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Le battute anticomuniste del 1925-1927 in provincia di Siena*

Il Pcd’I senese, nato sulla base di nuclei della frazione comunista presenti in varie sezioni del Psi già prima della scissione di Livorno, aveva raccolto nel suo primo anno di vita 483 iscritti, non molti rispetto a Massa, Pisa, Grosseto, Arezzo e ovviamente Firenze, ma distribuiti sul territorio provinciale con una capillarità unica in Toscana. Le iscrizioni erano calate nei due anni successivi – nel 1923 soltanto un centinaio – ed erano tornate a salire nel 1924 grazie anche all’arrivo nel partito dei socialisti terzointernazionalisti, il cui leader, Ricciardo Bonelli, essendo stato a lungo segretario della Federterra, aveva portato in “dote” un buon numero di lavoratori della terra, soprattutto mezzadri.

Lo squadrismo e l’azione poliziesca avevano fatto sentire i loro effetti costringendo, fin dal 1922, molti militanti all’emigrazione per conservare la propria incolumità e non essere incarcerati di continuo.

Ondate di arresti di massa non si erano tuttavia verificate neppure nei periodi più duri come durante la “battuta anticomunista” del 1923 che portò in carcere migliaia di comunisti in varie parti d’Italia e quasi l’intero gruppo dirigente nazionale.

A colmare questo vuoto intervennero, fra il 1925 e il 1927, due vaste operazioni di polizia, una con epicentro Colle Val d’Elsa e Poggibonsi, l’altra con epicentro Sinalunga.

«Nelle prime ore del giorno corrente – si legge nel rapporto dei carabinieri della stazione di Colle Val d’Elsa del 22 agosto 1925 – noi tenente Visconti siamo stati informati da fiduciario che un tale Franci Leo […] qui residente […] era in possesso di una tessera della Federazione giovanile comunista d’Italia, Sezione dell’Internazionale comunista, e che aveva pochi giorni prima promossa una sottoscrizione pro “L’Unità” fra gli aderenti alla Sezione giovanile suddetta. Rintracciato il Franci e accompagnato in questa caserma e sottoposto a stringente interrogatorio ha rilasciato l’unita dichiarazione».

Da quella dichiarazione estorta a suon di percosse – questo è il significato di “stringente interrogatorio” – emersero notizie che consentirono di proseguire le indagini e di estenderle a Poggibonsi, a S. Gimignano e a Siena. Arresto dopo arresto risultò che sia i giovani comunisti, sia i comunisti “adulti” avevano effettuato una serie di riunioni in luoghi appartati – Maltraverso, Cappellina, Poggio Tondo, Dondolo – per organizzare il tesseramento, raccogliere soldi per L’Unità e per il Soccorso Rosso.

Al termine del lavoro investigativo gli arrestati risultarono cinquantuno. Fra loro Ricciardo che, con il fratello Gino, era al vertice della federazione. Finì agli arresti anche una donna, Lina Ranucci, moglie di Ricciardo. Trentasette arrestati vennero liberati dopo alcuni giorni, quattordici rimasero in prigione.

La Corte di Appello di Firenze, chiamata ad una prima decisione sulla loro sorte, con le sentenze del 3 dicembre 1925 e del 19 gennaio 1926, decretò trentasette assoluzioni per insufficienza di prove ed una per non doversi procedere. Rinviò gli altri tredici imputati, tutti ancora in stato di detenzione, alla Corte d’Assise di Siena per rispondere dei delitti di aver voluto «mutare violentemente la costituzione dello Stato e del Governo […] e di aver determinato altri a incitare o personalmente incitato all’odio fra le varie classi sociali […] aizzando il proletariato ad abbattere la borghesia e ad instaurare la propria dittatura».

Il processo fece clamore. I carcerati arrivarono incatenati. «Il 18 maggio 1926 – è il ricordo di uno di loro, Balilla Giglioli – i tredici furono condotti in via del Casato dove ha sede la corte d’Assise. Detta via era affollata ed il camion a stento, nonostante il servizio d’ordine, poté arrivare. Fatti scendere […] furono messi in un gabbione di ferro contornato da sei carabinieri in alta uniforme […]. Il ras Baiocchi […] con occhiate e lazzi dirigeva praticamente il processo». La sentenza di condanna appariva già scritta nel clima prima ancora che nell’andamento dibattimentale – da cui peraltro risultò che nessun imputato aveva abiurato la propria fede ideale – ma a scattare fu la prescrizione dei reati politici prevista dall’amnistia del luglio 1925.

L’altra “battuta anticomunista” nel senese avvenne un anno e mezzo dopo, quando era stata ormai varata la legislazione eccezionale e il fascismo da sistema politico autoritario si era trasformato in dittatura.

Il 22 gennaio il capitano Alfonso Demitry e il tenente Arturo Bianchini dei carabinieri di Montepulciano così scrivevano: «Nonostante le recenti ed energiche misure adottate dal Governo Nazionale per lo scioglimento di tutti i partiti sovversivi, al comando della compagnia CC.RR. di Montepulciano risultava in modo certo, dopo accurate investigazioni, che nella plaga Bettolle-Sinalunga l’organizzazione comunista esisteva ancora ed era in pieno sviluppo in quelle masse di lavoratori. L’azione dell’Arma in un primo tempo fu sagace e persistente in modo da poter venire a conoscenza dei maggiori esponenti del comunismo di Bettolle e del modo come la propaganda veniva svolta. Poscia si dové agire decisamente e con rigore tanto da stroncare la criminosa associazione e così noi sottoscritti con trenta militari dell’Arma […], nelle notti del 4 e 7 corrente, favoriti dalla persistente pioggia e freddo intenso, potemmo addivenire all’arresto nei propri domicili».

Gli arrestati furono trentuno, ai quali se ne sarebbero aggiunti altri cinque, più due denunciati in stato di detenzione al confino per essere già incorsi bei rigori della legislazione speciale.

L’investigazione aveva portato a individuare il funzionamento dell’organizzazione. «Antonio Malfetti […], da poco emigrato in Francia, da prima socialista e poi fervente comunista […] poté gettare le basi dell’organizzazione comunista in Bettolle-Sinalunga, tanto che in un piccolo registro ben nascosto, ma potuto sequestrare per il modo abile e minuzioso con cui vennero eseguite le perquisizioni domiciliari, si poté leggere il proclama […] ai compagni dell’aretino: “A nome del partito comunista (socialista vero) non vi chiediamo i soldi per la  tessera […], noi vi chiediamo l’inquadramento delle forze proletarie […], in ogni paese due o tre compagni  di buona fede per trovare un buon numero di organizzati disposti a tutto per il giorno della riscossa”».

In un altro passaggio del rapporto si legge: «Il Doretti Ademaro, incensurato, in bicicletta si recava [da Siena] a Rapolano in località Armaiolo ove giunto consegnava al Ravagni [Riccardo] o al Benicchi Gurlino o al Felici Giuseppe o ad altro compagno, che riconosceva con parola d’ordine, l’involto contenente la segreta corrispondenza consistente in manifestini di propaganda sovversiva, tessere del partito e giornali. In tale maniera la stampa giungeva ai compagni di Bettolle i quali, dopo averne preso visione, dovevano, secondo le istruzioni, tutto distruggere».

Le stampe arrivavano a Siena portate da un «corriere di partito», che si faceva chiamare Metello Taddei, «rimasto sconosciuto». A Siena venivano convogliati i soldi raccolti per il Soccorso Rosso.

Al termine dell’indagine – che poté dipanarsi perché durante gli interrogatori ci fu chi cedette e si fece sfuggire delle informazioni – sedici degli arrestati vennero rimessi in libertà, seppure scaglionati in tempi diversi. Venticinque, comprendenti anche i due denunciati già detenuti al confino, furono invece mandati in giudizio.

La commissione istruttoria presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato con la sentenza del 30 maggio 1927 li rinviò tutti a giudizio per avere «organizzato attivamente […] le file del partito comunista, disciolto per ordine della pubblica autorità […] e avere fatto propaganda delle dottrine e dei metodi e del programma […] mediante diffusione di giornali e stampe a carattere sovversivo». Due anni dopo, il 12 giugno 1929, il Tribunale speciale pronunciò tre assoluzioni per insufficienza di prove e ventuno condanne variabili fra i dodici anni e i due anni e mezzo di reclusione.

 

*Il presente testo è la rielaborazione di una parte del saggio Il Pcd’I in provincia di Siena (1921-1926) in pubblicazione su “Bullettino senese di storia patria” 2021.

 

RIFERIMENTI ARCHIVISTICI E BIBLIOGRAFICI

Archivio Centrale dello Stato, Tribunale speciale per la difesa dello Stato, Archivio generale, Presidenza, Fascicoli processuali.

Archivio di Stato di Siena: Questura, 3° versamento; Tribunale di Siena, Corte d’Assise.

Paradisi Mino, L’antifascismo a Colle, Colle Val d’Elsa 2008.

Bardini Vittorio, Storia di un comunista, Firenze 1977.

Burresi Franco – Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla liberazione, Poggibonsi 2019.

 




“L’energicissima lezione” del 1937: la ripresa dello squadrismo contro gli antifascisti grossetani

Incitata o tenuta a bada a seconda delle convenienze, la violenza è sempre stata un fondamento dell’ideologia fascista. Già all’epoca dello squadrismo e prima della presa del potere, i fascisti propagandarono la propria fede con la pratica della violenza «mitizzata e sublimizzata come manifestazione di virilità e di coraggio, strumento necessario per liberare la nazione dai suoi dissacratori. L’offensiva armata dello squadrismo contro il proletariato, per i fascisti, era una santa crociata dei veri credenti per annientare i profanatori della patria, redimere il proletariato dalla idolatria dei falsi dèi dell’internazionalismo, riconsacrare i simboli e i luoghi santi della nazione, riportando la patria sugli altari della devozione civile[1]». Il tutto si tradusse in minacce, intimidazioni, saccheggi, devastazioni, incendi e uccisioni di avversari politici, negli anni più bui dello squadrismo. Neppure la presa del potere da parte del fascismo valse a porre fine alla violenza. Una lettura più recente di questo fenomeno ha sottolineato come anche negli anni centrali della dittatura mussoliniana squadrismo e violenza non vennero mai meno, tanto che il primo non può esser considerato un residuo anacronistico o un effetto collaterale del percorso ventennale del regime, quanto un elemento imprescindibile nella definizione del fascismo. Stando a questa interessante interpretazione, nonostante la necessità di normalizzazione il regime non rinunciò mai alla violenza, poiché normalizzazione governativa e illegalismo squadrista erano due piani di un’unica strategia politica che perseguiva lo stesso obiettivo di conquista integrale della società e di creazione di una nuova Italia e di un nuovo italiano da conseguire innanzitutto attraverso l’eliminazione di ogni forma di opposizione[2].

L’analisi dei contesti locali durante il Ventennio conferma il perdurare di una situazione di tensioni e violenze, che riguardarono perfino il campo fascista dove si combattevano le lotte di fazione per la conquista del potere locale. D’altronde, sin dalle origini e al di là delle differenti realtà politiche ed economiche, il fascismo fu una precaria alleanza tra interesse e ideologia, tanto che «agli occhi di molti fascisti il movimento era stato uno strumento di avanzamento sociale ed economico[3]».  Dallo studio della documentazione delle Federazioni provinciali del Pnf è emerso come, nel corso degli anni, la componente dell’interesse prese il sopravvento su quella dell’ideologia. La priorità data dai gerarchi di provincia al perseguimento dei propri interessi privati e materiali sconfinò in frequenti casi di affarismo, corruzione e malcostume che ebbero conseguenze sull’opinione popolare, provocando atteggiamenti di distacco, apatia, disaffezione nei confronti del partito e del regime. Fu soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta che si moltiplicarono i rapporti dalle province volti a illustrare tale situazione: nel grossetano, oggetto di questa indagine, vi furono riscontri non solo nel capoluogo di provincia ma anche in altri paesi quali Massa Marittima, Civitella e Pitigliano[4]. Soffermandoci proprio sul contesto maremmano nella seconda metà degli anni Trenta, parallelamente al malcontento verso i gerarchi notiamo una netta ripresa degli atti di intimidazione e violenza verso gli antifascisti, in particolar modo nel 1937, in concomitanza ad eventi internazionali di notevole importanza in quegli anni (la guerra civile spagnola e la nascita dell’Impero nell’Africa orientale italiana) e al massimo sforzo profuso dal regime nel tentativo di fascistizzare la società e ampliare il consenso, grazie anche al ruolo svolto dal Partito nazionale fascista, il custode della fede e “grande pedagogo”. Il protagonista assoluto di questa nuova ondata di squadrismo fu proprio il segretario federale del Pnf, Angelo Maestrini, un geometra nato a Gavorrano nel 1902, squadrista e iscritto antemarcia, già consigliere comunale e poi podestà e segretario del fascio dello stesso Comune fino alla sua nomina alla guida del partito in provincia, che tenne dal maggio 1934 al febbraio 1938. Perfetto esempio dell’incrocio già descritto di “fede e fortune” e di quei ceti medi delle professioni in ascesa, formatisi nelle file del partito e destinati a rappresentare la nuova classe dirigente del fascismo, Maestrini ebbe un ruolo di primo piano durante il Ventennio in Maremma e si contraddistinse per il fenomeno del cumulo di cariche, i casi di affarismo e il facile interscambio tra gli incarichi politici e quelli statali, poiché dopo l’esperienza di federale fu nominato podestà di Grosseto.

