Guidare la diplomazia in tempo di guerra

Il 5 novembre del 1914, a poco più di tre mesi dalla dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, Sidney Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847-Roma, 24 novembre 1922) prestava giuramento come nuovo Ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto da Antonio Salandra. Il politico toscano, chiamato alla guida della politica estera italiana nel pieno della conflagrazione mondiale, vi sarebbe rimasto fino al giugno del 1919, divenendo pertanto il quarto ministro degli esteri dell’Italia liberale per durata di incarico, dopo Visconti Venosta, Tommaso Tittoni e Antonino di San Giuliano. In questi quattro anni e mezzo Sonnino svolse un ruolo centrale nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell‘Intesa e rappresentò nel 1919 assieme a Orlando gli interessi italiani alla Conferenza di Pace di Parigi.

Con Sonnino, Salandra, oltreché un amico personale e un antico alleato, aveva voluto chiamare alla guida della politica estera uno dei leader dell’Italia liberale di maggior esperienza che proprio con quella nomina coronava una lunga carriera pubblica iniziata giovanissimo nella diplomazia italiana quando, poco dopo la laurea conseguita a Pisa in giurisprudenza, aveva servito come volontario tra il 1867 e il 1871 presso le Legazioni italiane di Madrid, Vienna e Berlino.

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell'Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Ritratto di Sidney Sonnino (gentile concessione dell’Archivio Sidney Sonnino Montespertoli)

Precoce studioso, secondo la migliore lezione di Pasquale Villari, della questione sociale e contadina nonché della rappresentanza parlamentare, Sonnino elaborò sin dalla gioventù un proprio pensiero politico che a un progetto di consolidamento delle istituzioni interne legava la necessità di condurre sul piano internazionale una politica estera che consentisse il raggiungimento di una completa sicurezza dei confini nazionali e al contempo permettesse il rilancio di un ruolo attivo dell’Italia nel contesto mediterraneo e del Vicino Oriente, anche tramite la ricerca di una politica di espansione coloniale considerata come mezzo utile al miglioramento delle condizioni dell’emigrazione italiana.
Convinto che molti di questi obiettivi si potessero conseguire sul piano diplomatico, Sonnino giudicò positivamente l’ingresso dell’Italia nel 1882 nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania, un blocco di potenze ritenuto in grado di assecondare gli interessi di espansione e sicurezza del governo di Roma, nonché fornire una soluzione pacifica al completamento dell’unificazione nazionale. In particolare, l’eventuale applicazione dell’articolo VII del trattato di alleanza, che prevedeva in caso di una espansione asburgica nei Balcani la concessione di ipotetici compensi territoriali all’Italia, poteva costituire, secondo Sonnino, lo strumento col quale ottenere pacificamente i territori irredenti del Trentino e della Venezia Giulia. Questa lettura pratico-strategica della alleanza basata più su un calcolo degli obiettivi esteri nazionali che su ragioni ideologiche (tanto che Sonnino la intese come «un connubio che non esclude il divorzio») assieme al principio di nazionalità guidarono tra Otto e Novecento le sue convinzioni sulla politica estera.

Chiamato nel novembre 1914 da Salandra al Ministero degli Esteri in seguito alla morte improvvisa di San Giuliano, Sonnino agì in continuità con la politica di quest’ultimo, sostituendo però un atteggiamento più dinamico all’incertezza e all’attendismo del San Giuliano. Anziché attendere dall’andamento della guerra il profilarsi di un vincitore per porvisi vicino, Sonnino, persuaso anche di una rapida vittoria austro-tedesca si convinse che, per evitare i pericoli di un isolamento internazionale del paese, fosse necessario rompere la neutralità dichiarata dal governo italiano il 2 agosto e scendere in guerra a fianco di Vienna verosimilmente entro la primavera del 1915, non prima però di aver concordato con quest’ultima, anche in cambio dell’intervento italiano, la natura delle compensazioni territoriali che in base all’art. VII sarebbero spettate all’Italia a seguito delle nuove conquiste balcaniche compiute dall’esercito asburgico.
Contrariamente a quanto spesso sostenuto, Sonnino rimase fino all’ultimo sostenitore della fedeltà alla Triplice e fu in realtà solo l’intransigenza del governo austroungarico nell’ignorare le precise richieste italiane di compensazione territoriale che spinsero il governo Salandra-Sonnino a troncare le trattative con Vienna e negoziare in segreto con le potenze dell’Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) il Patto di Londra. L’accordo, firmato il 26 aprile 1915 e mantenuto segreto, fu un grande successo diplomatico di Sonnino perché dava soddisfazione agli obiettivi della politica estera italiana ricercati nei decenni precedenti. Oltre a garantire un equilibrio nel Mediterraneo centro-orientale e prevedere qualche allargamento delle colonie italiane, il patto stabiliva che in cambio dell’intervento l’Italia avrebbe così ottenuto, oltre al Trentino e al Sud Tirolo (con confine sul Brennero), il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria (ad eccezione di Fiume), della Dalmazia settentrionale e della gran parte delle isole, di Valona e del suo retroterra.

