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28 novembre 1944: si scioglie la Divisione Garibaldi Lunense

A tre mesi dalla sua formazione, la Divisione Partigiana Garibaldi Lunense, attiva nel territorio garfagnino e lunigiano ancora sotto occupazione nazifascista, si trova, alla metà di novembre del 1944, di fronte a un bivio: rispettare il proclama Alexander – che chiede la cessazione di operazioni militari su vasta scala – e proseguire in attività di sabotaggio contro le strade e i ponti della Garfagnana, oppure portare fino in fondo un’azione per la quale i preparativi sono in corso già da un mese. Il piano è così descritto dal comandante della 1° Brigata Garfagnina, Abdenago Coli:

trasferire il Comando di Divisione da Monte Tondo a Foce di Careggine, costituire nelle immediate retrovie nemiche una zona partigiana comprendente il territorio del Comune di Careggine e parte del territorio di Castelnuovo Garfagnana, fare affluire nella zona da altri reparti della Divisione gli uomini necessari all’attuazione del piano (i 360 uomini della I Brigata erano pochi per la bisogna), richiedere al Comando Alleato un aviolancio di giorno garantendo la sicurezza della zona, aviolancio che avrebbe dovuto rifornirci di armi, munizioni e vivere in scatola; non appena ottenuto il lancio, tentare lo sfondamento del fronte tedesco con conseguente liberazione della Garfagnana”.

E’ un’idea non soltanto ambiziosa, ma probabilmente pure oltre la capacità militare della Garibaldi Lunense. Per organizzarla, il comandante di Divisione Anthony John Oldham, un ex maggiore dell’esercito inglese fuggito da un campo di prigionia dopo l’armistizio, e il commissario di guerra Roberto Battaglia, già da metà ottobre si sono trasferiti da Monte Tondo a Foce di Careggine. Affinché il tutto possa funzionare, è indispensabile che i partigiani da nord e le truppe alleate da sud agiscano in modo coordinato.

I rischi militari sono evidenti, ma i comandanti della Garibaldi Lunense da un lato sono anche desiderosi di mostrare agli angloamericani il loro potenziale offensivo e, dall’altro lato, attraversano un momento di oggettiva difficoltà: agendo in zona occupata da truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italiana, gli approvvigionamenti alimentari sono problematici, i rifornimenti di armi e munizioni sono molto scarsi e, con l’arrivo dell’autunno, anche le condizioni sanitarie peggiorano giorno dopo giorno. Un’offensiva sul fronte, per quanto difficile, è la carta che viene deciso di giocare.

L’azione prevede che il grosso dei partigiani attivi in Lunigiana si sposti in Garfagnana e, dopo un aviolancio alleato con i rifornimenti necessari, parta un attacco in due punti del fronte, sulle Apuane, nei pressi della Pania Secca, tra Molazzana e Vergemoli: il passo delle Rocchette, a quota 999, e Monte d’Anima, a quota 832. L’aviolancio avviene il pomeriggio del 22 novembre.

Tra il 22 e il 23 novembre, un gruppo di una cinquantina di uomini del 3° Battaglione (soprannominato “Casino” per la quantità e l’efficacia delle azioni) guidati da Giovanni Battista Bertagni coglie di sorpresa un gruppo di bersaglieri aggregati alla divisione San Marco, a quota 999 e li cattura: il varco sulla linea Gotica è aperto e i prigionieri vengono dallo stesso Bertagni consegnati agli americani a Vergemoli; questi però non approfittano della situazione. Così i partigiani devono ripiegare. Ma l’azione li ha convinti che l’impresa è possibile. E così, nella notte tra il 26 e il 27 novembre scatta l’operazione che dovrebbe essere decisiva: Bertagni deve riconquistare la quota 999, un’altra colonna diretta da Oldham ha l’obiettivo del Monte d’Anima, mentre da sud devono arrivare gli alleati.

Va quasi tutto storto.Soltanto Bertagni porta a termine la missione, riconquistando la quota assegnatagli. Gli altri falliscono e gli americani non si muovono come dovrebbero.

Il giorno 28 è chiaro a tutti che il piano non ha avuto buon esito e la sera viene deciso ufficialmente lo scioglimento della Divisione Garibaldi Lunense, per l’impossibilità materiale di continuare a operare nelle condizioni in cui si è trovata nelle ultime settimane: centinaia di partigiani giunti a rinforzo dalla Lunigiana tornano, sbandati, da dove sono venuti; Bertagni si congiunge agli americani e ai Patrioti Italiani dell’XI Zona di Manrico Ducceschi “Pippo” da dove proseguirà la sua lotta partigiana; Oldham, Battaglia, Coli e molti altri attraversano il fronte con l’idea di ricostituire un reparto da sud, ma gli alleati li portano prima a Viareggio e poi a Firenze e per loro la guerra di Liberazione di fatto finisce lì; altri partigiani ricostituiranno due piccole formazioni collegate l’una ai Patrioti Apuani di Pietro Del Giudice e l’altra alle Brigate Garibaldi operanti a Reggio Emilia, compiendo nei mesi successivi azioni di sabotaggio tra i Comuni di Castelnuovo di Garfagnana, Pieve Fosciana, San Romano, Piazza al Serchio e Sillano.

La Garfagnana verrà liberata solamente il 20 aprile 1945.

Feliciano Bechelli si è laureato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca. Giornalista pubblicista, è direttore responsabile della rivista dell’Istituto “Documenti e studi”.




Ilio Barontini. Un protagonista dell’antifascismo internazionale

Ilio Barontini nasce a Cecina (Livorno) il 28 settembre 1890 da due genitori di origini contadine ed è il secondo di cinque figli. Il padre in seguito ad una malformazione che ne causò il ricovero a Roma riuscì a frequentare una scuola professionale e grazie alle competenze lì acquisite fu chiamato dalla famiglia Wassmuth (famiglia valdese da lungo residente a Livorno) ad occuparsi delle loro fabbrica di pipe in città. Ilio presto si sposerà e avrà due figlie, Nara nata nel 1915 ed Era nata nel 1923.

Viene richiamato alle armi durante la 1ᵃ Guerra ma dopo un breve periodo viene destinato alla produzione bellica alla Breda di Milano. Alla fine del conflitto entra come operaio nelle officine ferroviarie della stazione di Livorno. Nel 1920 lo troviamo esponente del Consiglio provinciale del Sindacato Ferrovieri e nel Comitato federale del Psi. Sempre nel 1920 diviene consigliere del Comune di Livorno ed è presente nella giunta Mondolfi con la delega alle finanze come assessore supplente.

Aicvas0003Nel 1921 aderisce alla formazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIᵃ Internazionale. Assume da subito ruoli di rilievo e si trova a difendere, in contrasto con il centro del Partito, l’adesione dei comunisti agli Arditi del Popolo a fianco degli anarchici, repubblicani e socialisti. Svolgerà un ruolo centrale nel’organizzazione dello sciopero della fine di luglio, organizzato dall’Alleanza del Lavoro. Fu in quell’occasione, in cui la città labronica si trasformò in un vero e proprio scontro armato, che vennero distrutte le sedi della Camera del Lavoro, dello SFI e del PCd’I e avvenne l’assalto all’abitazione dei fratelli Gigli con la morte di Pietro.

