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Quando i mezzadri “sognarono” di diventare padroni della più grande fattoria del pratese…

Verso la metà del secolo scorso, contrariamente a quanto si è soliti pensare, l’agricoltura aveva ancora un peso non trascurabile a Prato e nei comuni vicini: le famiglie coloniche erano più di mille (nel Pratese una famiglia colonica era all’epoca formata in media da una diecina di persone: si parla quindi di circa diecimila addetti all’agricoltura) e nella zona esistevano alcune grandi fattorie nelle quali lavorava un consistente numero di mezzadri (le fattorie più importanti erano quelle del Mulinaccio e di Spranger qui in Val di Bisenzio, di Gonfienti e della Rugea nel territorio del comune di Prato, di Capezzana e di Artimino nel territorio del comune di Carmignano e del Parugiano nel territorio del comune di Montemurlo).
Le condizioni dei lavoratori agricoli erano però estremamente critiche. Nella primavera del 1953 La guida, il settimanale della Zona del PCI di Prato, pubblicò un’interessantissima inchiesta, realizzata da Gino Melani, segretario della Confederterra locale, sulle condizioni di vita e di lavoro dei mezzadri nelle campagne pratesi. Essa rivelava che i guadagni giornalieri dei contadini erano bassissimi (spesso insufficienti a far fronte ai bisogni della vita), che le condizioni delle abitazioni erano spaventose (basti pensare che talora nei giorni di pioggia era necessario mettere sui letti ombrelli e catinelle per impedire che l’acqua li bagnasse filtrando dal tetto), che la meccanizzazione era ancora insufficiente (in molti casi le macchine continuavano ad essere le braccia dei contadini), che il prezzo dei concimi chimici era elevatissimo (a causa del monopolio esercitato dalla Montecatini) e via di questo passo.
Stando così le cose, è facile comprendere perché il tratto più caratteristico dell’agricoltura locale fosse la commistione tra fabbrica e campagna: il fatto era che l’alto costo della vita costringeva chi lavorava nei campi ad integrare i proventi derivanti dall’agricoltura con quelli che provenivano da varie prestazioni di lavoro nell’industria (lo squilibrio fra redditi agricoli e redditi industriali, calcolato in termini monetari, arrivava a rapporti medi di 1 a 3,7 per unità di lavoro).
La fabbrica esercitava il suo fascino soprattutto sui giovani, che ambivano ad un lavoro meno massacrante e più redditizio di quello dei contadini, ad una vita più libera, a maggiori possibilità di socializzazione e di divertimento.
La tendenza all’abbandono delle campagne – in assenza di una politica volta a favorire davvero la formazione della piccola proprietà contadina con una seria riforma agraria ed a sostenerla poi adeguatamente sul piano tecnico e finanziario – assunse nel giro di alcuni anni un andamento a valanga, determinando il collasso del secolare istituto della mezzadria. Tutto ciò fu sanzionato sul piano giuridico nel 1964 da una legge che vietò il contratto di mezzadria, trasformandolo in contratto d’affitto.
È in questo quadro che si situa la vicenda della Cooperativa agricola del Mulinaccio, una vicenda complessa, che cercheremo di riassumere in estrema sintesi per tirare poi delle conclusioni.

