1965: la chiusura al traffico del centro storico di Siena

Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, a Siena si registrò una disordinata espansione edilizia, che vide la costruzione di palazzi persino a ridosso delle mura medioevali.
All’epoca il concetto di tutela era concentrato sui monumenti, le opere d’arte, i palazzi storici. Non ci si preoccupava, invece, dell’ambiente complessivo, di tutto quel tessuto di vie e vicoli, che venivano direttamente dal Medio evo, in alcuni casi dal Rinascimento.

Per frenare le costruzioni, che nascevano un po’ dappertutto in seguito all’inurbamento dalle campagne, e che cominciavano anche a minacciare le “valli verdi” del centro storico, in particolare la valle delle fonti di Follonica, nel 1956 fu affidata la redazione del piano regolatore comunale a Luigi Piccinato, urbanista noto a livello internazionale, insieme a Piero Bottoni di Milano e Aldo Luchini di Siena.

Luigi Piccinato

Luigi Piccinato

Il piano Piccinato stabilì di non edificare nel centro storico, sviluppando la periferia a nord, dove sarebbe anche stato costruito il nuovo ospedale. Per fare posto alle automobili in espansione, il piano Piccinato prevedeva due strade di circonvallazione fra piazza del Sale e Santo Spirito e fra San Domenico e il Duomo all’interno delle mura, da ottenere con lo sventramento dei palazzi esistenti.

La diffusione dell’auto aveva infatti condizionato persino il pensiero di illustri urbanisti, che cercavano di trovare soluzioni tali da consentire il transito e la sosta dei veicoli a motore, di cui non si era pienamente compresa la potenziale enorme crescita.
Con l’avanzata della motorizzazione di massa, la situazione divenne rapidamente insostenibile a partire proprio da Siena, che come poche altre città italiane aveva conservato il tessuto medioevale di vicoli e stradine.

Nel luglio 1962, il sindaco Ugo Bartalini vietò la sosta e la circolazione nell’anello superiore di piazza del Campo, oltre a limitare la circolazione dei bus turistici. Si trattava del primo provvedimento concreto preso per contenere il traffico.

Il problema delle automobili nei centri storici non era soltanto di Siena o dell’Italia, ma riguardava tutta l’Europa.
Nel novembre 1963 fu pubblicato il volume Traffic in Towns. A study of the long term problems of traffic in urban areas. Si trattava di uno studio condotto per conto del Ministero dei Trasporti inglese, che faceva una chiara analisi della problematica.

La penetrazione e la circolazione nelle città sarebbero diventate sempre più faticose e la congestione stradale avrebbe reso pericolosa la vita dei pedoni, di conseguenza l’ambiente urbano sarebbe divenuto sempre più invivibile, man mano che avanzava la motorizzazione di massa. Si doveva perciò eliminare il traffico di attraversamento nei centri storici, consentendo una circolazione limitata a livello locale.
L’Associazione Italia Nostra – fondata nel 1955 – decise di studiare il problema, affidando nel ’64 la redazione di una memoria all’arch. Achille Neri, il cui studio, intitolato Alcune proposte di sistemazione del traffico nel centro storico di Siena, venne stampato e inviato alle istituzioni.
Lo studio prevedeva la riconversione degli ambienti cittadini alla circolazione pedonale, recuperando il silenzio in città e garantendo una maggiore sicurezza per chi si spostava a piedi. Occorreva però una drastica scelta sul numero, sul tipo e sulla velocità dei veicoli ammessi nel centro, nonché una precisa scelta degli itinerari del traffico e delle strade esclusivamente destinate ai pedoni.

Fazio Fabbrini

Fazio Fabbrini

La giunta guidata dal sindaco Fazio Fabbrini, con Augusto Mazzini assessore all’Urbanistica e Bruno Guerri assessore alla polizia municipale, decise di intervenire. Il progetto per la nuova disciplina della circolazione nel centro cittadino si basava su due principi cardine:
1. creare una zona centrale riservata alla circolazione pedonale, in Banchi di Sotto, Banchi di Sopra, via di Città e via Montanini, con le vie limitrofe confluenti;
2. abolire lo scorrimento dei veicoli nel centro storico, creando anelli di circolazione separati: uno a nord da porta Camollia a piazza Indipendenza e uno a sud fra le Porte Pispini, Romana, Tufi e San Marco, con limite alle Logge del Papa, dove cominciava l’area interdetta ai veicoli.

Il 6 luglio 1965 fu emanata l’ordinanza del sindaco n. 148, intitolata Norme particolari di circolazione nel centro cittadino, in vigore dall’11 luglio, con la quale veniva creata una zona interdetta alla circolazione.
Si trattava di un provvedimento innovativo a livello internazionale, che avrebbe fatto scuola in Italia e all’estero, ma che i più non capirono.
Le porte di molti negozi si chiusero per protesta, le auto percorsero in corteo le vie cittadine, occuparono Piazza del Campo, Piazza del Mercato; i clacson suonarono per ore e ore e il telefono del Comune squillò ininterrottamente, con invettive e minacce. L’Ordine dei Medici, l’Automobile Club e il museo dell’Opera Metropolitana, insieme ad alcuni privati cittadini, promossero persino un ricorso gerarchico al ministro dei Lavori Pubblici contro l’ordinanza del sindaco, che dovette giustificare più volte il provvedimento emesso.

“Mi colpì in particolare in quei primi giorni – ha scritto Fabbrini in un libro di memorie – la presenza nelle vie chiuse di moltissime carrozzine con i neonati che le giovani mamme, spesso in coppia con i mariti, quasi a voler sfidare gli oppositori, portavano a spasso per Banchi di Sopra; i capannelli di persone che conversavano liberamente senza essere costrette ad addossarsi alle mura per evitare di essere investite e il ritorno di odori che erano stati soffocati dai fumi di scarico”.
La crisi dell’Amministrazione comunale, che portò alle dimissioni del sindaco nel maggio 1966, con l’arrivo del commissario prefettizio, determinò una “marcia indietro” e il traffico di attraversamento venne parzialmente riaperto a partire dal settembre ’66.

Roberto Barzanti

Roberto Barzanti

La chiusura del centro con la creazione dell’isola pedonale non venne però messa in discussione e anzi negli anni successivi iniziò l’estensione dell’isola stessa.
Nell’agosto 1972, dopo la lunga parentesi del commissario prefettizio, il sindaco Roberto Barzanti aumentò la zona chiusa, vietando l’ingresso alla città dall’area di San Domenico, e riprendendo un percorso che con successivi provvedimenti è arrivato fino ai giorni nostri.
Negli anni ’80 e ’90 fu istituita la ZTL su quasi tutto il resto del centro storico, diviso in settori di circolazione e di sosta riservati ai soli residenti. Ai residenti, gli unici autorizzati a parcheggiare in centro, fu chiesto un bollino di 50.000 lire al mese da destinare all’incremento del trasporto pubblico, una cifra molto alta. Anche in questo caso, si trattò di un esperimento innovativo a livello nazionale.
Fu inoltre iniziata la costruzione di parcheggi scambiatori in periferia, creando una rete di minibus.

