterizzato da una grande partecipazione popolare, spesso spontanea, alle lotte di rivendicazioni salariali e sociali. Si era creato un clima diffuso di attesa per un cambiamento radicale della società, si aspettava l’esplodere della rivoluzione, com’era successo in Russia nel 1917 e questo aveva fortemente intimorito le classi dirigenti che sembravano impotenti a contrastare tale movimento. La nascita del fascismo toscano, la riorganizzazione delle organizzazioni padronali e la ripresa su vasta scala della repressione statale coincise con il declinare dell’iniziativa politica delle forze della sinistra che non seppero cogliere l’occasione per dare una svolta al paese. La violenza fascista e statale aprì un periodo, che per numero di vittime e di distruzioni, potremmo definire il “Biennio nero” (1921-1922) e che segnò la fine della democrazia liberale.

La Toscana nei primi mesi del 1921 fu attraversata da uno scontro violentissimo tra le squadre di fascisti, organizzate soprattutto dalla direzione fiorentina del movimento, e le forze della sinistra, anarchici, comunisti, socialisti e sindacalisti. Angelo Tasca in un suo noto volume sulla nascita del fascismo afferma che nei primi sei mesi del 1921 in Toscana furono distrutti 137 edifici: 11 case del popolo, 15 camere del lavoro, 11 cooperative, 70 circoli socialisti e comunisti, 24 circoli operai e ricreativi, 2 società mutue, 1 sindacato operaio e 3 redazioni di periodici.

Pisa non fu esente da quest’ondata di violenza. Il fascismo locale, riorganizzatosi da poco dopo una prima infruttuosa esperienza, guidato dal capitano Bruno Santini, ex ardito di guerra originario di Carrara, aveva raggiunto la notorietà all’inizio del 1921 con l’attacco alla nuova Giunta provinciale guidata da Ersilio Ambrogi socialista – poi comunista –. Il fascismo trovò consensi fra gruppi di studenti, ex militari, liberi professionisti, esponenti delle forze dell’ordine – soprattutto carabinieri – e giovani esponenti delle principali famiglie benestanti tra cui alcuni della comunità ebraica.

Il 25 marzo 1921 da Pisa una squadra di fascisti parte dirigendosi a Lucca e precisamente a Ponte a Moriano. Scopo della missione è di dar man forte ai camerati locali per togliere dalla sede del circolo ricreativo socialista il simbolo dei “soviet”, cioè la falce e martello. L’obiettivo è raggiunto ma gli operai avuta notizia del fatto corrono in paese e i fascisti si danno alla fuga; alcuni di loro rimangono staccati dal gruppo principale a causa di un guasto all’autocarro su cui viaggiano e ben presto vengono circondati dagli operai. Nasce una rissa e alla fine a terra rimane ferito mortalmente il fascista pisano Tito Menichetti. Sulla dinamica della sua morte ci sono versioni discordanti, il processo, che si tenne un anno dopo i fatti, individuò come unico responsabile il ferroviere Giuseppe Neri, originario di Castagneto Carducci, che subisce una condanna a 17 anni e 7 mesi di reclusione.

Pisa venne listata a lutto, un manifesto fascista invitava allo scontro:

“Cittadini. Si muore per voi. Si muore per salvare la nostra Italia travagliata dalla rovina e dal terrore ove tentano di trascinarla i folli criminali del comunismo e dell’anarchia per ricondurla sulla via della pace e del lavoro. Fascisti! Il corpo sanguinante di un’altra giovane vita si frappone fra noi ed i nostri nemici. Nessuno pianga. Nessuno si pieghi di fronte alla bara. Tutti in piedi! Con la fronte alta giuriamo. Tito Menichetti sarà vendicato! Senza pietà!”.

Lo stesso Bruno Santini durante i funerali incita pubblicamente alla vendetta.

Carlo_CammeoCarlo Cammeo scrisse un articolo sul settimanale socialista pisano «L’Ora nostra» del 1° aprile 1921, in risposta alle minacce fasciste, nel quale si richiamavano le responsabilità di chi, sulla morte di Tito Menichetti, stava imbastendo una “indegna speculazione patriottica”. È un j’accuse che espone il giovane socialista alla reazione fascista, che non si farà attendere. Un nuovo articolo di Cammeo, uscito sul numero successivo del settimanale, nel quale si ironizzava sulla partecipazione di alcune donne alle marce fasciste, fa scattare la vendetta fascista: la mattina del 13 aprile Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti raggiungono la scuola dove sta insegnando Cammeo e con una scusa lo invitano ad uscire dalla classe. Il maestro appena raggiunto il cortile è fatto segno di due colpi di pistola, sparati dal fascista Elio Meucci, cade a terra esangue, di fronte ai bimbi terrorizzati, mentre il gruppo di fascisti si dilegua repentinamente.