Dopo la marcia su Roma viene licenziato insieme a tutti i ferrovieri attivi nella lotta contro lo squadrismo. Tra il 1923 e il 1924 subisce tre arresti, con proscioglimento e assoluzione per insufficienza di prove. Diventa un militante “dormiente” e entra e va a lavorare nella ditta del padre.

Dal 1931 si trova in Francia dove lavora tra gli emigrati e per conto del centro del Partito comunista fino a quando, alla fine del 1932 parte per l’Unione Sovietica dove svolgerà un lavoro politico tra i lavoratori marittimi e poi entrerà come operaio in una fabbrica aereonautica dell’Armata Rossa. Durante il soggiorno sovietico frequenterà il corso per quadri dell’Internazionale. Nel 1935 torna in Francia e da qui poi verrà inviato a combattere in Spagna come ufficiale di Stato maggiore della XII Brigata internazionale. Partecipa alla battaglia in difesa di Madrid, a quella di Albacete e poi al combattimento presso il fiume Jarama. Nel frattempo è divenuto commissario politico del battaglione che si trova sotto il comando militare di Randolfo Pacciardi. Quando Pacciardi sarà ferito in battaglia, il comando, anche militare, passa a Barontini che dirigerà la battaglia di Guadalajara, battaglia che si protrae più di dieci giorni. Dopo questa prova viene nominato commissario politico di Divisione ma alla fine di settembre a causa di un comportamento che verrà sanzionato dal nuovo comandante Klèber come poco ortodosso con l’assenso di Togliatti e contro il parere di Vidali e della Teresa Noce, ritorna in Francia.

In Francia, da parte del Centro estero del Pci, per mezzo di Di Vittorio, gli viene ordinato di recarsi a combattere in Etiopia accanto alla resistenza etiope dove sarà poi raggiunto dallo spezzino Domenico Rolla e da Anton Ukmar. Prenderanno i nomi di battaglia dei tre apostoli: Paulus, Petrus e Johannes, e agiranno in tre zone diverse del paese. Barontini nel territorio di sua competenza riuscirà anche a stampare un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”. Sulla loro testa verrà messa una taglia e facendosi il pericolo troppo grave, i tre rientrano passando da Khartoum dove Barontini è accolto dal generale Alexander che più tardi gli conferirà la Bronze Star. Sarà un’esperienza che probabilmente gli tornerà utile per la resistenza armata contro i tedeschi, sia in Francia che in Italia.

Immagine Barontini da diapIn Francia è già in atto l’occupazione tedesca e Barontini rientrato col nome di battaglia “Giobbe” nel sud della Francia, organizza i gruppi dei franc tireurs preparando anche azioni clamorose come quella contro l’Hotel Terminus di Marsiglia, sede del comando delle SS che sarà fatto saltare per aria. Dopo l’8 settembre ritorna clandestinamente in Italia e per ordine del Partito è inviato a costruire i GAP (Gruppi d’azione patriottica).

Con il nome di “Fanti” si sposta tra Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Veneto e Lombardia. Dall’ottobre 1943 è a Bologna dove dirige la lotta armata. Nel maggio del 1944 con il nome di battaglia “Dario” dirigerà per il Pci, l’azione politica delle formazioni partigiane. A giugno prende il governo del Comando Unico Militare dell’Emilia Romagna. Dirigerà con esito positivo la battaglia di Porta Lame a Bologna del novembre 1944 e quella di Monte Formia nel modenese. Alla fine della guerra ritorna a Livorno, entra nel Comitato Centrale del Partito comunista, viene eletto deputato all’Assemblea costituente e segretario della Federazione del Partito comunista a Livorno.

Con le elezioni de 1948 diventa senatore della Repubblica con l’incarico di sottosegretario della Commissione Difesa. Quelli che in quel periodo l’hanno conosciuto ne hanno tramandato un’immagine mitica e, se vogliamo, anche stereotipata. Vestito di un impermeabile sdrucito sembrava aver mantenuto le abitudini della clandestinità, atteggiamento non solo probabile ma comprensibile e, non solo suo, ma di tutti quelli che nel ventennio si erano dovuti guardare non solo le spalle, considerati gli anni cupi in cui si erano trovati a vivere. La morte sopravverrà repentina per un incidente stradale il 22 gennaio 1951. Insieme a lui moriranno altri quadri dirigenti di quel Partito che si vedrà decapitato da cause esterne e imponderabili e per il quale comincerà una lunga fase di transizione verso un nuovo gruppo dirigente.

Oltre alla decorazione della Bronze Star ricevette da Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna, il titolo di cittadino onorario della città. Ricevette anche dal’Unione Sovietica il prestigioso Ordine della Stella Rossa.




“Mi sa che avevano sensazioni confuse là in basso”

Il 24 ottobre 1943 gli Inglesi bombardarono per la prima volta la città, come nei giorni precedenti avevano colpito Prato, il 2 settembre, e Firenze, il 23. Che per Pistoia si stesse avvicinando lo stesso destino lo si poteva quindi supporre, un opuscolo della protezione antiaerea infatti avvertiva il 18 ottobre: «All’inizio della guerra Pistoia fu classificata di scarsa importanza agli scopi bellici. Oggi però la guerra è entrata in una fase talmente attiva e violenta che anche Pistoia ha assunto importanza ai detti effetti, e occorre mettere in atto quanto è al momento possibile, affinché la popolazione possa affrontare con animo sereno una eventuale offesa aerea».
Quella notte l’allarme durò 2 ore e 40 minuti e uno stormo di aerei Wellington britannici bombardò la città dalle 23.25 alle 24.10. Gli obiettivi sensibili della città erano sia le linee di comunicazione che le postazioni di valore militare: Pistoia infatti rappresentava un importante snodo ferroviario di collegamento tra il sud ed il nord del Paese, dato che si trovava lungo la linea ferroviaria Porrettana che costituiva un collegamento verso nord in alternativa alla linea “direttissima” da Prato. Erano poi presenti in città tre caserme militari ed un’importante industria per la riparazione di velivoli e apparati militari di notevole importanza. Le Officine Meccaniche San Giorgio erano infatti adibite alla riparazione di velivoli della Regia Aeronautica e si ipotizza che nel campo di volo adiacente alla fabbrica, presidiato da circa 300 militari tedeschi, si trovassero alcuni Messerschmitt ME323 Gigant, il più grande modello di aereo costruito durante la Seconda Guerra Mondiale.

16Il vero dramma per Pistoia fu che gli obiettivi si trovavano a ridosso del centro abitato: molte bombe sganciate per colpire i punti prefissati caddero sulle abitazioni civili nella zona a sud della città e, nonostante le precauzioni prese dalle autorità cittadine, i danni furono ingenti. Era l’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) a gestire i rifugi pubblici pistoiesi (una quarantina) pronti ad ospitare circa 10.000 cittadini anche grazie al fatto che, data la necessità, furono classificati come rifugi tutti gli scantinati agibili dei palazzi della città, benché non garantissero sempre una reale sicurezza. Dalla mappa dei rifugi si può vedere come la popolazione residente nella zona della “Pistoia bene”, dove i palazzi signorili erano dotati di scantinati adattabili, risultasse maggiormente protetta; diversa era invece la situazione dei quartieri popolari dove lo stesso Comitato ammise che era stato impossibile impiantare alcun tipo di rifugio. Nonostante le precauzioni in quella notte i morti furono molti; anche se il numero non è tutt’oggi ufficiale, data la discordanza delle cifre e degli elenchi delle vittime ancora sparsi tra vari archivi, una ricognizione di tutte le liste reperite attesta che le vittime siano state 157.