Dal 1990, dopo diversi anni di chiusura del centro storico agli autobus, il Comune di Siena, in accordo con la società di trasporto Train, introdusse nel cuore della città un minibus denominato “Pollicino” per consentire l’accesso alle anguste vie cittadine, a partire da parcheggi scambiatori, dove avrebbe posteggiato l’auto chi veniva da fuori.
Tutti gli sviluppi successivi sono stati permessi da quel primo provvedimento coraggioso del 1965, che aveva limitato la circolazione nel cuore della città, introducendo con un atto pratico una sorta di “principio filosofico” nell’urbanistica: anziché demolire i palazzi per fare posto alle automobili, limitare la circolazione e sosta delle auto al fine di preservare l’ambiente storico.

Nelle parole di Luigi Piccinato, il famoso progettista del piano regolatore del 1956, si trova l’espressione dell’importanza di quanto fatto a Siena. In un’intervista rilasciata a Roberto Barzanti nel marzo 1983, a distanza di quasi 30 anni dall’elaborazione del piano, affermava: “L’adozione del provvedimento che fece pedonale la parte più cospicua del centro storico – poi, a quel che ne so, variamente corretto e ampliato – è stata una delle grandi conquiste di Siena. Tutta l’Italia oggi non solo la imita, ma la studia. Fu un atto che ha contribuito a salvare la struttura organica – sottolineo questa parola – di tanti altri centri urbani”.

Articolo pubblicato nell’aprile del 2016.




Atletica leggera nella Guerra fredda. Il Meeting dell’Amicizia di Siena

“Il Meeting dell’Amicizia per il suo carattere popolare, scevro da quell’ufficialità tipica della burocrazia federale, si differenzia profondamente dalle altre analoghe manifestazioni italiane e straniere […]. Sostenuto e finanziato dagli Enti Locali (Comune e Provincia) e dagli Enti cittadini (Monte dei Paschi, E.P.T. e Camera di Commercio), organizzato dalla UISP con la collaborazione delle Società sportive cittadine più rappresentative, si è ormai affermato e caratterizzato come un incontro di atleti e di uomini di tutti i paesi con il popolo di Siena, all’insegna dell’amicizia e della solidarietà. Diverso è il meeting di Milano, finanziato dalla Snia e dalla Pirelli, dove lo spettacolo si salda con la merce”.

Così si può leggere su un documento del luglio 1972 a cura del comitato organizzatore del Meeting senese, in occasione della 13° edizione dell’ormai famoso evento di atletica leggera che si teneva allo stadio del Rastrello.

Nel passo sopra riportato emergono con chiarezza lo spirito e i contenuti della manifestazione – la cui prima edizione,- denominata “Meeting dell’Amicizia Post-Olimpica”,- si era tenuta a Roma, pochi giorni dopo la conclusione dell’Olimpiade del 1960 – improntati ad una visione dello sport inteso come servizio sociale ed espressione di quel movimento operaio e democratico che riusciva a connotare di sé ogni ambito della vita sociale e culturale del paese.

Dal 1961 l’evento si trasferì a Siena e il giornalista sportivo Alfredo Berra così scriveva: “Il Meeting dell’Amicizia Intercittà […] rappresenta la sintesi di ciò che un movimento di propaganda e di qualificazione atletica deve avere come insegna: reclutamento, studio, metodo e progresso”. Per queste idealità e connotazioni, il Meeting dell’Amicizia fu, fin dalla sua nascita, una manifestazione sui generis, che attraversò gli anni più turbolenti della Guerra Fredda in cui le contrapposizioni tra USA e URSS erano più aspre.

Copertina del programma del 1961

Copertina del programma del 1961

Una caratteristica del Meeting dell’Amicizia, fin dalla sua prima edizione, fu quella di manifestazione di altissimo livello sportivo – già nell’edizione romana del 1960 fu stabilito un primato mondiale, quello del lancio del disco femminile (57,15 m.) della sovietica Tamara Press – e anche di importante iniziativa di amicizia tra i popoli e di festa sportiva tra culture diverse. L’UISP nazionale, col suo ramo senese UISP Atletica, fu l’ente organizzatore, coadiuvato da altre Società Sportive, ma anche ostacolato, se non apertamente discriminato, dal mondo ufficiale dell’atletica e della politica governativa che vedeva nel Meeting una articolazione della più vasta propaganda di sinistra, nella fattispecie del PCI.

Sono da leggere in questo senso i ripetuti divieti di partecipazione agli atleti appartenenti ai gruppi militari, con esclusione del corpo delle Fiamme Gialle il quale, essendo sotto il Ministero delle Finanze, concesse ai propri rappresentanti l’autorizzazione a partecipare. Emblematico, a tale riguardo, il caso di Eddy Ottoz, uno dei massimi specialisti europei e mondiali dei 110 ostacoli, il quale, in una edizione, essendo stato autorizzato a gareggiare solo all’ultimo momento, si presentò ai blocchi di partenza con la calzamaglia della saltatrice in lungo Magalì Vettorazzo.

Sempre a proposito degli ostacoli che il Meeting dovette superare negli, così si legge nella presentazione dell’edizione del 1974: “Nella misura in cui cresceva il suo successo, specie per l’adesione dei campioni provenienti dai paesi dell’Est, parallelamente si moltiplicava l’irritazione dei faziosi di professione […]. L’irritazione si tramutò in vera e propria rappresaglia nel 1965, quando fu perentoriamente vietato agli atleti in forza a società militari di partecipare al Meeting. Non fu mai appurato da chi partì il veto, ma lo si intuì. E’ risaputo che militare con muove foglia, che il Ministro non voglia”.

Un esempio significativo di boicottaggio della manifestazione fu quello che si verificò nella prima edizione senese dell’ottobre 1961 quando il Prefetto di Siena proibì agli organizzatori di esporre la bandiera delle Repubblica Democratica Tedesca (Germania dell’Est, come altresì veniva definita), perché non riconosciuta dallo Stato italiano. La qualcosa fece molto scalpore e sollevò proteste da parte delle altre delegazioni, in particolare proprio della DDR che peraltro aveva edificato il Muro di Berlino da circa due mesi. Per non creare discriminazioni fra gli atleti partecipanti, il comitato organizzatore decise, unica volta nella storia del Meeting, di non esporre nessuna bandiera.