Firmato segretamente l’accordo e denunciata la Triplice solo il 3 maggio, il 20 Sonnino presentò al Parlamento una raccolta di atti diplomatici che documentavano le fallite trattative tra Roma e Vienna e illustravano le ragioni della guerra (il cosiddetto Libro Verde). L’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 mentre l’adesione all’Intesa fu resa pubblica solo il 30 novembre. Sonnino il 1° dicembre, in un discorso tenuto alla riapertura delle Camere, poté presentare le ragioni e gli obiettivi della guerra a fianco dell’Intesa. Il rapporto diplomatico con gli alleati si rilevò però subito complicato per via dell’atteggiamento sospettoso degli anglo-francesi che ritenevano l’Italia poco affidabile, imputandole di condurre una sorta di guerra separata con Vienna sulla base dei soli interessi nazionali (in effetti la dichiarazione di guerra alla Germania, richiesta all’Italia dal Patto di Londra, sarebbe giunta solo il 28 agosto 1916). Fu soprattutto Sonnino che con lento lavoro diplomatico poté ricucire in parte i rapporti, assicurare il rispetto dei patti da parte dell’Italia e divenire l‘uomo forte dell’Intesa a Roma: egli «è il solo che ha l’autorità all’interno ed inspira vera fiducia all’estero», scriveva nel 1916 sul suo diario Guglielmo Imperiali ambasciatore italiano a Londra. Tuttavia, l’andamento complessivo delle operazioni belliche sfuggito oramai a ogni previsione, il successivo intervento statunitense a fianco dell’Intesa nell’aprile del 1917 e lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia, mutarono non solo la situazione politica interna ma soprattutto gli equilibri politici e diplomatici. La pubblicazione inattesa da parte della stampa sovietica dei contenuti del Patto di Londra costrinse Sonnino nel dicembre 1917 a difendere in parlamento le ragioni del segreto diplomatico e a respingere le richieste di dimissioni presentate dall’opposizione. Sul piano internazionale, negli ultimi anni del conflitto Sonnino continuò a lavorare soprattutto per creare il terreno favorevole affinché al futuro tavolo della pace potessero essere mantenuti gli accordi sanciti nel Patto di Londra.

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell'inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Sonnino alla Camera nella seduta del 18 dicembre 1916 spiega le ragioni dell’inopportunità di una pace separata con Vienna (La Domenica del Corriere)

Il suo rifiuto, tra la fine del 1916 e gli inizi del 1917, di accettare le offerte di parte tedesca per fa siglare all’Italia una pace separata con Vienna era motivato proprio dal timore che con questa sarebbero andate in frantumi le acquisizioni promesse all’Italia col Patto. Tuttavia, al pari di molti altri leader europei, Sonnino non colse probabilmente fino in fondo che l’intervento statunitense in Europa e soprattutto la politica di pacificazione del Presidente Wilson avrebbero imposto una netta presa di distanza dalle logiche di potenza e dalle dinamiche della diplomazia segreta che in passato avevano retto le relazioni tra gli stati europei e che alcuni ritenevano di poter riproporre ancora dopo il 1918. Le future condizioni di pace indicate da Wilson nei celebri 14 punti smentivano queste aspettative e in particolare respingevano la legittimità delle rivendicazioni italiane riconosciute nel Patto di Londra, bollandole come imperialiste. Sonnino stesso, ricercando sempre con gli alleati un’applicazione integrale dei termini del Patto di Londra si dimostrò forse troppo intransigente, trascurando l’eventualità di adeguare la sua posizione ai nuovi equilibri internazionali mutati a seguito dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