Alla fine della seconda guerra mondiale, con una storia di più di quattro secoli alle spalle, la fattoria del Mulinaccio era la più grande del Pratese. In quel torno di tempo essa contava ben trentasei poderi per un totale di diverse centinaia di ettari di estensione (all’incirca la metà del territorio dell’attuale comune di Vaiano) e nella sua orbita si muovevano quasi trecento persone (i mezzadri erano più di duecentocinquanta).
Il proprietario, Ferdinando Vaj, era morto nel 1941 e, non avendo figli, aveva lasciato tutti i suoi beni, fattoria compresa, al Cottolengo di Torino o, se il Cottolengo avesse rinunciato, all’Istituto San Niccolò di Prato. Gli eredi designati erano tenuti a creare una casa di riposo. La contessa Caterina Guicciardini, moglie di Ferdinando, figurava nel testamento come usufruttuaria.
La fattoria aveva però seri problemi di ordine finanziario. La guerra aveva infatti causato al Mulinaccio danni gravissimi (a cominciare da quelli, mai rimborsati, arrecati al patrimonio zootecnico dalle razzie dei tedeschi), la fattoria di Luicciana, portata in dote dalla contessa, era in passivo e, nel 1946-47, l’applicazione del “lodo De Gasperi” – il quale prevedeva fra l’altro che i concedenti risarcissero i mezzadri per i danni subìti nel periodo bellico – aveva comportato per l’amministrazione un esborso superiore a due milioni dell’epoca, costringendola ad indebitarsi e rendendo drammatica una situazione già precaria.
La crisi della fattoria precipitò con la morte della contessa Caterina, avvenuta nel 1956. Gli eredi designati (il Cottolengo di Torino e l’Istituto San Niccolò di Prato, come si è detto) rinunciarono all’eredità a causa della condizione fortemente deficitaria dell’azienda e dell’obbligo, cui avrebbero dovuto sottostare, di costruire una casa di riposo. Gli eredi legittimi (cioè i parenti della contessa) fecero altrettanto e l’eredità, non essendo stata assegnata a nessuno, fu dichiarata eredità giacente.
In questo modo al Mulinaccio si produssero le condizioni ideali per l’accesso alla terra da parte dei contadini, alcuni dei quali pensarono di dar vita ad una cooperativa per rilevare la proprietà della fattoria.
Nel 1959 essi ebbero un colloquio col curatore, l’avvocato Manlio Maglioni, del foro di Firenze, il quale disse loro che l’azienda era effettivamente in vendita e che l’amministrazione avrebbe valutato con piacere eventuali proposte avanzate dai mezzadri.
Fidandosi della parola del curatore, i contadini lavorarono di buona lena alla realizzazione del loro progetto: la Cooperativa agricola Mulinaccio venne costituita a Vaiano il 28 aprile 1962 con rogito del notaio Lapo Lapi. I soci fondatori erano dodici. Il mezzadro del podere Il Frullino, Marino Mengoni, fu scelto come presidente.
I mezzadri formularono subito una proposta di acquisto. Essi richiedevano dodici poderi (l’idea di acquistare l’intera fattoria era stata abbandonata in seguito al ripensamento di alcuni coloni), al prezzo di stima di circa trentotto milioni. Erano inoltre interessati all’acquisto della villa, valutata nove milioni.
La proposta di acquisto comportava dunque un esborso di quarantasette milioni di lire. Nel valutarne la fattibilità, bisogna considerare che i contadini non erano tenuti al rispetto dei vincoli che gravavano sugli eredi testamentari (cioè non avevano l’obbligo di costruire la casa di riposo), che il bestiame in conto capitale era già loro per metà e che quasi tutti i potenziali acquirenti risultavano creditori dell’azienda. In complesso non si trattava dunque di un piano irrealistico, anche se il suo successo poteva essere pienamente garantito solo dalla concessione di un finanziamento per l’acquisto da parte dello stato o di un altro ente pubblico.
Nell’autunno del 1962 si ebbe però un colpo di scena: il 27 settembre il curatore (che con ogni verosimiglianza era il terminale di forze e di interessi privati ostili all’acquisto della fattoria da parte dei contadini) convocò all’improvviso la gara d’asta per il 29, ed a stento i rappresentanti della Cooperativa riuscirono ad ottenere dal magistrato competente un rinvio al 30 ottobre.
Nelle settimane che seguirono i mezzadri moltiplicarono gli sforzi per trovare un finanziamento, ma senza successo. Solo il comune di Vaiano, di cui era allora sindaco il comunista Fiorenzo Fiondi, si dimostrò sensibile nei confronti dei contadini: l’8 ottobre il consiglio comunale, rilevata l’importanza che i terreni del Mulinaccio avevano per la collettività (nell’intenzione dell’amministrazione vi dovevano infatti sorgere infrastrutture di primaria importanza, case popolari e così via), deliberò infatti di autorizzare il sindaco a presentare domanda d’acquisto dell’eredità giacente insieme con la Cooperativa, contraendo a tal fine un mutuo passivo.
Con questo voto il Comune di Vaiano si schierò dalla parte dei mezzadri, assumendo dei precisi impegni di carattere finanziario, ma il 9 novembre la giunta provinciale amministrativa ordinò il rinvio della deliberazione comunale perché, a suo parere, in tale atto non erano stati né sufficientemente chiariti i motivi per i quali il comune era interessato all’acquisto né indicati i riferimenti necessari per poter valutare se il comune stesso era in grado di far fronte alla spesa mediante la contrattazione di un mutuo. Il Comune di Vaiano rinunciò ad inoltrare le controdeduzioni entro i sessanta giorni previsti dalla legge, dato che l’asta si sarebbe comunque svolta prima che fosse possibile conoscere l’esito del ricorso.
La Cooperativa era ormai tagliata fuori dai giochi, e non stupisce che essa decidesse di non presentarsi neppure all’asta indetta il 3 dicembre, vinta facilmente dagli industriali pratesi Befani e Franchi che si aggiudicarono la fattoria per duecentonovanta milioni dell’epoca. I nuovi proprietari non erano affatto interessati al rilancio dell’azienda: essi non si recarono nemmeno a conoscere i mezzadri e cominciarono subito a vendere i poderi in maniera indiscriminata. Per la vecchia, gloriosa, fattoria fu la fine.
Gli interessi speculativi prevalsero dunque su quelli dei contadini. In questo senso la vicenda della Cooperativa agricola del Mulinaccio può dirsi una vicenda esemplare: come, sul piano generale, mancò la volontà di realizzare un’organica riforma agraria, così, nel caso specifico, mancò la volontà di ascoltare davvero le ragioni dei mezzadri e di dare loro un aiuto concreto.
La Cooperativa continuò ad esistere come cooperativa di servizi agricoli fino al 2003, quando ne venne decretato lo scioglimento senza nomina di commissario liquidatore.
Quello dei contadini del Mulinaccio si rivelò dunque un sogno. Eppure proprio l’essersi impegnati senza riserve per realizzare quel sogno dà un particolare valore alla loro testimonianza. Nel 1962 i contadini del Mulinaccio erano sì dei vinti, ma appartenevano ad una specie particolarissima di vinti: quelli a cui la storia non darà mai torto.




Atletica leggera nella Guerra fredda. Il Meeting dell’Amicizia di Siena

“Il Meeting dell’Amicizia per il suo carattere popolare, scevro da quell’ufficialità tipica della burocrazia federale, si differenzia profondamente dalle altre analoghe manifestazioni italiane e straniere […]. Sostenuto e finanziato dagli Enti Locali (Comune e Provincia) e dagli Enti cittadini (Monte dei Paschi, E.P.T. e Camera di Commercio), organizzato dalla UISP con la collaborazione delle Società sportive cittadine più rappresentative, si è ormai affermato e caratterizzato come un incontro di atleti e di uomini di tutti i paesi con il popolo di Siena, all’insegna dell’amicizia e della solidarietà. Diverso è il meeting di Milano, finanziato dalla Snia e dalla Pirelli, dove lo spettacolo si salda con la merce”.

Così si può leggere su un documento del luglio 1972 a cura del comitato organizzatore del Meeting senese, in occasione della 13° edizione dell’ormai famoso evento di atletica leggera che si teneva allo stadio del Rastrello.

Nel passo sopra riportato emergono con chiarezza lo spirito e i contenuti della manifestazione – la cui prima edizione,- denominata “Meeting dell’Amicizia Post-Olimpica”,- si era tenuta a Roma, pochi giorni dopo la conclusione dell’Olimpiade del 1960 – improntati ad una visione dello sport inteso come servizio sociale ed espressione di quel movimento operaio e democratico che riusciva a connotare di sé ogni ambito della vita sociale e culturale del paese.

Dal 1961 l’evento si trasferì a Siena e il giornalista sportivo Alfredo Berra così scriveva: “Il Meeting dell’Amicizia Intercittà […] rappresenta la sintesi di ciò che un movimento di propaganda e di qualificazione atletica deve avere come insegna: reclutamento, studio, metodo e progresso”. Per queste idealità e connotazioni, il Meeting dell’Amicizia fu, fin dalla sua nascita, una manifestazione sui generis, che attraversò gli anni più turbolenti della Guerra Fredda in cui le contrapposizioni tra USA e URSS erano più aspre.