Sempre in chiave politica sono da interpretare le decisioni relative alla partecipazione della prestigiosa mezzofondista italiana Gabriella Dorio, rappresentante della società Fiamma Atletica Vicenza, articolazione della Società Fiamma fondata nel 1948 dal Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori e il cui primo presidente era stato Pino Romualdi, ex vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano nonché uno del fondatori del MSI. La soluzione che fu trovata fu un compromesso tra chi si opponeva con fermezza alla presenza al Meeting di atleti appartenenti a quella società sportiva e chi, invece, privilegiava la grandezza atletica della Dorio rispetto alla sua espressione in qualche modo ‘politica’; l’atleta veneta fu infatti ammessa alle gare a patto che non indossasse la divisa della Fiamma che aveva come suo simbolo una “F” scudettata tricolore. 

Fu così in questo clima di aspri scontri e contrapposizioni ideologici, di cui anche il mondo dello sport fu interprete, che il Meeting dell’Amicizia continuò a tenersi a Siena fino alla sua 20° ed ultima edizione del 1979 quando la UISP fu costretta per motivi essenzialmente economici a interrompere l’organizzazione dell’evento.

Rod Milburn, record mondiale nei 110hs con 13"1, Meeting dell'Amicizia 22 luglio 1973, Siena

Rod Milburn, record mondiale nei 110hs con 13″1, Meeting dell’Amicizia 22 luglio 1973, Siena

Come abbiamo accennato, il Meeting si caratterizzò per la partecipazione di atleti di alto livello; nelle prime edizioni i partecipanti provenivano per lo più dai paesi dell’Europa dell’Est – all’edizione del 1961 parteciparono, oltre ad atleti italiani, rappresentanti polacchi, ungheresi, sovietici, rumeni, cecoslovacchi e jugoslavi. In seguito, la manifestazione vide la presenza di atleti cubani, ma anche statunitensi, africani e di tanti stati europei. Di certo il Meeting dell’Amicizia fu un antesignano di analoghe manifestazioni che in seguito vennero organizzate sia in Italia che all’estero e fu caratterizzato da risultati sportivi di assoluto prestigio. Al proposito ricordiamo le imprese nei 400 m. del cubano Alberto Juatorena, conosciuto come El Caballo, il record del mondo nei 100m. (9″9) ottenuto il 16 luglio del 1975 dello statunitense Stewe Williams, quello del 22 luglio 1973 nei 110hs (13″1) dello statunitense Rod Milburn, le epiche sfide di Franco Arese con l’atleta a stelle e strisce Liguori nei 1500m., le partecipazioni nelle gare di velocità di Livio Berruti, Pietro Mennea ed Eddy Ottoz, tanto per citare alcuni dei più famosi atleti italiani. A proposito di ‘gare di velocità’, c’è da ricordare che la pista de ‘Il Rastrello’ era considerata da tanti esperti una pista dove era possibile ottenere grandi risultati e fu anche per questo che il Meeting vide la partecipazione di così tanti atleti di valore e fama internazionale.

Come già accennato, il 1979 fu l’ultimo anno del meeting senese. Da qui, seppure con connotazioni diverse, il Meeting si trasferì a Pisa per due anni e poi avere termine.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




Il buon tedesco dell’Amiata

La storia di Abbadia San Salvatore, paese di origini longobarde che si trova sul Monte Amiata in provincia di Siena, nel secolo scorso si intrecciò nuovamente per due volte in modo significativo con la Germania ed i tedeschi e in entrambe le occasioni risultò per motivi diversi emblematica la presenza dell’ingegnere Carl Buckart.

All’inizio del secolo in paese fu avviata una importante attività mineraria con estrazione dal sottosuolo del cinabro e la sua trasformazione in mercurio. La “Società anonima delle miniere di Mercurio del Monte Amiata” proprietaria dell’impianto, era composta quasi esclusivamente da industriali, uomini d’affari e aristocratici tedeschi che avevano investito in questa attività vista l’alta redditività della vendita del mercurio sul mercato internazionale ed il suo insostituibile valore in campo bellico, quale elemento fondamentale per la costruzione dei detonatori delle bombe. Anche tutto lo staff tecnico che dirigeva la miniera e istruiva le maestranze locali totalmente prive di esperienza proveniva dalla Germania. Fu così che tra gli altri giunse per la prima volta ad Abbadia il giovane ingegnere elettromeccanico Carl Buckart. La dirigenza tedesca guidò anche l’ammodernamento del paese con l’apertura di una cooperativa di consumo, un pronto soccorso, la costruzione di case operaie. A fronte di queste innovazioni nel tessuto sociale, sul lavoro mantenne un atteggiamento più rigido, non cedendo quasi mai alle richieste di miglioramenti da parte dei minatori. Comunque, come ci ricorda anche Fortunato Avanzati nel suo libro “Gente e fatti dell’Amiata”, questi tecnici tennero generalmente nei riguardi della popolazione badenga un comportamento formalmente corretto ed alcuni di essi instaurarono amicizie in ambiente di lavoro, ma anche all’esterno che, come vedremo, si protrassero nel tempo. Proprio Buckart ed un altro ingegnere tedesco furono molto apprezzati dalle maestranze e dalla popolazione quando non esitarono ad entrare in una galleria invasa da gas tossico, esponendosi ad un rischio mortale pur di salvare la vita a due minatori rimasti storditi dalle esalazioni. Testimonianze orali ci raccontano poi come il giovane Buckart riuscì a farsi benvolere anche al di fuori dell’ambito minerario. In particolare viene ricordata l’amicizia con Giuseppe Contorni, soprannominato Peppelò, che di professione faceva il fabbro ed il costruttore di carri e calessi. Spesso la sera in bottega, davanti al fuoco, si soffermavano con altri amici a mangiare e a suonare la fisarmonica.

Nel 1914 con l’inizio della prima guerra mondiale i tedeschi cominciarono ad essere percepiti come nemici, ma rimasero al loro posto di lavoro fino all’anno dopo, quando anche l’Italia entrò nel conflitto mondiale e loro dovettero abbandonare la miniera che, al momento della loro partenza, era diventata la più moderna del mondo e la seconda per importanza per i volumi di produzione dopo quella spagnola di Almaden. Dello staff tecnico tedesco rientrato in patria, sappiamo con certezza che gli ingegneri Dausch e Buckart, dopo l’esperienza maturata in Italia, continuarono a dedicarsi all’estrazione del cinabro e alla produzione di mercurio in alcune piccole miniere a nord della Germania.