Perché in quella notte le sensazioni furono confuse? Innanzitutto, come emerge dalle testimonianze, il bombardamento risultò del donnatutto inaspettato e la popolazione si ritrovò disorientata, nonostante i ripetuti avvertimenti delle autorità. Dalle testimonianze emerge poi che in una parte della popolazione erano diffuse ostilità nei confronti del vecchio regime e fiducia negli alleati liberatori, ma la stampa locale, ancora sotto controllo fascista, presentò il bombardamento come un attacco terroristico ed in effetti “i liberatori” in quell’occasione risultarono la causa della distruzione diretta della città: furono loro a portare la guerra nelle case, cosa che fino a quel momento non era mai avvenuta. Quindi le sensazione confuse furono causate proprio dalla difficoltà di concepire i drammi causati dal bombardamento di quella notte come un tassello di una più ampia manovra militare di liberazione della penisola italiana. Si diffusero per questo irragionevoli interpretazioni, come che i piloti fossero ubriachi :«Quella sera si dormiva tutti. Ci svegliò mia madre perché vide i bengala e disse: “Brucia tutto il mondo!” […]ma mi avevano detto che quando si spengevano i bengala finivano di bombardare, invece fu un bombardamento terroristico perché quando finì la luce intensa dei bengala incominciò il bombardamento vero dove morì diversa gente. Poi si venne a sapere che gli aerei e i piloti erano inglesi e per di più ubriachi».

Con difficoltà questa interpretazione ha lasciato il campo a più verosimili spiegazioni di strategia militare: in realtà, ancora oggi, nella rielaborazione della memoria pubblica, la distruzione causata dai bombardamenti alleati si annovera tra quegli episodi difficilmente inseribili sia nella rappresentazione degli eventi condivisa dalla cultura istituzionale antifascista sia in un percorso di attribuzione della totalità delle colpe al nazifascismo; infatti solo negli anni Duemila sono state affisse in città due targhe in ricordo della tragedia, piccole e senza riferimenti storici precisi.

Francesca Perugi è ricercatrice presso l’ISRPt e membro della redazione dei Qauderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”




“Fu una mattinata tremendissima”

Gli anni del dopoguerra sono tra i più duri per la popolazione pistoiese. Il numero dei disoccupati, dopo la fine del conflitto, sale vertiginosamente dalle seimila alle dodicimila unità, di cui almeno 2.500/3.000 nella zona montana. Si aggiunge una grave carenza dei generi di prima necessità. Pane e lavoro sono le parole d’ordine di numerose mobilitazioni sociali, che cominciano fin dal 16 ottobre 1944 con la prima manifestazione delle donne con in braccio i loro figli, e si protraggono fino alla fine degli anni ’40.
Ad una situazione economica ristagnante, con numerose aziende appena riavviate costrette a chiudere per mancanza di energia elettrica, di materie prime, di ordinazioni, con i lavori di ricostruzione – in particolare dei ponti e della ferrovia Porrettana – che tardano a partire almeno sino alla fine del 1946 e mal finanziati, quella sociale diviene l’emergenza prioritaria segnalata ogni mese a Roma dai prefetti che si succedono.

cdl anni 40Ancora nel marzo 1946 una serie di manifestazioni di donne reclama alimenti e tenta, a Pistoia ed a Pescia, di assaltare i magazzini del consorzio agrario per impossessarsi di generi alimentari da consegnare poi alle cooperative del popolo per la distribuzione. L’attivismo e il protagonismo di masse ingenti di cittadini e cittadine ereditato dall’esperienza resistenziale si esprime, oltre che nella politica di partito, in un’elevata disponibilità all’azione per migliorare le proprie condizioni di vita e cercare di dare impulso a scelte di trasformazione. Le relazioni economiche tra le parti sociali rischiano spesso di tramutarsi in conflitti diffusi. Gli attori in campo, i prefetti, i sindaci, le organizzazioni dei datoriali (Confindustria, Confagricoltura ecc…), la Camera del lavoro della CGIL unitaria, i grandi partiti come la DC, il PSI e il PCI ed il CLN fino al 1946, si trovano costantemente impegnati un un’opera di mediazione che cerca di contenere la carica esplosiva della disperazione, trovando accordi, mediazioni, persuadendo le folle di disoccupati a forme di azione responsabili e sollecitando i governi. Come scrive il prefetto Mazzolani nel luglio del ’46 i problemi «possono essere risolti solo se gli organi centrali responsabili verranno nell’ordine di idee di attuare una politica economica, finanziaria e sociale, se non rivoluzionaria, almeno coraggiosa ed aderente allo stato di necessità, in cui versa attualmente il popolo italiano, senza aver paura di toccare le posizioni privilegiate di questo o quel gruppo più o meno ristretto».

contadini piazza san francescoLa situazione più critica è in montagna, dove le uniche attività in grado di garantire l’occupazione sono le cartiere della Lima, i traballanti lavori di ricostruzione ma soprattutto la SMI. Ed è proprio in conseguenza di un duro braccio di ferro alla SMI che il 28 giugno 1947 si giunge al primo grande sciopero generale della provincia, che si risolverà in un fallimento parziale e lascerà duri strascichi di divisioni interne alla CGIL tra la componente comunista e quella democristiana.

Progressivamente le trasformazioni dello scenario politico italiano, con la rottura dell’unità antifascista al governo nel maggio 1947, l’incipiente guerra fredda, lo svilupparsi ed acuirsi di uno scontro politico ed ideologico durissimo, hanno ricadute sul contesto locale, dove questi processi si vanno ad unire alla stagnazione ed alla mancanza di risposte efficaci. Se da una parte la conflittualità popolare permane e si esaspera, dall’altra gli apparati dello Stato tra il 1947 ed il 1948 cominciano a chiudere le porte ed a leggere ideologicamente la portata di conflitti fino ad allora rimasti confinati in gran parte all’ambito economico.
La stessa gestione dell’ordine pubblico risente di questo clima da muro contro muro che si va costruendo, slittando nel corso del tempo verso soluzioni sempre più di forza. Il 1947 si chiude con la rottura delle trattative sul contratto dei metallurgici, che provoca l’invasione della sede della Confindustria da parte degli operai della San Giorgio. E pochi giorni dopo il 1948 si apre con una serie di arresti preventivi nel pesciatino che causano un nuovo sciopero generale con numerosi blocchi stradali che sfociano in gravi scontri a Bonelle. Le sinistre tentavano di giocare la carta della mobilitazione, “dare una spallata” in vista delle elezioni del 18 aprile. Il nuovo prefetto, Festa, abbandona il ruolo neutrale del funzionario statale per divenire nei fatti parte della macchina della DC, informando costantemente Scelba dei progressi del suo partito e commentando positivamente i risultati democristiani dopo le elezioni, sostenendo che la sconfitta dei socialcomunisti avrebbe liberato la popolazione da un incubo.