Copertina del programma del 1961

Copertina del programma del 1961

Una caratteristica del Meeting dell’Amicizia, fin dalla sua prima edizione, fu quella di manifestazione di altissimo livello sportivo – già nell’edizione romana del 1960 fu stabilito un primato mondiale, quello del lancio del disco femminile (57,15 m.) della sovietica Tamara Press – e anche di importante iniziativa di amicizia tra i popoli e di festa sportiva tra culture diverse. L’UISP nazionale, col suo ramo senese UISP Atletica, fu l’ente organizzatore, coadiuvato da altre Società Sportive, ma anche ostacolato, se non apertamente discriminato, dal mondo ufficiale dell’atletica e della politica governativa che vedeva nel Meeting una articolazione della più vasta propaganda di sinistra, nella fattispecie del PCI.

Sono da leggere in questo senso i ripetuti divieti di partecipazione agli atleti appartenenti ai gruppi militari, con esclusione del corpo delle Fiamme Gialle il quale, essendo sotto il Ministero delle Finanze, concesse ai propri rappresentanti l’autorizzazione a partecipare. Emblematico, a tale riguardo, il caso di Eddy Ottoz, uno dei massimi specialisti europei e mondiali dei 110 ostacoli, il quale, in una edizione, essendo stato autorizzato a gareggiare solo all’ultimo momento, si presentò ai blocchi di partenza con la calzamaglia della saltatrice in lungo Magalì Vettorazzo.

Sempre a proposito degli ostacoli che il Meeting dovette superare negli, così si legge nella presentazione dell’edizione del 1974: “Nella misura in cui cresceva il suo successo, specie per l’adesione dei campioni provenienti dai paesi dell’Est, parallelamente si moltiplicava l’irritazione dei faziosi di professione […]. L’irritazione si tramutò in vera e propria rappresaglia nel 1965, quando fu perentoriamente vietato agli atleti in forza a società militari di partecipare al Meeting. Non fu mai appurato da chi partì il veto, ma lo si intuì. E’ risaputo che militare con muove foglia, che il Ministro non voglia”.

Un esempio significativo di boicottaggio della manifestazione fu quello che si verificò nella prima edizione senese dell’ottobre 1961 quando il Prefetto di Siena proibì agli organizzatori di esporre la bandiera delle Repubblica Democratica Tedesca (Germania dell’Est, come altresì veniva definita), perché non riconosciuta dallo Stato italiano. La qualcosa fece molto scalpore e sollevò proteste da parte delle altre delegazioni, in particolare proprio della DDR che peraltro aveva edificato il Muro di Berlino da circa due mesi. Per non creare discriminazioni fra gli atleti partecipanti, il comitato organizzatore decise, unica volta nella storia del Meeting, di non esporre nessuna bandiera.

Sempre in chiave politica sono da interpretare le decisioni relative alla partecipazione della prestigiosa mezzofondista italiana Gabriella Dorio, rappresentante della società Fiamma Atletica Vicenza, articolazione della Società Fiamma fondata nel 1948 dal Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori e il cui primo presidente era stato Pino Romualdi, ex vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano nonché uno del fondatori del MSI. La soluzione che fu trovata fu un compromesso tra chi si opponeva con fermezza alla presenza al Meeting di atleti appartenenti a quella società sportiva e chi, invece, privilegiava la grandezza atletica della Dorio rispetto alla sua espressione in qualche modo ‘politica’; l’atleta veneta fu infatti ammessa alle gare a patto che non indossasse la divisa della Fiamma che aveva come suo simbolo una “F” scudettata tricolore. 

Fu così in questo clima di aspri scontri e contrapposizioni ideologici, di cui anche il mondo dello sport fu interprete, che il Meeting dell’Amicizia continuò a tenersi a Siena fino alla sua 20° ed ultima edizione del 1979 quando la UISP fu costretta per motivi essenzialmente economici a interrompere l’organizzazione dell’evento.

Rod Milburn, record mondiale nei 110hs con 13"1, Meeting dell'Amicizia 22 luglio 1973, Siena

Rod Milburn, record mondiale nei 110hs con 13″1, Meeting dell’Amicizia 22 luglio 1973, Siena

Come abbiamo accennato, il Meeting si caratterizzò per la partecipazione di atleti di alto livello; nelle prime edizioni i partecipanti provenivano per lo più dai paesi dell’Europa dell’Est – all’edizione del 1961 parteciparono, oltre ad atleti italiani, rappresentanti polacchi, ungheresi, sovietici, rumeni, cecoslovacchi e jugoslavi. In seguito, la manifestazione vide la presenza di atleti cubani, ma anche statunitensi, africani e di tanti stati europei. Di certo il Meeting dell’Amicizia fu un antesignano di analoghe manifestazioni che in seguito vennero organizzate sia in Italia che all’estero e fu caratterizzato da risultati sportivi di assoluto prestigio. Al proposito ricordiamo le imprese nei 400 m. del cubano Alberto Juatorena, conosciuto come El Caballo, il record del mondo nei 100m. (9″9) ottenuto il 16 luglio del 1975 dello statunitense Stewe Williams, quello del 22 luglio 1973 nei 110hs (13″1) dello statunitense Rod Milburn, le epiche sfide di Franco Arese con l’atleta a stelle e strisce Liguori nei 1500m., le partecipazioni nelle gare di velocità di Livio Berruti, Pietro Mennea ed Eddy Ottoz, tanto per citare alcuni dei più famosi atleti italiani. A proposito di ‘gare di velocità’, c’è da ricordare che la pista de ‘Il Rastrello’ era considerata da tanti esperti una pista dove era possibile ottenere grandi risultati e fu anche per questo che il Meeting vide la partecipazione di così tanti atleti di valore e fama internazionale.

Come già accennato, il 1979 fu l’ultimo anno del meeting senese. Da qui, seppure con connotazioni diverse, il Meeting si trasferì a Pisa per due anni e poi avere termine.