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, [...], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (pHOTO CREDITS: a.- bANCHI, sI VA PEL MONDO)

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, […], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (photo credits. A. Banchi, Si va pel mondo)

Nella seconda metà degli anni Trenta la federazione provinciale fascista dispose un aumento delle attività di vigilanza sugli antifascisti e incitò alle spedizioni punitive nei confronti degli elementi sospetti. Le bastonature riguardarono il capoluogo maremmano (dove si contarono circa 20 azioni violente) ed anche altri centri della Provincia, quali Orbetello, Follonica, Scarlino e Porto Santo Stefano. Il 5 aprile 1937 il federale Maestrini aveva comunicato al segretario nazionale del Pnf Starace di aver notato già da tempo una certa riorganizzazione da parte degli antifascisti locali[5]. Dal servizio di vigilanza da lui disposto era emerso che individui ritenuti sovversivi tendevano a ritrovarsi in gruppo per le vie cittadine, commentando la situazione grossetana e i fatti politici in generale. La ripresa delle azioni punitive su invito dello stesso federale aveva però trovato una netta contrarietà da parte della Prefettura, della Questura e dei carabinieri, che invitarono ripetutamente Maestrini a sospenderle, non risultando loro alcun indizio di attività sovversiva. «Da tali esortazioni non sono estranee preoccupazioni per la propria personale responsabilità», aggiunse polemicamente il federale. Nonostante tali inviti, la federazione provinciale fascista proseguì le attività di vigilanza e continuò ad incitare le azioni violente. Questa nuova ondata squadrista, promossa dal partito locale ma osteggiata dalle autorità statali in provincia, mal si conciliava però con quei compiti di “mediazione” a tutti i livelli a cui ormai il Pnf doveva adempiere. Significativo il fatto che lo stesso Starace girò la lettera di Maestrini al sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi per gli avvertimenti del caso. Il radicalismo del federale che minava la stabilità in provincia non poteva più esser tollerato e fu, come vedremo, uno dei motivi principali dell’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e del suo insediamento alla guida comunale. Qui fu chiamato a sostituire il podestà Ezio Saletti, fratello del “martire” fascista Ivo, caduto nel corso della spedizione punitiva su Roccastrada del 24 luglio 1921, che pur essendo stato chiamato a svecchiare e spersonalizzare la carica podestarile dopo la lunga gestione Scaramucci, aveva deluso tutte le aspettative, mancando in quegli attributi giudicati fondamentali dal regime per la figura del podestà, quali la “fattiva operosità”, l’efficienza, la moralità e la capacità di accattivarsi la stima della popolazione[6]. Ennesima dimostrazione delle difficoltà del regime di garantire stabilità in provincia e di promuovere una nuova classe dirigente giovane, dichiaratamente fascista ed espressione dei ceti medi, che fosse preparata ed efficiente, nonché del malaffare dei gerarchi, che comprometteva il consenso della popolazione al regime.

Tornando al tema dell’ordine pubblico e delle violenze sui presunti sovversivi nel 1937, le forze dell’ordine grossetane nel corso dell’anno non avevano rilevato attività ostili al regime, in relazione anche agli avvenimenti spagnoli, tali da giustificare le spedizioni punitive promosse dal partito. Ne è un esempio questa relazione stilata dai carabinieri di Grosseto il 13 aprile 1937, avente ad oggetto la repressione della propaganda sovversiva.  « […] Si comunica che, l’11 detto, alcuni fascisti in Roselle, frazione di Grosseto,  percossero senza conseguenze tali Sandri Ippolito, Tenti Giuseppe, Capitoni Angelo, Doveri Cesiro, Scheggi Priamo, i quali pur non avendo militato nei partiti sovversivi, ad eccezione dello Scheggi di idee comuniste, mantengono un contegno non favorevole al Regime. Ieri, 12 corrente, verso le ore 19,30, altri fascisti percossero in Grosseto tali Bellucci Albo e Fanteria Giuseppe perché nutrono idee contrarie al fascismo. Solo il Bellucci riportò contusioni guaribili in giorni sei. Pur trattandosi di elementi infidi in linea politica, sui quali gli organi di polizia esercitano il dovuto controllo, il ripetersi di azioni punitive da parte dei fascisti, sta dando luogo a commenti poco favorevoli, specie perché in questa provincia non si sono verificati fatti tali da giustificare reazioni fasciste[7]». Già nel 1936 era stata segnalata una ripresa dell’attività sovversiva fra gli operai disoccupati, che aveva portato però semplicemente a un aumento delle attività di vigilanza senza particolari rilievi di sorta[8]. L’anno successivo vi furono varie segnalazioni di scritte sovversive sui muri (ad esempio “Abbasso Franco = Abbasso il fascismo = Impero di fame” con la sigla della falce e del martello nei bagni comunali di Roccastrada, “Abbasso il Duce, Viva il pane” sul muro esterno del palazzo del sindacato dei lavoratori dell’industria a Grosseto, “Viva la Russia, abbasso l’Italia” sul lavatoio pubblico di Orbetello ecc.), oltre che di invio di stampa sovversiva (il negoziante Giuseppe Barni di Roccastrada, caposquadra della milizia ed ex vice-segretario politico del fascio di Roccastrada, si vide recapitare da Pas de Calais due manifestini contenenti frasi contro l’intervento fascista in Spagna, mentre a Sassofortino giunsero cartoline del soccorso rosso per i bambini spagnoli firmate con la falce e il martello). I carabinieri di Grosseto segnalarono che in vari esercizi pubblici di Orbetello, nei quali erano installati apparecchi radio, venivano captate le comunicazioni della stazione comunista di Barcellona, oggetto di ascolto da parte degli operai dei vari stabilimenti industriali locali[9]. Nel complesso si trattava di una situazione con qualche tensione nelle aree minerarie o a vocazione più industriale, che poteva però esser tenuta sotto controllo con azioni di vigilanza.

L’allarme principale della federazione provinciale fascista era legato principalmente proprio ai fatti della guerra civile spagnola, che avevano riacceso le speranze degli antifascisti locali. Furono ben 25 i volontari della provincia, su un totale di 395 dell’intera regione Toscana, che si trasferirono nel paese iberico per difendere la Repubblica e combattere Franco[10]. Prevalentemente comunisti e appartenenti alle classi popolari, in gran parte erano già espatriati all’estero quali esuli politici, mentre cinque di loro (Vittorio Alunno, Angelo Rossi detto Trueba, Luigi Amadei, Pietro Aureli e Italo Giagnoni) riuscirono a raggiungere la Spagna dalla Maremma con un’impresa temeraria che rappresentò un vero e proprio smacco per le autorità fasciste. Acquistata una piccola imbarcazione a remi grazie alle sottoscrizioni degli antifascisti maremmani, il 21 agosto 1937 elusero i controlli e dalla spiaggia delle Marze, nei pressi di Castiglione della Pescaia, approdarono in Corsica, prima tappa della loro travagliata e avventurosa esperienza in Spagna. Questi episodi e la propaganda sovversiva interna accentuarono il radicalismo all’interno della federazione provinciale fascista, insofferente a qualsiasi forma di dissidenza nel periodo di ricerca massima del consenso e dell’inquadramento totalitario dei giovani. A tal fine il 29 ottobre 1937 nacque la Gioventù italiana del littorio, sorta dalla fusione dell’Opera nazionale balilla e dei fasci giovanili di combattimento e posta alle dirette dipendenze del segretario del Pnf, per la formazione politica e alla preparazione sportiva e militare dei giovani d’ambo i sessi dai 6 ai 21 anni. Di fronte a tali sfide, il partito grossetano non esitò a giocare la carta della violenza per reprimere qualsiasi opposizione. Dopo la fuga dei cinque in Spagna, il comunista e poi partigiano Aristeo Banchi (Ganna) scrisse nelle sue memorie che «le camicie nere grossetane  (Ragno, Catone e tanti altri delinquenti), infuriate per lo smacco subito, erano da evitare come la peste, ogni pretesto era buono per pestaggi malvagi e per “lezioni” che potevano costare la salute a chi le subiva, le provocazioni erano all’ordine del giorno, l’aria per noi oppositori era gravida di minacce[11]».  Lo stesso Banchi ricorda nel 1937 tafferugli e aggressioni a carico di antifascisti (tra di loro Aladino Fumi), che solevano andare in giro per la città ostentando provocatoriamente le cravatte rosse che acquistavano dai cinesi venditori per strada di oggetti e merci varie.

Elvino Boschi

Elvino Boschi

Il caso più eclatante della ripresa della violenza contro gli antifascisti nel 1937 riguardò l’aggressione compiuta nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre dallo stesso federale Maestrini ai danni di Elvino Boschi (classe 1906), un impiegato socialista all’epoca dei fatti disoccupato, noto alle forze dell’ordine e già sottoposto a periodi di vigilanza per la sua attività di ascoltatore delle radiodiffusioni comuniste sulla guerra civile spagnola. Originario di Livorno ma residente da tempo a Grosseto, nel suo fascicolo personale nel Casellario politico centrale era descritto come individuo irascibile e prepotente ma di discreta intelligenza e cultura, assiduo lavoratore di fede socialista, che frequentava elementi sospetti in linea politica, figlio di un impiegato ferroviere collocato in pensione nel 1931, già attivo propagandista delle idee socialiste prima dell’avvento del fascismo. Padre di due figli e coniugato con Licena Rosi, Boschi era il cognato di un altro volontario grossetano nella guerra civile spagnola, Siro Rosi, un militare di leva che nel 1937 si arruolò con i fascisti destinazione Cadice, con l’obiettivo di passare nelle file repubblicane, cosa che fece il 18 aprile 1937, quando passò le linee per dirigersi a Campillo[12]. Poco dopo la diserzione di Rosi, Boschi fu oggetto di prima una violenta aggressione. Come si evince dalla testimonianza della moglie Licena, il 22 maggio 1937 Elvino si trovava a passeggio per le Mura medicee quando, all’altezza del Parco della Rimembranza, l’archivista della federazione fascista Ferruccio Malandrini e altri tre fascisti (Giuseppe Tamburini, Carlo Faenzi e Mario Caciai) lo picchiarono selvaggiamente, provocandogli un’escoriazione all’occhio e una menomazione permanente alla gamba sinistra, che lo costrinse a un periodo di degenza a letto di due mesi e mezzo[13]. Questo triste episodio, che gli valse una diffida da parte della Questura, fu solo il prologo di quello che sarebbe successo pochi mesi più tardi. La notte del 31 ottobre 1937, Boschi stava girando per le vie del centro in compagnia di Guglielmo Marconi, un manovale schedato come anarchico. Dopo essersi ritrovati con alcuni amici (Bruno Bruni, Celso Checcacci, Adamo Innocenti, Gaspare Minucci Aristide Burroni), all’altezza di via Corsica il primo fu riconosciuto e chiamato dal segretario federale Maestrini, insospettito dal girovagare notturno di questo presunto gruppo di sovversivi. Il capo del partito grossetano passò immediatamente alle vie di fatto: Boschi fu preso per i capelli e schiaffeggiato e, dopo aver reagito, pesantemente bastonato e colpito a calci anche dagli altri gerarchi lì presenti[14]. Nella violenta lotta corpo a corpo, così come fu descritta dai carabinieri, Boschi fu spalleggiato da Marconi e Checcacci e alla fine perse i sensi e riportò lesioni alla testa guaribili in quattro giorni. Dopo questo incidente le autorità fasciste locali procedettero a una lunga serie di arresti e perquisizioni. Non mancarono altri atti di violenza da parte dei fascisti decisi alla resa dei conti coi sovversivi: solo per citarne uno, il 2 novembre fu violentemente percosso anche il calzolaio socialista Aldo Ginanneschi. Intanto, Maestrini trovò modo di rinfocolare la polemica con le forze di pubblica sicurezza, accusandole di eccessiva indulgenza verso gli antifascisti e riportando tutto a Starace:

«[…] Il Boschi era sorvegliato dai fascisti e nel mese di aprile ebbe una severa lezione (S. R.); fu poi arrestato ma quasi subito rilasciato perché secondo la Questura non vi erano colpe sicure da addebitargli. Noi sapevamo invece che poteva essere pericoloso perché avvicinava sempre operai fra i quali, sembra facesse propaganda antifascista. Si rende necessario che almeno questa volta le autorità di P.S. agiscano energicamente e senza pietà e non si trincerino nel dire che noi fascisti esageriamo nel considerare le cose. I fascisti fanno sempre il loro dovere e come l’animo squadrista ha loro insegnato».