manifestazione schianoIn questo quadro matura uno degli eventi più tragici per la storia di Pistoia nel Novecento. Nell’estate del ’48 la SMI annuncia la sua intenzione inamovibile di procedere al licenziamento di 500 tra operai e operaie. La posizione della CGIL non ammette a sua volta mediazioni al ribasso. Ne segue una vertenza che va avanti per mesi ma che, dopo la scissione della componente cristiana della CGIL ad agosto che si riorganizza nei Sindacati liberi, per Festa diventa l’occasione adatta a scalzare il sindacato delle sinistre e favorire quello vicino al governo appoggiando al tempo stesso la direzione aziendale. Si deve dimostrare ai lavoratori l’incapacità sindacale di socialisti e comunisti. La mattina del 16 ottobre 1948 si svolge l’ennesima manifestazione di famiglie disoccupate o precarie. Dalla montagna la popolazione raggiunge Pistoia, la chiamano “La marcia della fame”. Nel capoluogo le fabbriche scioperano. Le donne guidano il corteo. Per la prima volta la prefettura si rifiuta di ricevere una delegazione dei dimostranti per discuterne l’ordine del giorno e ordina di disperdere i manifestanti. Nei violenti scontri alle cariche seguono i lacrimogeni e alla fine gli spari. Rimangono a terra sette feriti, uno dei quali in modo mortale, il venticinquenne operaio della San Giorgio Ugo Schiano.

La repressione dà un duro colpo alla strategia della Camera del lavoro, che disorientata cede. Festa commenta a Scelba: «si può facilmente desumere che gli organi sindacali si sono dovuti arrendere a discrezione, accettando le condizioni imposte dalla Società, perché si sono resi conto che l’azione sindacale, male impostata e male condotta, li aveva posti in un vicolo cieco dal quale sarebbe stato impossibile uscire senza sottoscrivere l’accordo, qualunque esso fosse. Sta di fatto che, così come è stata conclusa, la vertenza di Campotizzoro, sulla quale si è fatto tanto clamore e non è mancata la più esosa speculazione politica, costituirà un grave colpo per il prestigio della locale Camera Confederale del Lavoro, mentre se ne avvantaggeranno i Sindacati Liberi e lo stesso Partito della Democrazia Cristiana»

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




Firenze in Guerra, 1940-1944

Il 23 ottobre, alle ore 17.00, si aprirà a Palazzo Medici Riccardi la mostra storica Firenze in guerra, 1940-1944; l’evento è promosso dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana col sostegno della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze. Documenti, immagini, voci, filmati, nonché fotografie provenienti dall’Archivio Foto Locchi animeranno un ampio percorso espositivo ideato dagli architetti Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti. Intrecciando storie individuali e esperienze collettive, la narrazione attraverserà i primi anni di guerra fino agli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, quando la città e la provincia furono violentemente investite dal conflitto.

Uno spazio di condivisione interattiva sarà garantito dal progetto Memory Sharing, che ha l’obiettivo di raccogliere e valorizzare documenti, fotografie, storie di vita relative agli anni del conflitto. Tutti possono contribuire al progetto, rivolgendosi alla postazione allestita all’interno della mostra oppure partecipando online, attraverso il sito www.firenzeinguerra.com (in costruzione).

Al Rondò di Bacco, nel complesso monumentale di Palazzo Pitti, un film sonoro e la serie completa delle fotografie scattate dall’architetto Nello Baroni permetteranno di immergersi nell’esperienza dei “giorni dell’emergenza”, quando migliaia di fiorentini furono costretti a lasciare le case del centro storico per rifugiarsi nelle sale di Palazzo Pitti.

La mostra, curata da Valeria Galimi e Francesca Cavarocchi – con la supervisione scientifica di Enzo Collotti – si snoderà attraverso tre scenari: la città della guerra (1940-1943), la città dell’occupazione (1943-1944) e la città della Liberazione.

Fin dagli anni ’20 il regime assegna al capoluogo toscano un ruolo chiave nel progetto di fascistizzazione della cultura: importante polo accademico e editoriale, Firenze ospita una serie di riviste e istituzioni di rilievo nazionale, dal “Selvaggio” al “Bargello”, fino al Maggio musicale. Nella seconda metà degli anni ’30 la città diviene una delle sedi privilegiate nella produzione e diffusione della pubblicistica antisemita.

I primi tre anni di guerra hanno un impatto crescente sulla vita quotidiana dei fiorentini. Mentre migliaia di cittadini partono per i vari fronti, l’intera popolazione è chiamata a mobilitarsi per sostenere lo sforzo bellico, ad esempio attraverso le periodiche raccolte di ferro, metalli e vettovaglie destinate ai soldati. Il razionamento dei beni alimentari si fa sempre più severo, affiancato dalla rapida crescita del mercato nero. Gli stessi spazi pubblici si trasformano progressivamente, in seguito alle misure di protezione antiaerea sui monumenti o alla creazione degli ‘orti di guerra’ nei giardini e nelle piazze.

La seconda visita di Hitler alla città, il 28 ottobre 1940, si tiene in un’atmosfera cupa e spettrale, molto diversa dai festeggiamenti inscenati nel 1938, quando era stato celebrato il rafforzamento del patto fra i due regimi. Nei primi anni di guerra Firenze diventa una delle ambientazioni privilegiate degli incontri volti a rinsaldare l’alleanza con Berlino e gli altri paesi dell’Asse; frequenti sono gli eventi culturali e le manifestazioni giovanili interalleate, con l’obiettivo di sottolineare il contributo della civiltà italiana al Nuovo ordine europeo perseguito dal Reich tedesco.

Dall’8 settembre 1943 gli occupanti e la Repubblica Sociale Italiana (RSI) tentano di attuare uno stretto controllo del territorio, mentre iniziano i bombardamenti e le condizioni di vita della popolazione si fanno sempre più difficili. L’area metropolitana di Firenze spicca nel quadro regionale sia per la complessità del suo tessuto economico e sociale sia per la concentrazione di strutture tedesche e repubblichine; una circostanza che contribuisce a spiegare l’intensità della persecuzione antiebraica, nonché più in generale l’efficacia degli apparati repressivi (ad esempio in seguito agli scioperi del marzo 1944). In città e nei dintorni si va nel frattempo riorganizzando un esteso tessuto antifascista, che trova la sua specificità nell’ampia articolazione delle posizioni culturali e politiche e nel coinvolgimento di settori sociali differenziati; il capoluogo, sede del Comitato toscano di liberazione nazionale, si distingue per la pluralità e la ricchezza delle reti resistenziali, che affiancano all’iniziativa più propriamente militare (specie nell’arco collinare e appenninico) un ampio spettro di attività, dalla raccolta di informazioni fino al soccorso ad ebrei, renitenti, ex prigionieri alleati.