Foto tratta da http://www.museominerario.it

Foto tratta da http://www.museominerario.it

La presenza della Germania ad Abbadia San Salvatore si manifestò nuovamente dopo circa trent’anni in circostanze però più drammatiche. A partire dal Settembre 1943 la miniera, proprio per l’alto interesse strategico del materiale prodotto, fu costretta a lavorare sotto il controllo delle autorità militari tedesche. L’ingegnere Carl Buckart, allora sessantaquattrenne, ritornò ad Abbadia in qualità di controllore della miniera. Nonostante fosse al momento inquadrato nella Wermacht come maggiore e quindi facente parte delle odiate forze di occupazione, in ricordo degli anni trascorsi in paese all’inizio del secolo fu ben accetto dalla popolazione. Prova ne sia che anche il sopra citato Peppelò, di idee socialiste, riallacciò contatti di amicizia con lui. Così con altri tornarono ad incontrasi periodicamente per parlare ed ascoltare il suono della fisarmonica. Ma veramente importante sembra sia stata la sua presenza in miniera. Ricorda Luciano Segreto nel suo libro “Monte Amiata” che in quel momento all’interno della miniera agivano due diverse anime: quella politico-militare dei partigiani che aveva come obiettivo il sabotaggio della produzione e quella della direzione italiana che cercava di concordare con i lavoratori una produzione limitata e abilmente nascosta per concedere ai tedeschi la minor quantità possibile del materiale prodotto.

Entrambe riuscirono ad ottenere risultati tramite il sabotaggio da parte dei partigiani dei macchinari dei cantieri più bassi e quindi meno accessibili ai controlli e con il rallentamento della produzione da parte degli altri operai motivata anche dalla mancanza di materie prime come nafta, esplosivi, miccia, ecc. In questo quadro l’ingegner Buckart, secondo molte testimonianze, tenne un comportamento corretto ed evitò per quel che era in suo potere, che le truppe tedesche usassero la mano pesante. Fortunato Avanzati ci ricorda che fu Buckart a far liberare gli arrestati per la manifestazione antinazista che si era tenuta il 4 Dicembre 1943 e che poco dopo tentò di costituire una commissione interna con lavoratori non compromessi con il fascismo e anche con qualche comunista. Questo tentativo ebbe breve durata e sebbene fosse stato avviato forse con buone intenzioni, su di esso Avanzati getta qualche critica perché la sua riuscita avrebbe potuto smorzare la combattività della parte più politicizzata degli operai legata al movimento partigiano.

Tondi Domenico, dipendente della miniera come autista del direttore Masobello ed elemento di collegamento tra gli operai ed i gruppi partigiani operanti sul Monte Amiata, fa capire nella sua testimonianza riportata nel testo “Un’isola in terraferma” che anche tramite Buckart lui era venuto a conoscenza di un imminente rastrellamento che nel Marzo 1944 le truppe tedesche avrebbero svolto nei confronti dei partigiani presenti sul Monte Amiata. In questo modo Tondi poté avvertire il distaccamento partigiano che si spostò in Val d’Orcia. Ma a detta di molti il ruolo più importante Buckart lo svolse nell’imminenza dell’arrivo delle truppe alleate. I tedeschi decisero di far saltare in aria la miniera in modo che gli alleati non potessero usufruire del mercurio. Questo proposito fu fortemente ostacolato dai minatori e dai partigiani che smontarono e nascosero molte attrezzature meccaniche ed anche dallo stesso Buckart che, dicono, abbia indicato ai propri connazionali tra i macchinari della miniera da colpire alcuni desueti o non strettamente indispensabili. Furono così distrutti i forni Spirek, ma non quelli a torre e furono abbattuti i castelli dei pozzi, ma non furono minati i pozzi stessi, sabotaggio che avrebbe tenuta la miniera chiusa per anni. Al passaggio delle truppe francesi che liberarono Abbadia, un ufficiale ed ingegnere minerario si compiacque dei lievi danni subiti dall’impianto. Trascorso poco più di un mese si poté ricominciare la produzione. Sempre Domenico Tondi testimonia come, a causa del suo intervento Buckart, fosse stato denunciato da una segretaria del fascio repubblichino. Probabilmente a seguito di questa denuncia, gli fu tolto l’incarico ad Abbadia e venne immediatamente rimpatriato circa una settimana prima dell’arrivo degli alleati. Questo fatto avvalora il suo intervento in difesa della miniera, documentato attualmente solo da numerose fonti orali e che avrebbe necessità di uno studio approfondito e qualificato. Il rapporto tra Abbadia e l’ingegner Carl Buckart si concluse comunque negli anni cinquanta quando il tedesco tornò per salutare gli amici rimasti e si incaricò di portare personalmente dalla Germania all’allora direttore della miniera un’auto della Volkswagen per non fargli pagare le spese doganali.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




Gli ospedali di Siena nella Grande Guerra

Con l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra e con l’arrivo di un numero crescente di feriti e di ammalati dal fronte, anche a Siena gli ospedali e i presidi medici, in buona misura antiquati ma validi, tanto per le malattie mentali quanto per quelle fisiche, si mostrarono ben presto assai utili anche se insufficienti. L’impianto sanitario preesisteva anche in senso qualitativo e assistenziale, per le sorprendenti compresenze di una storica Facoltà universitaria, di Confraternite e Associazioni su base volontaristica, della Croce Rossa e di una rete capillare di mutuo soccorso animato dalle Società di Contrada, e soprattutto dalle realtà ospitaliere come l’Ospedale di S. Maria della Scala, l’Ospedale Territoriale della CRI, validissimo presidio già al tempo della guerra di Libia, l’Ospedale Psichiatrico di S. Niccolò e l’Istituto “Pendola” per il recupero dei sordomuti, gli Ospizi per i vecchi e i disabili. Ne derivava una “potenzialità” anche edilizia, che la guerra avrebbe fatalmente riscoperto, requisito, valorizzato.

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Presidio ospedaliero della Croce Rossa in Piazza d’Armi durante la Grande Guerra

Nel quinquennio bellico più di un terzo dei ricoverati (2407 su un totale di 6871) furono militari arrivati dal fronte che complessivamente ascesero, durante tutta la guerra a ben 7858, tra soldati e ufficiali, in transito nei reparti dell’ingigantito sistema ospedaliero senese (anche con le ville di Castelnuovo Berardenga e della Suvera).

La vicenda della sanità senese durante il conflitto fu indubbiamente personalizzata e guidata da Remedi (1859-1923), preside di Facoltà di Medicina e Chirurgia, in un ruolo che riassumeva ogni impegno non solo universitario ma anche assistenziale, profuso al S. Maria della Scala. La sua dedizione alle attività sociale si era del resto già manifestata negli anni ’90 allorché aveva collaborato alla realizzazione e all’attività della Pubblica Assistenza. Nel 1915 col ruolo di consulente chirurgico degli Ospedali militari e della Croce Rossa per le provincie di Siena e di Grosseto e, con il grado di Maggior generale di Sanità della riserva, formò e diresse l’esemplare centro senese di accoglienza e di cura dei feriti e degli affetti da patologie contratte in guerra. E Siena seppe allora realizzarsi, grazie a questo apostolo laico, come una vera e propria città ospedaliera. In una relazione pubblicata nella Rivista ufficiale di Medicina militare, il Remedi dette conto delle attività, in particolare chirurgica, che personalmente diresse: “L’Amministrazione del Policlinico ridusse ad Ospedale di 300 letti i locali di S.M. Maddalena (R. Scuola normale e Convitto annesso) e questa Sezione Chirurgica, dipendenza della Clinica, io affidai al mio aiuto prof. Bolognesi, che mi fu valido collaboratore nella cura dei feriti che vi furono ricoverati (ben 2733 complessivi nel triennio: 2436 guariti, 10 deceduti prevalentemente per sepsi). Debbo far notare che, quando erano necessari interventi chirurgici gravi, i feriti venivano trasportati nella clinica».