Un Partigiano di nome Annibale

Nato a Pistoia (Santomato) il 19 gennaio 1922, figlio di Leonardo e Capponi Maria Ida, Annibale Trinci ottiene la licenza elementare, contadino poi elettricista e operaio alla fabbrica pistoiese San Giorgio dall’ottobre del 1939, iscritto alla CGIL dove si compie la sua educazione di classe, in quella che negli anni ‘40 era una fucina di militanti operai comunisti. Nel 1941 Trinci è chiamato alle armi all’Elba a Portoferraio nel genio foto elettricisti; partecipa dal 18 novembre 1942 al 21 gennaio 1943 alle operazioni di guerra svoltesi nel Mediterraneo con la 105a Compagnia mista genio mobilitato e poi dal 7 febbraio 1943 al luglio 1943 e dal 9 agosto 1943 all’8 settembre 1944 nelle operazioni nel Mediterraneo per la difesa della patria a copertura costiera con la 105a Compagnia Mista Genio Mobilitato.

Dal 22 marzo 1944 per ordine della dirigenza della San Giorgio è trasferito nella sede di Cambiano, vicino Torino, da lì inizia la sua esperienza da partigiano con il nome di battaglia “Marco Polo”. È a Cambiano che Annibale incontra Giordano Bruschi e Olga Arcargioli. Giordano, di origine pistoiese, si era diplomato in ragioneria a Genova ed era stato assunto a 19 anni alla San Giorgio di Cambiano, introdotto dallo zio, il primo settembre 1944 come impiegato contabile per i settori della mensa e del magazzino; nonostante la giovane età diverrà ben presto, con il nome di battaglia “Giotto” commissario politico della 30a Brigata delle SAP “Capriolo”. Olga, in fabbrica dal primo luglio 1943 come impiegata stenodattilografa, anche lei diciannovenne, si ritrova nel tumulto della guerra e diventa una fida staffetta.
A Cambiano s’incontrano due classi operaie: una proveniente da Pistoia, l’altra da Sestri Ponente. I pistoiesi erano diretti da Trinci e Niccolai, impiegato originario di San Marcello. Il gruppo genovese era un nucleo storico nato in seno all’esperienza di “Soccorso Rosso” nel 1936 che aveva dato vita alla solidarietà ai compagni impegnati nella guerra civile in Spagna. La fabbrica genovese aveva una peculiarità: non aveva dirigenti fascisti, ma due ebrei, che non avevano mai fatto discriminazioni nell’assunzione di antifascisti. A Cambiano, fabbrica di armi di precisione, i BGS, arrivano quindi operai già politicizzati.

annibale e amiciDal 1o settembre 1944 Annibale Trinci s’iscrive al Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà nel comitato regionale Piemontese, nella sezione di Torino, VI zona, la zona delle Langhe. In seguito è garibaldino della XIV divisione del Piemonte della brigata d’assalto Garibaldi “Luigi Capriolo”, guidata dal Comandante Kin. In pieno accordo con i compagni del P.C.I. fu deciso di inviare Trinci presso una formazione “Giustizia e Libertà”, a Pino d’Asti, vicino Cambiano, precisamente nella IX G.L. al Comando del Maggiore Alberti, con il preciso compito di formare entro queste bande delle cellule del Partito Comunista, e intanto stabilire solidi collegamenti fra il Partito e i partigiani.
Nel novembre del 1944 si assiste a un rastrellamento nazifascista d’ingenti dimensioni, le divisioni se pur a conoscenza dell’imminente attacco subiranno perdite e feriti. Il 20 novembre 1944 Annibale Trinci combatte ed è ferito nella battaglia di Aramengo, vicino ad Asti sulle colline del Monferrato. Riconosciuto combattente partigiano dalla commissione regione Piemonte, Annibale Trinci ha partecipato dal 3 settembre 1944 al 8 maggio 1945 in territorio metropolitano astigiano con la qualifica di Sergente Maggiore Capo con la formazione partigiana IX divisione “Giustizia e Libertà” comandata dal capitano Oreste Gastone Alberti, dal 6 settembre 1944 (già combattente nel Veneto nelle formazioni “Giustizia e Libertà” e della 1a divisione alpina) Divisione Pedro Ferreira, nella III “Brigata Montano”, nello specifico nella colonna “Biz”(Luigi), e sulla brigata “Domenico Tamietti”. Tra il febbraio e il marzo 1945, fa parte anche di gruppo gappista che si occupava di far saltare i binari della ferrovia, nella zona di Villa Stellone, una stazione a circa tre chilometri da Trofarello. Il 18 aprile 1945, durante lo sciopero, Trinci occupa militarmente Trofarello e Cambiano e arrestando i fascisti armati. Il 21 maggio 1945, riconosciutagli l’attestazione di buona condotta dal prefetto, è ammesso come volontario nella Polizia del Popolo. Trinci era stato anche nominato capo della polizia interna alla fabbrica per garantire l’integrità della fabbrica, a causa di furti nello stabilimento, e successivamente di preparare il materiale sui vagoni merci diretti a Genova e Pistoia.

Nell’ottobre del 1945 riprende servizio alla fabbrica San Giorgio di Pistoia. Nel 1950 Annibale si sposa con Roberta Giannini, dalla quale avrà le figlie Manuela e Tamara. Il 29 novembre 1951 a causa di un infortunio sul lavoro durante un cantiere in Abruzzo perde una gamba; inizia questa volta una lotta con l’ingiustizia burocratica per il riconoscimento dell’infortunio, tanto che si occuperà del caso anche il sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio. Nel 1955 è licenziato dalla fabbrica essendo considerato “non adatto ai lavori di stabilimento”. Per la sua passione e attività nel dopoguerra ricopre varie cariche, è dirigente dell’ANPI di Pistoia, dirigente dell’Associazione invalidi di Pistoia, dirigente PCI della sezione di Porta Lucchese. Muore il 1 agosto 1981.

Alice Vannucchi è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia, è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




L’esodo dalla campagna.

Il territorio pistoiese, a differenza delle aree centrali della regione, conosceva da sempre una distribuzione della proprietà terriera peculiare, estremamente polverizzata, con una prevalenza numerica della piccola e piccolissima proprietà, spesso addirittura inferiore a un ettaro, a fronte di pochi grandi proprietà terriere. I grandi proprietari concentravano nelle loro mani la maggioranza della superficie agricola e del reddito imponibile, pur rappresentando una quota intorno al 4% del totale dei proprietari. I piccoli proprietari però solo in parte erano costituiti da coltivatori diretti. Più spesso si trattava di ceti urbani in possesso di terreni che davano a mezzadria, per ottenere in questo modo una rendita in prodotti agricoli. Queste due caratteristiche avevano da sempre frammentato e reso differenziato il movimento mezzadrile pistoiese, che infatti durante la sua storia fu afflitto da una continua debolezza nelle forme rivendicative, a cui corrispondeva però una grande forza organizzativa, pari a circa il 50% dei mezzadri durante tutta l’epoca repubblicana. Alla vigilia degli anni ’60, il movimento sindacale dei mezzadri pistoiesi era ancora una grande forza, strutturata principalmente intorno alla Federmezzadri. Ma di lì a poco le cose sarebbero radicalmente cambiate.