Gli angloamericani raggiungono la Toscana a metà giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma. A partire dalla metà di luglio la provincia di Firenze è teatro di intensi e lunghi combattimenti, prima sulle colline a Sud del capoluogo e poi in città: attuando la chiamata all’insurrezione da parte del CTLN, i partigiani sono protagonisti della battaglia per la liberazione del capoluogo, anticipando di alcune ore l’entrata degli Alleati e sostenendo per circa un mese lo scontro coi tedeschi e i “franchi tiratori”. Fallite definitivamente le trattative per la “città aperta”, il 30 luglio le forze tedesche impongono l’evacuazione del settore circostante i Lungarni, a cui fa seguito fra il 3 e il 4 agosto la distruzione dei ponti e di un’ampia area attorno al Ponte Vecchio. Nel mese di agosto la linea del fronte si assesta per lunghi tratti attorno alla linea dell’Arno, mentre le propaggini settentrionali della provincia saranno liberate solo nella seconda metà di settembre, quando le forze alleate raggiungeranno la linea Gotica. In provincia la ritirata dell’esercito tedesco ha come effetto notevoli distruzioni di fabbricati e vie di comunicazione ed è accompagnata da diffuse violenze e spoliazioni.

Il periodo dell’emergenza e del passaggio del fronte è certo quello che maggiormente si staglia nella memoria dei fiorentini. Per comprendere a pieno l’impatto sulla vita quotidiana delle popolazioni e le trasformazioni sociali e culturali innescate dal conflitto è necessario tuttavia allargare lo sguardo agli anni precedenti, perché è nei primi anni di guerra che si accumulano processi e trasformazioni destinati ad esplodere nell’estate del ’44 e nei mesi successivi alla liberazione, quando si inizierà un lento ma decisivo processo di ricostruzione e democratizzazione della vita pubblica.

Informazioni sulla mostra:

Palazzo Medici-Riccardi 24 ottobre 2014 – 6 gennaio 2015

10:00 – 18:00 (chiuso il mercoledì)

Rondò di Bacco 24 ottobre 2014 – 4 gennaio 2015

 Venerdì 15:00 – 17:30 / sabato e domenica: 11:00 – 17:30

 Ingresso libero

 Per Informazioni, prenotazioni e visite guidate tel. 055.284296 dal lunedì al venerdì 10:00 – 15:00

 




Le parallele convergenze livornesi. Pci e Dc nella lunga giunta Diaz (1944-1954)

Tra il 29 luglio 1944 e il 1° dicembre 1954 le giunte comunali di Livorno furono guidate ininterrottamente dal comunista Furio Diaz. Si tratta di una lunga esperienza amministrativa che presenta un elemento di forte peculiarità nella collaborazione e nell’intesa di governo tra comunisti e cattolici ben oltre la rottura dell’alleanza antifascista avvenuta a livello nazionale nel maggio 1947. L’alleanza di governo tra Pci e Dc si prolungò infatti per tutta la prima legislatura fino al 1951, avendo un suo corollario significativo fino al dicembre 1953, data in cui cessò l’atteggiamento di opposizione costruttiva fino ad allora assunto dai democristiani. Passaggi talmente significativi da aver assunto col tempo, nel sistema commemorativo cittadino, le sembianze di mito fondativo nella costruzione etico-identitaria della Livorno postbellica. La valenza simbolica di quegli eventi ha finito così per sminuire in parte, nella percezione pubblica, la complessità di un contesto contraddittorio come quello della Livorno di quegli anni.

222  equipaggio di mas inglese

Soldati Inglesi tra le macerie di Livorno (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Con gli Alleati: una città “sotto tutela”
L’analisi del rapporto tra cattolici e sinistre livornesi nel periodo delle giunte unitarie deve in primo luogo tener conto della morfologia dei centri di governo e di potere del territorio. Poiché a limitare e condizionare la capacità di governo della giunta intervennero molti fattori. A partire dall’arrivo degli Alleati (19 luglio 1944), infatti, su Livorno si concentrarono una serie di interessi – primariamente bellici e poi politici – che di fatto dilazionarono, attraverso una lunga e contraddittoria fase di transizione, il passaggio ad un effettivo stato di pace. La presenza militare alleata, che si protrasse fino al dicembre 1947, significò per la città anche una serie di enormi problemi di ordine pubblico che si andarono ad assommare ai disastri materiali e psicologici prodotti dalla guerra.

D’altra parte il governo militare degli Alleati (Allied Military Government, Amg) pretese subito di stabilire il «completo controllo» sull’amministrazione per i superiori interessi di guerra legati alla strategicità assunta dal porto di Livorno sul fronte mediterraneo. Diaz, che non senza difficoltà il maggiore E.N. Holmgreen aveva accettato come sindaco su proposta del Cln e dopo la rinuncia di Giorgio Stoppa, sapeva di essere un primo cittadino “sotto tutela” e che il primo obiettivo alleato era quello di «organizzare una complessa rete di attività non militari al solo scopo di difendere i vantaggi militari acquisiti».

Le istruzioni di Togliatti: alleanze obbligate
In più, nella città simbolo del Partito comunista, le prime impronte di guerra fredda complicarono il quadro dei rapporti tra forze alleate, Cln, apparati di governo, partiti politici e Chiesa cattolica in un succedersi di raffinate tattiche ideologiche. Dietro i compromessi e le convergenze tra comunisti e cattolici, si celavano spesso le doppiezze e le ambiguità di una battaglia politica di cui la giunta livornese era solo una pedina di uno scacchiere ben più complesso. In questo senso è davvero emblematico un documento del 27 ottobre 1944. A meno di tre mesi della formazione della giunta espressione del Cln, il segretario del Pci Palmiro Togliatti inviò delle lapidarie «istruzioni» al sindaco di Livorno: «Non intralciare il lavoro dell’AMG; Mantenere buoni rapporti con la Dc; Non fare mostra di sentimento anticlericale e rassicurare i cattolici sulla libertà di culto».

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Diaz, secondo da sinistra, ad un’iniziativa del Pci livornese (Collezione Sandonnini, Istoreco Livorno)

Il documento offre chiare informazioni non solo sulle strategie del Partito comunista, ma anche su quelle degli Alleati. Come riporta Roger Absalom, infatti, le direttive del segretario generale del Pci al sindaco di Livorno furono intercettate dall’Office of Strategic Services (Oss), il Servizio americano di informazioni politiche e militari, a conferma di una preoccupazione anticomunista che già in quella fase si era scatenata tra le forze alleate. Tanto che nei rapporti dei servizi segreti americani si paventava perfino l’esistenza di una linea diretta Mosca-Livorno: gli alleati erano dunque «particolarmente sensibili al “pericolo rosso” rappresentato dai livornesi tradizionalmente radical-rivoluzionari» in una città che era divenuta punto nevralgico del sistema logistico di una guerra ancora in corso.

In questo quadro la strategia togliattiana, condivisa da Diaz, ebbe non poche difficoltà ad essere perseguita. La necessità politica di mantenere «buoni rapporti con la Dc» si scontrava spesso con la linea non sempre conciliante espressa dalla Federazione comunista livornese. Mantenere una linea di equilibrio tra opposte tendenze e coinvolgere la base del partito nelle battaglie della giunta unitaria si rivelò spesso per Diaz un compito improbo. Complicazioni che emergono con chiarezza, ad esempio, nella lettera che il sindaco inviò alla segreteria della Federazione livornese del Pci il 9 maggio 1947: «Cari compagni, devo richiamare con maggiore energia la vostra attenzione sulle deficienze che si verificano nell’opera del Partito per fiancheggiare e sorreggere l’amministrazione comunale da noi diretta».