 Queste premesse, assieme all’allineamento franco-britannico sulle posizioni statunitensi, al termine della guerra avrebbero fortemente condizionato i lavori della Conferenza di Pace tenutasi a Parigi tra il 18 gennaio 1919 e il 21 gennaio 1920. La classe dirigente liberale italiana, nonostante avesse incassato il successo politico di Vittorio Veneto e della conseguente conquista italiana dei territori irredenti, vi si presentò delegittimata da una crisi di rappresentanza parlamentare e incalzata dall’opposizione socialista e cattolica. Sonnino, la cui presa sulla politica estera italiana era ora subordinata al protagonismo del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, rappresentò meglio di altri il simbolo di questa fragilità nazionale. Ormai settantunenne e dopo circa quattro anni «di estrema tensione nervosa, senza un giorno di riposo», come ebbe a scrivere lui stesso, Sonnino non riuscì a far valere le sue doti diplomatiche né a sfruttare la sua profonda conoscenza delle lingue per avvantaggiare la posizione italiana: alla conferenza «Sonnino tace in tutte le lingue che sa ed Orlando parla in tutte le lingue che non sa» recitava un motto molto diffuso al tempo. Sonnino, dovette peraltro allinearsi alla impostazione diplomatica data da Orlando che anziché chiedere la semplice applicazione del Patto di Londra, come da lui suggerito, puntava anche a ottenere l’annessione di Fiume. L’opposizione statunitense alle rivendicazioni dell’Italia sulla Dalmazia (dopo che le erano stati invece riconosciuti i diritti sul Trentino e l’Istria occidentale) e la proposta di Wilson di fare di Fiume una città libera impedirono di raggiungere in sede di trattative un accordo e furono alla base nell’aprile 1919 dell’abbandono dalla conferenza della delegazione italiana e poi delle dimissioni del governo Orlando-Sonnino il 23 giugno successivo.

Lo statista toscano, da quel momento e negli anni seguenti fu spesso additato come il responsabile del fallimento della diplomazia italiana e della vittoria mutilata. Il giornale della federazione socialista fiorentina, “La Difesa”, nell’agosto 1919 lo chiamò ad esempio «l’inetto bocciato di Parigi», «unico e vero responsabile della rovina d’Italia per averla coinvolta e trascinata, contro volontà, nell’inumana carneficina». Per Giovanni Amendola, il metodo diplomatico di Sonnino tenuto a Parigi fu causa «di tutte le cecità e di tutte le rovine», mentre più tardi Togliatti vi avrebbe rintracciato «il vero responsabile del fallimento della diplomazia italiana». In realtà, se è vero che a Parigi la stella di Sonnino apparve assai opaca, va però detto che la macchina diplomatica da lui diretta nel corso della guerra si era rivelata efficiente e la sua politica estera coerente con il raggiungimento degli interessi nazionali.

Se per alcuni dei suoi detrattori la sua visione degli interessi italiani nell’Adriatico fu ritenuta troppo moderata o accondiscendente alle rivendicazioni degli altri Stati balcanici questo lo si dovette in parte al fatto che la sua politica estera non fu mai di tipo imperialista ma tenne anzi conto delle altre nazionalità oltre che della propria. La decisione pur dolorosa assunta all’inizio del 1915 assieme a Salandra di non includere tra i territori richiesti dall’Italia nel Patto di Londra la città di Fiume, fu presa anche perché si ritenne giusto che in caso di dissoluzione dell’Impero asburgico l’Ungheria o, in caso di indipendenza da questa, la Croazia potessero avere uno sbocco sul mare per le esigenze commerciali delle loro popolazioni. Più in generale, la defaillance della politica estera italiana al termine dei negoziati di Parigi, anziché addossarsi solo a Sonnino dipese più che altro dalla profondità della crisi interna alla classe dirigente liberale, dalle contraddizioni di un paese affetto da evidente arretratezza economica e sociale, nonché in sede diplomatica dall’intransigenza statunitense e dall’atteggiamento ostile di Francia e Gran Bretagna, oltreché dall’effettivo difetto negoziale della delegazione italiana. Il giudizio severo che toccò allo statista toscano fu perciò in buona parte esagerato. Guglielmo Imperiali, che pure dalla politica estera del toscano aveva spesso dissentito, scrisse sul suo diario dopo l’abbandono di Sonnino della conferenza di Pace: «non posso però non inchinarmi dinanzi all’onestà, rettitudine ed altissimo sentimento patriottico dell’uomo, di cui gli sforzi e l’importanza dei risultati comunque già ottenuti meritavano miglior sorte».