Al di là della mera statistica, già di per sé assolutamente espressiva, il Remedi mirabilmente descrive le fasi di diagnosi e di cura messe a punto con originale preveggenza e i risultati ottenuti, assunti alla stregua di linee-guida per la cura delle lesioni chirurgiche traumatiche. Il suo contributo ha veramente arricchito la dottrina e la prassi terapeutica in chirurgia, grazie – purtroppo – alla dolorosa esperienza bellica, tramandando nuove direttive salvifiche atte a raggiungere in primo luogo le finalità ideali di “accrescere la resistenza dell’organismo, onde poter impedire ai microorganismi di svilupparsi e, se sviluppati, renderli al più presto inoffensivi”. Su questo teorema si sarebbero in effetti sviluppati l’impegno e il progresso chirurgico veri e propri. In un’epoca precedente alla scoperta e all’applicazione terapeutica di sempre nuovi farmaci antisettici ognor più sofisticati e alla efficace siero-vaccino-terapia (già peraltro introdotta anche in guerra grazie soprattutto all’opera di Achille Sclavo) e, ovviamente all’era antibiotica, il Remedi ritenne essenziale la conoscenza dei meccanismi cellulari ed umorali della infezione e dei presupposti della difesa antiflogistica e antibatterica, preliminare, fatte salve le urgenze, ad ogni atto chirurgico ed essenziale per garantire l’efficacia del bisturi a contenere la proporzione demolitoria. Così la mortalità al seguito di infezioni acute e croniche di ferite di guerra fu ridotta a poche unità.

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Virgilio Grassi

Il parallelo ruolo del Manicomio di San Niccolò fu rilevantissimo. Ne dette conto l’alienista primario Virgilio Grassi in un’ampia e documentata relazione sulla Rassegna di Studi Psichiatrici, che il direttore Antonio D’Ormea qualificò come contributo prezioso per la conoscenza dell’andamento a Siena della pazzia nell’esercito. Quel che più stava a cuore al relatore era il fatto che, in buona sostanza, non si ebbe “nessun aumento ospedalizzazione – manicomiale della popolazione civile durante il periodo bellico, ma anzi lo scemare di essa progressivamente”. Questo fenomeno, secondo il Grassi, “contraddiceva a tutti i timori della maggiore morbilità del sistema nervoso” che avrebbe dovuto “accompagnare e seguire le privazioni, le ansie e gli strapazzi fisici e morali di ogni genere dovuti al conflitto immane, non solo per i combattenti ma anche per gli altri”.

Con ogni probabilità a determinare questo fenomeno che appariva ben strano (ma non lo era) concorrevano altre cause d’indole sociologica. Da un lato infatti le famiglie operaie e contadine – aiutate dagli assegni di guerra meglio protette in guerra – “non sentirono più il bisogno di rinchiudere – come si soleva – molti giovani tranquillotti o troppo vivaci che prima rappresentavano un peso intollerabile per il magro bilancio domestico e ora dovevano rimpiazzare i richiamati. Dall’altro lato la Amministrazione provinciale, di fronte all’enorme aumento delle rette manicomiali, favoriva in ogni modo l’esodo e il non ricovero degli irregolari psichici in manicomio, sia con larghi sussidi specifici per l’assistenza famigliare anche con l’invio dei meno pericolosi a semplici istituti di mendicità o simili, nei quali il costo di degenza era notevolmente minore. Il beneficio di una presunta diminuzione della pazzia «si traduceva invece nel danno di una più trascurata cura di essa, con un deplorevole ritorno all’antico e con quanto vantaggio della eugenica (sic) è facile immaginare”.

Gli alienati militari (come li definiva il Grassi), ricoverati durante tutto il periodo di guerra, furono 809 mentre è imprecisato il numero dei morti. La maggior parte di loro “resultò affetta da forme ciclotimiche e amenziali, molti anche da demenze precoci (sebbene sulla diagnosi di demenza precoce già si facessero le dovute riserve), da epilessia e da difetti intellettuali. La maggior parte degli ospitalizzati fu trattenuta in manicomio da due a cinque mesi e molti ne uscirono guariti per ritornare al Corpo cui appartenevano, o migliorati e congedati dopo essere stati riformati dal servizio militare. I non migliorati, ovviamente riformati per deficit mentale, vennero trasferiti ai manicomi della Provincia cui appartenevano. Non mancarono casi di simulazione e altri che non presentavano una vera e propria alienazione mentale: di costoro alcuni furono restituiti ai Corpi cui appartenevano, altri, sottoposti per lo più a procedimenti giudiziari, passarono a luoghi di reclusione e di pena […]. Malgrado tutto, il servizio si svolse con sufficiente regolarità e non avvennero gravi inconvenienti dalla contemporanea presenza giornaliera anche di almeno 250 militari, verificatasi nel settembre 1917”. Vi fu qualche caso di evasione e di suicidio; ma purtroppo non pochi “matti” evasi dal fronte, erano stati trattati come simulatori non eccezionalmente condannati a morte e fucilati sul posto.

L’articolo è tratto dalla relazione di Mauro Barni al Convegno dell’ISRSEC “Siena nella Grande Guerra: la società e l’economia”.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.




Vittorio Meoni, la ricerca continua della libertà

Vittorio Meoni oggi

Vittorio Meoni in una foto recente

Storie di confino: il poggibonsese Angiolo Corsi

La letteratura che riguarda il confino di polizia può annoverare contributi di personaggi di primissimo livello del panorama antifascista, sia politico sia culturale. Tra le testimonianze più importanti ci sono quelle di Carlo Levi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, ma i numeri riguardanti i confinati durante il fascismo furono importanti e influenti (circa 15 mila persone) e non interessarono solo gli antifascisti ma tutti coloro i quali erano ritenuti particolarmente pericolosi per l’ordine pubblico.

Anche in provincia di Siena furono effettuate numerose assegnazioni al confino, dal 1926 in poi, che cercarono di colpire l’ossatura delle strutture clandestine del partito comunista e, in misura minore, del partito socialista e del movimento anarchico. Tra le diverse forme di limitazione della libertà (carcere, confino, internamento, ammonizione, sorveglianza speciale, diffida), il confino riguardò 129 antifascisti per una condanna a 380 anni complessivi. Secondo quanto riportato da Rineo Cirri (L’antifascismo senese nei documenti della polizia e del Tribunale Speciale 1926-1943), nel complesso furono 699 le persone che tra il 1926 e il 1943 subirono un deferimento al Tribunale speciale; “ad ognuno di questi antifascisti sono collegate vicende umane, storie dolorose di famiglie e di gruppi di persone con le loro sofferenze, i loro dolori e i loro drammi ma anche le speranze di una parte della popolazione di vivere in una società più giusta”.