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Il vescovo Piccioni e don Roberto Angeli nel 1951 (Archivio Centro Studi Roberto Angeli)

La debole Dc: interviene De Gasperi…
Sul fronte opposto, la partecipazione alla giunta unitaria dei democristiani si inseriva in un quadro complesso caratterizzato da molte contraddizioni. Basti ricordare che la Dc locale era nata formalmente solo tre giorni dopo la liberazione di Livorno (22 luglio 1944) e che la partecipazione dei cattolici alla Resistenza era stata garantita esclusivamente dal movimento cristiano-sociale, fondato da don Roberto Angeli già nel 1942, i cui membri entrarono nel Cln livornese dal 9 settembre 1943. A questo proposito è significativa la ricostruzione fatta da Carlo Lulli, storico direttore del “Telegrafo”, sulla formazione della prima giunta unitaria del 29 luglio 1944: l’allora impiegato dalla segreteria del Cln ha sostenuto che negli intensi colloqui di quelle ore con il Commissario provinciale alleato John F. Laboon per la formazione della giunta «si scoprì che in città non c’erano rappresentanti della Democrazia cristiana» e allora si organizzarono «delle ricerche affannosissime per trovare delle persone cristiano-sociali» che fossero disposte a diventare «democristiane per aderire, anche su scala livornese, a quello che era il quadro nazionale».

Questa situazione generò enormi malumori tra i cristiano-sociali, il cui credo politico era una aperta risposta progressista alla Dc dei conservatori. La “battaglia” tra cristiano-sociali e democristiani livornesi raggiunse un livello tale che solo l’intervento perentorio di De Gasperi poté risolverla e non senza strascichi polemici tra le divergenti anime del cattolicesimo livornese. L’opposizione del Cln all’entrata nel comitato degli esponenti Dc, costrinse infatti il segretario nazionale democristiano a scrivere il 20 settembre 1944 una dura lettera al presidente Ruelle, chiedendo testualmente che si mettesse termine alla «deplorevole scissione» tra i cattolici e che si superasse «l’anomalia» del Cln livornese. La Dc, diceva De Gasperi, doveva essere accettata dal Cln livornese per «adeguarsi al quadro nazionale».

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Il settimanale diocesano di Livorno “Fides”

Un cacciucco alla livornese?
Questo complesso di concause portò ad una situazione di estrema debolezza organizzativa del partito e allo scarso appeal dei suoi esponenti sulla base cattolica. Nel primo riassunto statistico dei tesserati che la segreteria De Gasperi elaborò nel 1945, lo Scudo crociato livornese era di gran lunga all’ultimo posto in Toscana per numero di sezioni (appena 10) e tesserati (1000, di cui solo 63 donne). A questo si assommava la litigiosità dei suoi vertici locali e la scarsa considerazione che essi godevano tra le gerarchie ecclesiastiche livornesi: nella relazione che don Angeli, delegato vescovile di Azione cattolica, inviava ai vertici nazionali scriveva che «l’inferiorità numerica della Dc» rispetto al Pci era «aggravata da una notevole mancanza di dirigenti capaci», da cui seguiva «un indirizzo fiacco e inconcludente, più orientato al quieto vivere che all’affermazione di un’idea».

In questo quadro il giudizio della Chiesa livornese sulla collaborazione istituzionale nella giunta non differiva dalla linea espressa da Pio XII: è noto infatti che la via della collaborazione tra cattolici, comunisti e socialisti dell’immediato dopoguerra era stata una parentesi a cui la Santa Sede aveva guardato «con estremo sospetto e che subì di malavoglia». In un articolo durissimo scritto dal direttore del settimanale diocesano «Fides» dopo la formazione della nuova giunta unitaria e il quasi plebiscito ottenuto dai comunisti alle amministrative del novembre 1946, si diceva che i comunisti si erano assicurati una «nuova brillante vittoria tattica», poiché avevano in mano la giunta senza avere oppositori in consiglio comunale. I democristiani, definiti spregiativamente «collaborazionisti», «abbacinati dall’idea di “servire il popolo” non hanno capito che il miglior mezzo per servirlo era quello di controllare l’Amministrazione socialcomunista, e non di avallarla: di difendere la democrazia e non di partecipare ai suoi funerali: di rispettare la volontà popolare e non di affogarla in un indefinibile… cacciucco alla livornese».

La tenuta istituzionale della giunta di espressione ciellenistica fu dunque messa a seria prova dalla precarietà di una situazione di “lunga liberazione” e dalle contrapposizioni scatenate dalla “guerra ideologica” che contraddistinse gli anni del centrismo degasperiano: fattori di cui è necessario tener conto per valutare in tutta la sua complessità un’esperienza che rappresenta comunque un unicum tra le esperienze amministrative uscite dalla Resistenza.

*Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).

 



Tirrenia ’82 e non solo. Le feste dell’Unità negli anni Ottanta

La festa nazionale de l’Unità che si tenne a Tirrenia dal 3 al 19 settembre 1982, della quale Oriano Niccolai, “Rossocreativo”, creò il manifesto portante, si inscrive nella serie di grandi eventi politico-culturali che il Pci mise in campo a partire dalla metà degli anni ‘70 del Novecento, in un crescendo che percorse tutto il decennio successivo, divenendone forse una delle più caratterizzanti. Frequentate da artisti e intellettuali, percorse da politici di tutti i partiti che facevano a gara per ottenere visibilità (non solo italiani, ma anche europei, americani o altro), rilanciate dagli inviati della grande stampa e da televisioni nazionali e locali, le Feste de l’Unità in quel periodo furono eventi cruciali nei quali veniva propagandata, discussa e diffusa in forma allargata la “linea” politica. Una sorta di congressi non formalizzati, aperti e all’aperto.

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Il Manifesto di Tirrenia 1982 di Oriano Niccolai

Si trattava di una strategia politica e comunicativa che non nasceva per caso e i cui prodromi possono intravedersi già alla fine degli anni ’60. Parallelamente all’incremento dei consensi politici registratosi negli anni ’70, anche le feste crescevano, conquistandosi diffusione e consenso. Secondo i dati riportati da Anna Tonelli, la progressione è la seguente: 4607 nel 1972, 5724 nel 1973, 6563 nel 1974, 7059 nel 1975.

Come mai – ci si chiedeva negli organismi dirigenti – le Feste de l’Unità sono sempre pienissime mentre le sezioni spesso sono vuote? Il Pci rifletteva sia sul successo di forme nuove di comunicazione, sia, soprattutto, su possibili forme nuove di aggregazione. E mentre si approntavano importanti momenti di studio come i seminari tenuti alle Frattocchie nel ’75 e ad Ariccia nel ’76, restava forte la volontà politica di proiettarsi all’esterno e di coinvolgere non solo gli iscritti e neanche solo i propri votanti, ma di tendere a parlare anche a quei ceti che non avevano tradizionalmente il Pci come referente politico, con l’idea di realizzare una comunicazione, si potrebbe dire, di massa. Per questa ragione si affinava e si differenziava anche l’offerta culturale, con il coinvolgimento di artisti di rilievo internazionale.

La segreteria di Berlinguer, iniziata nel 1972, dette un impulso indubbio all’operazione feste; e, dal momento in cui nel 1976 il Pci acquisì tanti consensi elettorali da far intravedere il sorpasso sulla DC, le feste dell’Unità cominciarono ad acquistare il carattere di “prove di democrazia diffusa” e di prove di governo; ovvero, situazioni in cui la perfetta organizzazione, culturale, politica ed economica, la chiarezza cristallina dei bilanci, l’efficienza dei servizi e la qualità complessiva dell’offerta politica, culturale e di intrattenimento diventava la dimostrazione palpabile che il Pci sapeva e poteva governare. Subito.