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Il treno per Vallombrosa

La stazione di Sant’Ellero, in un edificio di uno stile che, per la nostra zona, risulta così originalmente alpino, fu costruita nel 1893, lungo il percorso verso Roma, come interscambio della linea per Vallombrosa. Adesso questa linea non esiste più; è stata chiusa nel 1924 e smantellata definitivamente nel 1937. Oggi ne sono rimaste pochissime tracce. Eppure quella ferrovia restò in esercizio per oltre trent’anni alimentando una realtà turistica di grande importanza per il periodo.

Per la medicina ottocentesca sembrava non esistesse malattia che un cambiamento d’aria non potesse guarire o lenire. Così, soprattutto se i pazienti erano facoltosi, un soggiorno in una località di villeggiatura poteva essere il rimedio per ogni male, dalla semplice spossatezza a malattie ben più gravi. Si iniziò con le località termali, poi marinare, infine acquistò credito anche la villeggiatura in montagna. Nacquero così le “stazioni climatiche” o “estive” come si diceva allora. E alberghi e strutture apposite sorsero ovunque sulle montagne svizzere e austriache.

Doveva essere per prendersi un periodo di riposo che Giuseppe Telfener decise di soggiornare nell’estate del 1890 a Vallombrosa. La località gli era stata consigliata come “amena, saluberrima e fresca”. Inoltre era perfetta perché gli consentiva di non allontanarsi troppo dai suoi impegni di lavoro a Roma.
Telfener era infatti un imprenditore, aveva un gran senso degli affari e nella sua vita ne aveva dato ampia prova. Era nato a Foggia nel 1843 da una famiglia abbiente. Emigrato in Argentina nei primi anni ’70  fonda un’impresa di costruzioni ferroviarie e nel 1874 riesce a vincere l’appalto per la costruzione di quella che diventerà la più lunga linea ferroviaria dell’America meridionale, La Córdoba-Tucumán. L’Argentina attraversa un periodo di profonda crisi finanziaria e il governo si vede costretto a rifiutare i finanziamenti promessi per le opere pubbliche. Eppure Telfener manda avanti lo stesso la sua opera. Contatta numerose banche e riesce ad ottenere i finanziamenti per concludere i lavori nel 1876. Per questa linea ferroviaria, fonte di lustro per tutta l’ingegneria italiana, Telfener riceve il titolo di conte dal re d’Italia Vittorio Emanuele II. Ma non finisce qui. Dopo aver sposato la figlia di un ricco finanziere americano, Telfener si lancia nella sua seconda impresa ferroviaria. È il 1881 ed inizia la costruzione di una linea di 560 km fra Richmond e Brownsville nel Texas. La costruzione che durerà 5 anni ha anche un tratto bizzarro. Non sappiamo bene perché ma Telfener oltre alla manodopera locale fa arrivare 1200 operai dall’Italia. I giornali locali ribattezzano la linea ferroviaria Macaroni line.

Quando Telfener soggiorna a Vallombrosa nel 1890 è rientrato da poco in Italia, precisamente a Roma. Ha passato gli ultimi tempi ad occuparsi delle sue proprietà e di altre attività finanziarie e forse, possiamo solo immaginare, a congetturare su quale potesse essere la sua prossima impresa. Vallombrosa folgora Telfener. Rimane colpito dalle “ignorate bellezze del luogo […] era un vero peccato anzi delitto non utilizzare nella più larga e più utile misura quella inesauribile miniera di ricchezze della provvida natura”. Quando Telfener scriveva queste parole Vallombrosa infatti aveva iniziato a rivevere visitatori solo negli ultimi anni. Erano stati costruiti due piccoli alberghi ed era stata aperta una strada rotabile fino a Tosi che permetteva di raggiungere in carrozza Firenze in 4 ore e mezzo. Ma Vallombrosa restava ancora una meta ricercata con pochi turisti a disturbare la quiete secolare della famosa abbazia e del più recente Regio Istituto Forestale. Telfener si fa venire in mente un’idea: costruire una ferrovia per raggiungere Vallombrosa e costruirvi un grande albergo adatto ad ospitare un flusso di turisti come quello delle stazioni climatiche alpine.
Ma questa volta non è come in passato: devono essere reperiti tutti i finanziamenti, e va trovato l’avallo governativo per il progetto. Non è semplice ma Telfener ci riesce, illustra il suo progetto al ministro dell’agricoltura Bruno Chimirri e trova in lui un convinto sostenitore. Arriva la promessa di finanziamenti: dal comune di Firenze, da quello di Reggello e poi dal Governo. Telfener si dà da fare, illustra i benefici economici per la zona e per l’Italia, acquista dei terreni e vi fa edificare chalet importati dalla Norvegia. Presenta un progetto che prevede una nuova stazione di interscambio in località S.Ellero sulla linea Firenze-Roma e una stazione di arrivo in località Saltino per non disturbare troppo la quiete di Vallombrosa. Davanti alla stazione del Saltino ci sarà anche un nuovo moderno albergo dotato di 100 camere, l’Hotel Stazione, oggi Grand Hotel Vallombrosa. Il progetto viene approvato definitivamente a livello governativo il 21 maggio 1892. Può iniziare la costruzione.