L’abbandono delle campagne, come fenomeno generale, era già in corso fin dall’inizio del secolo, con una significativa battuta dì arresto durante il Regime fascista. Ma dagli anni ’60 divenne un esodo vero e proprio. Giocavano vari fattori: il confronto con i salariati si era ribaltato e gli operai usufruivano di condizioni di lavoro e di vita migliori; l’esclusione dai comfort moderni delle aree urbanizzate; lo sviluppo economico che creava lavoro; la fine del patriarcato, che metteva in crisi la famiglia azienda.
I giovani non volevano più lavorare sul podere e le donne si rifiutavano di sposare i contadini. Si diffondeva il modello unifamiliare. Stanchi di non ottenere cambiamenti radicali e dell’intransigenza dei proprietari ad applicare le varie leggi dello Stato che si erano susseguite, i mezzadri iniziarono a guardarsi intorno ed a vedere vie d’uscita.

Dal 1948 al 1966 la superficie condotta a mezzadria in provincia si era più che dimezzata, passando da 34.200 ettari a 16.000. La proprietà coltivatrice diretta non era cresciuta in proporzione, anzi la sua estensione era stata modestissima, da 34.200 a 38.000 ettari. Anche l’affittanza era cresciuta poco, passando da 2.100 a 2.300. Il balzo in avanti invece l’aveva fatto la conduzione capitalista in economia con salariati, che quasi raddoppiava, passando da 18.400 a 33.000. Nel ’67 esistevano ancora 4.200 nuclei mezzadrili e 12.500 unità, dai 33.558 del 1948. Il calo continuava anche se il ritmo era meno accelerato. Nel 1964 i nuclei erano 5.656 con 19.518 addetti, nel ’65 4.840 e 15.647 unità. Tra il ’48 e il ’67 la mezzadria si era dimezzata come nuclei e aveva perso il 60% delle unità lavorative superiori ai 12 anni, anche se i dati andavano presi per difetto. L’esodo maggiore si era verificato dal 1961 in avanti Tra il 1962 e il 1965 i braccianti salariati erano più che raddoppiati, passando da 590 a 1.257, ed erano diminuiti gli occasionali e gli eccezionali, aumentando la stabilità lavorativa.

Si diffusero in quegli anni figure ibride, i “metalmezzadri”, che svolgevano attività lavorative sia nelle fabbriche che sui campi, a volte alternandole. Era il preludio all’abbandono delle campagne. Le famiglie abbandonavano i poderi in un colpo solo oppure per gradi, con i figli che se ne andavano progressivamente ed i vecchi che restavano. I proprietari iniziavano a faticare a trovare persone disposte a lavorare a mezzadria. Gli ex contadini diventarono dipendenti, artigiani, commercianti, vivaisti, non mancando esperienze imprenditoriali di successo. Le loro destinazioni erano spesso le città e i paesi vicini.

Con la legge 756 del 1964 si vietò la stipula di nuovi contratti di mezzadria. Rimanevano validi quegli già in essere. Il movimento sindacale continuò le sue battaglie per una riforma, ma venivano a mancare le forze. Dagli anni ’60 la nuova parole d’ordine fu la proprietà associata, senza tralasciare la tutela delle questioni quotidiane. Tuttavia le campagne si spopolavano e la dinamica politica non lasciava intravedere possibilità di successo. L’accento si spostava sempre più sulla caratterizzazione del mezzadro come potenziale “imprenditore” agricolo, socio dell’azienda, coltivatore diretto o socio di cooperativa, in funzione di uno sviluppo dell’agricoltura alternativo al capitalismo e basato sulla piccola proprietà contadina. Dagli anni ’70 si iniziò a chiedere la trasformazione della mezzadria in affitto. Ma ormai le campagne erano spopolate, e il movimento mezzadrile uscì silenziosamente di scena.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




Profughi e accoglienza a Livorno: l’impegno per i Balcani negli anni ’90

La presenza di profughi, rifugiati e richiedenti asilo in Italia rappresenta oggi uno dei temi più discussi nel dibattito pubblico. L’arrivo, il transito e la permanenza nel nostro paese di persone in fuga da contesti di conflitto bellico e di emergenza umanitaria ha provocato attenzione e preoccupazione crescenti. I temi dell’accoglienza, della sicurezza, della protezione sono all’ordine del giorno e il confronto su tali questioni suscita accesi contrasti e conflitti.

5_mostar_giu94Nel pensare a questi argomenti, però, rimaniamo spesso schiacciati dal presente e dal lessico della contingenza, dimenticando che anche in passato la società italiana ha affrontato e gestito ondate migratorie di persone che avevano perso tutto e che cercavano nel nostro paese un’approdo sicuro. Poco più di 20 anni fa, agli inizi degli anni ’90, la regione balcanica è stata teatro di un sanguinoso conflitto, terribile e prolungato, la guerra civile della ex Jugoslavia, che ha suscitato un’ondata di mobilitazione in tutta Italia, proprio con le parole d’ordine dell’accoglienza e dell’aiuto verso le vittime di quella sciagura.

A Livorno, come in molte altre città italiane, l’impegno per l’emergenza umanitaria balcanica si è andato concretizzando con gradualità, attraverso un percorso molto singolare. In una prima fase erano stati organizzati a livello istituzionale degli incontri di sensibilizzazione e conoscenza della situazione, il primo in apertura di decennio con la partecipazione dello storico sloveno Joze Pirjevec, il secondo nel marzo 1992 con la presenza di alcune donne pacifiste provenienti da Belgrado e Zagabria. Se inizialmente si era cercato di capire le ragioni della guerra, nel ’92 si allacciarono direttamente rapporti con il movimento pacifista jugoslavo, che rimaneva completamente assente dalla rappresentazione mediatica del conflitto.