In questo filone si può ben collocare la Festa nazionale di Tirrenia, realizzata in una situazione di enorme difficoltà ambientale da migliaia di volontari, guidati da una dirigenza politica giovane ed efficiente, contornata dall’impegno sentito di molti intellettuali, locali e nazionali.

Nel comizio di chiusura tenuto il 19 settembre davanti a almeno 500 mila persone Enrico Berlinguer affermò: “I compagni di Pisa hanno realizzato un’impresa straordinaria… un Festival letteralmente inventato in un’area brulla e nulla hanno chiesto al partito ma gli hanno dato la loro abile ed esperta opera sacrificando le ferie e spesso parte del loro salario… I compagni di Pisa, ben diretti dalla Federazione, hanno dato una testimonianza di come bisogna lavorare”.

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Foto di Daniele Altamore (fonte: Tirrenia82.com)

Ma la festa (e non a caso siamo partiti dal suo responsabile grafico, Oriano Niccolai) si caratterizzò anche per una immagine innovativa, colorata, fantasiosa e gioiosa. Scriveva Giulio Borrelli, inviato nazionale del TG1: “A Tirrenia c’è stato lo sforzo di introdurre forme di incontro e di partecipazione maggiormente in sintonia col modo, più laico e meno ideologico, con il quale oggi la gente si avvicina alla politica”. E si chiedeva cosa mai ci facessero, in una festa così vivace moderna e colorata “i padiglioni trionfalistici dei paesi dell’est”, anni luce diversi.

Cosa fu dunque Tirrenia 1982? La prima caratteristica che salta agli occhi è che a portare avanti un impegno colossale furono dirigenti, nazionali e locali, molto giovani, trentenni già selezionati e sperimentati; 29 anni aveva il responsabile del cantiere Paolo Fontanelli, 29 il responsabile stampa e propaganda Massimo Baldacci, 29 Fausto Valtriani che gestì l’accoglienza e del turismo, 35 il segretario della Federazione Luciano Ghelli, 27 anni Walter Veltroni, responsabile della comunicazione a Tirrenia e viceresponsabile nazionale stampa e propaganda, 36 Vittorio Campione, meno che trentenni erano i ricercatori di storia che realizzarono una delle mostre più visitate.

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(fonte: Tirrenia82.com)

La seconda caratteristica è che essa fu una festa per la città e non solo di partito. Lavorarono per la festa gli intellettuali dell’Università, ma offrirono gratuitamente alcune loro opere artisti come Guttuso (con le cui stampe firmate furono pagate molte imprese edili).

Vediamo qualche numero: dall’8 maggio al 1 settembre 1982 furono bonificati 28 ettari di terreni abbandonati, con oltre 50mila ore di lavoro volontario; mille volontari al giorno nei week end, qualche centinaio nei giorni di lavoro, 12mila persone in tutto, il 20% donne. Furono costruiti 6 km di strade, una rete idraulica di 4 km, una rete elettrica, approntati 291 servizi igienici in muratura, impiegati 85 km di tubi innocenti e 29mila metri cubi di legna, furono acquistate imponenti tensostrutture bianche e molte cucine complete per i ristoranti. L’architetto Francesco Tomassi curò il progetto urbanistico, l’organizzazione operativa fu di Enzo Cini, segretario Cgil Edili.

Furono realizzate in loco 5 Mostre inedite (La Pace prima di Tutto, La Toscana, una regione rossa, Scienza Tecnologia, sviluppo, I Parchi naturali, Maiakowskij giornalista, Mostra d’arte figurativa), e ci furono due mostre d’arte in città.

Negli spazi dibattiti si svolsero in media 5 iniziative politiche al giorno con politici di alto rango; nello spazio cinema vennero proiettati dai 3 ai 5 film al giorno; ci furono una ventina di spettacoli teatrali , vari spettacoli di altro genere, grandi concerti come quello dei Genesis e quello di Baglioni, uno spazio giovani sempre attivo, varie manifestazioni sportive; i ristoranti furono in tutto 19, 21 i bar-pizzerie, alcune enoteche, due punti telefono, una tabaccheria; furono installati tre sportelli bancari, uno dei quali automatico (il primo nella città). La festa ebbe un bilancio e un magazzino informatizzato, che consentiva il controllo in tempo reale dello stato delle forniture.

I visitatori furono oltre 2 milioni; l’incasso superò i 7 miliardi di lire, con un guadagno di circa 400 milioni di lire; rimasero di proprietà del partito molte strutture, riutilizzate negli anni successivi e date alle sezioni.

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Berlinguer a Tirrenia 1982 (fonte: Tirrenia82.com)

I Giornalisti inviati furono 200, le Delegazioni estere 30, e 110 l’ultimo giorno; ai dibattiti politici, oltre a tutti i dirigenti nazionali e toscani del Pci, partecirono personaggi del calibro di Franco Bassanini, Giulio Andreotti, Giorgio Spini, Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Luciano Lama, Bruno Trentin, Ottaviano Del Turco, Gianni De Michelis, Rino Formica, Sergio Zavoli, Tullio De Mauro, Felice Ippolito, Luigi Cancrini, Luciano Terrenato, Italo Insolera, Carlo Bernardini, Franco Della Peruta, Nicola Badaloni, e molti altri.

Nelle conclusioni Enrico Berlinguer, rilanciando quanto aveva da poco esternato nella nota intervista a Eugenio Scalfari, riprese il tema della diversità del Pci e della necessità che il Pci fosse un partito diverso. Lui che già aveva contrapposto le feste dell’Unità ai partiti, diventati, diceva, “macchine di potere e di clientela che gestiscono interessi disparati, anche loschi senza perseguire il bene comune, a Tirrenia affermò: “Il paese è stanco di vedere la politica ridotta a giochi meschini, a loschi intrighi, al mercato dei posti. I comunisti rappresentano – non da soli, ma nel modo più rigoroso e coerente – l’aspirazione del popolo e del paese a che si respiri un’aria pulita e possano risolversi i problemi lasciati incancrenire da anni di malgoverno”.

E forse prendendo spunto da queste parole, l’editoriale dell’opuscolo pubblicato a fine festa chiosava: “Chi crede che la politica sia soltanto gioco delle parti e trattativa di vertice fatta sopra la teste di uomini e donne non è evidentemente mai stato a Tirrenia. Anche rivista dopo molti anni, lungi dal sembrare trionfalistica, la frase appare cogliere in pieno il senso di un impegno collettivo in quel momento fortemente sentito e generosamente vissuto.