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Angiolo Corsi

Alcuni personaggi di primo piano della lotta antifascista e anche del periodo di ricostruzione democratica in provincia di Siena hanno raccontato in libri, memorie e diari le proprie esperienze al confino, e tra gli altri Fortunato Avanzati “Viro” e Mauro Capecchi “Faro”. Per ricostruire le biografie e i percorsi personali e politici di altri militanti è invece necessario ricorrere ad altri tipi di fonte, come le note giudiziarie, gli atti dei Tribunali speciali, le carte di prefetture e i verbali di carabinieri e poliziotti. In questo contributo il personaggio di cui si racconteranno le vicissitudini è Angiolo Corsi, nato nel 1905 a Poggibonsi, di professione falegname.

Corsi fu arrestato per la prima volta il 26 luglio 1932 a Poggibonsi, all’età di 27 anni; la scheda  personale nel Casellario Politico Centrale del 28 agosto 1932 riporta queste informazioni: “Cicatrice sopracciglio sinistro, mancante falange mano, abbigliamento solito: da operaio. E’ di regolare condotta morale e immune da pendenze e precedenze penali. In precedenza non aveva mai dato luogo a rilievi in line apolitica né di nutrire sentimenti contrari al regime. Essendo venuto a risultare che faceva parte del comitato federale comunista costituitosi clandestinamente in Poggibonsi ed era in relazione con funzionari e fiduciari del partito stesso, distribuiva la stampa sovversiva e distribuiva materiale di propaganda. Raccoglieva gli oboli per il soccorso alle vittime politiche e loro famiglie e prendeva parte alle riunioni clandestine del partito. Funzionava anche da corriere per il collegamento e trasporto di stampa sovversiva tra Empoli- Poggibonsi e Siena. Per tale reato pende tuttora provvedimento penale a di lui carico. Esercita il mestiere di falegname, da cui trae i mezzi di sussistenza.

Nonostante questi dettagliati indizi a suo carico, Corsi fu prosciolto per insufficienza di prove. L’arresto successivo avverrà nell’aprile del 1934 per “compartecipazione a organizzazione comunista” e l’8 giugno sarà condannato a cinque anni di reclusione di cui due di libertà vigilata. Fu condotto al carcere di Roma il 10 febbraio 1935 e, dopo la sentenza del 5 aprile 1935, la condanna fu confermata ma gli saranno condonati due anni.

Il 20 febbraio 1937 gli venne concesso l’indulto, revocato però solo due mesi dopo dal Tribunale di Siena. Le notizie successive risalgono poi al 25 luglio 1940, quando una nota riservata della prefettura di Siena, firmata dal prefetto, dispose la scarcerazione e il foglio di via alla volta di Avellino; questa volta Corsi fu accusato per avere pronunciato frasi disfattiste sulla posizione dell’Italia in guerra.

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il comune scelto fu quindi Teora (Avellino), dove Corsi giungerà il 27 luglio 1940. Lì ebbe diversi problemi nel rapportarsi alle autorità locali del regime; appena giunto a Teora scrisse, infatti, al questore di Avellino per richiedere il rimborso di 25 lire per il viaggio effettuato da Avellino alla volta di Teora dai suoi familiari più stretti (moglie e figlio). La lettera riporta evidenti errori grammaticali, ma contiene una puntuale lamentela sui torti subìti, sui quali Corsi aveva informato anche Questura di Siena e comune di Poggibonsi.

Il questore di Avellino, Vignali, risponde in modo molto seccato con una nota al podestà di Teora in cui dice: “Il soprascritto Angelo Corsi ha fatto pervenire alla R. Questura di Siena un esposto con il quale, usando una forma alquanto altezzosa, chiede di essere rimborsato delle spese che la moglie ha sostenuto per il tratto di viaggio da Avellino a Teora e cerca di polemizzare e di fare ricadere la colpa al Municipio di Poggibonsi e alla R. Questura di Siena. […] Si prega di richiamare il C. a tenere un comportamento più corretto e a scrivere, sempre che gli capiterà di scrivere ad autorità costituite, con la forma dovuta e senza alterigia.

Il 9 ottobre 1941 Corsi chiese di essere trasferito ad altra località (la richiesta fu però respinta) e il 9 gennaio 1942 lo stesso Corsi chiese 35 lire per la risolatura delle scarpe, ormai consumate e non adatte al rigido inverno dell’Appennino. Il questore Vignali respinse anche questa richiesta. L’assegnazione al confino terminò il 22 febbraio 1942 e così Corsi potè far ritorno a Poggibonsi, dove non terminerà la sua attività politica.

Corsi, infatti, ricoprì un ruolo nevralgico nell’organizzazione dei primi gruppi di combattimento in Valdelsa, occupandosi anche del reclutamento e della formazione dei giovani più vicini alle strutture clandestine del P.C.I., come testimonia un giovane collega del Corsi, Fortunato Fusi, ricordandone le vicende.

Dalle notizie fornite dai colleghi falegnami della ditta Lucita di Poggibonsi e dalle memorie di Treves Frilli, figura di riferimento del C.L.N. e del P.C.I. a Poggibonsi, emerge un carattere molto aspro e diretto, che procurerà a Corsi diversi grattacapi anche nella quotidianità della vita politica del dopoguerra, come è rintracciabile nella corrispondenza tra Corsi e i dirigenti locali del P.C.I. a Poggibonsi negli anni Cinquanta e Sessanta.

Quella di Angiolo Corsi, pur rappresentando solo una tessera del mosaico che può ricomporre la storia dell’antifascismo popolare, è una vicenda indicativa e sintomatica di come la scelta della militanza antifascista non badava a spese, a costo di dover subire il carcere o il confino.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2015.




Il Palio e la Liberazione di Siena

Se a Siena c’è un modo per rendere omaggio ad una persona o ad evento è dedicargli un Palio. Fra tutte le dediche, quella più ricorrente, dal 1945 fino a quest’anno, è stata la Liberazione della città dal nazifascismo, avvenuta il 3 luglio 1944 ad opera delle truppe del Corpo di spedizione francese. L’iconografia del drappellone, chiamato comunemente Palio, cioè allo stesso modo della corsa di cavalli di cui è il premio, ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. Ha tuttavia mantenuto una costante. Poiché i Palii si svolgono in onore della Madonna di Provenzano (2 luglio) e della Madonna Assunta (16 agosto), l’immagine della Vergine non può mancare e deve essere raffigurata in alto.

Fatta questa premessa, superflua per i senesi, ma non per tutti gli altri, vediamo la rassegna dei Palii dedicati alla Liberazione.