L’autore dell’assassinio è uno studente di farmacia dell’Università di Pisa mentre le due donne sono figlie di alti ufficiali del distaccamento militare. In particolare la Lupetti, che pochi mesi dopo per i suoi meriti sarà nominata segretaria del fascio femminile, è figlia del comandante del presidio militare. I fascisti responsabili della morte di Cammeo, grazie alla complicità delle autorità e all’interessamento del sottosegretario alla giustizia Arnaldo Dello Sbarba, saranno tutti prosciolti dall’accusa di omicidio. Le coperture di cui beneficia il gruppo di fuoco rappresentano la testimonianza dell’intreccio che da subito s’instaura fra i gruppi di fascisti locali, le autorità militari e quelle di carabinieri e guardie regie. Questo stretto rapporto è testimoniato anche dal prefetto di Pisa De Martino che in una missiva del 21 aprile al presidente del consiglio Giolitti testimoniava questa complicità.

Le organizzazioni della sinistra pisana – la Federazione prov.le socialista, il Gruppo comunista, la Camera del lavoro confederale (CGdL), la Camera del lavoro sindacale (USI), i Sindacati ferrovieri, la Lega Proletaria e l’Unione anarchica pisana – firmano un manifesto di condanna dell’assassinio di Carlo Cammeo e proclamano due giorni di sciopero generale.

I funerali di Cammeo sono imponenti per partecipazione popolare e di associazioni, alcuni esponenti politici prendono la parola, tra gli altri il segretario della Camera del lavoro (CGdL) Giuseppe Mingrino, il socialista Amulio Stizzi, il repubblicano Italo Bargagna e l’anarchico Gusmano Mariani. Questa volta sono funerali di classe, proletari, a rimarcare ormai il netto distacco tra il movimento operaio organizzato da una parte e lo Stato e le forze reazionarie dall’altra.

 




Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.




19 marzo 1922. L’uccisione di Comasco Comaschi

Il 19 marzo 1922 Comasco Comaschi, anarchico cascinese e maestro ebanista, è fermato sul Fosso Vecchio mentre è in calesse di ritorno insieme a tre compagni da una riunione a Marciana e ucciso con armi da fuoco in un agguato fascista.

Comasco Comaschi era nato a Cascina il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi. Comasco nella sua formazione politico-sociale è influenzato dal contesto cittadino, dove l’economia si basa sulla presenza di piccoli artigiani del legno e l’associazionismo operaio si è rivelato vivace e attivo sin dall’Unità d’Italia, e dal padre, che milita nel movimento anarchico fin dagli anni ottanta dell’800. Comaschi è dunque tra i promotori della locale sezione della Pubblica Assistenza e stimato insegnante alla Scuola d’arte di Cascina. Sotto la sua guida il gruppo anarchico di Cascina è molto attivo.

D’altra parte dopo gli anni del Biennio rosso, lo scontro con i membri delle squadre fasciste è divenuto molto forte. Numerose sono infatti le violenze e le uccisioni che gli squadristi realizzano nel 1921. La prima è quella di Enrico Ciampi, fondatore a Barca di Noce della prima sezione pisana del Partito comunista, che il 4 marzo viene ucciso da un colpo di pistola sparato da Domenico Serlupi, fascista locale, proprio mentre Ciampi si sta dirigendo verso la sua villa a San Casciano, in una dimostrazione antifascista. Domenico Serlupi è protagonista di un’altra delle vicende cascinesi di questo periodo. Il giorno successivo ai fatti di Sarzana del 21 luglio infatti impone a tutte le famiglie della zona di esporre la bandiera a lutto per i morti fascisti. Entrato nella trattoria di Luigi Benvenuti impone la stessa operazione ma, di fronte al fermo rifiuto dell’esercente, gli spara. Ne nasce uno scontro tra i presenti, in seguito al quale sia il Benvenuti, sia il Serlupi rimangono uccisi. La stessa notte quindi gli squadristi di San Frediano si recano alla Chiesanuova, dove si è costituito un gruppo antifascista composto da alcuni giovani. I fascisti hano l’obbiettivo di sfogare la loro rabbia contro il consigliere comunale Bartoli. Non trovandolo però ripiegano verso il figlio Archimede, che viene ucciso con quattro pugnalate e viene gettato nell’acqua, nei pressi del fosso Emissario, mentre è intento ad attaccare le bestie al carro. Il 19 settembre sono invece Corrado Bellucci e Paris Profeti, Segretario della sezione giovanile del Partito socialista di Pontedera, ad essere freddati a bruciapelo, assaliti da squadristi mentre si recano a Cascina ad una manifestazione contro l’arresto del sindaco Guelfi. Le uccisioni dei rappresentanti dei partiti socialisti e dei sindacalisti hanno l’intento di controllare il territorio e portare alla distruzione dell’intera rete associativa proletaria.