* Cristiana Torti è ricercatrice presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Insegna Storia del Patrimonio industriale e storia dell’Ambiente e del Territorio. E’ vicepresidente del Corso di Dottorato in Storia e Orientalistica. Su questo tema ha svolto una relazione più dettagliata in apertura della Giornata di testimonianze, riflessioni, fotografie e video, a trent’anni dalla festa, tenutasi il 13 ottobre 2012 presso il Centro Maccarrone di Pisa. [Si ringrazia anche Andrea Bianchi della Fondazione La Quercia Pisana-Rami del Sapere, per la collaborazione]




La protezione del patrimonio artistico tra propaganda e dedizione 1940-1943

Il 5 giugno 1940 il soprintendente alle Gallerie fiorentine Giovanni Poggi si trovò nelle mani una circolare “urgente e riservatissima” del ministero, con la quale si ordinava l’immediata attuazione di tutti i provvedimenti predisposti per la tutela del patrimonio artistico in caso di conflitto. Cinque giorni dopo l’Italia sarebbe entrata ufficialmente in guerra.

Con una serie di pubblicazioni, convegni, interventi legislativi iniziati negli anni della Iª Guerra Mondiale e culminati con la legge 1089/1939 (‘Tutela delle cose d’interesse artistico e storico’), l’Italia aveva già da tempo predisposto norme e piani da far attuare alle varie soprintendenze in caso di guerra. Cosicché, già dall’11 giugno 1940, la macchina propagandistica fascista poté mostrare la perfetta efficienza del governo nella protezione in loco di palazzi, chiese, portali e facciate scolpite, efficienza ampiamente documentata da una capillare campagna fotografica e dai cinegiornali dell’Istituto Luce.

Ospedale degli Innocenti. Armature per la protezione dei tondi di Luca della Robbia e la loggia a lavori di protezione ultimata, daNella fasi iniziali della guerra non si individuava il possibile pericolo nei bombardamenti dei centri storici, quanto piuttosto nelle eventuali schegge di proiettili della contraerea e nelle vibrazioni che potevano portare a distacchi degli affreschi. Per questo si iniziò a incastellare con legname e sacchetti di sabbia le statue e coprirle con tettoie di eternit (come avvenne per le statue davanti a Palazzo Vecchio), a rinforzare le fondamenta degli edifici (come nella Basilica di San Lorenzo a Firenze), a rivestire le superfici delle opere con carta e tessuto o costruire delle vere e proprie pareti in mattoni per le cappelle affrescate all’interno delle chiese (come per gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo).

Quando, il 28 ottobre 1940, Adolf Hitler visitò Firenze per la seconda volta, la città apparve sotto un nuovo, inedito e lugubre scenario: torrette, gabbiotti, eternit ricoprivano i simboli artistici della culla del Rinascimento, garantendo in realtà una protezione estremamente superficiale contro i bombardamenti.

Tali misure protettive, enfatizzate dalla propaganda di regime come una “blindatura” totale, si rivelarono ben presto non idonee anche per la reale mancanza di mezzi a disposizione, nonostante la commovente e costante dedizione di tutto il personale delle soprintendenze toscane.

Protezioni in muratura alle cappella di Giotto in Santa Croce a Firenze, daL’inadeguatezza delle operazioni di protezione messe in atto fino a quel momento apparve chiara già dall’autunno del 1942, quando iniziarono i bombardamenti aerei sui centri storici italiani e si dovettero sostituire tutte le protezioni in legname e sacchetti di rena con coperture in muratura.

Rimaneva ancora il problema della tutela delle opere d’arte mobili, per le quali si mostrava necessario ormai un definitivo e totale allontanamento dai centri urbani.

Lo sfollamento più imponente e delicato riguardava ovviamente la soprintendenza fiorentina, e le migliaia e migliaia di opere dei musei, delle chiese e delle collezioni private cittadine. Secondo quanto registrato direttamente da Poggi nelle sue relazioni dell’ottobre 1944 e del luglio 1945 (conservate presso il Fondo Poggi in deposito presso l’archivio storico della Soprintendenza Speciale per il patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze), già nel giugno del 1940 la Soprintendenza fiorentina riuscì a trasferire nella Villa di Poggio a Caiano il nucleo più prezioso degli Uffizi, mentre in tutto il 1940 arrivarono nel palazzo Pretorio di Scarperia e di Poppi e nel convento di Camaldoli altri importanti capolavori.
Piazza della Signoria. Particolari della rimozione della Giuditta di Donatello, daCon il sopraggiungere dell’autunno del 1942, l’aggravarsi della situazione impose una repentina ed energica azione di trasloco totale e smistamento in decine di rifugi fuori dalle città. In dieci mesi e con scarsissimi mezzi a disposizione (sei camion e carburante razionato) Firenze si svuotò completamente.

Allo scoppio della guerra anche la soprintendenza di Siena e Grosseto iniziò le grandi manovre di protezione. Il personaggio chiave nella difesa del patrimonio fu il giovane Enzo Carli, che affiancò come ispettore e direttore della Regia Pinacoteca i soprintendenti Pèleo Bacci prima e Raffaello Niccoli dopo. Carli (che sarebbe poi diventato soprintendente e tra i massimi esperti di arte senese), poco più che trentenne e con un congedo provvisorio rinnovatogli di sei mesi in sei mesi dallo Spedale militare di Firenze, dal giugno 1940 coordinò con limitate maestranze tutti i lavori. Fece ricoprire con una cupola di sacchetti di sabbia sostenuti da una impalcatura di legname il pergamo di Nicola Pisano in Duomo, e si occupò della delicata rimozione della grande vetrata di Duccio e della serie di sculture di Giovanni Pisano che decoravano la facciata della cattedrale.

Tra l’autunno del 1942 e la primavera del 1943 anche Siena iniziò un nuovo piano di misure protettive, non più dai risvolti propagandistici ma di disperata necessità. Se da un lato furono consolidati e incapsulati con armature di mattoni gli oggetti inamovibili come il pergamo di Nicola Pisano, dall’altro fu attuato lo sfollamento pressoché totale delle opere d’arte mobili presenti in città. La tavola più importante di Siena, la Maestà di Duccio di Buoninsegna, fu allora trasferita nella fattoria di Mensanello di proprietà del Seminario, costantemente sorvegliata; le grandi tavole della Regia Pinacoteca furono collocate a Villa Arceno, di proprietà dei conti Gamba Castelli, mentre gli altri dipinti partirono per l’abbazia di Monteoliveto Maggiore, dove furono nascosti al termine di un corridoio al pian terreno, a chiusura del quale fu eretta una paretina provvisoria con davanti un piccolo altare. Nel 1943 Carli prese la moglie, il figlio di 4 anni e la figlia di pochi mesi e andò ad abitare a Villa Arceno, per sorvegliare con i propri occhi tutti i capolavori: nei mesi successivi più di una volta avrebbe rischiato la vita per difendere dalle requisizioni gran parte del patrimonio artistico senese.

E così la rischiarono anche molti dei funzionari della soprintendenza fiorentina e lo stesso Poggi, che con sangue freddo, indipendenza e autorità sul finire del 1943 intrecciò audaci e trasversali trame diplomatiche, non più solo per proteggere, ma soprattutto per difendere il patrimonio cittadino.

Lo sbarco degli Americani, le mutate alleanze, l’invasione tedesca e la coesistenza di governi e poteri paralleli avrebbero infatti alterato completamente la politica ‘centralizzata’ e celebrativa di protezione al patrimonio: nella tragicità ed emergenza del momento, soprintendenti, ispettori, restauratori o semplici custodi di rifugi dimostrarono non solo efficienza e sincera dedizione, ma anche e soprattutto un grande coraggio, spirito critico e generosa umanità.