Nella seconda lettera inviata a Starace in giornata (1° novembre 1937), Maestrini faceva presente che l’identificazione, il fermo e la relativa energicissima lezione degli individui che avevano ammesso di aver partecipato al fatto (tutti consegnati alla Questura e associati alle locali carceri giudiziarie)[15], era stato possibile per il solo intervento della milizia e dei fascisti. «Credo opportuno far presente all’E. V. che S. E. il Prefetto si è limitato a dichiararmi il suo dispiacimento per l’incidente accadutomi, invitandomi alla calma per il timore di altre complicazioni. Ho avuto poi la netta impressione che la Questura voglia considerare la cosa come un fatto di ordinaria amministrazione, felice che i colpevoli siano tutti assicurati alla giustizia e di aver potuto ringraziare chi ad essa si è sostituito con intuito e con prontezza fascista a rintracciare questi delinquenti. Non si sono fatte le indagini, almeno per ora, che la gravità del fatto richiedeva, tanto che fino alle ore 19 non era stato neppure ordinata la perquisizione domiciliare degli arrestati né si era allargato il campo delle indagini verso individui sospetti di sovversivismo, limitandosi, se mai, ad intralciare l’opera di giusto risentimento che i Fascisti della Città stanno esplicando», le sue polemiche parole[16]. Le violenze seguenti al fatto sono ancora ben descritte da Banchi:

«La mattina dopo i “neri” organizzarono, in grande stile, una battuta di caccia al “sovversivo”, durante la quale molti oppositori vennero bastonati per strada e persino nelle loro case, alla presenza dei familiari. Con delle tavolette chiodate fu percosso a sangue il compagno Memmo [Guglielmo, ndr.] Marconi […]. Negli stessi giorni i “salvatori dell’Italia” aggredirono Ettore Tognetti, soprannominato il Bèco, mentre stava giocando in un caffè. Tognetti, che aveva rinunciato a partire per la Corsica con Alunno perché la barca non dava, a suo giudizio, nessun affidamento, fu trascinato fuori dal locale e percosso con spranghe di ferro, finché non perse i sensi. […] Da quella bastonatura – la più grave fra le molte da lui subite – Tognetti non si riprese più: dopo esser passato da un sanatorio all’altro, morì qualche anno dopo per le conseguenze di quella terribile giornata. Le aggressioni dei fascisti proseguirono anche nei giorni seguenti: al bar della Posta, nel corso, Albo Bellucci venne ridotto a uno straccio a furia di manganellate, e in via Amiata lo stesso trattamento fu riservato a Lio Lenzi, un corniciaio comunista, venuto da Livorno, che i “neri” detestavano perché nel suo laboratorio si incontravano gli antifascisti grossetani. Anche a Lenzi, che sarebbe divenuto dopo la Liberazione il primo sindaco della nostra città, i medici negarono qualsiasi certificato sugli effetti dell’aggressione[17]».

Livornese classe 1898, Lenzi era stato uno dei fondatori del Pci e aveva militato negli Arditi del Popolo. Perseguitato dai fascisti e schedato, fu costretto a lasciare il suo lavoro per divenire agente di commercio e nel 1929 si trasferì a Grosseto. Nel capoluogo maremmano stabilì subito dei contatti proprio con Elvino Boschi – originario livornese come lui nonché cugino del noto comunista labronico Ilio Barontini, volontario in Spagna e poi partigiano in Etiopia, Francia e Italia – che lo introdusse nell’ambiente antifascista locale[18].

Il 19 novembre 1937, la commissione provinciale per i provvedimenti di polizia assegnò Boschi e Marconi al confino, rispettivamente per la durata di quattro e tre anni, mentre gli altri furono ammoniti. Tutto ciò nonostante lo stesso Boschi fosse considerato incapace di tenere conferenze, dirigere riunioni e svolgere lavori organizzativi e non avesse mai collaborato a giornali o riviste sovversive. Il 16 dicembre 1938 il segretario federale Elia Giorgetti espresse parere sfavorevole ad un atto di clemenza nei suoi confronti «in considerazione della responsabilità diretta da lui avuta nell’episodio e dei precedenti di irriducibile antifascista». Boschi scontò la pena ad Acerenza, Locri e Pisticci e fu prosciolto dai vincoli del confino per fine periodo il 19 agosto 1941. Successivamente fu trattenuto in arresto per altri tre mesi per contravvenzione agli obblighi del confino. Una volta liberato fu assunto dalla Società Anonima “Il Lavoro”, che aveva in appalto il servizio di facchinaggio nella stazione di Grosseto. Marconi scontò la pena alle Tremiti e a Toro e rimpatriò a Grosseto il 25 dicembre 1938, in seguito al proscioglimento condizionale disposto dal duce. [19] Per uno strano e beffardo destino, i due amici che avevano condiviso la fede antifascista e subito violenze e anni di confino, rimasero uccisi per “fuoco amico” nel corso del primo bombardamento alleato su Grosseto del 26 aprile 1943. Era il giorno di Pasquetta, quando 48 fortezze volanti americane scaricarono quasi 400 bombe da 300 libbre e circa 2000 bombe a frammentazione sulla città. L’obiettivo era la messa fuori uso dell’aeroporto militare e la distruzione della scuola di addestramento per piloti di velivoli aerosiluranti, ma la pioggia di fuoco colpì in particolar modo la zona fuori Porta Vecchia nel centro cittadino, dove erano state allestite le giostre per il giorno di festa[20]. 134 furono le vittime, tra cui molti bambini e i due sovversivi, che magari stavano trascorrendo insieme la giornata discutendo sulla crisi di quel regime da loro così odiato e che sarebbe caduto esattamente tre mesi dopo.

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Angelo Maestrini, federale del PNF grossetano, poi podestà di Grosseto (photo credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Il caso Boschi e le violenze sugli antifascisti furono uno dei motivi che portarono poi all’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e al suo insediamento come podestà (21 marzo 1938), in un ruolo statale comunque prestigioso ma più defilato politicamente, dove si pensava avrebbe potuto metter da parte il suo radicalismo. Come si ricava da un promemoria e da altra documentazione, la sostituzione dal comando della federazione provinciale del partito fu dovuta anche alla sua forte rivalità con il primo vero capo del fascismo maremmano, Ferdinando Pierazzi, ed al fatto che non lo si riteneva adatto a tal compito, ora che il partito doveva provvedere all’inquadramento totalitario dei giovani con la nascita della Gil [21]. Pensiamo inoltre che a suo carico continuasse a pesasse la grave crisi del partito verificatasi alla fine del 1935, quando varie ispezioni e la stessa corrispondenza del segretario amministrativo del Pnf dell’epoca, Giovanni Marinelli, avevano rivelato il suo malfunzionamento, l’impreparazione del personale addetto, gravi irregolarità amministrative e spese non giustificate, come ad esempio quelle relative all’utilizzo dell’auto del federale[22]. Anche nel ruolo di podestà, Maestrini continuò a distinguersi per i conflitti d’interessi, il cumulo delle cariche (fu nominato presidente e direttore tecnico del Consorzio maremmano delle cooperative di produzione e  lavoro e successivamente segretario provinciale dell’Ente nazionale fascista della cooperazione), nonché per l’affarismo, essendo tra l’altro uno dei perni locali di quel sistema di potere vischioso e votato all’illegalità retto esternamente da Biagio Vecchioni, ex federale di Grosseto divenuto poi deputato e infine presidente dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Infail)[23]. Protagonista anche al tempo della Repubblica sociale italiana, Maestrini fu tenente colonnello della 98ª Legione Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Grosseto, partecipò a diversi rastrellamenti e dopo la Liberazione del capoluogo maremmano fuggì al nord, dove trovò la morte per mano partigiana nei pressi di Recoaro Terme (Vi)[24]. Boschi e Marconi, vittime della sua violenza, erano già morti. Non fecero in tempo a vedere l’occupazione tedesca e il ritorno del fascismo nella veste della Repubblica sociale italiana, né a prender parte alla guerra di Liberazione nelle file della Resistenza. Ma il coraggio di chi osò disobbedire al regime negli anni del consolidamento della dittatura merita di esser ricordato come un atto di Resistenza.

NOTE:
[1] E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 47-48
[2] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014
[3] P. Corner, L’opinione popolare e il fascismo negli ultimi anni trenta, “Storia e problemi contemporanei”, n. 46, 2007, p. 17.
[4] M. Grilli, Il governo della città e della provincia in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2018.
[5] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto. Lettera del federale Maestrini al segretario nazionale del Pnf Starace. Oggetto: situazione politica, 5 aprile 1937.
[6] Sulla sostituzione di Saletti vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, bb. 692, 861; ACS , fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[7] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[8] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 664. Circolare del prefetto Palici di Suni al questore e al Comando dei CC.RR. di Grosseto. Oggetto: risveglio di attività sovversiva, 9 marzo1936.
[9] Tutte queste segnalazioni sono riportate in ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[10] Sui volontari toscani nella guerra civile spagnola vedi: I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2012, E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2017.
[11] A. Banchi, Si va pel mondo: il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura d F. Bucci e R. Bugiani, ARCI, Grosseto, 1993, p. 75.
[12] Condannato a morte in contumacia, una volta terminata l’istruzione militare Rosi si arruolò nella Brigata Garibaldi e fu ferito in combattimento. Internato in Francia dopo il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali, fu partigiano nel paese transalpino e poi in Italia settentrionale dall’inizio del 1944. Un suo profilo è nel portale Isgrec: Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, all’indirizzo http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/grossetani/rosi_ita.htm.
[13] ASGR, fondo Questura, b. 429, f. Malandrini Ferruccio. La denunzia a danno dei quattro fu prodotta da Licena Rosi ved. Boschi nell’agosto 1945. Mario Caciai e Carlo Faenzi erano deceduti in Albania in seguito a ferite di guerra, Ferruccio Malandrini fu amnistiato con sentenza del pretore di Grosseto del 25 luglio 1946. Quale iscritto al Partito fascista repubblicano (Pfr) aveva preso parte anche a diversi rastrellamenti antipartigiani. Nel dopoguerra risultava titolare dell’ufficio viaggi e turismo “Avet” e del locale ufficio affissioni, nonché fiduciario del CONI per la riscossione delle giocate effettuate in provincia per il totocalcio. Fu radiato dal Casellario politico centrale il 28 marzo 1955.
[14] Gli altri gerarchi erano il vice-segretario federale Emilio Bertocci, il segretario amministrativo della federazione Guido Chelli, il centurione della milizia Eraldo Ugo Lazzeretti e il segretario del fascio di Arcidosso Carlo Beoni. Nell’interrogatorio in carcere dell’8 novembre 1937 Boschi ricordò così l’accaduto: «La sera del 31 ottobre scorso, in compagnia di Marconi Guglielmo mi diressi alla palestra dell’Onb per assistere alla riunione pugilistica. Poiché il denaro che possedevo non era sufficiente per l’acquisto del biglietto d’ingresso, col Marconi mi misi a passeggiare per la città. In Via Bertani, nell’uscire dal Bar Dopolavoro Maremma, il Marconi si fermò a chiacchierare con un gruppo di conoscenti suoi […] in tutto eravamo sei o sette. Solo conosco il Checcacci, mentre gli altri erano da me conosciuti di vista. Non ricordo chi del gruppo propose di consumare un pollo al Giappone. Siccome detto ristorante ne era sprovvisto, dato anche l’ora tarda, circa le 24, si pensò di recarsi al moderno in Via Corsica. Nel transitare detta Via fu da noi notato il Federale con altri suoi amici, in tutto 4 o 5. Avendo trovato il Moderno chiuso, ritornammo verso la città. Giunti presso il gruppo predetto, fui chiamato dal Federale, al quale io mi avvicinai con ogni riguardo. Il Federale, prendendomi per i capelli, essendo io senza cappello, mi disse: “Che fai a quest’ora in giro” ed io gli risposi “non ho fatto nulla di male, e quindi ho diritto di girare”. Al che fui colpito al viso dal Federale con uno schiaffo. Io reagii. Fu allora che le persone che si accompagnavano al Federale intervennero. Ai colpi di bastone alla testa e di pedate, caddi privo di sensi a terra. Successivamente fui accompagnato, appena rimesso in qualche modo, nella Caserma dei CC. RR. Il Maresciallo Comandante la Stazione, visto il mio stato, mi condusse all’ospedale. Appena si verificò l’incidente vidi i compagni del mio gruppo darsi alla fuga. Non ho mai fatto politica ed ignoravo che qualcuno del mio gruppo fosse sovversivo». ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico.
[15] Oltre a Boschi e Marconi (classe 1905) vi erano i maglianesi Bruno Bruni (classe 1905) e Celso Cecchacci, terrazziere nato nel 1910, i grossetani Adamo Innocenti (classe 1909) e Gaspare Minucci (classe 1908), entrambi facchini, e Aristide Burroni, nato a Montemerano nel 1896, anche lui facchino.
[16] La corrispondenza tra Maestrini e Starace è in ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto.
[17] A. Banchi, Si va pel mondo, cit. pp. 75-76.
[18] L. Rocchi, La Liberazione di Grosseto. Storia di una Resistenza breve e di un lungo antifascismo nel primo capoluogo toscano liberato, www.toscananovecento.it.
[19] Per i procedimenti giudiziari a carico di Boschi e Marconi vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico; Ibidem, fondo Questura, Cpc, b. 461, f. Marconi Guglielmo.
[20] Sul bombardamento del 26 aprile 1943 vedi: Silvio Ghiara, Guido Scarlini, Grosseto 26 aprile 1943. Operazione “Uovo di Pasqua”, Innocenti Editore, Grosseto 2003, La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del Lunedì di Pasqua del 1943, www.grossetocontemporanea.it. I documenti su questo episodio provenienti da fondi archivistici esteri son conservati presso l’archivio dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).
[21] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[22] ACS, fondo Pnf, servizi vari e carteggi con le federazioni, b. 731.
[23] M. Grilli, Affarismo, corruzione e lotte di fazione: le difficoltà della riforma podestarile in Maremma (1926-1940) in M. Celuzza, E. Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso – Gr, 2019, pp. 186-190, 198-202.
[24] ASGR, fondo Questura, b. 429 Cpc, f. Maestrini Angelo.



Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza».

Il 1938 è un anno di svolta per il fascismo di Mussolini, questa data rimane ancora oggi un simbolo di immodificabile cambiamento che ha dato un identificabile e mostruoso volto legislativo all’antesemitismo fascista, al razzismo rivolto verso i popoli di colore e alla xenofobia subita dalle popolazioni considerate inferiori. Il fascismo italiano con una retorica ambigua e molto spesso contraddittoria dovette fare i conti con la propria intrinseca incapacità di creazione di una forte e chiara ideologia che non riuscì mai ad avere mai nitidi punti fermi e basi teoriche riconosciute e forti o create ad hoc su cui fondare una forte dottrina di regime. Il fascismo appare così un totalitarismo imperfetto, una dittatura in continuo mutamento caratterizzata da un tenace opportunismo che le permetteva di modificarsi e di conseguenza modificare idee e ideali continuamente vivendo e diffondendosi in una realtà di forte contraddizione e ambiguità.

Copertina 20 marzo 1940La Rivista divulgativa «La Difesa della Razza» diretta dal giornalista siciliano Telesio Interlandi e pubblicata per la prima volta nell’agosto 1938 aiutò in questo senso il fascismo di Mussolini, essa accentuò cristallizzandoli gli stereotipi viventi tra la popolazione italiana cercando di creare in questo modo una forte ideologia che non ammettesse sfumature e potesse giustificare così le scelte antisemite e razziste che in quel momento la dittatura aveva il bisogno e l’opportunità, per rafforzarsi, di promulgare[1].
La Rivista pertanto nasce in quel fatidico 1938 diventando il filo rosso che accomuna diverse azioni politiche operate dal regime nel corso degli anni: la dichiarazione della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana nel ’36, la divulgazione del Manifesto degli scienziati razzisti il 14 luglio 1938 e infine la promulgazione delle Leggi Razziali nell’ottobre del medesimo anno. Il periodico, dal 5 agosto ’38 data di pubblicazione del primo numero al giugno del ’43 quando uscirà l’ultimo numero, sotto gli auspici del Ministero della Cultura Popolare diretto da Dino Alfieri ebbe il preciso scopo di elaborare una dottrina scientifica che trovasse una logica giustificazione alla politica coloniale fascista e all’antisemitismo diventato di Stato e di conseguenza la biologia e le Leggi di Natura diventarono una sorta di lasciapassare per la dimostrazione dell’esistenza di razze inferiori e superiori; logica questa supportata da leggi pseudoscientifiche intrise da secolari pregiudizi razzisti.
La categorizzazione e quindi la discriminazione non si fermarono però al livello della suddivisione biologica delle razze, interesse che aveva caratterizzato “l’antropologia scientifica” in tutta l’Europa settecentesca[2]; questi due elementi riescono ancora a scavare, fino a raggiungere gli strati più deboli che vivono in una determinata società e creare, se è ancora possibile, differenze e alterità. Mi riferisco alla misoginia e al sessismo intrinseci anche nelle pagine della Rivista: il genere femminile viene sempre discriminato e sentito come una minoranza debole da tutelare e da modificare a seconda dell’esigenza. Il disagio provocato dai rapidi cambiamenti che caratterizzarono l’Italia del primo dopoguerra vennero sfogati sulla dimostrazione di come le donne con la “D” maiuscola dovessero essere e dovessero comportarsi; esse divennero l’ago della bilancia su cui misurare la sostanza e l’essere di un determinato paese.

«La Difesa della Razza» si fa così portatrice e in un certo qual modo protagonista della svolta senza ritorno del regime nella diffusione del razzismo di Stato; diventando la divulgatrice ufficiale della dottrina scientifica della divisione dell’umanità in razze e della stereotipizzazione del ruolo dei diversi universi femminili all’interno della società. Elemento caratterizzante della Rivista è la crudezza, la crudeltà, la ripetitività di alcuni temi sviscerati fino all’esasperazione; essa fu il risultato di un radicale cambiamento nell’Italia del 1938, quando si passò infatti da un razzismo frammentario e disorganico a un razzismo di Stato, diventando così uno degli organi principali di propaganda del regime. Il linguaggio utilizzato ai fini della sensibilizzazione è infatti semplicistico e divulgativo per poter arrivare così a un più ampio e stratificato pubblico, ecco perchè sono soprattutto le immagini scelte ad avere un ruolo fondamentale: una iconografia razzista, violenta, con un intenso impatto emotivo; immagini che parlano da sole senza dover per forza leggere gli articoli fin troppo scontati e grotteschi.

CiprianiIl periodico trae linfa vitale dal Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato alcuni mesi prima, il 14 luglio del ‘38, sul «Giornale d’Italia»: il Manifesto è redatto, sotto ordine di Mussolini in persona, dal giovane antropologo romano Guido Landra il quale è influenzato e in linea con le tesi di razzismo biologico di derivazione tedesca[3]. Il Manifesto diventerà così il punto di partenza della Rivista, la base ideologica a cui riferirsi e in cui credere ciecamente. I firmatari del famoso decalogo furono quasi tutte personalità affermate e conosciute nella società italiana degli anni Trenta; questi ricoprivano infatti ruoli fondamentali e prestigiosi nelle varie università e istituti di ricerca, come, ad esempio, l’antropologo fiorentino Lidio Cipriani (1892-1962). Quest’ultimo schierato nelle file dei razzisti biologici entrò fin da subito a far parte del comitato di redazione della rivista pubblicando per sei anni consecutivi articoli e resoconti dei suoi viaggi di studio nel continente africano e riportando così dettagliate descrizioni “antropologiche” razziste e sessiste riguardanti le varie popolazioni da lui studiate e incontrate[4]. Cipriani, infatti, in quanto professore universitario di antropologia e direttore del Museo Nazionale di Antropologia e di Etnologia dell’Università di Firenze[5], già nel 1938 è conosciuto, non solo negli ambienti accademici, ma anche al di fuori di essi per i successi dei testi da lui pubblicati come resoconti dei propri viaggi all’estero e precisamente in Africa[6]. L’antropologo rappresenta un punto di rottura con la precedente tradizione di studi antirazzisti mantegazziana caratterizzante l’essenza dell’Università di Firenze[7]; Cipriani infatti è a tutti gli effetti allineato con la logica razzista di regime e già nei suoi testi e articoli “scientifici” dimostra questa peculiarità; lo studioso fu fortemente convinto che la mescolanza e quindi il meticciato, portassero ad una inevitabile degenerazione razziale e che le popolazioni africane non rappresentassero uno stadio evolutivo primitivo ma che fossero i risultati di processi di regresso fisico e culturale dovuti all’unione di razze civilizzate con quelle inferiori. In realtà la crudezza di questo pensiero si palesa non tanto nella lettura dei testi e degli articoli prodotti dall’antropologo quanto dal corpus di fotografie da lui scattate durante i suoi viaggi, che lo ritraggono accanto a uomini, donne e bambini africani presentati come cavie. Il fondo fotografico è composto da oltre ventottomila negativi[8], tutti organizzati e selezionati dal Cipriani stesso, il quale utilizza con rigorosa precisione, delle didascalie esplicative che inducono ad una lettura sempre razzista della fotografia. I soggetti fotografati hanno infatti pose prestabilite che danno chiaramente indicazioni sul perchè essi debbano essere considerati come appartenenti ad una razza inferiore, ed espressioni costantemente timorose e rassegnate che testimoniano la violazione della loro libertà da parte dell’occhio indiscreto dell’antropologo (Fig. 1).

Donna di colore con bambinoMolte di queste foto che determinano il modus operandi dello studio sul campo di Cipriani sono infatti riprodotte, con nota alla fine di ogni articolo, su tutti gli scritti dell’antropologo pubblicati su «La Difesa della Razza». Le donne in particolar modo, vengono usate per diffondere la tesi di una degenerazione razziale insita nei popoli africani; concetto questo veicolato mettendo in rilievo negativamente la differente concezione della maternità africana rispetto a quella europea, o meglio italiana. Le madri africane, a parte rarissimi casi, sono ad esempio fotografate con i propri figli avvolti da un tessuto legato dietro la schiena, il pagne, e perciò criticate aspramente all’interno degli articoli come madri degeneri. Cipriani sa bene dove battere il colpo e sovverte così i valori tradizionali di maternità e famiglia per ribadire e ripetere ancora una volta l’idea di una troppo netta distanza tra “noi e loro”.

Le fotografie utilizzate dal periodico fanno quindi parte, per lo più, della collezione prodotta dallo stesso Lidio Cipriani che guarda le donne nere con gli occhi dello “studioso” indiscreto e le fotografa di conseguenza come delle povere cavie, nude e irrigidite. L’universo femminile nero, costituisce adesso una diversità, una alterità, rispetto alla popolazione italiana; esso è diverso per razza e per cultura, i loro usi e costumi non hanno  nessun punto di contatto con quelli dei colonizzatori. Le immagini utilizzate sono quindi efficaci e suggestive, vengono riprodotte spesso a tutta pagina e mostrano i volti eretti in posizioni innaturali, che con l’aiuto della luce e di posizioni artefatte riescono a risultare brutti e sgradevoli.

Le donne ricoprono un ruolo fondamentale all’interno delle pagine della Rivista poiché esse, come già accennato, diventano l’ago della bilancia con cui i collaboratori del periodico, legittimati da una cultura secolare di patriarcato e sessismo, possono giudicare attraverso i diversi universi femminili analizzati la moralità e quindi l’essenza, positiva o negativa, delle varie nazioni prese in esame. La maternità delle donne nere, in questo caso descritte dal lavoro del Cipriani, diventa il terreno più fertile su cui poter creare ad hoc il contrasto e l’alterità con l’universo femminile italiano. Un altro chiaro esempio della costruzione di un controtipo negativo di donna rispetto a quella italiana era stato quello di mostrare le indigene, nel rapporto con la propria prole, in azioni lontane, animalesche, rispetto al canone normativo vigente nella cultura europea. I figli vengono trasportati sulla schiena, quasi mai presi in braccio, e allattati allungando, almeno secondo i razzisti biologici, il seno della madre fino al bambino. Questi gesti andavano a creare, come abbiamo già avuto modo di vedere, una cesura netta con quell’universo normativo tradizionale e ormai integrato da secoli nella mentalità e nella storia della nazione italiana.

Anche i riti e le superstizioni propri della cultura indigena, diventano il simbolo di separazione netta tra noi e loro. Nell’articolo Riti eDonna bianca con bambino superstizioni dei popoli africani [9], vengono elencati tutti i casi in cui un bambino appena nato rischia la vita con «un nonnulla per effetto di superstizioni»[10]; ad esempio il neonato, nella cultura del Rhodesia, sarà ucciso, attraverso soffocamento o annegamento, se vagirà prima di essere completamente partorito; tutto questo per il bene della comunità, poiché la malasorte portatrice di malattie e sciagure si è già, in quel modo, manifestata alla nascita del piccolo. Le madri, sempre secondo Cipriani, non sono devastate da questo tipo di approccio, anzi esse «condannano i propri figli senza pensarci»[11] e continuano a perpetuare malsane usanze, sulla loro prole, come quella, vigente tra le tribù del Congo, di deformare «artificialmente la testa ai bambini dei due sessi onde assicurare loro una ricercata bellezza da adulti»[12]. Le immagini utilizzate, sono ancora più eloquenti quando vengono messe a confronto nel numero XI dell’anno 1940[13], due madri di “razza” diversa con dei piccoli in braccio: la donna africana è disturbata dal figlio che piangendo le avvicina la mano alla bocca, creando così in lei una smorfia che la rende poco gradevole alla vista, in più è a seno scoperto e decorata da gioielli tradizionali; al contrario la bella e bionda madre occidentale guarda invece verso il lettore sorridendo, con la testa appoggiata in modo premuroso su quella del figlio che stringe tra le braccia (Fig. 2).

Questa breve analisi chiarisce che anche uno studioso come Cipriani poteva inserirsi a pieno titolo, nonostante le sue smentite e autodifese durante i processi post 1945, nel gruppo degli intransigenti razzisti biologici; l’affermato antropologo infatti negò fin da subito l’accusa di essere, sebbene fosse presente il proprio nome, co-firmatario del decalogo e di conseguenza egli fu colpito solo superficialmente dalle leggi di epurazioni del secondo dopoguerra proseguendo indisturbato la sua carriera scientifica. Cipriani riuscì quindi anche a costruire un controtipo negativo di donna, in questo caso riguardante le donne africane, rispetto al contesto femminile italiano.