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Il sindaco Ciampolini con gli Alleati

Il 2 luglio del 1945 si tornò a far correre il Palio dopo un’ interruzione quinquennale causata dagli eventi bellici. Vinse la Lupa con Mughetto e Lorenzo Provvedi detto Renzino. Il drappellone non aveva una dedica, ma il pittore Bruno Marzi, probabilmente anche su consiglio del sindaco Carlo Ciampolini, nominato dal Cln e dalle autorità militari alleate, non poté sottrarsi ad un esplicito riferimento alla nuova stagione politica in cui cavalli e fantini tornavano a percorrere i tre giri di Piazza del Campo. Nella parte bassa del dipinto appare un drago, dalle unghie intrise di sangue e dal corpo cosparso di croci uncinate, che striscia fuori da una delle porte di Siena, trafitto a morte da una lancia con i colori francesi e statunitensi. Al di sopra, nel cielo del campanile del Duomo, sventolano le bandiere delle potenze vincitrici e il tricolore italiano. Da notare la mancanza di riferimenti al fascismo da poco abbattuto, così come alla Resistenza. Assenze che diverranno una costante nell’iconografia successiva, quasi che la dittatura, la Repubblica di Salò e la lotta partigiana contro di esse non fossero esistite.

Il 20 agosto dello stesso anno, sotto una pressione popolare che portarono alla dimissioni della giunta poi rientrate, venne organizzato un Palio straordinario per celebrare la pace. Vinse il Drago con Folco e Gioacchino Calabrò detto Rubacuori. Il pittore Dino Rofi riprese il tema delle bandiere dei vincitori a fare da sfondo e rappresentò una Nike classicheggiante che incede sicura sul globo terrestre recando in mano ramoscelli d’olivo. Come è noto ad ogni senese, mai dedica fu meno azzeccata dal punto di vista della storia paliesca. Alla fine della corsa i contradaioli del Bruco, inveleniti per non aver vinto, si impadronirono a forza di cazzotti del drappellone e lo fecero a pezzi. Poi, per riparazione, ne fecero dipingere una copia a loro spese, che finalmente venne consegnata al Drago.

Il 2 luglio del 1954 la realizzazione del drappellone fu affidata ad Enea Marroni. Vinse l’Onda con Gaudenzia e Giorgio Terzi detto Vittorino. Il pittore offrì una rappresentazione della Liberazione che qualcuno definì disneyana per la sua gioiosità un po’ fumettistica. Un sorridente vessillifero con la Balzana, stemma della città, si affaccia fra i merli del Palazzo Pubblico gettando di sotto la bandiera con la croce uncinata. In secondo piano il solito motivo delle bandiere delle potenze vincitrici, dispiegate dall’allegoria della Libertà che vola fra il Duomo, la basilica di S. Domenico e la Torre del Magia.

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Il drappellone del 2 luglio 1954

Il 2 luglio del 1964 il Palio della Liberazione lo vinse il Drago con Arianna e Giuseppe Vincenzio detto Peppinello. La realizzazione era stata affidata ad un tandem di artisti, Plinio Tammaro ed Ezio Pallai, i quali, forse memori delle critiche ricevute dal drappellone di dieci anni prima, scelsero un’interpretazione drammatica dell’evento. A simboleggiare il sangue e la sofferenza che aveva richiesto, una figura umana vista di spalle, collocata di fronte ad una porta cittadina e ad una barricata, alza le braccia verso l’immagine della Madonna, spezzando così la fitta rete metallica che la imprigiona.

Il 2 luglio del 1974, il pittore del drappellone, Enzo Bianciardi, decise di raffigurare alcuni momenti del Palio, dal corteo storico, alla corsa, all’esultanza dei contradaioli vittoriosi. Proprio quest’esultanza trascolora, in secondo piano, nella gioia dei senesi liberati dagli Alleati, come si comprende dalla data 1944 scritta su di loro. A vincere fu il Valdimontone con Pancho e Ettore Alessandri detto Bazzino.

Nel 1984 non ci fu dedica, probabilmente sotto l’influenza della cultura politica del Psi craxiano che guardava con un certo fastidio alle celebrazioni resistenziali, considerate vuote, ripetitive, lontane dallo spirito di innovazione politica e costituzionale di cui il partito si faceva interprete, e comunque troppo ad appannaggio degli alleati-concorrenti del Pci nel governo della città.

La dedica alla Liberazione tornò il 2 luglio 1994 nel palio vinto dalla Pantera con Uberto e con Massimo Coghe detto Massimino. Il pittore Leo Lionni scelse di nuovo, come tema centrale, la folla festante per la vittoria, assiepata intorno al cavallo vittorioso. La folla si confonde, sullo sfondo, con un’altra che manifesta gioiosamente per la fine della guerra, fra bandiere francesi e uno striscione rosso recante la data 1944.

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Il drappellano del 2 luglio 2014

Nel drappellone del 2 luglio del 2004, vinto dalla Giraffa con Donosu Tou (scosso) e Alberto Ricceri detto Salasso, il pittore Emanuele Luzzati realizzò invece una grande costruzione fantastica , una sorta di totem di animali tratti dagli stemmi delle Contrade e che culmina con l’immagine della Madonna circondata da teste di cavallo. In questo sogno di figure che rimandano al mondo fantastico dell’infanzia, l’unico riferimento alla Liberazione è affidato ad una scritta sull’aureola della Vergine.

Ed infine il Palio del 2 luglio 2014, vinto da Drago con Oppio e con Alberto Ricceri detto Salasso. La pittrice Rosalba Parrini ha rappresentato la Torre del Mangia, inserita da un lato fra teste di cavallo, colte nella concitazione dell’attesa fra i canapi, e dall’altro lato da un lungo nastro rosso che sostiene l’immagine della Madonna. Vicino alla Vergine una colomba, simbolo della riconquistata libertà, vola via da una gabbietta aperta. Il nastro rosso nasce in basso, da una Piazza del Campo in parte coperta dalla mappa della provincia di Siena. Sulla mappa, anch’essa di colore rosso, campeggiano alcune stelle gialle che indicano le zone in cui combatterono le formazioni partigiane. Dopo settanta anni, è il primo riferimento esplicito alla Resistenza e al suo ruolo nella Liberazione che si può leggere in un drappellone.

Articolo pubblicato nel giugno 2015.




Romano Bilenchi, a 25 anni dalla morte

Venticinque anni fa, il 18 novembre 1989, moriva nella sua casa di via Brunetto Latini, a Firenze, Romano Bilenchi. Aveva da poco compiuto 80 anni (era infatti nato il 9 novembre 1909 a Colle di Val d’Elsa), aveva lavorato fino all’ultimo ai suoi progetti letterari, portando avanti quella tenace volontà di riscrittura (che significa anche ripensamento, riconsiderazione, analisi) che da sempre caratterizzava come un tratto distintivo il suo lavoro.