I lavori vengono completati nel tempo record di quattro mesi, a fine settembre 1892. La linea ha una lunghezza di 8 km e in 57 minuti porta i passeggeri al Saltino coprendo un dislivello di 854 metri. Ci sono due fermate intermedie lungo il tragitto: Donnini e Filiberti e oltre alla salita dei passeggeri permettono il rifornimento di acqua e carbone. Non è ancora pronta la stazione passeggeri a S.Ellero. Verrà costruita l’anno successivo. Al viaggio inaugurale la stampa rimane colpita dalle locomotive a vapore dalla forma inclinata che spingono le carrozze passeggeri. Ancora di più impressionavano le pendenze, fino al 27%, che si riuscivano a superare grazie alla ferrovia a cremagliera. All’hotel viene offerto un grandioso pranzo di benvenuto a cui vengono invitate le autorità da tutta Italia. Parte una grande campagna pubblicitaria che parla di Vallombrosa come della “Svizzera italiana [a] 1000 metri sul mare, [con] secolari foreste di abeti, clima balsamico [e] splendido panorama”. La risposta di pubblico è entusiasta. L’albergo stenta a soddisfare la richiesta turistica. Negli anni successivi Vallombrosa avrà ospiti illustri fra i quali Milton che a Vallombrosa dedicò alcuni versi del suo Paradise Lost, oppure Gabriele D’Annunzio che nel 1898 descriveva il paesaggio ammirandolo da un balcone panoramico al Saltino: “Tutta la valle ondulata nella sua corona di monti cerulei ha un’apparenza magica, ha il carattere d’una visione mistica. Un vapore tenue vi si diffonde e le ombre delle nubi vi divengono indicibilmente molli. Le case bianche, le città lontane, le strade tortuose formano una specie di sogno luminoso. Il ciglio del poggio più vicino è reale, esistente, nettamente disegnato; ma tutto il resto, a contrasto, è irreale, inesistente, magico”.

I problemi però sono dietro l’angolo. La costruzione della ferrovia ha avuto costi molto superiori al previsto. La società fondata da Telfener è costretta a ricorrere a continui prestiti e si indebita fortemente con le banche. E per quanto l’afflusso turistico sia molto buono è limitato ai soli mesi estivi. I debiti rischiano di strozzare la società e si fa fatica a pagare gli stipendi. Ci sono più agitazioni e scioperi fra il personale. In questo periodo così difficile Telfener viene meno nel 1897. La società viene rilevata da Francesco Benedetto Rognetta. La situazione sembra inizi a migliorare e il passivo finanziario a dileguarsi. Ma è in agguato un nuovo colpo per le finanze e l’immagine della società ferroviaria: il Grand Hotel Vallombrosa viene quasi completamente distrutto da un incendio nel 1902. Comunque grazie ai rimborsi delle assicurazioni l’albergo viene velocemente ricostruito. Gli anni della Belle epòque sono i più floridi e la società ritorna in attivo fino a quando nel 1914 non esplode la prima guerra mondiale e nel 1915 l’Italia scende in campo accanto alle truppe dell’Intesa.