3_unita_mag94Ma il salto di qualità nell’impegno dal basso verso la regione balcanica avvenne a Livorno nel 1994, grazie all’iniziativa dei detenuti del carcere della Gorgona. Questi infatti decisero di aderire al progetto nazionale Arci “Adotta la pace”, devolvendo una giornata del loro lavoro penale ad alcune famiglie vittime del dramma jugoslavo: il progetto consisteva nel versare la somma di lire 70.000 al mese ad una famiglia vittima della guerra o della discriminazione etnica. Luciano De Majo scrisse un articolo per l’Unità, intitolandolo «La Gorgona adotta la pace». Fu l’inizio di una gara di solidarietà tra molti cittadini livornesi a contribuire con donazioni e materiali utili, che furono poi portati a Mostar e a Sarajevo da una comitiva di volontari. Ma «chi si frugò per primo – ci ha detto giustamente Alfio Baldi, allora presidente dell’Arci di Livorno – furono i detenuti».

Il viaggio dei volontari in una ex Jugoslavia ancora in stato di guerra, dove i cecchini seminavano morte e non tutti vedevano di buon occhio questi “viaggi di pace”, fu un’esperienza molto forte, al pari di molti altri viaggi analoghi che partirono in quegli anni dall’Italia. «Dall’inizio delle ostilità in Slovenia e Croazia alla guerra in Kosovo, sono almeno 20.000 i cittadini italiani che si attivano nella solidarietà verso le popolazioni della Ex-Jugoslavia e dell’Albania», hanno scritto Marco Abram e Marzia Bona dell’Osservatorio Balcani-Caucaso in uno studio dedicato alle reti di solidarietà che attraversarono l’Adriatico negli anni ’90.

E in effetti l’emozione lasciata dal dramma della ex Jugoslavia non si spense nel giro di poco tempo, ma determinò poi una forte apertura nei confronti di un’altra crisi balcanica, quella dell’Albania e del secondo flusso di profughi che arrivò nel 1997: i primi albanesi che arrivarono a Livorno furono accolti nelle strutture prefabbricate prima usate dagli operai impegnati nella costruzione della variante, all’uscita di Montenero, pochi chilometri a sud della città. Furono subito attivati corsi di alfabetizzazione per aiutare i nuovi arrivati ad ambientarsi e potersi muovere nella società italiana.

La situazione dei profughi e la realtà concreta dell’accoglienza è profondamente condizionata dall’attivazione a livello sociale di movimenti d’opinione e di solidarietà, così come dalla reazione delle istituzioni. Per riflettere su questi temi, l’Istoreco Livorno insieme all’ISSM-CNR di Napoli hanno organizzato una giornata di studio il 22 ottobre 2015, presso la sede dell’Istoreco. L’obiettivo è di restituire una profondità storica alla realtà dell’immigrazione di richiedenti asilo, focalizzandosi su alcuni flussi significativi avvenuti già a partire dal 1945, passando per gli anni novanta e i conflitti nei Balcani e arrivare a delineare gli sviluppi più recenti. In particolare vogliamo concentrarci sulle modalità istituzionali con cui i governi italiani hanno scelto di gestire questi flussi, sulla storia e i percorsi dell’accoglienza, sulle diversità esistenti sia tra passato e presente, sia nei diversi movimenti di immigrazione di profughi avvenuti negli stessi periodi storici.

6_jugo_giu94Allo stesso tempo vogliamo capire quali sono state nel tempo le reazioni della società all’arrivo dei profughi, in che modo si sono attivati circuiti di solidarietà e se ci sono state forme di discriminazione. Di cosa parliamo quando parliamo di accoglienza, a livello nazionale e a livello locale? Chi sono stati i soggetti che hanno avuto in carico la responsabilità di occuparsene? Chi erano e chi sono i profughi? Da dove vengono e perché si trovano a passare dall’Italia? In che modo la politica migratoria italiana si è intrecciata alla politica migratoria europea, ieri e oggi?

Oltre a ragionare sul contesto nazionale e internazionale, crediamo inoltre sia importante riflettere sulle esperienze locali, ricostruendo ciò che è successo a Livorno e in Toscana a cominciare dall’esodo dei giuliani dopo la seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri per mettere a confronto l’esperienza storica dell’accoglienza con l’attuale “modello toscano”, che nel contesto nazionale presenta originalità e peculiarità utili da approfondire.




Vaiano: storia di una Casa del Popolo

Dopo la fine della Grande Guerra, i socialisti ripresero con vigore, anche in Val di Bisenzio, l’attività di propaganda e di proselitismo: è in questo contesto che si colloca il progetto di dar vita ad una Casa del popolo.

Furono infatti la crescita del sindacato, del movimento cooperativistico, di quello mutualistico e del Partito socialista che  fecero sorgere l’idea di costruire a Vaiano una Casa del popolo, per dare finalmente ai lavoratori uno spazio dove fosse possibile svolgere attività di tipo culturale e ricreativo.

Naturalmente bisognava risolvere il problema delle risorse. A questo riguardo, occorre tenere presente che il concordato per l’applicazione delle otto ore nel Pratese, stipulato il 6 maggio 1919, stabiliva che ogni ditta avrebbe versato alla Camera del lavoro, per la costruzione delle Case del popolo di Prato e di Vaiano, una somma non inferiore a sette lire per ogni operaio ed operaia. Dal canto loro, i lavoratori si impegnavano a rinunciare a dieci delle venti lire che avrebbero riscosso in occasione della firma della pace in favore delle erigende Case del popolo.

Grazie a questo meccanismo fu possibile raccogliere buona parte dei fondi necessari, il denaro mancante venne trovato tramite un’apposita sottoscrizione.

A Vaiano fu deciso di rialzare di un piano l’immobile della Cooperativa generale di consumo (sorta nel 1910) e di utilizzare il grande salone che si sarebbe così ottenuto come Casa del popolo. I lavori, iniziati ai primi di aprile del 1920, erano già conclusi nell’estate: in agosto nei locali della Casa del Popolo si svolse un’adunanza dei rappresentanti delle sezioni socialiste della vallata.

La Cooperativa generale di consumo era, a tutti gli effetti, la proprietaria del salone edificato dai lavoratori.