Gli esempi riportati nell’articolo cercano di indagare e di conseguenza illustrare al lettore come gli stereotipi sessisti e maschilisti riguardanti l’universo femminile italiano e non solo propagandati dalla rivista «La Difesa della razza» possano essere ancora oggi scovati e identificati nella nostra società di appartenenza, la quale vive nel mantenimento di quelle strutture culturali e normative ereditate e mai realmente modificate o eliminate dalla dittatura fascista e che hanno permesso ad un «fascismo eterno»[14] di influenzare e controllare ancora oggi la nostra società. Tutte le donne analizzate dal quotidiano anche se appartenenti a realtà o culture diverse da quella italiana si trasformano nei diversi numeri dei fascicoli in un universo rigido e monolitico poiché tutte, nessuna esclusa, vengono intese, concepite e qualificate esclusivamente dal loro ruolo/missione primaria che è quella di diventare prima delle buone ed esemplari mogli e poi delle brave madri capaci per natura di mantenere la stabilità familiare con il loro stoicismo e con il loro amore. Il luogo comune riguardante la prova del sacrificio e del dolore, due elementi biologicamente caratterizzanti tutte le donne, ancora oggi vive e prospera nel nostro immaginario collettivo; «La Difesa della razza» marcia su questo stereotipo utilizzandolo come giustificazione, come espediente alla reclusione forzata a cui costringe le proprie donne nella sfera domestica. La casa è l’ambiente naturale dell’universo femminile dove esso si realizza e dove più si sente a suo agio. Tutte quelle donne appartenenti invece a nazioni nemiche o estranee alla cultura della penisola italiana andranno a rispecchiare e diventare un controtipo negativo di femminilità saranno descritte e così concepite da «La Difesa della razza» come delle cattive mogli e delle madri degenerate.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in storia contemporanea intitolata Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza»: un’analisi intersezionale di genere, discussa dall’A. nell’a.a. 2020/2021 presso l’Università di Pisa.

Note:
[1] Segretario di redazione della «Difesa della razza» fu Giorgio Almirante, nel secondo dopoguerra leader del MSI.
[2] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 37.
[3] Cfr. F. Cassata, La Difesa della Razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008.
[4] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, p. 178.
[5] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Bologna, Grafis, 1994, p. 91.
[6] Aveva pubblicato nel 1936 il libro dal titolo Un assurdo etnico: l’impero Etiopico, Firenze, R. Bemporad & F.o., 1936.
[7] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, p. 92.
[8] Ivi, p. 93.
[9] L. Cipriani, Riti e superstizioni dei popoli africani, in «La Difesa della razza», 20 marzo 1941, pp. 18-21. Testo nella sezione FONTI.
[10] Ivi, p. 18.
[11] Ivi, p. 20.
[12] Ibid.
[13] «La Difesa della razza», 5 aprile 1940, pp. 24-25.
[14] Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2017.




La ricostruzione del PCI a Pistoia e il primo congresso provinciale

All’indomani della liberazione di Pistoia, sul suo territorio, come d’altra parte avveniva nel resto della Toscana, il tessuto e il confronto politico vengono gradualmente a prendere vigore.

Questo confronto politico trovò all’interno del C.P.L.N. il luogo di compensazione e composizione di tutte le prospettive e divergenze. Fino a che non fu ripristinata l’autorità del governo italiano, inoltre, il dibattito non poteva non tenere conto della presenza e dell’autorità del Governo militare alleato.

Gli alleati erano diffidenti verso il partito comunista e contro di esso ingaggiarono una lotta assai decisa. Si temeva che i comunisti disponessero di armi e munizioni e di un piano preciso di guerra basato sulla veloce rimobilitazione dei partigiani contro gli alleati.

Anche a Pistoia, questo atteggiamento era riscontrabile, e sul fuoco delle diffidenze tra Governo militare alleato e PCI gettavano benzina gli avversari politici dei comunisti. Se tale atteggiamento a livello politico veniva, in qualche modo, mascherato, nelle posizioni della Curia territoriale si manifestava, invece, in modo acuto: le organizzazioni cattoliche e molti parroci, infatti, erano in prima linea nel combattere una dura battaglia contro i marxisti materialisti, atei e nemici della religione.

Il partito comunista pistoiese, che durante il ventennio fascista era stato costretto alla clandestinità, con la liberazione della Provincia si pose il problema della riorganizzazione della Federazione su nuove basi.

Il compito non fu molto facile poiché si trattava di creare un Partito Nuovo in una situazione completamente nuova e rispondente alle mutate condizioni storiche, che tenesse conto della diversa posizione della classe operaia di fronte a tutti i problemi della vita nazionale. Pertanto, il partito comunista pistoiese, si dette una struttura organizzativa che, sostanzialmente, costituirà l’intelaiatura portante anche per gli anni a venire. Tale struttura, fin dall’inizio, era articolata in una federazione che comprendeva l’intero territorio della provincia di Pistoia, suddivisa in sezioni che coprivano tutti i rioni cittadini, nonché le frazioni e le località della campagna e della montagna. Le sezioni più grandi erano, a loro volta, suddivise in cellule, le quali potevano avere anche un ambito aziendale.

La prima riunione all’interno della ricostituita federazione pistoiese del PCI si effettuò il 22 novembre 1944 quando, nel corso di una riunione del Comitato Federale, fu deciso di sostituire il segretario Guerrando Olmi, che aveva guidato il partito dal giorno della liberazione, con Luigi Gaiani. Tre giorni dopo fu nominata la segreteria di cui facevano parte oltre a Gaiani, anche Olmi e Niccolai, e il Comitato Federale composto da dieci membri (nove uomini e una donna), i quali, a loro volta, avevano altri incarichi in organismi cittadini (Italo Carobbi era presidente del C.P.L.N., Silvio Bovani era dirigente della CGIL, Edda Gaiani era dirigente dell’Unione Donne Italiane).

Nel gennaio 1945, a Gaiani successe Fulvio Zamponi, anch’egli membro autorevole del C.P.L.N., che diresse i lavori del primo Congresso provinciale del PCI, svoltosi dal 19 al 21 ottobre’45. Questa importante assise fu preceduta dalla prima Conferenza provinciale d’organizzazione effettuatasi il 22 luglio 1945, alla presenza delle sezioni e delle cellule maschili e femminili. Nel corso dei lavori furono messi in luce difetti e deficienze organizzative, tanto che i responsabili dell’organizzazione di tutte le sezioni della provincia riconoscevano impellente la necessità di trasformare i militanti in un insieme organico di attivisti capaci di assumersi il compito di dirigere il paese e risolvere i problemi di carattere nazionale.

Nell’ordine del giorno approvato alla fine del Convegno era stabilito di creare nuove attribuzioni capaci di poter soddisfare le esigenze di un aumentato numero di aderenti e di svolgere così la politica del Partito Comunista di tipo nuovo così da raggiungere una completa partecipazione dei militanti alla vita attiva della nazione.

Terminata questa importante assise, la Federazione di Pistoia concentrò i suoi sforzi nell’organizzazione e nella preparazione del primo Congresso provinciale svoltosi nell’ottobre’45, alla presenza di delegazioni del PSI, della DC, del PRI, del PdA e dei Comunisti Libertari. Vi parteciparono 177 delegati di 37 sezioni in rappresentanza di 16475 iscritti.

L’ordine del giorno prevedeva l’elezione degli organismi dirigenti e dei delegati al V Congresso Nazionale, i rapporti sull’attività del partito a livello nazionale e provinciale.

I lavori congressuali furono aperti da Fulvio Zamponi, segretario della Federazione pistoiese del Partito Comunista, il quale rivolse il seguente saluto ai presenti:

«Il nostro Congresso si apre in un periodo critico della vita italiana davanti a noi abbiamo una massa di rovine, la miseria e la fame batte alle nostre porte mentre residui fascisti e reazionari si oppongono all’ascesa delle forze democratiche […]. Siamo convinti che il ciclo democratico possa completarsi su un terreno pacifico […].

   Abbiamo abbondante buon senso ma soprattutto disponiamo di tutta la forza occorrente per dimostrare, se necessario, ai residui del fascismo di che cosa sia capace il nostro Partito (…).

   Vogliamo dare un nuovo orientamento politico alla Nazione; i problemi della ricostruzione, dell’alimentazione, dell’epurazione sono compiti che il popolo italiano deve affrontare e risolvere […]» (“Il Progresso. Settimanale della Federazione Comunista Pistoiese”, 27.10.1945, p. 1).

La relazione introduttiva fu svolta da Giuseppe Rossi, in rappresentanza della Direzione Nazionale. In apertura, egli inquadrò la situazione generale del PCI.   Nel particolare momento storico, il PCI era impegnato nel reclamare lo svolgimento delle elezioni politiche e amministrative, che sarebbero servite ad uscire da una situazione imbarazzante, per lo più determinata dal concetto della pariteticità in tutte le cariche designate dai CLN. Tuttavia, il PCI era favorevole al mantenimento dei Comitati di Liberazione al fine di dare un impulso alla ricostruzione del paese e all’epurazione. Inoltre, era anche a favore della nazionalizzazione di una parte dell’industria, della riforma agraria e finanziaria.

Riguardo ai rapporti con le altre forze politiche, rilanciò la costruzione di un Partito unico necessaria sia per i comunisti, sia per i socialisti.

Nel corso dei lavori, Zamponi illustrò il complesso dell’attività del partito a livello provinciale. Dopo la Liberazione, le autorità militari avevano più volte ostacolato il processo di riorganizzazione della federazione pistoiese del Partito Comunista e più volte la federazione fu minacciata di scioglimento.

«Tuttavia il partito intervenne per dimostrare agli alleati con quanta sincerità i comunisti vedessero nella loro opera il compito che era anche nelle nostre finalità, e con quanta sincerità noi spingessimo le masse a collaborare con gli alleati nella lotta di liberazione» (Ivi)

Per quanto riguardava la forza organizzata del PCI pistoiese, Zamponi riferiva quanto segue:

«Durante la lotta eravamo circa 500, alla fine del’44 eravamo 4000. Nel febbraio scorso quando fui chiamato a dirigere la Federazione i compagni erano 6080; nel giugno 12029, nell’Agosto 14303, oggi siamo 16475 senza tenere conto delle numerose domande in corso di esame presso la Federazione.  Questo progresso conferma che la politica e l’azione raggiunge le coscienze del popolo […] (Ivi)

Questi dati stavano a significare il gran lavoro organizzativo svolto, ma anche come i comunisti fossero ampiamente radicati nella realtà locale grazie ad un’importante rete di spacci cooperativi, – le cosiddette cooperative del popolo -, che furono uno strumento importante, ma non certamente decisivo, nella battaglia contro il cosiddetto “mercato nero”. Con l’apporto dei socialisti, fu realizzata una rete capillare di circoli – le “case del popolo” -, le quali si riveleranno utili per ospitare le sedi delle sezioni dei due partiti.

Questa gran mole di lavoro fu, tuttavia, giudicata ancora insufficiente da Zamponi, al pari del livello di attività sindacale – la Camera del Lavoro poteva contare su 16000 iscritti di tutte le tendenze politiche -, e della presenza del partito nel mondo femminile e in quello giovanile.

Le risoluzioni conclusive del congresso auspicarono una rapida convocazione della Costituente, un più deciso ruolo del partito nell’opera di denuncia delle forze che ostacolavano il processo di ricostruzione del paese, la creazione di un partito unico dei lavoratori, mentre per ciò che si riferiva alla realizzazione della linea politica da parte della Federazione si valutava che essa stessa avesse fatto il possibile per rendere concreta, nella provincia di Pistoia, la linea politica del partito. Si osservava, inoltre, che il lavoro doveva essere intensificato in tutti i settori, ma in particolar modo nell’ambito sindacale, cooperativistico, in quello della propaganda, del lavoro femminile, delle amministrazioni Provinciali, del problema dei reduci.

Il Congresso si concludeva con la riconferma di Luigi Gaiani a segretario della federazione, in sostituzione di Zamponi, che fu chiamato a ricoprire un altro incarico, e con l’elezione del Comitato Federale composto da: Gaiani Aldo, Niccolai Dino, Romei Emanuele, Valdesi Armando, Carobbi Italo, Filippini Gino, Pasquali Sergio, Bernieri Remo, Marraccini Giuseppe, Romani Lea, Olmi Guerrando, Agnoletti Madda, Biagini Nello, Monti Renè, Vivarelli Giuseppe, Magnini Carino e dei delegati al Congresso Nazionale Zanchi Renata, Palandri Graziano, Bucci Flavio, Vivarelli Sergio, Filoni Zara, Filippini Gino, Monti Renè, Cenci Getullio, Breschi, Tesi Savino, Romei Emanuele, Agnoletti Madda, Paoli Lionello, Bernieri Remo, Bartoli Mario, Jozzelli Walter, Coppini.

Filippo Mazzoni, è vicepresidente dell’Isrpt e membro del comitato di redazione della rivista “Farestoria”. Tra le sue pubblicazioni pù recenti, segnaliamo “Viaggio nella storia sociale dell’Italia repubblicana”, Empoli, Ibiskos, 2019. 

 




La mostra “Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento”

Una mostra sul Pci a Livorno. Perché siamo nel centenario? Anche. Perché è stato il partito egemone nella città e nella provincia di Livorno fino ed oltre il suo scioglimento? Certamente. Perché è stato uno dei protagonisti della vicenda politica, sociale e culturale del secolo scorso, e non solo nel panorama italiano? Di sicuro.

Ma anche per altre ragioni, intrinseche al ruolo e agli scopi di un Istituto come l’Istoreco.  Al primo posto metterei la conservazione e la cura del patrimonio documentale di un partito politico. Custodia e cura che non potevano però prescindere dalla sensibilità di alcuni dei suoi protagonisti. Mi riferisco in particolare all’ex segretario di federazione dei DS, Marco Ruggeri, che ci affidò l’archivio della Federazione molti anni or sono. Perché le carte che raccontano una storia non vanno solo prodotte, vanno anche conservate e, quando è possibile, anche affidate ad istituti od enti terzi, penso ad istituti come il nostro o agli stessi archivi di Stato provinciali, che le possono valorizzare e che sono capaci di renderle disponibili a tutti per la ricerca e la consultazione. Lo stadio successivo della loro conservazione è svilupparne le potenzialità, digitalizzarle e renderle fruibili al pubblico più vasto tramite la rete. Sono operazioni che richiedono competenze specifiche, passione, e risorse economiche, ma non ultimo anche armadi idonei alla conservazione.