Con la Grande Guerra il flusso di turisti è destinato a calare vertiginosamente e il prezzo del carbone a raggiungere vette proibitive. Si prova con la lignite estratta a S. Barbara, ma non ha la stessa resa e inoltre la combustione provoca continue scintille che rischiano di raggiungere le carrozze passeggeri. Le corse del treno per Vallombrosa vengono fermate e potranno riprendere solo nel 1919.
Ma questo punto quello che non avevano potuto la sfortuna prima e gli eventi bellici poi riuscirà all’evoluzione dei costumi, della società e soprattutto della tecnologia. La neocostituita SITA, Società Italiana Trasporti Automobilistici già prima della guerra aveva inaugurato dei trasporti di prova per Vallombrosa con partenza da Firenze e più tappe intermedie. Il servizio viene ora potenziato e si dimostra velocemente più rapido e più economico di quello ferroviario. La società ferroviaria tenta tutti i mezzi per sopravvivere, compreso un servizio di pullman alternativo a quello della SITA. Ma tutto invano. L’unica speranza potrebbe venire dall’elettrificazione della linea, ma non ci sono le disponibilità finanziarie per farlo. Le corse del treno vennero definitivamente fermate nel 1924. La linea venne smantellata nel 1937 e il ferro dei binari riciclato da una società milanese.

Ad oggi rimane pochissimo: la stazione di Sant’Ellero con i suoi tetti spioventi e le panchine in ghisa con inciso R.A, Rete Adriatica, la stazione di Filiberti che adesso è un rudere in stato di completo abbandono, un sentiero CAI lungo il tratto dove erano posati i binari, la stazione di Saltino adesso abitazione privata denominata Villa Rognetta e il vecchio Grand Hotel Vallombrosa, ancora oggi attivo durante la stagione estiva.

Articolo pubblicato nel novembre 2014.




Vittorio Locchi

Vittorio_Locchi_Toscana_NovecentoQuella di Vittorio Locchi è stata una figura di rilievo nel panorama della poesia italiana di inizio Novecento. Poeta ben più che promettente scomparse però, a soli 28 anni, a causa di un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale.

Locchi era nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889. Aveva ricevuto il medesimo nome del padre ucciso solo tre mesi prima mentre cercava di separare due contendenti in una rissa. La sua adolescenza è quella di un ragazzino esuberante, uno scapestrato. I giochi all’aria aperta e i cavalli lo attirano più dei libri. Uno dei suoi due biografi, Vittorio Franchini, racconta un episodio di una lite con un compagno. In un impeto d’ira il giovane Vittorio afferra un calamaio e glielo scaglia addosso. Il maestro si infuria e gli pone un ultimatum «O mettete giudizio, o coi cavalli di ‘Zio Pasqualone’». Vittorio resta appartato tutta la mattina, poi con fare sicuro va verso il maestro e lo informa della decisione «voglio studiare», gli dice.
Si fa chiudere in un collegio a Firenze. Studia ardentemente e in un anno recupera il tempo perduto prendendo la licenza tecnica. Prosegue gli studi all’Istituto tecnico, ramo Ragioneria. E qui ha il primo incontro fondamentale della sua carriera: quello con il suo professore, il poeta di scuola carducciana Diego Garoglio. È questi il primo ad accorgersi del talento del giovane. Allora Vittorio è ideatore e direttore del giornalino “L’Idea studentesca” un foglio portatore di idee patriottiche e nazionalistiche.

Tornando a Figline Valdarno Vittorio dà vita con alcuni amici ad una brigata in cui si compongono e si leggono poesie. I luoghi di raduno sono le sponde del fiume Resco e un bar nella piazza del paese. La loro diventa la “Brigata del Giacchio”. È lo stesso Vittorio Locchi a raccontare l’origine del singolare nome:
«Una sera che il vento soffiava più forte, nacque d’improvviso il nome della brigata. Uno di noi, il più sciammanato e allegro […] portava sempre […] una giacca ampia e prolissa che non finiva mai. A vederlo, così lungo e magro com’è, camminare […] sventolando le braccia con le falde di quella sua giacchettina sempre al vento come ali, pareva proprio un uccellaccio. Quella sera il vento era più forte e a veder venire l’amico verso di noi come portato dalla giacchetta, mi venne fatto di dire: ‘Ecco il giacchio’. In lingua ‘giacchio’ è una rete, ma io gli avevo dato un significato tutto mio di giacchettine, tutti lo capirono subito e sul momento fu stabilito di chiamare la nostra compagnia ‘La Brigata del giacchio.’».