Nella sua casa – da cui ormai da anni non si allontanava più, per l’aggravarsi della malattia che lo affliggeva – aveva esercitato il suo ruolo di intellettuale, di coscienza critica e di testimone del suo tempo; lo aveva fatto in modo appartato e dimesso, senza spocchia o boria, discutendo tuttavia animatamente e calorosamente, con grande schiettezza, insomma dialogando nel senso più pieno del termine, con chiunque, amici intellettuali, giovani, semplicemente amici, si rivolgesse a lui, anche con la curiosità di ascoltare le sue parole, gli infiniti episodi della sua vita, da autentico “narratore orale” quale era stato definito.

Nel momento in cui ci si avvicina a Romano Bilenchi, ci si scontra immediatamente con la complessità irriducibile della sua figura e con la stratificazione di interessi (culturali, letterari, politici) che la connotano (dunque di prospettive o punti di vista con cui è possibile accedervi). E’ proprio questo elemento a rendere particolarmente arduo il tracciarne un profilo, un ritratto, che risulterà sempre inevitabilmente una copia sbiadita e parziale del modo di essere di Bilenchi.

Certo, l’approccio più immediato e all’apparenza (solo all’apparenza, però) più facile è quello che lo vede testimone impegnato inromano-bilenchi-160x250 prima persona nelle vicende del suo tempo, che lo vede cioè attraversare il labirinto del Novecento, con le ideologie, le incurvature, le idealità, le delusioni che lo hanno caratterizzato. Bilenchi muore proprio in quel 1989 che vede la caduta del muro di Berlino, ovverosia di uno dei simboli del percorso travagliato del Novecento, che chiude il ‘secolo breve’ e questa coincidenza di date getta una luce particolare sul nostro discorso.

Bilenchi si muove nello spazio temporale del Novecento attraversandone i momenti più emblematici: pur venendo da una tradizione familiare socialista, aderisce in gioventù al fascismo, con la forza ‘eversiva’ di un giovane che vede in quel movimento lo strumento per rompere con il passato, nella convinzione di voler partecipare alla costruzione di un mondo nuovo, di una nuova società, fondata su nuovi valori morali.

Ma l’adesione al fascismo non significa affatto una identificazione acritica o un annullamento della coscienza critica; al contrario Bilenchi si trovò ad esercitare la sua adesione da uomo libero, e fu proprio questo esercizio di libertà del pensiero, unito all’incondizionato riconoscimento del valore in sè dell’amicizia, ad erodere dal di dentro le sue convinzioni e a collocarlo su un nuovo fronte. Si è definito Bilenchi ‘fascista di sinistra’, così come si è parlato di ‘fascismo rivoluzionario’, per sottolineare il fortissimo senso antiborghese e anticapitalistico delle sue posizioni. Definizioni che a stento racchiudono la complessità delle scelte e del pensiero bilenchiani.

“Fascista lo sono stato quando ero più giovane, soprattutto quando ero un ragazzo. (…) ora se debbo dirle la verità non lo sono più”: così ad Ezra Pound, ma è solamente una delle tante ammissioni (o confessioni) di un mutamento ideologico che Bilenchi ci consegna con una folgorante, essenziale semplicità.

bilenchi-bottone“Non essere più fascista” ci rivela in controluce la sensazione sgradevole e amara di speranze tradite, di disillusioni e delusioni andata maturando nel corso di tanti anni e insieme l’esercizio di una coscienza critica inesausta, che lo conduce a scelte diverse, a trovare nuovi orizzonti, dunque un nuovo spazio ideologico in cui riversare il peso delle speranze e degli ideali per un mondo nuovo.

Bilenchi si muove con passione e passioni, sul versante delle ideologie del Novecento, non è un gretto opportunista o un voltagabbana, ma un uomo che crede e difende i suoi valori appassionatamente, che sa compiere scelte di campo. Passione e amicizia costituiscono chiavi di lettura significative nel percorso umano e politico di Bilenchi.

Se era stato un fascista non accomodante e per molti aspetti scomodo, Bilenchi sarà ancora un comunista non ortodosso, capace di coniugare la carica sovversiva, antiborghese, anticapitalistica del comunismo con la sua idea di libertà e di uomo. Altra definizione, quella di comunista liberale, che presenta gli stessi limiti di cui dicevamo.

Bilenchi aderì al PCI con convinzione, senza dubbio, ma per tutto il resto della vita ebbe bisogno di ripercorrere e spiegare (spiegarsi) quello che era successo a lui e ad un’intera generazione. Da qui, il lavorio continuo di riscrittura, di scavo e di illuminazione sui percorsi segreti della sua parabola. Da qui emerge ancora l’intreccio indissolubile tra la passione politica e la scrittura, la letteratura. Ma emerge anche, senza retorica, la categoria dell’amicizia, che è la chiave per penetrare nell’uomo, nella personalità di Bilenchi e che ha ispirato alcune delle sue pagine più belle.

L’amicizia, la condivisione di destini, non sempre e non necessariamente di idee, la comprensione tra uomini costituiscono un valore ininterrottamente affermato da Bilenchi, nell’arco della sua esistenza e della sua produzione letteraria. “L’unica cosa che vale è l’amicizia e tenersi stretti tra coloro che, o fessi o intelligenti, sono in buona fede”: così scrive, nel 1935, a Mino Maccari, offrendoci un’altra scoperta ammissione, di cristallina semplicità ma insieme di grande vigore.

romano bilenchiDopo la liberazione di Firenze e dopo l’impegno in prima persona nella Resistenza, Bilenchi si dedica ad una intensa attività pubblicistica, a testimonianza del suo impegno civile. Straordinaria è l’esperienza del “Nuovo Corriere”, da lui diretto, che diventa a poco a poco un momento di incontro e confronto delle forze democratiche fiorentine, un momento di feconda apertura culturale. Per otto anni, Bilenchi si concentra sul lavoro giornalistico, trascurando la letteratura; vi tornerà dopo la ferita del 1956, dopo cioè la chiusura del quotidiano, riprendendo così il lavorio di scavo e riscrittura a lui congeniale, con nuovi progetti editoriali.

Bilenchi infine rientra nel PCI nel 1972, nel momento in cui si apre una nuova fase politica per il partito, tornando così ad impegnarsi in prima persona per la costruzione di una nuova sinistra.

Le date che, sommariamente, abbiamo indicato rappresentano autentici snodi della storia del Novecento italiano e vedono sempre Bilenchi impegnato ad offrire contributi significativi. Accanto a questo, intrecciata con tutto questo, la passione per la letteratura, l’esercizio, anche se talvolta trascurato per lunghi periodi, della scrittura, con prove che lo collocano tra i più grandi autori del Novecento. E certo quest’ultimo, non secondario aspetto della personalità di Bilenchi, pure noi lo abbiamo trascurato e ce ne rammarichiamo, consapevoli dell’inestricabile intreccio di passioni che ci offre.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.