L’Istoreco di Livorno ha fatto una parte di questo cammino grazie all’aiuto di molti, soprattutto della Regione Toscana e della Fondazione Gramsci di Roma, appoggiato in questa operazione dalla sensibilità della Sovrintendenza archivistica della Toscana.

Il centenario ci ha indotto a proporre una Mostra che rappresenta in sintesi una specie di percorso di lettura dentro gli anni che vanno dal 1944 al 1991, cioè dalla Liberazione della città labronica allo scioglimento di quella compagine politica. Il nostro archivio conserva anche carte successive a quel periodo, relative alle successive evoluzioni di quella compagine politica. Ma abbiamo deciso di dedicarci alla componente più omogena del nostro deposito. Quello che viene dopo è un’altra storia.

E così abbiamo deciso di organizzare questa proposta proprio nell’anno dell’anniversario. Poiché il 1921, l’anno della fondazione del Pcd’I, partito fondato fra l’altro, e non è del tutto casuale, proprio nella città di Livorno, questa operazione c’è apparsa ancora più appropriata.

Abbiamo optato per questo mezzo comunicativo che ha dei limiti enormi. Il primo immediatamente evidente a chiunque, è l’impossibilità di proporre un approfondimento, un percorso critico ben sviluppato e appoggiato alla enorme bibliografia esistente, ma che ha pure il vantaggio assolutamente non trascurabile di diventare una narrazione facile da comprendere, emozionante, ma anche ricca di dettagli. Del resto l’Istoreco, in questo anno reso difficile dal Covid ha organizzato significativi momenti seminariali di approfondimento[1], prodotto e pubblicato un volume su una figura di assoluto rilievo, come quella di Bruno Bernini[2], presentato volumi su questa storia.[3] Non solo. Sta organizzando da adesso alla fine dell’anno, altri appuntamenti, diciamo più tradizionali, per riflettere insieme agli addetti ai lavori, su quella vicenda. Appuntamenti nei quali dare la preminenza all’indagine storiografica e alle ultime acquisizioni della ricerca.

Ma la decisione di ricorrere ad una Mostra, cioè ad un mezzo che fosse ricco di immagini, di fotografie di militanti che potessero ancora oggi riconoscersi, di documenti di archivio come volantini e manifesti, legati alla storia del Pci ma anche alla storia di questa città, c’è apparso il mezzo più immediato, quello più suggestivo, ma anche in qualche modo anche quello più democratico, che provasse ad avvicinare tutti, gli esperti ed i giovani estranei a quella vicenda, i vecchi militanti e gli indifferenti, perché quella vicenda prendesse l’aspetto della vita vissuta, prendesse la forma dei volti e dei corpi che occupavano le piazze, che lanciavano slogan, che discutevano nelle sezioni.

Appena ci siamo messi in cammino per la sua realizzazione, realizzazione per la quale abbiamo trovato talvolta anche aiuti insperati, siamo stati avvicinati da due fotografi-militanti o militanti-fotografi (Roberto Leonardi e Antonio Brugnoli) che hanno arricchito la nostra proposta mettendoci a disposizione la loro raccolta iconografica.

Una Mostra, come è ovvio e, come ha scritto anche con senso poetico, l’assessore alla Cultura di Livorno, Simone Lenzi, è anche un’operazione che si caratterizza per leggerezza[4]. Ma sempre seguendo il suo ragionamento, accanto alla leggerezza del linguaggio, si accosta la pesantezza del contenitore, dei containers. Simbolo per eccellenza del lavoro in una città che è stata sempre ancorata al porto e a tutte le attività che si svolgono sulle sue banchine. Non casualmente l’appoggio più significativo l’abbiamo trovato proprio fra i soggetti che vivono e lavorano sul porto. Ma la Mostra non si sarebbe realizzata senza la compartecipazione generosa del Comune di Livorno. Quindi il nostro è il risultato di uno sforzo collettivo, di privato e pubblico, di istituzionale e personale. Tutti insieme, noi che ci abbiamo lavorato, chi ci ha dato un contributo in lavoro e mezzi, chi in denaro, a tutti quei volontari che si sono messi a disposizione per abbassare i costi dell’allestimento, va il nostro più sentito ringraziamento. L’operazione però cosa ci insegna? Che li singoli, i soggetti economici e istituzionali, sono stati disponibili, ad affiancare un’operazione di questo tipo perché hanno compreso che era una operazione culturale, con nessun retro pensiero nostalgico, né tantomeno una laudatio temporis acti, ma una iniziativa che voleva innescare una discussione sul nostro passato e sul nostro presente. Un presente così deficitario dal punto di vista politico, nel quale ognuno di noi, ogni cittadino democratico, avrebbe piacere di ritrovare un filo rosso che capace di proporre un progetto di futuro, un orizzonte di convivenza civile meno violento e più solidale, da tutti i punti di vista. E che dentro questo progetto ci sia uno sguardo e un impegno per ridare piena dignità al mondo del lavoro, quel lavoro così pesantemente attaccato dalla precarietà e dalla insicurezza, spesso incapace anche di riportare a fine turno, la vita, a casa.

E proprio perché questo ragionamento che sottostà in gran parte alla nostra proposta, abbiamo aperto la mostra proprio sul tema del Lavoro scrivendo:

“Non c’è agitazione industriale che non sia accompagnata dalla solidarietà delle organizzazioni di Partito e dall’intervento delle amministrazioni locali, governate da Pci, per una soluzione della vertenza, per il superamento della crisi. Come a dire: la piazza e la mediazione politica. Non sempre, come è ovvio, l’intervento e le agitazioni operaie e sindacali sono sufficienti a superare tutti gli scogli. Spesso le decisioni vengono prese altrove, in luoghi di potere lontani dall’influenza che quella compagine può esercitare.” L’altrove di adesso spesso è in un altro continente o in una Holding senza testa, apparentemente, perlomeno. Nelle nostre immagini sfilano migliaia di partecipanti in difesa dei diritti di chi lavora, dal Cantiere, alla Spica, dal Porto alla Motofides, dal lavoro nelle campagne alla denuncia del doppio lavoro delle donne.

Nella Mostra subito dopo il tema del Lavoro abbiamo messo la sezione sulle Battaglie civili, quelle battaglie che spesso non sono rappresentabili con facilità con una foto o  uno slogan, ma sono quelle nelle quali si sono realizzate le alleanze migliori. Per la riforma agraria, per una sanità pubblica, per il diritto di famiglia o la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Quelle battaglie che hanno reso più civile il nostro Paese, anche quelle dove il Pci non si è trovato in prima linea, pensiamo alla Statuto dei lavoratori che fu approvato con l’astensione dei suoi rappresentanti. Ma pensiamo anche a come in Toscana, a partire da Arezzo, Lucca, Volterra, si è combattuta quella grande battaglia civile per la chiusura dei manicomi o per il trionfo della legge sul divorzio e sull’aborto.

La sezione Vita di Partito, possiamo dire è quella più interna alle vicende di quel grande corpo sociale organizzato che fu il Pci.  Abbiamo scritto:

“Dalle grandi assisi con il ritratto di Stalin e di Togliatti che campeggiano su tutto, alle fotografie degli anni Settanta con le ragazze con i pantaloni a zampa d’elefante, con i volti degli uomini e delle donne meno austeri e più pieni (la fame dell’immediato secondo dopoguerra è solo un ricordo lontano).Le scuole di partito organizzate con poche cerimonie ma con molta partecipazione per una base di militanti e di quadri con un basso livello scolastico ma che dimostra un forte desiderio di conoscenza fino alle immagini più leggere che testimoniano un’idea di partecipazione diversa, l’emergere della dimensione del privato, di un impegno meno totalizzante rispetto a quello degli anni Cinquanta.”

Il mondo cambiava e cambiava anche il Pci dentro quell’Italia che aveva cominciato ad andare di corsa.

La sezione sulle Feste de l’Unità, è a nostro parere, quella più allegra e partecipata. Immagini di uomini e di donne che con orgoglio e caparbietà, rinunciando anche alle ferie, lavorano per costruire gli stands, per riempirli di persone, per proporre una immagine di sé e del partito, che incarnano l’idea di essere una grande forza di massa, partecipata e organizzata. Una vetrina per il mondo che sta intorno, per gli amici e i nemici. É anche la sezione dove emergono con forza, anche se non la sola, alcuni dei bellissimi manifesti disegnati dal grafico della Federazione livornese, Oriano Niccolai.[5] Un grande anche nel panorama nazionale.

La Mostra continua con altre due sezioni: quella sulla Pace e la questione internazionale e quella sullo Sport che chiude il nostro allestimento. Proviamo a soffermarci sulla prima che in questo momento, con le terribili notizie che provengono dall’Afghanistan, è di una attualità sconcertante. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si aprirono altri scenari di guerra: la Corea, la guerra civile in Grecia, l’Indocina, i movimenti di liberazione negli ex paesi coloniali etc etc. Non solo. Gli uomini e le donne usciti salvi dalla guerra temevano più di tutto le armi atomiche. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era evidentemente ancora vivo nei loro cuori e nelle loro teste per non destare preoccupazione. Ed era un sentimento che si rafforzava nelle file comuniste con un forte sentimento antiamericano. Quando ci fu l’attacco all’Afghanistan da parte dell’allora Unione Sovietica, non ci furono manifestazioni a favore della pace. Era un mondo bipolare e questa storia ce lo racconta anche nella sua dimensione periferica, quella di una provincia italiana del centro Italia. Ci racconta anche una capacità di mobilitarsi accanto ai popoli in lotta per la libertà, dalla Spagna di Franco all’Algeria del dominio francese, dalla Cuba prima di Castro alla lotta dei Viet-cong. Sicuramente spesso erano articolazioni di una posizione troppo filosovietica ma erano anche, e lo si vide a partire dai carri armati a Praga, l’espressione di un percorso autonomo di solidarietà e di convivenza che perlomeno albergava tra le masse, e non solo fra quelle comuniste. Era un sentimento che si esprimeva anche con gesti concreti di solidarietà, con l’impegno dato in prima persona. Un atteggiamento che raccontava la capacità di aprire le porte dell’accoglienza e rifiutava la logica della costruzione dei muri. Un atteggiamento che non considerava l’altro un “diverso”, uno straniero, ma che lo percepiva soltanto come una persona in difficoltà. Di questi tempi con le sirene di quelli che vorrebbero gettare a mare i richiedenti asilo, questa attitudine all’inclusione, ci manca.

La Mostra poi si chiude con una sezione importante ma anche allegra. La sezione dello Sport. Per rendere omaggio alla città più medagliata d’Italia, Livorno, per rendere omaggio alla rete di attività sportive promosse dall’organizzazione giovanile di quel partito, dalla rete dell’Uisp ai Circoli Arci, ai comitati delle gare remiere. Quella rete che promosse dall’interno di una sezione comunista, quella della Venezia, la Coppa di gara remiera intitolata ad Ilio Barontini, ardente antifascista, fuoruscito in Russia e in Francia, combattente di Spagna e molto altro ancora. Perché lo sport non è un modo qualsiasi di riempire il tempo libero e non ha valore per lo sforzo individuale. Lo sport è condivisione di valori, solidarietà praticata sul campo, impegno e disciplina, vita di comunità. È uno strumento ideale per avvicinare i giovani e coinvolgerli in un impegno a tutto campo; è uno strumento per allontanarli dalla strada in una città fortemente colpita dalla guerra e dai bombardamenti prima, e poi per tenerli lontani dalle suggestioni della droga. Non era e non è poco.

[1] Alcuni percorsi di protagoniste nel Pci: Edda Fagni, con Carla Roncaglia, Presidente Istoreco e Alessandra Mancini autrice del volume, Edda Fagni, L’innovazione pedagogica, Edizioni del Boccale, Livorno, 2010.

[2] Michela Molitierno, Catia Sonetti, La vicenda non comune di un militante comunista, Ets, Pisa, 2020.

[3] Il 14 aprile 2021 abbiamo presentato il volume scritto da Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013; il 23 marzo 2021, il volume di Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini, Ets, Pisa, 2017 eil 17 maggio quello su Bruno Bernini

[4] Simone Lenzi, Prefazione del Catalogo su: Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento, in corso di pubblicazione.

 [5] Rosso creativo. Oriano Niccolai. 50 anni di manifesti, a cura di Margherita Paoletti e Valentina Sorbi, Debatte, Livorno, 2013.




Socialproletari a Prato

In occasione dell’uscita del volume di Alessandro Affortunati intitolato Tra potere e contropotere. Appunti per una storia del PSIUP a Prato, 1964-1972 (Prato, Pentalinea, 2021) abbiamo rivolto alcune domande all’autore. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

 Il PSIUP nasce in conseguenza del varo del centrosinistra organico nel 1964 (a livello locale i primi segnali di insofferenza interna al PSI si erano manifestati in occasione delle “giunte difficili”, dopo le amministrative del 1960, a Firenze e, più vicino a noi, a Carmignano). Parlaci della genesi del nuovo partito.