Nella brigata viene composto il nucleo di quelle poesie che, pochi anni dopo, verranno pubblicate come “Le canzoni del Giacchio.” Intanto Vittorio diplomatosi ragioniere ha necessità di un impiego. È il 1909, ha vent’anni, e trova lavoro come contabile in un’azienda fiorentina. È un lavoratore scrupoloso, per quanto di fronte alle  non riesca a non distrarsi e così alcuni clienti alle lettere contabili trovano allegati fogli di poesie. Vince poi un concorso per impiegato postale. Deve lasciare familiari e amici e partire per Venezia.

È il 1910. Il periodo veneziano, che per Vittorio durerà fino alla sua chiamata al fronte, si dimostrerà il più importante e fecondo. Fonda una nuova compagnia poetica che chiama “Tempestissima”. Si fa strada nel giornalismo e collabora con il giornale “L’Adriatico”. Grazie all’interessamento del suo vecchio professore Diego Garoglio riesce a pubblicare nella collana “Scrittori nostri” una scelta di liriche del poeta veneziano del XV secolo Giustinian da lui commentate. Si consolida poi in lui una fiorente vena drammaturgica e compone “La Notte di Natale”, “La Tempesta” e soprattutto “L’Uragano”.

Negli anni veneziani avverrà anche l’incontro che lo consacrerà come uno dei più promettenti giovani poeti italiani: quello con l’editore spezzino Ettore Cozzani. Questi pubblica una collana di poesia denominata “l’Eroica”, a celebrare la poesia che eroicamente resiste nonostante i tempi ostili. Il critico Sam Benelli gli fa avere alcune poesie del giovane Vittorio e Cozzani ne rimane entusiasta e decide di pubblicarle nel 1914 ne “L’Eroica” con il titolo “Le canzoni del Giacchio”.

Intanto, sempre nel 1914, quando Gabriele D’Annunzio pronuncia a Quarto la famosa orazione per l’intervento italiano nella prima guerra mondiale Vittorio ascolta entusiasta. Rientrato a Venezia, una sera balza sui tavoli di un caffè in Piazza San Marco e arringa la folla.
Frontespizio Santa GoriziaCon l’ingresso dell’Italia in guerra il 24 maggio 1915, Vittorio parte immediatamente per il fronte come tenente della XII divisione di fanteria. Al fronte scrive articoli per il Giornale d’Italia e compone “Il Testamento”. Si ammala, ma riesce a rientrare in tempo per partecipare il 9 agosto 1916 alla presa di Gorizia. Il generale Laderchi ha per Vittorio un incarico diverso dal suo ruolo abituale: comporre un poema per celebrare il successo. Obietta timidamente che forse non è la persona più adatta. Ma non può discutere l’ordine e completa l’opera prima del Natale di quell’anno. Ne nascerà la sua opera più famosa, “La Sagra di Santa Gorizia”, che pubblicata postuma per iniziativa del Cozzani verrà ristampata continuamente  fino al 1968.

Poco prima, nonostante le condizioni di salute non ottimali, Locchi aveva scritto ai superiori chiedendo di “tenerlo presente nell’eventualità di una spedizione all’estero: essendo scapolo, giovane ed entusiasta della nostra guerra, sarà tanto più lieto quanto più si tratterà di andare lontano e d’incontrare rischi e disagi”.
All’inizio del 1917 il comando italiano decide di inviare un corpo di spedizione in Palestina. Vittorio Locchi viene prescelto per partecipare. Deve imbarcarsi per Napoli il 13 febbraio. Sono cinque le navi che salpano da quel porto. A Vittorio, che è ufficiale, sarebbe destinata una nave più agiata. Sceglie invece di imbarcarsi su una nave stracolma di soldati semplici: il Minas. La scelta gli sarà fatale. Il Minas viene affondato da un sommergibile tedesco a largo delle coste greche il 15 febbraio 1917.
Per alcuni giorni la famiglia di Vittorio spera. Poi la testimonianza del tenente Luigi Trevale scampato al naufragio fa piazza pulita di ogni dubbio. Vittorio ha scelto di andare incontro al suo destino, senza accapigliarsi con il resto della folla per un posto sulle scialuppe insufficienti. La testimonianza del Trevali è riportata da Cozzani nella sua appassionatissima biografia Come visse e come morì Vittorio Locchi. «È morto eroicamente cercando di calmare l’equipaggio in preda al panico. Il primo siluro, urla con tutta la sua forza il giovane Vittorio, non ha colpito gravemente, la nave non sta affondando. Poi un secondo sicuro e la nave si inclina verticalmente scomparendo in pochi minuti.».

Articolo pubblicato nel luglio 2014.