Ma la neonata Casa del popolo cadde ben presto sotto i colpi della violenza squadristica, che, il 17 aprile 1921, si abbatté prima su Prato e poi su Vaiano, colpita in quanto roccaforte del movimento operaio della zona. Nel pomeriggio del 17 aprile giunsero in paese quattordici camion carichi di fascisti scortati da un automezzo dei carabinieri. Sul camion di testa e su quello di coda era stata piazzata una mitragliatrice. Gli squadristi erano circa quattrocento. Arrivati in centro, cominciarono a sparare all’impazzata: il bilancio della spedizione fu di due morti (Guglielmo Vitali ed Umberto Corona) e di tredici feriti tra la popolazione: Vitali venne ucciso mentre stava parlando con degli amici fuori dal caffè detto di “Cucca”, Corona, un giovane diciassettenne soprannominato “il Profughino” perché aveva lasciato il suo paese durante la ritirata delle truppe italiane nel 1917, fu raggiunto da un colpo sparato da una finestra. La Cooperativa generale di consumo, la Società democratica di mutuo soccorso, la Lega laniera, la Lega edile e la Casa del popolo vennero devastate, la stessa sorte subirono diverse case, fra cui quella di Battista Tettamanti, che, negli anni precedenti, era stato alla testa dei lanieri della zona. L’ammontare dei danni fu superiore a 187.000 lire dell’epoca. I danni arrecati alla Casa del popolo furono calcolati in 17.280 lire. La spedizione era stata guidata dal pratese Tullio Tamburini, ex impiegato del lanificio Forti della Briglia, che sarebbe poi divenuto prefetto ed infine capo della polizia della Repubblica sociale italiana.

L’assalto squadristico significò la fine della Cooperativa generale di consumo, che, come si è detto, ospitava anche la Casa del popolo.

I fascisti assunsero il controllo della Cooperativa. L’immobile divenne la sede della Casa del fascio: il salone che era stato della Casa del popolo diventò una palestra dove, in caso di maltempo, si svolgevano le esercitazioni del premilitare. Ma dopo la fascistizzazione la Cooperativa cominciò a navigare in cattive acque ed infine fallì: nel 1929 i suoi locali furono messi all’asta ed acquistati da Dante Bardazzi, fornaio. I fascisti continuarono peraltro ad occuparli senza pagare una lira di affitto al proprietario.

L’immobile restò in loro mano sino al 25 luglio 1943.

Dopo la liberazione di Vaiano (10 settembre 1944) i lavoratori ripresero possesso dell’immobile che era stato della Casa del fascio, sistemandovi le loro organizzazioni politiche e sindacali: i locali furono occupati dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalla Camera del lavoro, dalla risorta Cooperativa di consumo e dal Circolo ricreativo. Più tardi fu stipulato un regolare contratto di affitto col proprietario dell’immobile, Dante Bardazzi.

La ripresa della normale attività politica mise in luce la forza ed il radicamento del Partito comunista nella vallata. Anche la CGIL era molto forte: la Camera del lavoro di Vaiano sorse nel 1944.

Nel 1946 fu deciso di costruire una nuova sede per l’organizzazione camerale: il progetto prevedeva che all’edificio fosse annesso un politeama. Negli anni seguenti le energie dei lavoratori vaianesi furono assorbite da questo progetto: i lavori furono ultimati nel 1949, ma la crisi dell’industria tessile determinò la fine della Camera del lavoro di Vaiano, che, per il calo degli iscritti, fu costretta a cessare la sua attività nel giro di pochi anni. Il permesso per l’apertura della sala cinematografica nel nuovo politeama non venne concesso per ragioni politiche, ed il locale dovette essere venduto: si riaffacciò così l’esigenza di edificare una Casa del popolo.

Ma il momento non era propizio perché proprio in quegli anni il governo Scelba-Saragat (ribattezzato “governo SS” dai lavoratori) scatenò la sua offensiva contro le Case del popolo, decidendo, nel 1954, di recuperare allo stato tutti i beni che erano appartenuti al disciolto Partito nazionale fascista ed assestando, in tal modo, un duro colpo al movimento circolistico (nella sola provincia di Firenze, fra il 1953 ed il 1955, furono chiuse ben ventitré Case del popolo).

Nel corso degli anni Sessanta, col venire meno dello scelbismo e con l’avviarsi verso un risultato positivo della lenta gestazione del centrosinistra, il quadro politico si fece meno sfavorevole, mentre si rafforzava la coscienza che le case del popolo dovevano essere sempre più delle strutture capaci di coinvolgere ampi strati sociali e classi di età diversa. Per altro verso, l’aumento del reddito e dei consumi, il moltiplicarsi degli apparecchi radiotelevisivi ed il diffondersi della motorizzazione spinsero la gente verso nuove forme di utilizzazione del tempo libero, determinando una seria crisi delle case del popolo.

Ebbero quindi del coraggio i sette compagni che il 24 febbraio 1961, con rogito del notaio Ugolino Golini di Firenze, costituirono l’Associazione civile Casa del popolo di Vaiano. Ricordiamone i nomi: Natale Consorti, Dino Lilli, Giorgio Oliviero Meucci, Severino Morganti, Mauro Risaliti, Giuseppe Santi e Pietro Sizzi.

L’Associazione acquistò l’immobile del vecchio teatro Gustavo Modena, per costruire, sull’area da esso occupata, la nuova Casa del popolo, ma, prima che cominciassero i lavori, dovettero passare sette anni, durante i quali vennero esaminati vari progetti, tenendo conto della realtà di Vaiano e delle capacità economiche dell’Associazione stessa.

A dare la spinta necessaria alla realizzazione dell’opera fu l’avanzata del Partito comunista alle politiche del 1968 (+1,65% alla Camera), insieme con l’esplodere della contestazione studentesca e col riaccendersi delle lotte operaie, che, in tutta Italia, determinarono un rilancio delle case del popolo.

Verso la metà di luglio del 1968 l’impresa edile Carlo Fiaschi iniziò i lavori sulla base di un progetto fatto dal geometra Alberto Pastacaldi (la direzione tecnica dei lavori venne in seguito affidata all’architetto Vinicio Brilli ed all’ingegner Umberto Fiaschi).

L’inaugurazione della nuova sede ebbe luogo domenica 20 settembre 1970, centesimo anniversario della breccia di Porta Pia.