 All’interno del PSI esisteva una componente di sinistra, molto variegata, che aveva accettato con qualche perplessità la svolta di centrosinistra. Quando il PSI passò dall’appoggio esterno alla partecipazione diretta al governo (dicembre 1963), questa componente si oppose nettamente all’operazione, rifiutò di votare la fiducia e diede vita al PSIUP (gennaio 1964). La sinistra riteneva infatti che l’ingresso dei socialisti nel governo avrebbe avuto come unico risultato la rottura a sinistra fra PSI e PCI e l’integrazione del Partito socialista nel sistema politico esistente, senza che fosse possibile ottenere nulla di significativo sul terreno delle riforme di struttura (e, considerati gli sviluppi politici successivi, non si può dire che questa analisi fosse priva di fondamento).

Tu hai intitolato il tuo libro Tra potere e contropotere. Perché?

 Il titolo allude alla contraddizione (rimasta sostanzialmente irrisolta) in cui il PSIUP venne a trovarsi nelle realtà locali dove aveva responsabilità di governo, diviso com’era fra la gestione del quotidiano, che imponeva di misurarsi con problemi concreti (e talora prosaici) e l’aspirazione a dar vita ad una democrazia di base fondata su gruppi che intendevano opporsi al potere costituito (basti pensare alla concezione psiuppina dei consigli di quartiere, di cui si chiedeva l’elezione diretta, oppure all’ambizione di costruire il contropotere operaio nelle fabbriche). L’idea di contropotere (fatta risalire all’esperienza della Comune parigina) è stata, secondo me, l’elemento qualificante della proposta politica del PSIUP.

Quali furono a Prato le reazioni degli altri partiti alla comparsa del nuovo soggetto politico?

 Le reazioni da parte della DC, del PSDI e, naturalmente, del PSI furono negative (all’interno del PSI, in particolare, i lombardiani – che, dopo la scissione, erano rimasti soli a rappresentare la sinistra – temevano uno scivolamento del PSI su posizioni socialdemocratiche). Quanto al PCI, Mauro Giovannini, segretario della Federazione comunista, definì “dannosa” la scissione (c’era il rischio che il PSIUP erodesse in parte il consenso elettorale del PCI, sottraendogli voti a sinistra), ma poco dopo un documento della Federazione stessa corresse il tiro, sostenendo che fra PSIUP e PCI non poteva che nascere un rapporto di solidarietà.

Come si mosse il Psiup verso gli alleati?

 La politica proposta dal PSIUP era basata sul principio dell’unità di classe e quindi metteva al primo posto l’alleanza col Partito comunista ed anche con il PSI, se disponibile. Continua fu comunque la polemica verso quest’ultimo, accusato di avere rotto l’unità delle forze del lavoro e di essere passato nello schieramento avversario. A livello locale il PSIUP governò con socialisti e comunisti (Piero Spagna, suo primo rappresentante in consiglio comunale, fu eletto anche vicesindaco).

Quali erano le istanze del partito e i punti programmatici a livello locale?

 Il PSIUP elaborò nel 1966 un documento in cui si parlava dei problemi concreti della città: va sottolineato che i socialproletari avevano una loro visione dello sviluppo di Prato che non coincideva con quella dei comunisti. I socialproletari chiedevano, fra l’altro, una programmazione pluriennale in campo economico, sul modello di Bologna, per evitare una nuova crisi del tessile e difendere i livelli occupazionali, una rapida realizzazione del piano regolatore, che non doveva avere riguardi nei confronti degli interessi dei tanti centri di potere, un potenziamento dei trasporti urbani ed extraurbani fondato sulla municipalizzazione della CAP, la società più importante nel settore del trasporto pubblico locale. Molto interessante era poi la proposta di dar vita ad un organismo pubblico che si prendesse cura dei ragazzi abbandonati, dato che la città era allora scossa dallo scandalo dei “Celestini”, scoppiato quando era stato scoperto che i bambini così chiamati, ospitati in un istituto di assistenza gestito da religiosi, non solo erano costretti a vivere in condizioni igieniche inimmaginabili, ma erano anche sottoposti a sadiche punizioni.

CopertinaPSIUP_Prato1024_2Nel corso del tempo, nelle tue ricerche, hai “incontrato” spesso Ferdinando Targetti. E anche stavolta lo hai ritrovato. Un personaggio politico che ha attraversato una parte importante del Novecento. Ci puoi dare un tuo parere di storico?

 È un parere nettamente positivo. Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, fu anche presidente della Confindustria), si iscrisse giovanissimo alla sezione pratese del PSI, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato, fra il 1912 ed il 1914, e la giunta da lui presieduta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa. Fermo nei suoi principi di antifascista, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3 ottobre 1925). Dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di svolgere attività antifascista. Nel dopoguerra, riflettendo sull’esperienza della dittatura e della guerra, giunse alla conclusione che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai  suoi privilegi, e che quindi la più stretta unità d’azione tra socialisti e comunisti era la condizione imprescindibile per la difesa della democrazia e la realizzazione del socialismo (e si badi che Targetti, in quanto riformista, era stato espulso dal PSI ed era entrato a far parte del PSU, il partito di Matteotti). È così che si spiega la sua adesione al PSIUP, di cui egli stesso chiarì le motivazioni in una lettera indirizzata ai compagni di Prato, che viene pubblicata per la prima volta in questo libro. In sostanza, Targetti non accettò mai nessuna forma edulcorata di socialismo: il socialismo significava per lui superamento del capitalismo, non un’operazione di maquillage per rendere accettabile il capitalismo stesso.

L’invasione della Cecoslovacchia è certamente uno spartiacque nel panorama politico della sinistra e coinvolge anche il PSIUP. Quale fu la sua posizione in merito e quali le conseguenze?

 A differenza del PCI, che condannò con fermezza l’invasione, la direzione del PSIUP non andò oltre un comunicato, alquanto fumoso, nel quale non era dato riscontrare una netta parola di condanna dell’accaduto. Questo comunicato rifletteva la posizione dei vertici del partito, cioè della componente che faceva capo a Tullio Vecchietti ed a Dario Valori, ma non quella di tutto il PSIUP. La base psiuppina, infatti, più che filosovietica poteva definirsi terzomondista (con simpatie filocinesi in alcuni casi molto evidenti): qui a Prato, ad esempio, essa si dissociò dalla direzione, sposando la linea della Federazione di Firenze. Comunque sia, la posizione assunta dai vertici (sulla quale ebbero il loro peso – come è stato esplicitamente ammesso da dirigenti di primo piano del partito, come Silvano Miniati – i finanziamenti che il PSIUP riceveva regolarmente dall’Unione sovietica per mantenere un apparato decisamente sovradimensionato) ebbe conseguenze gravi per il partito, cui alienò le simpatie della parte più movimentista del suo elettorato.

Nella logica del sistema proporzionale i socialproletari hanno raggiunto, in alcuni casi, discreti risultati. Che bilancio si può trarre dall’andamento elettorale a livello locale?

 Il PSIUP partecipò a quattro competizioni elettorali (le amministrative del novembre 1964, le politiche del maggio 1968, le amministrative del giugno 1970 e le politiche anticipate del maggio 1972), ottenendo dei discreti risultati, ma non riuscendo a sfondare a sinistra. A Prato oscillò fra il 4,04% del 1968 e l’1,61% del 1972. Le politiche del 1972 furono una vera e propria Caporetto elettorale per il partito, che, non essendo scattato il quorum in nessun collegio, non poté utilizzare i resti e scomparve da Montecitorio. La fine del PSIUP fu la conseguenza del progressivo disimpegno socialista dal centrosinistra, che restrinse il suo spazio politico, della mancata condanna della repressione della “primavera di Praga” e della contemporanea presenza di tre liste concorrenti (il Manifesto, il Movimento politico dei lavoratori e Servire il popolo).

A un certo punto, tratte le conseguenze del voto del 1972, si pone il problema del quo vadis? Detto con un’altra metafora, si pone il problema della Legge di Newton: i corpicini piccoli subiscono la forza di attrazione verso quelli più grandi. Ma non per tutti andò così…

Subito dopo la disfatta elettorale del 1972 il IV (ed ultimo) congresso del PSIUP decise a maggioranza lo scioglimento del partito e la sua confluenza nel PCI. A livello nazionale fu questa la linea che passò e, col senno di poi, si può forse dire che fu la scelta più giusta. A Prato solo una minoranza passò nelle fila comuniste, mentre la maggioranza degli iscritti decise di proseguire la battaglia dando vita al Nuovo PSIUP (nessuno, a quanto mi risulta rientrò nel PSI): la decisione presa dalla maggior parte dei militanti psiuppini della città laniera stava a significare che, pur con tutti i suoi limiti, quella del PSIUP era stata per molti un’occasione di crescita politica e culturale.




Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco

* Il 1921: lo squadrismo alla conquista della Maremma

La Toscana è annoverata tra le regioni chiave per comprendere la nascita del fascismo, che com’è noto prese forma nei tre anni che precedettero la marcia su Roma del 1922. Il 1921, in particolare, rappresentò per la Maremma come per le altre zone della regione, il momento culminante del fenomeno squadrista, che del fascismo movimento politico fu il braccio armato: a partire dall’assassinio a febbraio del 1921 del sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, le violenze degli squadristi, irradiandosi da Firenze, si susseguirono feroci in tutta la Toscana; vi si distinsero molti “avventurieri” fiorentini, fondatori dei primi fasci nelle province di Arezzo, Siena, Livorno e Grosseto (primo in provincia di Grosseto fu presumibilmente quello di Ravi nel novembre 1920). 

etruriaI fascisti “forestieri” circolavano in regione per dare coraggio agli elementi locali, ma soprattutto per suscitare disordini che potessero costituire quella “provocazione” necessaria come pretesto per una sistematica campagna di occupazione del territorio (che via via veniva indicato come da “purificare”, “spurgare”, “bonificare”). La modalità di azione degli squadristi era quella delle cosiddette “spedizioni punitive”, che miravano alla devastazione delle sedi e dei luoghi di aggregazione dei partiti (principalmente il Partito socialista) e alla intimidazione degli avversari politici. Una modalità che descrive perfettamente la violenza fascista che si scatenò sulla città di Grosseto fra il 27 e il 30 giugno 1921, su Orbetello il 10 luglio e su Roccastrada il 24.

Dino Perrone Compagni

«A Civitavecchia tuona il cannone. L’Umbria è in fiamme. In tanti altri paesi divampa la guerra civile. Dopo la disfatta elettorale il fascismo grida: “Ora viene il bello!”» si legge su “Il Risveglio”, settimanale socialista maremmano, nel maggio del 19211. Anche in Maremma, nella primavera del 1921, le “gite di propaganda” si susseguirono ai margini della provincia (una prima di fascisti senesi colpì Monterotondo, Montieri, Gerfalco e Travale, mentre una spedizione guidata dall’empolese Romboli fu organizzata a Santa Fiora e Bagnore). Il capoluogo veniva progressivamente accerchiato, prossimo obiettivo predestinato: fu nella seconda metà di giugno che il marchese Dino Perrone Compagni, segretario politico del fascio di Firenze, preparò la “conquista” di Grosseto con l’invio di “13 pellacce” (fra cui il famigerato squadrista Dino Castellani), a cui si unirono immediatamente altri fascisti fiorentini, provenienti da Foiano della Chiana e già alloggiati in città presso l’Hotel Bastiani.

Dal diario di uno squadrista toscano, Mario Piazzesi, che partecipò a quella prima incursione si legge

si sarebbe andati nella città tabù, che se da Carrara a Perugia, da Spezia alla Romagna Toscana, le piane e i monti erano stati arati in lungo e in largo dalle nostre scorribande, Grosseto piantata lì in mezzo alle paludi, in quella Maremma che sembrava rimasta ai tempi di Gasparone, era o almeno appariva intangibile. E tutti rossi nella piana malarica: rosso il comune, rossa la provincia, rossi i combattenti, i repubblicani più spinti degli stessi comunisti”2.

Squadristi grossetani (fonte: La Maremma, numero sul ventennale della fondazione dei fasci di combattimento)

Il 27 giugno 1921, si ebbero i primi scontri a Grosseto tra gli squadristi e i “sovversivi” locali, ma fu con l’arrivo dei rinforzi, che conversero da tutta la Toscana, e con la morte in uno scontro individuale di un fascista, il giovane senese Rino Daus, che Grosseto diventò un vero e proprio campo di battaglia: circa 700 camicie nere devastarono non soltanto le sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, insieme alla Camera del Lavoro e alla Lega dei Terrazzieri, ma anche luoghi di ritrovo dei “sovversivi” e la tipografia de “Il Risveglio” (un fatto eclatante, quest’ultimo, che costrinse da quel momento i socialisti grossetani a organizzare i propri mezzi di diffusione fuori dalla Maremma)3. Furono presi di mira i “rossi” più noti, dispensate per strada bastonature e olio di ricino. Seguì una surreale scena: in una città ormai terrorizzata, Dino Castellani costrinse all’esposizione del tricolore dalle finestre e, “in espiazione dei misfatti rossi”, fece inginocchiare le camicie nere e la popolazione cittadina in Piazza del Duomo in un’imponente manifestazione in onore di Rino Daus4. Vi furono vittime e numerosi feriti, prima che i fascisti ripartissero, non mancando di provocare incidenti sulla via del ritorno a Roccastrada, Montorsaio, Sasso d’Ombrone e Scansano. A quei fatti seguì qualche giorno dopo l’analoga “conquista” di Orbetello.