Comaschi

Comasco Comaschi

In questo contesto di scontro e violenza politica, Comaschi aveva avuto un ruolo di primo piano, poiché era stato tra gli organizzatori degli Arditi del popolo a Cascina che, secondo Eros Francescangeli, contavano almeno 200 componenti alla metà di agosto 1921, che scendono però presto a una cinquantina, in seguito al giro di vite della fine dello stesso mese, che provoca l’arresto di molti di loro. È proprio in agosto che Comaschi, assieme ad altri compagni, irrompe alla cerimonia di fondazione del Fascio di Cascina, salendo su un palchetto del teatro comunale, sventolando la bandiera nera del gruppo anarchico. Alcuni mesi dopo inoltre difende alcuni suoi studenti dalle minacce fasciste.

L’omicidio di Comaschi era stato inoltre preannunciato da un’altra azione punitiva di cui era stato vittima: circa 40 giorni prima della sua uccisione infatti era stato inseguito da circa 100 fascisti e bastonato. Il fratello Vasco, compreso il pericolo propone a Comasco di emigrare, ma questi rifiuta, rispondendo che non avrebbe voluto lasciare la scuola e che inoltre sarebbe stato da vigliacchi allontanarsi.

Le violenze erano divenute molto gravi, e i fascisti tra 1921 e 1922 si erano molto rafforzati anche grazie alla connivenza con i carabinieri, che consentivano l’illecito porto d’armi dei fascisti, con i quali, come denunciava il capo del gabinetto del Ministero degli Interni il 22 gennaio 1922, in un telegramma al Prefetto di Pisa, “fraternizzerebbero”. [Bertolucci, 2003] Nonostante Comaschi avesse denunciato l’aggressione che aveva subito due mesi prima della notte del 19 marzo, infatti, niente era stato fatto dalle autorità e dal pretore di Cascina.

L’omicidio di Comaschi ebbe un vasto eco nella cittadina, tanto che il giorno successivo Cascina intera è in lutto: viene organizzato uno sciopero spontaneo e i negozi chiudono per lutto cittadino. Il funerale di Comasco è un momento di grande partecipazione, tanto che è stato anche definito l’ultima libera manifestazione prima dell’avvento definitivo del fascismo.

Il giorno successivo all’uccisione di Comaschi i Carabinieri di Cascina iniziano le indagini e arrestano i presunti responsabili dell’omicidio: Pilade Damiani, Giovanni Barontini, Orfeo Gabriellini, Vasco Paoletti, Gaetano Diodati, Antonio e Italiano Casarosa, Francesco Del Seppia e Arturo Masoni. Tutti negano la propria responsabilità nell’omicidio, provvedendo a fornire prove di alibi. Anche alcuni testimoni non hanno il coraggio di denunciarli, per timori di ritorsioni e rappresaglie, così tra il 20 marzo e l’11 luglio tutti gli accusati vengono scarcerati per insufficienza di indizi e successivamente, l’8 novembre 1922 la Corte di Appello di Lucca dichiara non dover procedere per insufficienza di prove.

L’affaire Comaschi doveva però riaprirsi molti anni dopo, alla fine della seconda guerra mondiale, quando si apre la stagione dei conti con il fascismo e quando ai processi per collaborazionismo si affiancano spesso accuse sui crimini dello squadrismo degli anni ’20.

Il 10 maggio 1945 intorno alle ore 19, di ritorno dal Nord, dove aveva fatto parte della GNR a Malarno (Brescia) fino alla liberazione di Bologna, Orfeo Gabriellini viene percosso dalla folla sul Corso Vittorio Emanuele, perché riconosciuto come uno dei responsabili dell’omicidio Comaschi. Il Maresciallo Adolfo Mascolo, di servizio per la vigilanza di sicurezza, sottrae quindi Orfeo Grabriellini alla furia popolare e lo porta in caserma, dove il fascista confessa la propria colpevolezza. In seguito alla nuova denuncia deposta da Vasco Comaschi, fratello della vittima, si apre quindi una nuova istruttoria. Alla fine del processo Orfeo Gabriellini, Dante Bertelli (fino ad allora rimasto fuori dall’elenco degli imputati) ed altri vengono condannati a pene tra i due e i dieci anni, ma ben presto, a seguito della fase di pacificazione siglata con l’amnistia Togliatti, godranno di larghi sconti di pena e dunque saranno scarcerati.

L’uccisione di Comasco Comaschi è una vicenda che è rimasta impressa nella memoria pubblica cascinese: è presente infatti in Piazza dei Caduti per la libertà una statua che lo celebra, un busto in bronzo in cui Comaschi è rappresentato a braccia conserte con atteggiamento risoluto a simboleggiare la decisa scelta antifascista. In occasione del 70° della liberazione saranno inaugurati i “Sentieri della libertà e della Resistenza” con i quali il Comune di Cascina, insieme all’ISREC Lucca, vuole ricordare i luoghi e le persone, tra cui Comasco Comaschi, che si sono opposte al fascismo, sacrificando la propria vita, e permettendo di aprire la strada alla libertà e alla democrazia.