L’apertura dei nuovi locali ha permesso alla Casa del popolo di esplicare un’attività rilevante, alla quale hanno dato un valido contributo i giovani entrati a far parte dell’associazione. Molteplici sono state le iniziative, sia ricreative sia culturali, e costante è stato l’impegno in difesa delle libertà democratiche (giova sottolineare che la Casa del popolo ha rappresentato un punto di riferimento per gli alpini inviati a sorvegliare la Direttissima durante la tragica stagione degli attentati ferroviari degli anni Settanta-Ottanta).

Ed anche oggi la Casa del popolo gode di buona salute e continua a svolgere una funzione davvero preziosa, permettendo ai lavoratori di socializzare, di ricrearsi e di allargare i propri orizzonti culturali.




Giovanni Tellini libraio ed editore

Giovanni Tellini (Firenze 1932-1984)  a fine anni ’60 lasciò Firenze, da poco alluvionata, e approdò a Pistoia.

In corso Gramsci, davanti alle sede del PCI pistoiese, aprì una piccola libreria variegata, confusionaria, piena di cose nuove …  la libreria ben presto si guadagnò l’esagerata nomea di “libreria di Mao”. Frequentata da politici, intellettuali e artisti diventò un punto di riferimento nella geografia culturale della città.

Poi il salto di qualità: nella piccola stanza senza finestra Tellini  partorì l’idea della casa editrice ed iniziò a pubblicare. Dall’arte, alla poesia, dalle prime guide turistiche ai saggi storici, il panorama si ampliò in poco tempo, le pubblicazioni  avevano recensioni e buon riscontro di vendita.
Il grande amore di Giovanni, la Maremma, grazie ad un incontro con il “custode di Roselle” Morbello Vergari (e poi con Alfio Cavoli),  divenne  musa di un’appassionata serie di pubblicazioni sulla “amara terra” e  su gli etruschi.  In quasi venti anni i titoli, frutto di questa piccola casa editrice di provincia, arrivarono a più di un centinaio.
Non da meno erano i nomi degli autori,  ed amici, che si raccoglievano intorno a Giovanni Tellini: Giovanni Michelucci, Claudio Rosati, Renato Risaliti, Domenico Maselli, i giornalisti Valeriano Cecconi e Maurizio Tuci, artisti come Fernando Melani e Sigfrido Bartolini. Una parentesi che valeva la pena di raccontare per una figura autodidatta, un uomo timido ed ironico, libraio e editore ricordato  a distanza di trent’anni dalla morte con affetto e stima.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




Memorie di bronzo, memorie di pietra.

Era il 16 settembre 1945 quando il popolo di San Lorenzo appose sulla fiancata dell’omonima chiesa una lapide per ricordare la fucilazione di sei civili da parte dei soldati tedeschi avvenuta il 12 settembre 1943. Era il primo dei “segni di memoria” posti a Pistoia per ricordare la guerra e la Resistenza.

Inizialmente il Comune, nonostante fosse governato da PCI e PSI, dimostrò una certa riluttanza a impegnarsi in questa politica, lasciando l’iniziativa ai singoli e alle associazioni. L’iniziativa della Giunta fu probabilmente bloccata dal conflitto tra la visione della Resistenza della DC, che dominava i centri finanziari locali e tendeva a presentare l’evento come una lotta per la libertà ormai conclusa, e quella del PCI, che vedeva la Resistenza come la tappa di un processo da portare avanti.

Vi fu così una divisione urbanistica tra il centro cittadino, dove il ricordo si concentrò sui civili e i partigiani morti per mano nazi-fascista, e le chiese di periferia, dove furono poste le lapidi dedicate ai soldati.

La risistemazione nel 1959 del quadrato dei caduti nel cimitero da parte del comune segnò la fine di questa prima fase conflittuale: per la prima volta la proposta fu accettata all’unanimità dal consiglio. In secondo luogo, dal 1959 al 1984 non fu inaugurato nessun monumento di grande portata. Questo atteggiamento non si traduceva nell’accantonamento della Resistenza, anzi. In quegli anni, anche a Pistoia le cerimonie per il 25 aprile vedevano la partecipazione di tutti i partiti ciellenisti e avvaloravano il concetto di Resistenza come “secondo Risorgimento”.

Vi erano dunque altre cause. Negli anni ’60 la maggior parte di chi voleva ricordare i propri cari lo aveva già fatto, mentre l’esperienza del centro-sinistra stemperò le tensioni politiche e la contesa sulla Resistenza.

Una nuova fase fu aperta dal Sacrario per i caduti di tutte le guerre, inaugurato al cimitero di Pistoia per commemorare tutti caduti nel 1984. Era l’unico progetto a volgere in quella direzione: le altre opere (come la scultura di Flavio Bartolozzi in Piazza San Lorenzo), inserite nel tessuto cittadino e dalla visibilità pronunciata, insistevano sulla partecipazione della popolazione alla Resistenza. La sensazione è che si cercasse di ribadire una politica memoriale posta in discussione dalla fine del «compromesso storico». Il tracollo della Prima Repubblica, con la scomparsa o la trasformazione dei partiti ciellenisti, procurò ulteriori sconquassi.

A causa dell’instabilità dell’amministrazione locale tra il 1985 e il 1992, una nuova politica della memoria fu elaborata solo verso la fine degli anni ’90. Protagonisti delle commemorazioni  furono i civili: lo scopo non era più condannare la repressione nazi-fascista, ma deplorare la guerra in quanto tale.

Anche la materialità del ricordo venne meno. Le grandi lapidi in marmo hanno lasciato spazio a piccoli riquadri in pietra e a cippi orizzontali. Quasi invisibili all’occhio distratto del cittadino, i nuovi segni testimoniano il desiderio di accostarsi alla quotidianità e all’umiltà delle vittime; ma, non marcando il paesaggio, corrono il rischio di consegnare all’oblio i nomi di chi si voleva ricondurre alla luce.

Chiara Martinelli è dottoranda presso l’Università degli studi di Firenze ed è membro dal 2007 della redazione della rivista «QF. Quaderni di Farestoria». Tra le principali pubblicazioni, si segnalano: Esigenze locali, suggestioni europee. L’istruzione professionale italiana (1861-1886), «Passato e presente», n. 93, 2014, Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, «Società e storia», n.137, 2012, Una città industriosa e la sua scuola: fondazione e primi anni di vita della Regia Scuola Industriale Antonio Pacinotti (1907 – 1924), Pistoia, I. S. R. Pt., 2010.