** La strage di Roccastrada del 24 luglio 1921

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Culmine di quell’estate di sangue, però, fu l’efferata strage di Roccastrada. La spedizione squadrista del 24 luglio sul paese è un esempio chiaro di quell’inedito tipo di operazioni che definiscono le fasi iniziali della presa di potere da parte del fascismo: incursione in camion di gruppi di squadristi, provenienti anche da località distanti, che si concentrano nei diversi paesi per devastarne i luoghi simbolo e colpire le case dei “bolscevichi”, tentando la conquista delle amministrazioni “rosse”. Una spedizione punitiva contro obiettivi precisi, in questo caso contro la Roccastrada “roccaforte rossa”, e in primis contro il suo sindaco socialista Natale Bastiani.

Il piccolo Comune delle Colline metallifere era stato oggetto dell'”attenzione” fascista già nell’aprile del 1921: contro il paese si appuntavano infatti da tempo le ire dell’Agraria e degli elementi fascisti, che avevano accolto con sdegno il successo elettorale clamoroso registrato dal partito socialista alle elezioni amministrative del 1920. Bersaglio diretto fu proprio l’amministrazione comunale, nella figura del sindaco Natale Bastiani, che nell’aprile del 1921 aveva ricevuto una prima intimidazione dal segretario politico di Firenze dei fasci di combattimento, Dino Perrone Compagni: in un telegramma, altezzoso e irridente, questi pretendeva da Bastiani le dimissioni, pena l’assumersi, “in caso contrario, ogni responsabilità di cose e di persone”5.

Dante Nativi

Dante Nativi

Per comprendere la vicenda è utile tornare ai fatti che nell’ottobre del 1920 avevano insanguinato il vicino Comune di Civitella Marittima. Lì si trovava la villa dell’agrario Ferdinando Pierazzi, possidente terriero che in Maremma era stato uno dei pochi a rifiutare la rinegoziazione dei patti colonici negli anni dei moti contadini e che diventerà in seguito uno dei principali esponenti del fascismo provinciale. La contrapposizione fra Pierazzi e la Cooperativa agricola di produzione e consumo di Roccastrada, guidata dal socialista Dante Nativi, aveva portato nel 1920, per un sopruso a danno di un mezzadro, a un moto popolare cui aveva preso parte anche il sindaco roccastradino Bastiani; nell’interpretazione dei giornali moderati, proprio Bastiani era stato individuato come l’istigatore e quindi il responsabile di un assalto alla villa che veniva letto come preterintezionale, ma che invece era specchio di una situazione sociale incandescente6.

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Roccastrada, la cui tradizione repubblicana era stata definitivamente soppiantata nel 1920 con il voto amministrativo a favore dei socialisti, aveva vissuto nel dopoguerra trasformazioni importanti, legate proprio alla mobilitazione per le lotte operaie e contadine, e una conseguente politicizzazione della popolazione7. Ad esempio, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 1921, che a Roccastrada porteranno un consistente numero di voti ai comunisti, il comizio improvvisato di un candidato del fascio di difesa nazionale era stato interrotto da un gruppo di giovani che avevano intonato “Bandiera Rossa” e poi l’oratore era stato colpito da una bastonata alle spalle8. Un piccolo precedente che aveva esacerbato il rancore dei fascisti verso il paese, a cui si deve aggiungere l’ira derivata dai colpi di fucile sparati lungo la strada (nei pressi della frazione di Torniella) contro la salma dello squadrista Rino Daus, morto negli scontri di Grosseto, durante il ritorno dei fascisti senesi dalla spedizione punitiva su Grosseto. L’indomani, il primo luglio, Roccastrada fu oggetto di un primo attacco fascista che devastò le case dei “sovversivi” del paese e rese più attuale il timore che gli squadristi sarebbero ritornati: sia da parte della popolazione9, sia da parte dello stesso prefetto di Grosseto che in un telegramma al ministro dell’Interno del 15 luglio esplicitava le proprie preoccupazioni al riguardo, “tralasciando però di prendere, secondo quelli che erano i suoi poteri, la benché minima misura precauzionale”10.

ordine nuovoA quella prima incursione seguì la spedizione punitiva del 24 luglio, ben diversa per organizzazione e forze impiegate: all’alba 60 squadristi armati di tutto punto, guidati dal famigerato Dino Castellani, arrivarono in camion in paese e devastarono sistematicamente le case del Sindaco, degli assessori e del presidente della Cooperativa di consumo. Si scagliarono contro l’orologeria del comunista Ferdinando Tagliaferri e il bar dell’anarchico Davide Bartaletti. Bastonarono ed inseguirono vari cittadini identificati come “sovversivi” a colpi di revolver, ferendone gravemente alcuni. Quattro ore e mezzo dopo, ubriachi, i fascisti ripartirono alla volta delle frazioni di Sassofortino, Roccatederighi e Montemassi, per continuare la cosiddetta “gita di propaganda”.

All’uscita dal paese, però, un colpo esploso, probabilmente accidentalmente dallo stesso camion su cui viaggiava, uccise il giovane squadrista Ivo Saletti. I fascisti gridarono all’assassinio, ipotizzando un agguato comunista (di cui la sentenza emersa dal processo del dopoguerra stabilì che non esistevano prove), e rientrarono in paese per vendicare il camerata ucciso. Rimasero vittime della violenza cieca 10 roccastradini (Tommaso Bartaletti e suo figlio Guido, Antonio Fabbri, Giuseppe Regoli, Francesco Minoccheri, Ezio Checcucci, Luigi Nativi, Angelo Barni, Vincenzo Tacconi, Giovanni Gori), mentre numerosi furono i feriti e i danni a case e negozi, messi a ferro e fuoco. Infine dopo ore i fascisti lasciarono il paese, scortati da un camion di 30 carabinieri giunti da Siena dopo la strage per dare rinforzo a quelli di Roccastrada, rimasti chiusi “precauzionalmente” nella Caserma in attesa.

Sull’inerzia dei carabinieri si appuntò l’inchiesta aperta dall’Ispettore di Pubblica Sicurezza Alfredo Paolella, che era stato inviato in provincia per garantire l’ordine pubblico e indagare sui fatti di Grosseto. Paolella parlerà inizialmente di un’azione dei carabinieri che a Roccastrada “non è apparsa sufficientemente sollecita ed energica“, in seguito protesterà apertamente non soltanto per il mancato intervento ma anche per la “deplorevole” mancata identificazione dei fascisti responsabili: nella relazione al ministro dell’Interno del 4 agosto successivo, Paolella espliciterà il malumore dovuto al fatto che

per l’eccidio di Roccastrada, dovuto a un’accozzaglia di giovinastri briachi di liquori e di sangue, condotti da un mercenario violento, i mandati di cattura furono spiccati dopo non poca titubanza e solo in seguito alle mie formali dettagliate e insistenti denunzie”11.

ivo saletti

Ivo Saletti

Di fatto, due giorni dopo, mentre i funerali partecipatissimi delle vittime roccastradine si svolgevano quasi in forma dimessa, senza simboli o discorsi politici, a Grosseto il corteo funebre di Ivo Saletti vedeva la partecipazione di migliaia di persone, accompagnate dalla banda musicale; vi presero parte numerose rappresentanze dei fasci toscani, l’on. Aldi Mai, presidente dell’Associazione Agraria maremmana, e lo stesso Dino Castellani, che, ancora libero di circolare, poté persino tenere il discorso commemorativo del “martire” Saletti12, avviando anche per lo squadrista grossetano quel processo di “beatificazione” che già era in corso per il senese Rino Daus.

*** Una vicenda dimenticata?

Forte fu l’immediato risalto sulla stampa nazionale e locale, caratterizzato da un’insieme di ricostruzioni e interpretazioni diverse e contrastanti, spesso intrecciate con accuse reciproche di falsità e ipocrisia (soprattutto in merito alla morte, accidentale o meno, di Ivo Saletti)13. La dinamica dei fatti raccontata dalle pagine de “L’Ordine nuovo” o de “L’Avanti!”, con quell’infierire degli squadristi ubriachi su cittadini inermi (non “sovversivi” come inizialmente era stato detto), la resero via via fatto poco edificante per lo stesso fascismo: nonostante alcuni giornali tentassero di inserire la narrazione dei fatti di Roccastrada fra quelli che avevano portato alla gloriosa “rigenerazione della Maremma” ad opera del fascismo, quindi, la strage di Roccastrada venne sempre più raramente rammentata e fu progressivamente rimossa anche dalla memoria fascista della “conquista” del territorio maremmano, eccezion fatta per la figura del “martire” Ivo Saletti.

Dopo la firma del patto di pacificazione fra fascisti e socialisti del 3 agosto, lo stesso Mussolini, del resto, parlò dei fatti di Roccastrada in un’intervista a “Il Resto del Carlino” come di uno di quegli episodi che fecero “impallidire” un po’ “la stella del fascismo14. Chiurco, nella sua “Storia della rivoluzione fascista”, tenterà ancora successivamente di presentarla come una reazione alle violenze “rosse”, scrivendo quasi a giustificazione che si trattò di “inesorabili” rappresaglie, scaturite da una vera e propria battaglia che si era diffusa per tutte le vie del paese, e precisando che “gli squadristi erano già esasperati per gli inenarrabili strazi subiti dai fascisti a Sarzana“. La strage di Roccastrada, in effetti, si spiega solo se inserita non soltanto nel più ampio contesto provinciale, ricollegandola a quel processo di espansione del fascismo maremmano che ha luogo nell’estate del 1921, ma anche in riferimento al più ampio contesto regionale e al clima instauratosi in Toscana dopo gli eventi avvenuti pochi giorni prima a Sarzana. Da non tralasciare, però, il rilievo nazionale di questo evento, che fece profonda impressione in un momento in cui era in corso la trattativa sul patto di pacificazione tra fascisti e socialisti e, all’interno del movimento fascista, la crisi determinata dallo scollamento fra l’ala militare e la dirigenza politica.

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Ciò, ovviamente, in aggiunta ai diversi nodi di interesse per quel che riguarda la storia della comunità in cui la strage avviene e in cui segna un punto di rottura drammatico con la tradizione politica precedente del Comune e del territorio. Quella sulla strage di Roccastrada e sulle complessive violenze squadriste del 1921 in Maremma è quindi un’operazione di recupero della memoria di un periodo fondamentale anche per la storia locale, ancora poco studiato e (forse) anche poco noto, ma che segnò l’inizio di un periodo di “assenza dell’autorità” sul territorio. A quei fatti seguirono la sospensione delle sedute e delle attività, poi le dimissioni di gran parte dei Consigli comunali socialisti della provincia; un punto di non ritorno verso il commissariamento prefettizio dei Comuni che preclude alla riforma podestarile fascista.

Da quel momento in poi la situazione locale per i “sovversivi” si fece complessa e incerta; i più conosciuti lasciarono il paese, e a volte la provincia, come ad esempio Dante Nativi, che si rifugerà da quel momento in Francia; chi rimase fu costretto al silenzio. 

Nel mese di ottobre fu inaugurato il gagliardetto del fascio a Roccastrada con un’imponente manifestazione; a novembre “L’Ombrone”, giornale ormai entrato nell’orbita fascista, ammoniva gli avversari sconfitti: “qui è bene che vi ricordiate che non fa più aria per voi (lettera minuscola) e che Roccastrada è ora Italiana di Fede, gentile di concetto, umanitaria di sentimenti a dispetto di tutti i farabutti social-comunisti15. Roccastrada era entrata negli anni più bui della sua storia.


NOTE:
1 “Il Risveglio”, 22 maggio 1921.
2 Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano: 1919-1922, Società Editrice Barbarossa, Milano 2010.
3 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
4 Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione squadrista, Vol. I – La preparazione, Le Edizioni del Borghese, Milano 1972.
5 Molto noto per la diffusione che ne diede Gaetano Salvemini nelle sue “Lezioni di Harward”, il testo del telegramma è riportato in Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo (Bari 1965) e recentemente anche nel volume di Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Mondadori, Milano 2003.
6 Hubert Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), Edizioni Cinque Lune, Roma 1973.
7 Per una cronologia delle lotte operaie e contadine in Maremma dal maggio 1919 al maggio 1921, cfr. Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, Pagnini e Martinelli editore, Firenze 2000, pp. 270-273.
8 Franco Dominici, Roccastrada 24 luglio 1921: cronaca di una strage, in Franco Dominici, Giulietto Betti, Fascismo, Resistenza e altre storie in Maremma, Effigi, Arcidosso 2020.
9 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Edizioni “Avanti”, Roma 1963.
10 Maria Clotilde Angelini, I fatti di Roccastrada, in Nicla Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale, Grosseto 1985.
11 “Conflitti a Grosseto e provincia”, Rapporto dell’Ispettore di P.S. Alfredo Paolella al Ministro dell’Interno, 4 agosto 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
12 Telegramma del Prefetto Rocco alla Direzione generale di PS, 26 luglio 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
13 Rassegna stampa esaustiva è presente in Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, cit.
14 “Il Resto del Carlino”, 3 agosto 1921.
15 Le onoranze in Provincia al Milite Ignoto, in “L’Ombrone”, 13 novembre 1921, n. 35.